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Dirigenti decaduti. Eccezione proponibile solo col ricorso introduttivo

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 23 ottobre 2015

Nel processo tributario, la nullità dell’avviso di accertamento per il vizio di sottoscrizione non è rilevabile d’ufficio e la relativa questione, se non prospettata nel giudizio di primo grado – o più esattamente nel ricorso introduttivo – non può essere introdotta successivamente. Ciò si deve alle preclusioni che derivano del peculiare regime di carattere impugnatorio del processo tributario.

È quanto ha sostenuto la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione nella sentenza n. 21616/2015.

Gli ermellini hanno deciso il caso di un professionista che ha impugnato un accertamento bancario e che, alla luce della sentenza n. 37/15 della Corte costituzionale, ha dedotto – per la prima volta – nel giudizio di legittimità la mancanza del requisito dirigenziale in capo al funzionario firmatario dell’atto impugnato.

Ebbene, trattandosi di un’eccezione nuova, la Suprema Corte l’ha dichiarata inammissibile.

La questione della nullità dell’impugnato avviso di accertamento per vizio di sottoscrizione, si legge in sentenza, “è stata avanzata dal contribuente, per la prima volta, nel corso dell’odierna discussione orale. Egli invoca gli effetti invalidanti, a suo dire rilevabili anche d’ufficio, della recente declaratoria d’illegittimità costituzionale di taluni strumenti normativi d’inquadramento dirigenziale del personale dell’Agenzia delle entrate. Si ritiene, sul piano processuale, che la pretesa nullità dell’avviso di accertamento per l’asserita carenza dei requisiti (soggettivi) indicati nell’art. 42 d.p.r. 600/1973 e nell’art. 56 d.p.r. 633/1972 non è rilevabile d’ufficio e la relativa questione, se non prospettata nel giudizio di primo grado – o più esattamente nel ricorso introduttivo col passaggio dal d.p.r. 636/1972 al d.lgs. 546/1992 – non può essere introdotta successivamente. Restano, dunque, ferme le preclusioni che derivano del peculiare regime di carattere impugnatorio del processo tributario” (v. Cass. n. 8114/02, n. 13087/03, n. 10802/10).

Nel caso di specie, dunque, la Suprema Corte ha ritenuto il ricorrente decaduto dalla possibilità di eccepire, nel giudizio di cassazione, l’invalidità dell’atto impugnato sotto il nuovo profilo della pretesa carenza dei requisiti dirigenziali in capo al funzionario firmatario.

È già stato chiarito (in Cass. n. 18448/15) che, diversamente da quanto accade nel diritto amministrativo, in materia fiscale opera un regime unitario del vizio dell’atto che deve essere fatto valere nella forma e nel termine di decadenza prevista dall’art. 21 del D.Lgs. n. 546/92. In difetto, il provvedimento diventa incensurabile sul punto.

Il legislatore fiscale, hanno evidenziato i supremi giudici, usa la sanzione della “nullità” in senso a-tecnico, nel senso che la sua reale natura giuridica va intesa come “annullabilità”; e il regime dei vizi degli atti amministrativi (art. 21-septies L. 241/90) non può essere automaticamente esteso in ambito tributario, essendo applicabile solo laddove non sia incompatibile con le norme di diritto che disciplinano il procedimento impositivo.

– Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

TITOLO II – IL PROCESSO
CAPO I – Il procedimento dinanzi alla Commissione Tributaria provinciale
Sezione I – Introduzione del giudizio

Articolo 21 – Termine per la proposizione del ricorso

1. Il ricorso deve essere proposto a pena d’inammissibilità entro sessanta giorni dalla data di notificazione dell’atto impugnato. La notificazione della cartella di pagamento vale anche come notificazione del ruolo.

2. Il ricorso avverso il rifiuto tacito della restituzione di cui all’articolo 19, comma 1, lettera g), può essere proposto dopo il novantesimo giorno dalla domanda di restituzione presentata entro i termini previsti da ciascuna legge d’imposta e fino a quando il diritto alla restituzione non è prescritto. La domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione.

Il computo del termine. Questo articolo fissa al primo comma il termine di decadenza per la proponibilità del ricorso; esso è il tradizionale termine di sessanta giorni dalla notificazione dell’atto impugnato. Tale termine, da computarsi – a norma dell’articolo 2963 C.c. – non tenendo conto del giorno in cui si è ricevuta la notifica ma computando il sessantesimo sino alla mezzanotte, è prorogato al primo giorno feriale successivo se cade in un giorno festivo. Allo stesso modo risulta applicabile la disciplina della sospensione dei termini processuali, fissata dalla L. n. 742/69, che va dal 1° agosto al 15 settembre.

La rimessione in termini. Il generale rinvio alle norme del codice di procedura civile lascia poi ritenere applicabile la disciplina della rimessione in termini di cui all’articolo 184 C.p.c.E’ infatti prevista la possibilità che il giudice possa, appunto, rimettere in termini la parte che dimostri di non aver rispettato gli stessi per causa ad essa non imputabile. A riguardo, comunque, è da ritenersi che un simile strumento troverà modesta e difficoltosa attuazione nell’ambito del processo tributario a causa delle limitazioni probatorie di cui si è detto a commento dell’articolo 7. Uno dei casi che certamente potrebbero costituire valida giustificazione del ritardo è l’ipotesi in cui l’ufficio abbia indicato un termine d’impugnazione errato nell’atto impositivo.

Sempre al primo comma viene, inoltre, specificato che la notificazione della cartella di pagamento vale anche come notificazione del relativo ruolo. Come abbiamo visto in merito all’articolo precedente, infatti, le sorti di questi due atti sono strettamente connesse.

Il comma 2 fissa, invece, il termine d’impugnazione avverso il rifiuto tacito. Trattandosi di un atto che non ha una sua reale esistenza e tanto meno, quindi, una data di notificazione da utilizzare come giorno da cui computare i termini per la proposizione del ricorso, il Legislatore si è preoccupato di fissare anzitutto il dies a quo.

Dies a quo. La norma dice, infatti, che il ricorso può essere presentato dopo il novantesimo giorno dalla data di presentazione dell’istanza di restituzione che, a sua volta, deve essere presentata entro i termini previsti da ciascuna legge d’imposta ovvero, in mancanza di esplicita previsione normativa, entro due anni dal pagamento. Il comma 2 si chiude con la previsione di un ulteriore termine di presentazione della domanda di restituzione. Qualora, infatti, il presupposto per la restituzione si verifichi (ad esempio a seguito di una decisione giurisdizionale, come è avvenuto per il caso delle tasse di concessione governativa sulle società) dopo il trascorrere dei due anni dal pagamento, il termine comincia a decorrere da quest’ultimo momento.

Dies ad quem. Il dies ad quem, il termine ultimo cioè entro il quale proporre il ricorso, corrisponde, invece, al termine prescrizionale del diritto alla restituzione che, in assenza di specifiche disposizioni, è quello di dieci anni.

Inammissibilità ed inefficacia. L’inosservanza di questo ultimo termine comporta inequivocabilmente la inammissibilità del ricorso. Invece, la eventuale proposizione dello stesso prima dello scadere del novantesimo giorno (dies a quo per il ricorso avverso il rifiuto tacito), quando cioè il silenzio rifiuto non si è ancora formato quale atto impugnabile, è causa di dibattito tra i commentatori. Alcuni ritengono, infatti, che in tale ipotesi il ricorso sia inammissibile (cfr. CTC 25.7.87, n. 5901); altri, come chi scrive, lo ritengono, invece, ammissibile ma semplicemente inefficace sino allo scadere del novantesimo giorno (cfr.CTC 29.3.85, n. 3128, CTC 5.5.92, n. 3284).

Reati fiscali. La banca può chiedere il dissequestro del saldo attivo del C/c

Cassazione Penale, sentenza depositata il 22 ottobre 2015

Il pegno irregolare attribuisce il diritto di proprietà sul saldo attivo del conto corrente bancario e quindi l’istituto di credito, nel procedimento a carico del presunto evasore fiscale, è legittimato a chiedere il dissequestro delle somme. 
È quanto emerge dall’interessantissima sentenza n. 42464/15 della Terza Sezione Penale della Suprema Corte.

Gli ermellini hanno ribadito che il pegno irregolare, in tema di anticipazione bancaria, risponde a uno schema negoziale di portata generale ed è accomunabile al pegno c.d. regolare (artt. 2784 C.c. e ss.) sia per il profilo strutturale della natura reale del contratto sia per il profilo funzionale della condivisa causa di garanzia. Il pegno irregolare, però, è connotato da una sua specificità di contenuto e di effetti. L’effetto reale, che nel pegno regolare si esaurisce nella creazione di un diritto su cosa altrui opponibile “erga omnes”, assume, invece, nel pegno irregolare la più ampia valenza di un vero e proprio trasferimento di proprietà delle cose attribuite in garanzia. Inoltre, l’obbligazione restitutoria gravante sul creditore, concerne l’equivalente di quanto ricevuto in garanzia, mentre nel pegno regolare ha a oggetto la medesima cosa di cui egli ha avuto temporaneamente la detenzione.

In sintesi, il pegno irregolare può essere definito come il contratto con cui il garante consegna e attribuisce in proprietà al creditore denaro o beni aventi un prezzo corrente di mercato, e perciò reputati fungibili con il denaro, dei quali colui che riceve deve restituire l’equivalente solo se e quando interviene l’adempimento dell’obbligazione garantita; altrimenti, l’obbligazione restitutoria attiene all’eventuale eccedenza del valore dei beni trasferiti in proprietà rispetto al valore della prestazione garantita rimasta inadempiuta.
Il contratto di pegno irregolare, di conseguenza, non elimina il diritto della Banca a pretendere l’adempimento, quanto piuttosto esaurisce “in limine” l’interesse del creditore a percorrere la via dell’esecuzione forzata, essendo anticipato con lo strumento negoziale l’effetto finale della tutela processuale.

Da quanto sopra esposto deriva, per gli ermellini, che il sequestro penale presso il creditore di beni costituiti dall’indagato-debitore in pegno irregolare, vincolerebbe a garanzia degli interessi perseguiti con la misura cautelare reale beni non più di proprietà del costituente, non potendo d’altra parte il sequestro presso terzi avere a oggetto crediti puramente eventuali. Pertanto sussiste la legittimazione della Banca a impugnare il sequestro, quale persona giuridica alla quale le cose sono state sequestrate.

Nel caso di specie, il Tribunale dovrà riesaminare l’istanza di dissequestro avanzata dalla Banca riguardo al conto corrente del presunto evasore.

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cartelle. Prescrizione breve

Si applica la prescrizione quinquennale – e non quella decennale – ai crediti portati dalle cartelle di pagamento che non sono state precedute da un atto d’accertamento divenuto definitivo. È quanto emerge dall’ordinanza n. 20213/15 della Corte di Cassazione – Sesta Sezione (T) -, pubblicata l’8 ottobre.

In una controversia per cartelle di pagamento TIA/TARSU, i giudici tributari della Calabria hanno accolto l’impugnazione del contribuente (avverso gli avvisi di mora) sul presupposto che fosse intervenuta la prescrizione quinquennale del potere esattivo dell’imposta, posto che i ruoli risultavano consegnati tardivamente all’esattore, per quanto poi fossero state regolarmente notificate le cartelle.

Dunque la CTP e la CTR hanno ritenuto applicabile al caso di specie il termine di prescrizione di cui all’art. 2948 del Codice civile e non quello stabilito dall’art. 2946, come invece sostenuto dal concessionario della riscossione.

Ebbene, la controversia è approdata in Cassazione dove Equitalia ha subito una definitiva battuta d’arresto.

In motivazione si legge: “premesso che la parte ricorrente ha dato generico conto della sequenza temporale delle intervenute notificazioni delle cartelle di pagamento (sicché, quand’anche volesse considerarsi ciò che si assume in ricorso a proposito di rispetto del termine breve di prescrizione, o meglio del termine decadenziale previsto per la notifica degli atti esattivi, il motivo sarebbe difettoso in punto di autosufficienza), resta comunque che la giurisprudenza che la parte ricorrente ha valorizzato in ricorso a proposito della applicabilità del termine di prescrizione ordinaria è tutta riferibile a titoli di accertamento-condanna (amministrativi o giudiziari) divenuti definitivi, non già invece a cartelle esattive che – se adottate in virtù di procedure che consentono di prescindere dal previo accertamento dell’irretrattabilità e definitività dell’esistenza del titolo – non possono per questo considerarsi rette dall’irretrattabilità e definitività del titolo di accertamento e ripetono la loro legittimità (sotto il profilo della tempestività della procedura di notifica alla parte destinataria) dalla legge che le regola”.

E allora la Suprema Corte conclude dicendo che, “per poter postulare l’applicabilità alla specie di causa del termine di prescrizione decennale”, Equitalia avrebbe dovuto “indicare l’esistenza di un titolo definitivo a pretendere, antecedente all’emissione delle cartelle, di cui non è stata fatta menzione alcune”.

In conseguenza del rigetto del ricorso, il concessionario è stato condannato a pagare un ulteriore somma a titolo di contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, TUSG. Nulla sulle spese.

A cura di Antonio Gigliotti
Autore: Redazione Fiscal Focus

Vizio di sottoscrizione. Non può essere fatto valere in Cassazione

 Cassazione Tributaria, ordinanza del 20 ottobre 2015

Nel giudizio di cassazione non può trovare ingresso l’eccezione riguardante la sottoscrizione dell’avviso d’accertamento: se si tratta di un motivo nuovo, gli ermellini non se ne possono occupare.

È quanto emerge dall’ordinanza 20 ottobre 2015 n. 21307 della Sesta Sezione Civile – T della Suprema Corte.

Gli ermellini hanno esaminato il ricorso di un contribuente romano che ha impugnato un avviso di accertamento sintetico basato sul possesso di più autovetture e di plurime abitazioni principali e secondarie.

Mentre la Commissione di prima istanza ha annullato la ripresa, la Commissione regionale ha ritenuto che il contribuente non avesse assolto all’onere probatorio imposto dall’art. 38 del D.P.R. n. 600/73; il che ha comportato la riforma del verdetto di prime cure. Di poi il ricorso di legittimità del contribuente, cha ha avuto esito felice.

I giudici tributari del Palazzaccio hanno ritenuto viziata la sentenza di seconde cure e pertanto l’hanno cassata, con rinvio alla CTR Lazio (in diversa composizione) per nuovo giudizio.

I supremi giudici, però, hanno dichiarato inammissibili i motivi nuovi formulati dal contribuente con una memoria illustrativa.

Precisamente, con la memoria illustrativa, il ricorrente ha dedotto motivi nuovi a sostegno dell’assunto di invalidità dell’atto impugnato; motivi certamente innovativi, secondo la Suprema Corte, rispetto al contenuto del ricorso per cassazione e dello stesso ricorso introduttivo di primo grado.

Il contribuente cioè ha lamentato, ma solo nell’ultimo grado di giudizio, la carenza del “potere di firma” in capo al sottoscrittore dell’atto oggetto di lite, “siccome incaricato di funzioni dirigenziali e non dirigente a seguito di concorso pubblico”.

Ebbene, i giudici con l’ermellino hanno ritenuto questa nuova contestazione inammissibile e “quand’anche si trattasse, invero, di argomenti deducibili, indipendentemente dalle preclusioni che regolano il rito tributario (artt. 18 e 24; 57 del D.Lgs. n. 546/1992), essi sarebbero stati comunque introdotti in violazione dei principi che regolano il rito in Cassazione, non potendo in nessun caso la Corte apprezzare le circostanze di fatto che costituiscono il presupposto sostanziale degli assunti del contribuente, il cui onere di allegazione e prova in ordine a detti fatti appare comunque manifesto e imprescindibile”.

A cura di Antonio Gigliotti
Autore: Redazione Fiscal Focus

Distruzione scritture. Il furto dell’auto non salva dalla condanna

Distruzione scritture. Il furto dell’auto non salva dalla condanna – Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 19 ottobre 2015

Il reato di occultamento o distruzione delle scritture contabili si configura anche nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria abbia potuto ricostruire induttivamente il reddito d’impresa. La ricostruzione per via presuntiva non è certamente equiparabile a quella realizzabile sulla base della documentazione contabile. 
Inutile, poi, sostenere il furto dell’autovettura, se dalla denuncia all’autorità giudiziaria emerge chiaramente che nel mezzo non erano custodite le scritture obbligatorie ma solo alcune fatture e dei foglietti inerenti all’attività d’impresa.

È quanto emerge dalla sentenza n. 41830/2015 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Gli ermellini hanno rigettato il ricorso proposto da un soggetto accusato di vari reati tra cui quello fiscale previsto dall’art. 10 del D.Lgs. n. 74/2000.

L’uomo non aveva ottemperato alla richiesta dei verificatori di esibire la documentazione contabile dell’azienda, assumendo che fosse stata rubata unitamente all’autovettura di sua proprietà in cui detta documentazione si trovava custodita. Giustificazione questa che in giudizio non ha retto.

Per il giudice dell’appello, che ha ritenuto configurato il reato fiscale in contestazione, i documenti contenuti nel veicolo rubato non erano le scritture contabile obbligatorie, ma semplicemente “varie fatture e foglietti” come affermato dallo stesso imputato nella denuncia presentata all’A.G.

In ogni caso era irrilevante che fosse stato possibile ricostruire il reddito d’impresa, posto che la ricostruzione in via presuntiva non è equiparabile a quella realizzabile sulla base della documentazione contabile non esibita.

Ebbene, la Suprema Corte ha reso definitivo il verdetto di responsabilità pronunciato dal giudice di secondo grado.

La Corte territoriale, con motivazione adeguata secondo gli ermellini, ha ritenuto certa la distruzione o, comunque, l’occultamento delle scritture obbligatorie a opera dell’imputato.

A proposito del furto dell’auto, in particolare, il collegio territoriale ha smontato la tesi difensiva facendo riferimento alla denuncia di furto dalla quale è emerso che all’interno dell’autovettura c’erano solamente – per come dichiarato dall’imprenditore – “varie fatture e fogliettini relativi alla mia attività lavorativa”; quindi documenti che non potevano certo identificarsi con le scritture contabili obbligatorie. A ciò si è aggiunta la constatazione che dopo l’asserita sottrazione da parte di terzi, “non erano state ripristinate” le scritture in questione.

Ma la sentenza di seconde cure, secondo gli ermellini, è pure conforme alla giurisprudenza di legittimità formatasi con riguardo al reato contemplato dall’art. 10 del D.Lgs. n.74/2000: proprio perché la norma intende assicurare la trasparenza fiscale del contribuente, è irrilevante che la ricostruzione delle operazioni non documentate sia effettuata ab externo, attraverso riscontri incrociati, presso i soggetti economici cui si riferiscono quelle operazioni. La norma, infatti, si legge in sentenza, “sarebbe sostanzialmente inutiliter data ove si attribuisse alla solerzia degli accertatori ed alla loro capacità di reperire aliunde elementi di prova una sorta di efficacia sanante dell’illecita condotta dell’imprenditore. Ben difficilmente infatti questa condotta sarebbe sanzionata dal momento che in materia, di regola, in un modo o nell’altro, prima o poi, eventualmente procedendo a controlli incrociati, l’evasione fiscale viene scoperta. Essa per contro, acquista una precisa ragion d’essere anche perché responsabilizza l’imprenditore allorché si interpreta nel senso che la ricostruzione dei redditi e del volume di affari dell’impresa deve poter avvenire con i documenti che il titolare è tenuto a conservare – escluso pertanto qualsiasi riferimento a un impossibilità assoluta di procedere a tale ricostruzione“.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Appello tributario. Fondamentale l’avviso di ricevimento

Bisogna agire con tempestività per ottenere il duplicato della ricevuta postale

L’appello è inammissibile senza la dimostrazione dell’avvenuta notifica alla controparte che ne eccepisce il mancato ricevimento e in assenza di una tempestiva richiesta di un duplicato della cartolina di ritorno all’amministrazione postale. È quanto emerge dalla sentenza n. 19623/2015 della Corte di Cassazione. 
La controversia ha riguardato una società che ha impugnato un avviso di accertamento vincendo la causa in entrambi i giudizi di merito.
Nel giudizio d’appello, in particolare, prima della fissazione dell’udienza di trattazione, la società inviava una lettera sia alla Commissione regionale sia all’Agenzia delle Entrate per far loro presente di non aver mai ricevuto la notificazione dell’atto di appello. Pertanto l’amministrazione chiedeva alla CTR un rinvio per produrre la cartolina di ritorno regolarmente richiesta all’ufficio postale o, in subordine, di essere rimessa in termini per poter rinotificare l’atto.

Poiché il Giudice di seconde cure ha dichiarato inammissibile l’appello, la difesa erariale ha proposto ricorso per cassazione eccependo la violazione di legge per non avere la CTR accolto la richiesta di differimento in attesa del rilascio del duplicato dell’avviso di ricevimento da parte dell’amministrazione postale. Duplicato che poi fu trasmesso all’Agenzia appena dieci giorni dopo l’udienza.
Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto che il fisco si sia mosso troppo tardi perché la richiesta all’ufficio postale del duplicato dell’avviso di ricevimento è avvenuta solamente dopo la segnalazione del contribuente; “dunque”, scrivono gli ermellini, “l’agire del fisco è stato evidentemente intempestivo avendo atteso ben diciotto mesi, dalla spedizione del 22 giugno 2007, prima di verificare la sorte del plico postale e di sincerarsi dell’effettivo perfezionamento della notificazione”.

Il ricorso per cassazione del fisco, pertanto, è stato rigettato alla luce del seguente principio: nell’ipotesi di omessa produzione dell’avviso di ricevimento idoneo a comprovare il perfezionamento della notificazione eseguita a mezzo del servizio postale, non può essere accolta l’istanza di mero rinvio, formulata dalla parte impugnante al fine di provvedere a tale deposito, poiché il differimento d’udienza si porrebbe in manifesta contraddizione con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo stabilito dall’art. 111 Cost. Infatti, l’omessa produzione determina in modo istantaneo e irretrattabile l’effetto dell’inammissibilità dell’impugnazione nonché il consolidamento del diritto della controparte a tale declaratoria. Il tutto è emendabile unicamente offrendo la prova documentale di essersi tempestivamente attivato nel richiedere all’amministrazione postale un duplicato dell’avviso stesso.
L’Agenzia delle Entrate è stata condannata dalla Sezione Tributaria della Corte al pagamento delle spese del giudizio.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Accessi e verifiche. Accettare il pvc senza riserve salva l’accertamento

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 16 ottobre 2015

L’accertamento di maggiori imposte può basarsi unicamente sulle dichiarazioni rese alla Guardia di finanza dall’amministratore unico della società. Se l’amministratore ha sottoscritto il processo verbale di constatazione senza riserve, le sue dichiarazioni valgono come confessione stragiudiziale. 
È quanto emerge dalla sentenza n. 20979/15 della Corte di Cassazione – Sezione Tributaria.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate, secondo cui male aveva fatto la Commissione Tributaria Regionale della Campania ad annullare la ripresa a carico della contribuente – una Srl -, posto che il volume d’affari era stato determinato considerando quale percentuale di ricarico il 20 per cento così come concordato in contraddittorio con l’amministratore unico. L’amministratore aveva pure sottoscritto senza riserve il processo verbale di constatazione.

Ebbene, secondo la Suprema Corte, vale “il principio logico giuridico che l’accettazione da parte del contribuente, in contraddittorio con i verbalizzanti, di una data percentuale di ricarico può essere apprezzata come confessione stragiudiziale risultante proprio dal processo verbale sottoscritto e, quindi, tale da legittimare l’accertamento dell’ufficio (Cass. 5628/1990 e 1286/2004). Così come ogni dichiarazione del legale rappresentante può costituire prova non già indiziaria, ma diretta del maggior imponibile eventualmente accertato nei confronti della società, non bisognevole, come tale, di ulteriori riscontri (Cass. n. 28316/2005, 9320/2003, 7964/1999)”.

Nel caso in esame è stato proprio l’amministratore della società a concordare con i verbalizzati la percentuale di ricarico del 20 per cento e tale dato è stato inserito nel pvc, poi sottoscritto senza riserve; e il pvc costituisce atto fidefacente fino a querela di falso riguardo all’effettività delle operazioni dei verbalizzanti e di quanto accaduto e/o dichiarato alla loro presenza.

E allora per gli ermellini è evidente l’errore del giudice dell’appello: le dichiarazioni rese dall’amministratore unico avrebbero potuto avere carattere decisivo per escludere l’inesistenza di elementi fondativi del ricarico e quindi per ritenere infondata l’impugnazione della contribuente.

La causa, pertanto, è stata rimessa davanti alla CTR della Campania per nuovo giudizio.

Autore: Redazione Fiscal Focus