Archivi categoria: Sentenze Cassazione

Fatture false, concorso nel reato per il potenziale utilizzatore

L’esclusione del concorso nel reato tra utilizzatore ed emittente le false fatture, opera soltanto se il destinatario non risponde del delitto di dichiarazione fraudolenta. Ne consegue che se ha ricevuto i documenti e non li ha utilizzati concorre nel reato commesso da chi ha emesso le fatture fittizie. A fornire questa precisazione è la Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 41124 depositata ieri.

Alla legale rappresentante di una società veniva contestato il concorso nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti. Più precisamente, la società era stata destinataria di fatture emesse da un terzo soggetto considerate fittizie, ma che non erano confluite nella relativa dichiarazione presentata. La difesa evidenziava così che nessun illecito era stato commesso.

Nelle more del giudizio di appello, interveniva la prescrizione per tale reato, ma venivano comunque confermate le statuizioni civili.

L’imputata ricorreva così in Cassazione lamentando, tra i diversi motivi, anche la violazione della norma disciplinata dall’articolo 9 del Dlgs 74/00. In particolare, è previsto che non può sussistere il concorso tra l’emittente di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e chi le utilizza.

La Suprema corte, rigettando l’eccezione sul punto, ha fornito alcune importanti precisazioni. Innanzitutto, nella sentenza è stato evidenziato che il legislatore con tale norma ha inteso evitare che l’utilizzazione di fatture false da parte del destinatario (punita dall’articolo 2 del Dlgs 74/00) possa integrare anche il concorso nell’emissione delle stesse (punita dall’articolo 8 dello stesso decreto). E viceversa, ossia che la mera emissione possa integrare il concorso con il relativo utilizzo, cosiccome avveniva con la precedente normativa penale tributaria (cosiddette manette agli evasori). Si tratta dello stesso fatto poiché l’emissione della fattura, trova la sua naturale conseguenza nell’utilizzazione e l’utilizzazione trova il suo naturale antecedente nell’emissione. Con l’articolo 9, quindi, è stato escluso che un soggetto possa essere colpito per due volte da sanzione penale per la medesima vicenda illecita.

La Cassazione ha però precisato che l’esclusione del concorso, non opera se il destinatario delle fatture non le abbia utilizzate. L’articolo 2 del Dlgs 74/00 punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’Iva indica in una delle dichiarazioni fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Tuttavia, in assenza dell’utilizzo, ossia della presentazione di una dichiarazione contenente i citati documenti falsi, l’imprenditore non commette alcun reato.

Va da sé quindi che se non esiste il delitto in capo all’utilizzatore, non sussiste la necessità di evitare la doppia sanzione tutelata dal legislatore.

Pertanto, secondo i giudici di legittimità, solo il potenziale utilizzatore di documenti o fatture emesse per operazioni inesistenti può concorrere, ove ne sussistano i presupposti, con l’emittente non essendo applicabile l’esclusione prevista dalla norma.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Niente integrativa dopo la contestazione su una precedente dichiarazione

La notifica della contestazione di una violazione commessa nella redazione di una precedente dichiarazione costituisce causa ostativa alla presentazione della dichiarazione integrativa. Se fosse, infatti, possibile porre rimedio alle irregolarità anche dopo la contestazione delle stesse, la correzione si risolverebbe in un inammissibile strumento di elusione delle sanzioni previste dal legislatore. A tale conclusione è giunta la Cassazione attraverso l’ordinanza 17230/2019.

La vicenda afferisce a costi ritenuti non deducili in quanto inerenti a operazioni effettuate verso Paesi a fiscalità privilegiata e non correttamente esposti nella dichiarazione dei redditi. Già nella sentenza 28172/2017, la Suprema corte era giunta alla conclusione che, in tema di imposte sui redditi, costituiva «causa ostativa» alla presentazione della dichiarazione integrativa, in base all’articolo 2, comma 8, del Dpr 322/1998, la notifica della contestazione di una violazione commessa nella redazione della dichiarazione originaria in quanto «se fosse possibile porre rimedio alle irregolarità anche dopo la contestazione delle stesse la correzione si risolverebbe in un inammissibile strumento di elusione delle sanzioni previste dal legislatore».

Intervenendo sul punto, il collegio di legittimità ha infatti precisato che «l’agenzia delle Entrate sottolinea… la sostanziale difformità della dichiarazione integrativa di cui al comma 8 dell’articolo 2 con l’istituto del ravvedimento operoso di cui all’articolo 13 del Dlgs 472/1997. Tanto premesso il collegio rileva che la censura del contribuente rientra in tale previsione normativa, risultando erroneo il richiamo, sia dei primi Giudici e sia dell’Ufficio al comma 8 bis del Dpr 322/98 e articolo 13 Dlgs472/1997 risultando la loro applicazione sottoscritta ai soli casi di ravvedimento operoso».

Sempre in tal senso si era espressa la Cassazione con la sentenza 15015/2017 afferente a una situazione analoga a quella rappresentata nella pronuncia in commento, rilevando che «dopo la contestazione di una violazione è preclusa ogni possibilità di regolarizzazione, posto che, ove fosse possibile porre rimedio alla mancata separata indicazione dei costi in oggetto (o a qualunque altra irregolarità) anche dopo la contestazione della relativa violazione o l’inizio di attività di verifica e controllo, la correzione stessa si risolverebbe (Corte costituzionale 392/2002) in un inammissibile strumento di elusione delle sanzioni predisposte dal legislatore per l’inosservanza della correlativa prescrizione (Cassazione 23745/2015)».

Pertanto, anche l’attuale formulazione dei commi 8 e 8-bis dell’articolo 2 del Dpr 322/1998, benché orientata a una generale possibilità di correggere errori o omissioni commesse nella compilazione delle dichiarazioni già presentate, entro i termini previsti per l’accertamento da parte del Fisco (articolo 43 Dpr 600/1973), dovrà misurarsi con l’impossibilità di apporre modifiche alla dichiarazione successivamente alla notifica dell’atto di contestazione da parte dell’ufficio.

Fonte “Il sole 24 ore”

Sequestri preventivi annullabili solo a seguito di sgravio

Nei reati tributari è ammesso il sequestro preventivo anche se la commissione tributaria ha annullato con sentenza non definitiva la pretesa fiscale. Solo un provvedimento di sgravio, infatti, rappresentando la rinuncia al tributo dell’ente impositore, può giustificare l’annullamento della misura cautelare. A precisarlo è la Cassazione con la sentenza 28575 depositata ieri (scarica la sentenza qui ). Nella vicenda oggetto della pronuncia, il Tribunale del riesame confermava il sequestro preventivo finalizzato alla confisca disposto dal Gip nei confronti di una società e del relativo legale rappresentante per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifizi (articolo 3 Dlgs 74/00). Avverso il predetto provvedimento, ricorreva in Cassazione l’indagato, lamentando che fossero state ignorate le sentenze della Ctp di annullamento della pretesa erariale. Sebbene, non definitive, in assenza di una somma da corrispondere non vi era alcuna ragione per il mantenimento della misura cautelare. I giudici di legittimità, respingendo sul punto il ricorso (ma accogliendolo per altre ragioni relative all’errata quantificazione del valore del profitto del reato) hanno innanzitutto rilevato la differenza, ai fini del sequestro, tra sgravio e giudizio tributario di annullamento (non definitivo). Lo sgravio è un provvedimento dell’ente impositore necessario per formalizzare la cancellazione della propria pretesa. Si tratta di un atto pubblico fidefacente ed è costitutivo dell’effetto di estinzione del debito erariale. La Cassazione ha precisato che il mantenimento del sequestro non avrebbe giustificazioni in presenza di sgravio: venendo meno la pretesa erariale, infatti, la misura cautelare sarebbe illegittima poiché sarebbe finalizzata alla confisca di un profitto in realtà inesistente (perché annullato dall’ente impositore). Diversamente, invece, le sentenze della commissione tributaria non sono automaticamente rilevanti processo penale.

Nella specie, sembrerebbe che l’Ufficio non avesse sgravato la pretesa a seguito del giudizio della Ctp e il giudice del Riesame, avesse adeguatamente motivato le ragioni per discostarsi dalla decisione tributaria confermando il provvedimento cautelare. Sebbene nella pronuncia non venga precisato, sembra potersi dedurre che sarebbe stato sufficiente per la revoca del vincolo che in conseguenza della sentenza tributaria, l’Ufficio come normalmente avviene, avesse proceduto allo sgravio

In altre parole non pare si faccia riferimento solo a una rinuncia definitiva della pretesa fiscale da parte dell’ente. In questi termini, infatti, si è espressa la Suprema corte con la sentenza 355/2019 che ha confermato un orientamento peraltro già espresso in precedenza (Cassazioni 19994/2017 e 39187/2015).

Nella specie, in presenza di annullamento della cartella da parte della commissione tributaria, con sentenza non definitiva e di relativo provvedimento di sgravio dell’Ufficio è stata affermata l’illegittimità del sequestro preventivo e del suo mantenimento. Va da sé che se, al contrario, la sentenza della Cassazione di ieri venga interpretata nel senso che solo lo “sgravio” definitivo sia idoneo a “neutralizzare” il sequestro, si sarebbe di fronte ad un significativo cambio di orientamento meritevole forse di un intervento delle Sezioni unite.

Fonte “Il sole 24 ore”

Fatture false, commercialista reo in concorso

Dichiarazione fraudolenta per uso di documenti falsi noti al professionista

Risponde in concorso con il cliente del reato di dichiarazione fraudolenta per utilizzo di fatture false il commercialista che, da precedenti controlli della Gdf, era a conoscenza della falsità dei documenti.

Ad affermarlo è la Corte di cassazione con la sentenza 28158 depositata ieri. Il commercialista di una società veniva condannato in concorso con altri imprenditori per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Il professionista ricorreva così in Cassazione lamentando l’assenza di prove relativamente al suo contributo nell’illecito commesso da terzi. La Suprema corte confermando la decisione di appello ha innanzitutto ricordato che in giurisprudenza è pacificamente ammessa la configurabilità del concorso del commercialista con il contribuente sia in generale nei reati tributari, sia, più in particolare, nei delitti dichiarativi.

Il commercialista, infatti, può concorrere nel reato di emissione di fatture false (Cassazione 28341/2001), così come nell’indebita compensazione (Cassazione 1999/2017) o di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (Cassazione 39873/2013 e 7384/2018). I giudici di legittimità hanno precisato che il contributo causale del concorrente nel reato può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche. Il concorso, quindi, può essere sia morale, sia materiale, ma occorrono le prove delle modalità della sua esecuzione, del rapporto con le attività poste in essere dagli altri concorrenti e della reale partecipazione. Con riguardo alla colpevolezza, la Cassazione, ha così chiarito che il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che la presentazione della dichiarazione comprensiva delle fatture false, possa comportare l’evasione delle imposte.

Nella specie il professionista era consulente della società e dei suoi soci, anche gestendo per loro conto mandati fiduciari. Predisponeva i bilanci di esercizio e disponeva di un accesso diretto in remoto al sistema informatico della società per ottenere dei report contabili periodici. Inoltre, dalle intercettazioni telefoniche e da altri elementi in atti, era emerso di essere a conoscenza, da controlli effettuati dalla Gdf per esercizi precedenti, che le fatture di alcuni fornitori fossero già state considerate false. Infine, era consapevole delle irregolarità fiscali della società come l’omessa istituzione e tenuta della contabilità di magazzino, l’irregolare tenuta del registro degli inventari e così via. Violazioni peraltro, periodicamente segnalate dal collegio sindacale. Perciò la Suprema corte ha ritenuto che il concorso del professionista alla commissione del delitto fosse individuabile nella predisposizione e nell’inoltro delle dichiarazioni contenenti l’indicazione di elementi passivi fittizi supportati da false fatture nonchè nell’attività di supporto per la sistemazione documentale di gravi violazioni contabili.

Fonte “Il sole 24 ore”

Controllo formale, nulla la cartella non preceduta dall’esito

È nulla la cartella di pagamento che non sia preceduta dalla comunicazione dell’esito del controllo formale, in ciò differenziandosi dalla comunicazione della liquidazione della maggiore imposta dovuta a seguito di controllo automatizzato, la cui eventuale omissione non incide sull’esercizio del diritto di difesa e non determina alcuna nullità. Lo ha ribadito la Cassazione, con l’ordinanza 15654/2019.

Già alcuni anni fa la Suprema corte aveva stabilito che l’agenzia delle Entrate non è tenuta a notificare al contribuente una richiesta di chiarimenti o di trasmissione di documenti per il controllo formale ex articolo 36-ter del Dpr 600/1973, ma, prima dell’iscrizione a ruolo, è invece obbligata a notificare, anche semplicemente con raccomandata postale, la comunicazione d’irregolarità derivante dal controllo stesso (Cassazione 4591/2016; conforme: Cassazione 15311/2014).

In effetti, la stessa amministrazione finanziaria, con la circolare 77/E/2001 (paragrafo 1), ha precisato che ai contribuenti deve essere comunicato, prima dell’iscrizione a ruolo, l’esito del controllo formale e, in particolare, con la circolare 68/E del 16 luglio 2001 (paragrafo 7), è stato puntualizzato che la comunicazione degli esiti del controllo deve essere inviata mediante raccomandata postale con avviso di ricevimento, al fine di acquisire certezza sulla data di ricevimento della stessa.

Diversamente, per quanto concerne il controllo automatizzato ex articolo 36-bis del Dpr 600/1973 e articolo 54-bis del Dpr 633/1972, deve ritenersi legittima la cartella di pagamento che non sia preceduta dalla comunicazione dell’esito della liquidazione automatizzata sia perché le norme citate non prevedono alcuna sanzione, in termini di nullità, per il suo inadempimento, sia perché tale comunicazione, avendo la funzione di evitare al contribuente la reiterazione di errori e di consentirgli la regolarizzazione di aspetti formali, è un adempimento rivolto esclusivamente ad orientare il comportamento futuro dell’interessato ed esula, quindi, dall’ambito dell’esercizio del diritto di difesa e di contraddittorio nei confronti dell’emittenda cartella di pagamento (ex pluris, Cassazione 4360/2017, 13759/2016).

Del resto, l’articolo 6, comma 5, dello Statuto del contribuente – per cui, a pena di nullità, prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, il Fisco deve invitare il contribuente a fornire i chiarimenti necessari – non impone l’obbligo del contraddittorio preventivo in tutti i casi in cui si debba procedere ad iscrizione a ruolo a seguito di controllo automatizzato, ma soltanto qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, situazione, quest’ultima, che non ricorre nel caso in cui le differenze tra la dichiarazione del contribuente e la cartella di pagamento sono dovute semplicemente al mancato versamento delle varie imposte scaturenti dalla dichiarazione regolarmente prodotta dallo stesso contribuente (ex pluris, Cassazione 9218/2018).

 Fonte “Il sole 24 ore”

Le indagini finanziarie si allargano anche ai soci

L’utilizzo dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli istituti di credito non può ritenersi limitata, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati all’ente. Interessa, infatti, anche quelli titolati ai soci, agli amministratori o ai procuratori generali, allorché risulti provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità alla società dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati. Ciò senza la necessità di dimostrare altresì tutte le movimentazioni di tali rapporti rispecchino operazioni aziendali, dato che, in base all’articolo 32 del Dpr 600/1973, incombe sulla società contribuente dimostrarne l’estraneità alla propria attività di impresa. A tale conclusione è giunta la Cassazione attraverso l’ordinanza n. 13970/2019.

Le indagini finanziarie vengono regolate dall’articolo 32 del Dpr 600/1973 relativamente alle imposte sul reddito e dall’articolo 51 del Dpr 633/1972, per quanto concerne l’Iva. Tuttavia, le menzionate disposizioni non disciplinano alcuna presunzione legale ma, semplicemente, le risultanze dell’attività conoscitiva scaturente dalle indagini finanziarie le quali devono, successivamente, essere eventualmente riversate nell’avviso di accertamento, in forza delle disposizioni regolanti il medesimo atto.

Relativamente al contesto soggettivo della disciplina, la previsione dell’articolo 32 del Dpr 600/1973 e l’analoga disposizione stabilita dal comma 2 dell’articolo 51 del Dpr 633/1972, per ciò che concerne l’Iva, dispone che le informazioni e gli elementi riguardanti le relazioni con gli intermediari finanziari, possono essere poste a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 del Dpr 600/1973 (articoli 54 e 55 del Dpr 633/1972 in ambito Iva), qualora il contribuente non documenti di averne tenuto conto ai fini della determinazione del reddito o gli stessi non abbiano assunto alcuna rilevanza nel medesimo ambito.

La disciplina prevede, pertanto, che i risultati della menzionata indagine debbano in seguito essere canalizzati all’interno delle peculiari disposizioni concernenti gli accertamenti riguardanti le persone fisiche che non svolgono alcuna attività d’impresa o di lavoro autonomo (articoli 38 e 41 del Dpr 600/1973) o nei riguardi di coloro che agiscono in qualità di imprenditore o di esercente arte o professione (articoli 39 e 40 del Dpr 600/1973) e pertanto, circoscrivendo l’analisi a questi ultimi soggetti, si deve evidenziare che né l’articolo 39 né il successivo articolo 40 del Dpr 600/1973 accolgono alcuna presunzione legale. Pertanto, sulla base di queste ultime disposizioni, o l’Ufficio pone in essere una rettifica analitica in presenza di elementi certi, oppure si tratta di presunzioni semplici, con onere probatorio che incombe sull’Ufficio, il quale è tenuto a rispettare i principi di gravità, precisione e concordanza, qualora non ci si trovi in circostanze ricadenti nell’ambito dell’accertamento induttivo cosiddetto “puro”, di cui al co. 2 dell’articolo 39 del medesimo Dpr 600/1973.

Relativamente ai presupposti per estendere le indagini anche ai rapporti finanziari intrattenuti da terzi, la soluzione più coerente pare sia quella per la quale risulta essere onere dell’Ufficio dimostrare, anche mediante presunzioni, che i conti intestati esclusivamente a terzi vengono utilizzati nell’ambito dell’attività del contribuente oggetto di verifica in quanto, il medesimo onere probatorio vige per l’interposizione fittizia ex articolo 37, comma 3, del Dpr 600/1973 e pertanto, il Giudice dovrebbe verificare la fondatezza delle presunzioni, formulate dall’Ufficio, in merito alla riferibilità al contribuente delle movimentazioni dei conti intestati a soggetti terzi.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Omessi pagamenti, sì alla soglia più alta

L’innalzamento della soglia penale da 50mila a 250mila euro, prevista per il delitto di omesso versamento Iva ed introdotta con la riforma dei reati tributari del 2015, non viola alcun precetto costituzionale. A fornire queste indicazioni è la Cassazione, con la sentenza 25562 di ieri.

Una procura impugnava innanzi alla Corte l’assoluzione di un imprenditore, imputato per il delitto di omesso versamento Iva per circa 200mila euro, in quanto a seguito delle modifiche (Dlgs 158/2015) il fatto non era più previsto come reato: la nuova soglia era fissata a 250mila euro.

Nel ricorso era richiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’articolo 8 Dlgs 158/2015 (previsione della nuova soglia) e dell’articolo 8 della legge delega 23/2014 (revisione sistema sanzionatorio penale tributario). Secondo la Procura, i criteri direttivi della delega (facendo riferimento al concetto di «soglia adeguata») non sarebbero stati caratterizzati da analiticità, rigore e chiarezza e quindi un’importante scelta di politica criminale sarebbe stata interamente delegata al governo.

Inoltre, l’innalzamento della soglia a 250mila euro sarebbe stato irragionevole, in quanto il precedente limite di 50mila euro era in linea con le previsioni della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari della comunità europea. Successivamente, il significativo aumento sarebbe risultato privo di ragionevolezza. La Cassazione ha ritenuto manifestamente infondata la questione. Innanzitutto, già in passato la Corte costituzionale ha escluso che l’articolo 76 della Costituzione con la legge di delegazione privi il Governo di qualsiasi margine di discrezionalità, perché equivarrebbe a ridurre il decreto delegato a mero provvedimento esecutivo. Quanto all’irragionevolezza rispetto alla Convenzione europea, la Corte evidenzia che questa normativa non si applica al reato di omesso versamento Iva, in quanto in esso è assente la frode.

Anche di recente la Corte di Giustizia ha escluso che in base al Trattato di funzionamento della Ue e alla Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari, l’omesso versamento dell’Iva risultante dalla dichiarazione costituisca frode. La questione di legittimità costituzionale è infondata.

Fonte “Il sole 24 ore”

Ritenute subite ma non versate: risponde solo il datore di lavoro

Qualora la ritenuta sia stata operata, il sostituito non risponde mai dell’omesso versamento. La responsabilità solidale tra sostituito e sostituto, infatti, sussiste solo in caso di mancata esecuzione della ritenuta. Sono queste le principali conclusioni cui è giunta la Ctr Lombardia con la sentenza 1926/1/2019 (presidente Chindemi, relatore Labruna). Così, con quest’ultima sentenza, pronunciata un giorno prima del deposito della sentenza della Corte di cassazione a Sezioni unite 10378/2019 , viene definitivamente superato il diverso orientamento giurisprudenziale che, fino a qualche tempo fa, riteneva legittima la richiesta da parte di numerosi uffici delle Entrate di restituzione delle ritenute subite (oltre a sanzioni e interessi) anche al sostituito in ragione del fatto che il sostituto, nonostante l’effettuazione, non le avesse poi versate all’Erario.

La pronuncia dei giudici lombardi trae origine proprio da un’iscrizione a ruolo e dalla conseguente notifica della cartella di pagamento a un percettore di reddito di lavoro autonomo in qualità di sostituito per l’omesso versamento di una ritenuta subita, ma non versata all’Erario dal sostituto.

Impugnato il ruolo, il sostituito ne eccepiva l’illegittimità per aver scomputato in dichiarazione le ritenute di fatto operate, come peraltro comprovato dalla apposita certificazione rilasciata dal sostituto. A seguito del giudizio favorevole sia dei giudici di primo che di secondo grado, l’agenzia delle Entrate ricorreva per Cassazione, sostenendo che il giudice regionale non si era pronunciato sulla sussistenza della responsabilità solidale tra sostituto e sostituito in forza dell’articolo 35 del Dpr 602/1973. . Ravvisando l’omessa pronuncia sulla sussistenza della predetta responsabilità solidale e sulla eventuale possibilità in capo al sostituito di rivalersi nei confronti del sostituto, la Cassazione accoglieva il ricorso dell’Agenzia, annullava la sentenza di secondo grado e rinviava ad altra sezione della Ctr Lombardia per il nuovo esame della questione.

Nel pronunciarsi sulla sentenza di primo grado, la prima sezione della Ctr ha respinto la tesi dell’agenzia delle Entrate, precisando che l’articolo 35 del Dpr 602/73 riguarda soltanto la fattispecie di duplice violazione ossia della omessa esecuzione della ritenuta e dell’omesso versamento. In particolare, secondo questa disposizione, il sostituito è coobbligato in solido con il sostituto soltanto quando quest’ultimo non abbia operato e versato le ritenute. Al contrario, qualora, come accaduto nel caso di specie, la ritenuta sia stata operata, il sostituito non può essere chiamato a rispondere dell’omesso versamento.

Secondo il collegio lombardo, infatti, il sostituito non è mai nelle condizioni di assicurare che il sostituto di imposta effettui regolarmente i relativi versamenti laddove, peraltro, nella certificazione che gli viene rilasciata in base all’articolo 4 del Dpr 322/98, il sostituto deve indicare le ritenute operate e non quelle che verserà. In verità, il controllo sull’effettivo versamento delle ritenute compete esclusivamente all’amministrazione finanziaria, unico titolare di tutti i poteri di accertamento di ogni adempimento.

Secondo il collegio lombardo, ritenere che il sostituito abbia un obbligo (non imposto dalla legge e, comunque, impraticabile) di verificare anche l’effettivo versamento della ritenuta da parte del sostituto sarebbe contrario ai princìpi costituzionali di ragionevolezza e di capacità contributiva, rispettivamente sanciti dagli articoli 3 e 53 della Costituzione. In questo modo, infatti, a causa della impossibilità di verificare l’effettivo versamento, il sostituito sarebbe esposto al rischio di essere tassato due volte (oltrechè sanzionato) per una violazione commessa da un altro soggetto, nonostante la propria condotta assolutamente legittima di scomputo dal reddito imponibile di ritenute subite e non incassate.

Fonte “Il sole 24 ore”

Dichiarazioni infedeli con soglia allargata

Per la verifica della sussistenza del reato dichiarazione infedele delle imposte sui redditi nei confronti di un amministratore di società di persone la quantificazione dell’imposta evasa va riferita all’intera somma non dichiarata dai soci e non soltanto dal socio amministratore. A fornire questa interpretazione è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 19228/2019.

La società di persone non è soggetto passivo Ires né Irpef. I redditi sono dichiarati quota parte dai soci che versano la relativa Irpef. Allorché a tale società vengono addebitati maggiori redditi, si pone il dubbio se il rappresentante legale risponda del reato di dichiarazione infedele quando la soglia di imposta evasa superi quella penalmente rilevante (150mila euro) calcolandola come somma dell’Irpef non dichiarata dai singoli soci ovvero soltanto considerando l’Irpef non dichiarata nella propria dichiarazione quale persona fisica/socio.

Dalla lettura del Dlgs 74/2000 sembrava che, ai fini delle imposte sui redditi, la dichiarazione infedele non potesse configurarsi in capo al rappresentante legale della società di persone, ma ai singoli soci, allorché avessero superato nella propria dichiarazione Irpef la soglia di punibilità

Ciò perché tale società non è soggetto passivo né Irpef né Ires e inoltre l’articolo 1 del Dlgs 74/2000 prevede che riguardo ai fatti commessi da chi agisce in qualità di amministratore, o rappresentante di società, il «fine di evadere le imposte» si intende riferito alla società, all’ente o alla persona fisica per conto della quale si agisce.

Così, escludendo che l’amministratore di una snc o sas possa ritenersi un soggetto che agisca per conto del singolo socio, appariva più coerente far riferimento, a differenza dell’Iva, alla dichiarazione del singolo socio posto che solo da essa può derivare un’imposta evasa.

La differenza, non è di poco conto: riferendosi alle singole dichiarazioni dei soci, per configurarsi il reato ciascuna di esse deve sottrarre a tassazione 150mila euro di Irpef, riferendosi alla società di persone l’importo è complessivamente determinato.

Nella specie, secondo la Suprema Corte le norme incriminatrici trovano applicazione, oltre che in caso di coincidenza tra soggetto attivo e contribuente persona fisica, anche nei confronti di chi opera nella qualità di amministratore così da riferirgli la dichiarazione dell’ente. Di conseguenza la finalità di evasione riguarda anche il soggetto giuridico nel cui interesse si agisce. Pertanto, per la dichiarazione infedele, presentata da chi amministri una società di persone, si impone una valutazione unitaria dell’imposta evasa, anche ai fini della verifica della soglia di punibilità.

Tale conclusione, aldilà del contenuto del Dlgs 74/2000 che pare condurre a differente interpretazione, non considera che le società personali non quantificano le imposte sui redditi. Occorrerebbe poi comprendere come calcolare l’imposta evasa atteso che ciascun socio, soggiacendo alla tassazione progressiva (in base agli altri redditi, deduzioni e detrazioni) potrebbe aver evaso importi differenti a parità di imponibile non dichiarato.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Frode fiscale, sanzione all’intermediario anche per il visto «leggero»

L’insostenibile leggerezza del visto fiscale. Può essere sanzionato per frode fiscale il dottore commercialista che ha apposto un visto “solo” leggero sulla dichiarazione dei redditi. Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza della Terza sezione penale n. 19672 depositata ieri. È stato così respinto il ricorso presentato dalla difesa del professionista contro il sequestro per equivalente di una somma di denaro. La misura era stata disposta a fronte di un quadro accusatorio teso a contrastare un’associazione criminale fondata su uno schema fisso: la ricerca di imprese in crisi, il reclutamento di un prestanome e la costruzione con vari espedienti di una contabilità nella quale fare figurare considerevoli crediti d’imposta derivanti da operazioni fittizie.

Tra i motivi di ricorso, la difesa aveva fatto valere la sottoscrizione del solo visto leggero da parte del professionista, una modalità che avrebbe dovuto contribuire a scagionarlo da qualsiasi responsabilità penale. La Cassazione, tuttavia, non è stata di questo avviso. E ha ricordato innanzitutto il quadro normativo di riferimento: il visto di conformità, infatti, è stato introdotto dal decreto legislativo n. 241 del 1997 e si declina nella forma leggera (articolo 35) e in quella pesante (certificazione tributaria come ulteriore forma di controllo, disciplinata dall’articolo 36).

Il primo, sottolinea la pronuncia, rappresenta uno dei livelli di controllo attribuito a soggetti estranei all’amministrazione finanziaria sulla corretta applicazione delle norme tributarie, in particolare a professionisti iscritti a determinati Albi. «Con la sua apposizione – avverte la Corte – i professionisti attestano la corrispondenza dei dati esposti in dichiarazione alle risultanze della documentazione e alle norme che disciplinano la deducibilità e detraibilità degli oneri, i crediti d’imposta, lo scomputo delle ritenute d’acconto». Controlli che hanno l’obiettivo di evitare errori materiali e di calcolo nella determinazione di imponibili, imposte e ritenute. Il visto leggero è obbligatorio per una serie di operazioni, come la compensazione dei crediti relativi all’Iva, imposte dirette e Irap e ritenute di importo superiore a 5.000 euro.

Il visto pesante, invece, ha per oggetto la certificazione tributaria che permette il controllo sostanziale sulla corretta applicazione delle norme fiscali che hanno per oggetto la determinazione e il versamento dell’imposta.

E allora, ricorda la sentenza, anche nel caso del visto leggero il professionista è tenuto a riscontrare la corrispondenza dei dati esposti in dichiarazione con quanto risulta dalla documentazione a disposizione. Quanto alla responsabilità penale, il professionista colpevole del rilascio di un falso visto di conformità, leggero o pesante, oppure di un’infedele asseverazione dei dati, è punibile «dal momento che l’apposizione di un visto mendace costituisce un mezzo fraudolento idoneo a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’amministrazone finanziaria».

 Fonte “Il sole 24 ore”

Modello Iva TR, sanzione del 30% per l’invio tardivo

La tardiva presentazione del modello TR per la compensazione dei crediti Iva infrannuali legittima l’irrogazione della sanzione del 30%. Così ha deciso la Cassazione, con la sentenza 10872/2019, allineandosi alla prassi dell’agenzia delle Entrate.

L’articolo 38-bis, comma 2, del Dpr 633/1972 prevede la possibilità per il contribuente di richiedere, in presenza di determinati requisiti, la compensazione del credito IVA infrannuale ex articolo 17 del Dlgs 241/1997. In base all’articolo 8 del Dpr 542/1999 la richiesta deve avvenire presentando telematicamente il Modello Iva TR, entro l’ultimo giorno del mese successivo al trimestre di riferimento, termine prorogabile al primo giorno feriale successivo solo se cade di sabato o in un giorno festivo (sui termini per effettuare la compensazione si veda anche Ctp Bergamo, sentenza 402/1/17).

L’agenzia delle Entrate, con la risoluzione 82/E del 2018, ha consentito l’integrazione/rettifica del modello Iva TR entro il 30 aprile di ogni anno, o comunque entro il diverso termine di scadenza di invio della dichiarazione Iva annuale, per modificare elementi che non incidono sulla destinazione e/o sull’ammontare del credito infrannuale, ovviamente sempre che l’eccedenza Iva non sia già stata rimborsata ovvero compensata (cfr. anche risoluzione 99/E del 2014); il ravvedimento operoso sarebbe invece precluso.
Nel caso oggetto della sentenza in commento, una Srl aveva presentato tardivamente il modello Iva TR e, quindi, si era vista irrogare dal Fisco la sanzione del 30% in base all’articolo 13 del Dlgs 471/1997.

A nulla sono valse le doglianze della società, per cui la predetta sanzione si applicherebbe soltanto in caso di tardivo od omesso versamento d’imposta, mentre nel caso di specie si trattava di compensazione di crediti Iva maturati nel trimestre precedente. La Cassazione ha stabilito che la presentazione del modello è richiesta della legge e la tardiva trasmissione produce gli effetti derivanti dalla inosservanza dei termini.

In particolare – secondo gli Ermellini – la tardiva presentazione del modello rende indebita la compensazione, la quale, a sua volta, comporta il mancato versamento di parte del tributo alle scadenze previste e determina il ritardato incasso erariale, con conseguente deficit di cassa, sia pure transitorio, nel periodo infrannuale (nello stesso senso, Cassazione 16504/2016, 23755/2015).

Tali conclusioni, che di fatto avallano la prassi del Fisco, non sono condivise dalla dottrina e da una parte della giurisprudenza di merito, atteso la tardiva presentazione del modello TR non comporta alcun pregiudizio all’attività di controllo, atteso che l’amministrazione finanziaria ben può rendersi conto dell’avvenuta compensazione dall’esame degli F24 presentati e, inoltre, una sanzione del 30% in molti casi potrebbe essere sproporzionata rispetto magari a un ritardo di qualche giorno, ragion per cui sarebbe invece da preferire l’applicazione della sanzione formale ex articolo 11 del Dlgs 471/1997 da 250 a 2mila euro (cfr. Ctp Milano, sentenza 280/18/2012; Ctr Lombardia, sentenza 7/22/2013).

 Fonte “Il sole 24 ore”

Inviti e questionari senza risposta: Cassazione in bilico sulla negligenza

Respinta la possibilità di utilizzare documenti negati in fase di controllo
Giudici divisi se l’omessa esibizione è causata da imprudenza o imperizia

La maggior parte dei controlli fiscali avviene attraverso l’esercizio dei poteri di accesso, ispezione e verifica presso la sede del contribuente, nonché mediante il cosiddetto «potere questionario», cioè la notifica al contribuente di questionari o inviti a comparire per esibire la documentazione utile al controllo nei suoi confronti. In ogni caso, comunque, si applicano le stesse preclusioni probatorie che si attivano automaticamente in caso di omessa tempestiva esibizione, da parte del contribuente, dei documenti richiesti dal Fisco.

Sia in caso di verifica presso il contribuente sia in ufficio, infatti, se i funzionari/militari operanti richiedono specificamente un documento, al contribuente che ne abbia interesse conviene esibirlo prontamente se non vuole rischiare di vedersi respinta la possibilità di utilizzarlo nella fase amministrativa e anche in quella successiva contenziosa.

Le norme

L’articolo 52 del Dpr 633/1972 (richiamato ai fini delle imposte dirette dall’articolo 33, comma 1, Dpr 600/1973) disciplina gli accessi, le ispezioni e le verifiche del Fisco. Al suo quinto comma è stabilito che i libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa; per rifiuto di esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture oppure la loro sottrazione al momento dell’ispezione.

Analogamente, l’articolo 32 Dpr 600/1973, che disciplina i poteri degli uffici, al quarto comma prevede che le notizie e i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa; di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta (si veda per l’Iva l’articolo 51, comma 5, Dpr 633/1972 e per il Registro l’articolo 53-bis, Dpr 11/1986).

Solo richieste specifiche

In base a tali norme, quindi, sono necessarie due condizioni affinché i documenti richiesti dal Fisco e non esibiti dal contribuente diventino successivamente inutilizzabili:

una specifica richiesta da parte dei funzionari preposti, non potendosi includere generiche richieste documentali quali «tutta la documentazione utile al controllo», ovvero «ogni altro documento fiscale relativo al periodo d’imposta controllato» (Cassazione 7978/2014, 1344/2010);

l’avvertenza nella richiesta formale scritta delle conseguenze in caso di inadempimento, cioè che il documento non esibito tempestivamente non potrà più essere preso in considerazione.

Secondo il consolidato orientamento di legittimità, il divieto ex articolo 32 di utilizzazione in sede contenziosa dei documenti non prodotti in via amministrativa va letto alla luce dei principi di collaborazione e buona fede in senso oggettivo, espressamente enunciati dall’articolo 10 dello Statuto del contribuente, ai quali devono conformarsi sia i contribuenti che l’amministrazione finanziaria. Pertanto, non è solo il contribuente che deve collaborare, ma anche l’ufficio è tenuto a ispirare la propria condotta a questi principi (Cassazione 6792/2019, 8944 e 4001 del 2018, 27069/2016).

La negligenza può bastare

Se la Cassazione è pacifica sui punti sin qui illustrati, i giudici di legittimità sono invece spaccati sull’ambito di operatività delle preclusioni probatorie in oggetto.

Secondo le Sezioni unite e un cospicuo filone formatosi successivamente (si veda la scheda in pagina), l’inutilizzabilità della documentazione non prontamente esibita dal contribuente su richiesta dei verificatori si determina soltanto quando la mancata esibizione sia stata determinata da un’azione cosciente e volontaria del contribuente atta a impedire il controllo, ovvero quando, in sostanza, vi sia dolo.

Di tale impostazione ne è riprova un recente arresto con cui i giudici hanno stabilito che non possono ritenersi operanti le preclusioni probatorie, qualora l’omessa presentazione della documentazione richiesta dal Fisco sia dipesa dalla mancata consegna della stessa al contribuente da parte di un terzo che ne era in possesso (Cassazione 8645/2019).

Diversamente, in base a un altro orientamento di legittimità, altrettanto corposo, l’inutilizzabilità successiva della predetta documentazione richiesta dal Fisco e non esibita dal contribuente si verifica anche qualora l’omessa esibizione sia stata causata da negligenza, imprudenza o imperizia nella conservazione dei documenti.

Fonte “I sole 24 ore”

Il sostituito non risponde per le ritenute operate dal sostituto ma non versate

Nel caso in cui il sostituto ometta di versare le somme per le quali ha però operato le ritenute d’acconto il sostituito non è tenuto in solido in sede di riscossione, perché la responsabilità solidale prevista dall’articolo 35 del Dpr 602 del 1973 è espressamente condizionata alla circostanza che non siano state effettuate le ritenute.

 

 Cassazione, sentenza SS.UU. 10378/2019

La bancarotta documentale non sempre è imputabile all’ex amministratore

In caso di avvicendamento dell’amministratore prima del fallimento l’eventuale reato di bancarotta documentale può emergere soltanto se viene provata l’immistione nella gestione del vecchio amministratore. Infatti soltanto il reato di bancarotta impropria resta proprio dell’amministratore che non può così, in ragione della qualifica ricoperta, rispondere anche della tenuta della contabilità per un periodo successivo alla dismissione della carica. A meno che non venga provato che abbia continuato ad ingerirsi nell’amministrazione della società, ovvero che, in qualche modo, abbia concorso al compimento delle condotte illecite poste in essere dal nuovo amministratore.

Fonte “Il sole 24 ore”

Cassazione sentenza 15988/2019

Lo stipendio non è pignorabile: stop al sequestro preventivo

Il sequestro penale di stipendi e pensioni è subordinato alle limitazioni previste in caso di pignoramento civile. A precisarlo è la Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 14606/2019.

A un imprenditore indagato per omesso versamento Iva venivano sequestrate preventivamente somme depositate sul proprio conto.

L’interessato, ritenendo applicabile le regole del codice di procedura civile sul pignoramento, ne chiedeva la restituzione evidenziando che si trattava di stipendi. Infatti a norma dell’articolo 545 del codice di procedura civile le somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro, comprese quelle dovute per licenziamento e pensione, nel caso di accredito sul conto intestato al debitore, possono essere pignorate, per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento. Se invece l’accredito è stato eseguito alla data del pignoramento o successivamente, le somme possono essere pignorate nei limiti previsti da altre norme (variabili da un quinto alla metà). La richiesta di dissequestro era respinta e l’interessato ricorreva per Cassazione.

Evidenziava, tra l’altro, che il divieto di sequestro delle somme in argomento costituiva regola generale dell’ordinamento processuale, finalizzata alla tutela di un diritto fondamentale garantito dall’articolo 2 della Costituzione. Detto limite opererebbe non soltanto in caso di sequestro presso il datore di lavoro obbligato alla corresponsione, ma anche in caso di versamento con accredito bancario, senza che possa opporsi l’intervenuta “confusione” nel patrimonio dell’interessato allorquando – come nella specie – fosse stata fornita prova documentale della provenienza.

La Cassazione ha accolto il ricorso rilevando che nonostante l’articolo 545 faccia riferimento al pignoramento, le regole previste devono ritenersi espressione di un principio generale sicché deve farsene applicazione anche con riguardo al sequestro penale e, segnatamente, quello preventivo.

Secondo i giudici, non sarebbe ragionevole ritenere in questo campo applicabile l’opposto principio secondo cui, una volta versati sul conto del debitore gli emolumenti si confondono nel patrimonio perdendo la loro natura alimentare.

La sentenza enuncia così il principio di diritto secondo cui il sequestro preventivo non può essere eseguito su somme corrispondenti al triplo della pensione sociale giacenti sul conto del destinatario della misura, se tali somme sono riconducibili a emolumenti corrisposti nell’ambito del rapporto di lavoro o d’impiego.

Fonte “Il sole 24 ore”

Esteso il patteggiamento con debito fiscale non estinto

Possibilità ampliata ai reati di dichiarazione infedele e omessa presentazione
La divergenza delle cause di non punibilità resta il nodo da sciogliere
È legittimo il patteggiamento della pena per i reati di dichiarazione infedele, omessa presentazione e occultamento di scritture contabili anche senza aver estinto il debito tributario. A enunciare questo innovativo principio di diritto è la Corte di cassazione, terza sezione penale con la sentenza 10800/2019
Un imprenditore era imputato di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi e dell’Iva e di occultamento di scritture contabili.
Il tribunale, previo consenso del Pm, lo ammetteva al patteggiamento. Avverso tale decisione la procura generale proponeva appello per Cassazione lamentando l’inosservanza dell’articolo 13 bis del decreto legislativo 74/2000, in base al quale l’applicazione della pena concordata in base all’articolo 444 del Codice di procedura penale può essere chiesta dalle parti solo dopo l’estinzione dei debiti tributari con il pagamento delle sanzioni amministrative e degli interessi, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento.
Nella specie questa condizione non si era verificata, per cui il pubblico ministero non avrebbe dovuto prestare il proprio consenso al patteggiamento, fermo restando che il tribunale avrebbe dovuto, d’ufficio, verificare la ritualità della richiesta del rito alternativo
La Cassazione ha rigettato il ricorso della Procura affermando un innovativo principio di diritto.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto ribadito che la condizione per accedere al patteggiamento per i reati tributari è costituita dal preventivo e integrale pagamento del debito, delle sanzioni e degli interessi, nonché dal ravvedimento operoso. Tale regola generale, prevista dall’articolo 13-bis del Dlgs 74/2000, subisce tuttavia alcune eccezioni e, segnatamente, la possibilità comunque di usufruire della causa di non punibilità in caso di integrale pagamento del debito. Si tratta in particolare dei seguenti illeciti:
omesso versamento delle ritenute, dell’Iva e indebita compensazione di crediti di imposta spettanti, nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga entro l’apertura del dibattimento;
omessa presentazione della dichiarazione ovvero presentazione infedele se il debito tributario, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa sia avvenuto entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, e tali adempimenti siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di controlli, attività di accertamento o procedimenti penali.
In passato la Cassazione (sentenza 38684/2018) aveva condivisibilmente ritenuto che per i reati di omesso versamento non valeva, ai fini del patteggiamento, la previsione dell’integrale pagamento del debito in quanto, ove fosse avvenuto, l’imputato conseguiva la non punibilità.
In sostanza se il contribuente avesse pagato il dovuto entro l’apertura del dibattimento non era più punibile e pertanto doveva dedursi che per accedere al patteggiamento il pagamento non fosse necessario. Ora i giudici, estendono tale principio anche ai delitti di omessa presentazione e dichiarazione infedele e quindi il pagamento dei tributi derivanti dalla commissione di tali reati, poiché fa conseguire la non punibilità, non può essere richiesto come condizione per il patteggiamento.
La pronuncia, da accogliere con favore, desta tuttavia qualche perplessità. La causa di non punibilità per i delitti di omessi versamenti e quelli dichiarativi non coincide. In sostanza mentre per i primi, estinguendo il debito precedentemente all’apertura del dibattimento, il contribuente consegue la non punibilità e quindi non ha senso subordinare il patteggiamento alla medesima condizione, per i reati dichiarativi sono necessari adempimenti antecedenti all’apertura del dibattimento (presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della successiva, mancata conoscenza dell’avvio di attività di controllo). Ne consegue che l’imputato può estinguere il debito ma non ottenere la non punibilità perché ad esempio ha pagato successivamente alla conoscenza dell’attività di controllo ma prima del dibattimento.
Per queste ragioni potrebbe ammettersi il patteggiamento solo a condizione del pagamento del debito, atteso che, a differenza degli omessi versamenti, tale adempimento non fa scattare automaticamente la non punibilità.
Infine la Cassazione ha chiarito che per i reati di occultamento e distruzione delle scritture contabili il patteggiamento deve essere accordato senza alcun pagamento del debito in quanto si tratta di illeciti che di per sé non determinano un debito di imposta.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Antonio Iorio

È autoriciclaggio il riscatto polizza con reinvestimento

La Corte di cassazione continua a precisare le condotte ed i requisiti necessari per individuare il reato di autoriciclaggio (articolo 648, 1-ter del Codice penale) configurando tale delitto anche per chi riscatta una polizza assicurativa con denaro regolarizzato attraverso il cosiddetto scudo fiscale per poi sottoscriverne altre due sempre intestate a suo nome.

Tale denaro era di provenienza illecita poiché secondo la tesi dell’accusa era stato distratto dal patrimonio di una società di capitali.

Secondo la seconda sezione penale della Cassazione (sentenza 9681/19 depositata ieri) anche il disinvestimento di una polizza ed il successivo reinvestimento delle medesime somme costituisce reato di autoriciclaggio in quanto è necessario valutare la reale natura dell’operazione relativa all’acquisto di una polizza vita, verificando la specifica struttura del contratto ed individuando la causa specifica dello stesso, procedendo pertanto ad una articolata analisi del contratto.

La Cassazione conferma così la motivazione del giudice di merito che aveva considerato l’operazione un “meccanismo” idoneo ad integrare un sistema di reinvestimento, poiché l’utilizzo del denaro, anche alla luce dell’operazione segnalata come sospetta ai fini antiriciclaggio dalla Banca d’Italia, non poteva essere considerato come diretto godimento dell’autore del reato e quindi solo per uso personale, che avrebbe escluso la punibilità.

Inoltre l’intera condotta è stata considerata idonea a configurare il delitto poiché l’operazione di disinvestimento e successivo investimento in due distinte polizze avrebbe reso possibile la dissimulazione dell’origine delle somme.

Si è infatti considerata tale attività idonea anche solo ad “allontanare” in modo mediato la correlazione tra i due controvalori trasferiti e la consistenza totale originaria della somma di provenienza illecita.

Così facendo la Suprema corte ha richiamato quindi il suo orientamento recente in tema di riciclaggio ed autoriciclaggio rammentando che non soltanto sono punibili quelle operazioni che sono volte ad impedire in modo definitivo l’accertamento ma anche quelle che rendono difficile l’accertamento della provenienza illecita del denaro.

Pertanto è stato stabilito il precedente secondo cui l’operazione avente oggetto l’acquisto con la medesima somma di due polizze diverse e di diverso importo segnalate come operazioni sospette dalla Banca d’Italia che le ha quindi valutate come tali, sia una condotta idonea ad ostacolare concretamente l’origine illecita delle risorse finanziarie dell’indagato giustificando quindi il sequestro preventivo effettuato su tali somme di provenienza delittuosa.

Fonte “Il sole 24 ore”

Niente autorizzazione per acquisire i dati archiviati dal professionista

Non è necessaria una specifica autorizzazione del procuratore della Repubblica per acquisire i dati archiviati nel Pc del professionista, se al momento del back up il personale dello studio non si è opposto. Non si tratta infatti di un’apertura coattiva, presumendosi la collaborazione del personale presente, a nulla rilevando l’assenza del professionista. A fornire questa rigorosa interpretazione è la Corte di cassazione con l’ordinanza 6486 depositata ieri.

La Guardia di Finanza accedeva in uno studio odontoiatrico, adibito anche ad abitazione del professionista, e dal Pc acquisiva radiografie di clienti poste successivamente a base della rettifica di maggiori compensi. L’accertamento veniva impugnato e, in presenza di sentenza sfavorevole della Ctr, il medico ricorreva per cassazione.

La difesa lamentava, tra l’altro, che i giudici avevano ritenuto sufficiente l’autorizzazione del procuratore rilasciata per l’accesso nei locali adibiti ad uso promiscuo anche per l’acquisizione dei predetti dati dal Pc. Inoltre, non era stato opposto il segreto professionale del dentista, in quanto il professionista era assente al momento delle operazioni.

La Corte ha rigettato il ricorso. Secondo i giudici, in assenza di opposizione del segreto professionale, deve ritenersi legittima l’acquisizione della copia dell’hard disk del Pc, pur in assenza della specifica autorizzazione prevista dall’articolo 52, comma 3 del Dpr 633/72. In base a tale disposizione, il procuratore o l’autorità giudiziaria più vicina devono autorizzare durante l’accesso l’esecuzione di perquisizioni personali, apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili, nonché l’esame di documenti e notizie per i quali è eccepito il segreto professionale.

In questo caso, non era necessaria la presenza del contribuente (che lamentava di non aver potuto opporre il segreto professionale) e in ogni caso, in occasione del verbale di constatazione, egli non aveva sollevato alcuna eccezione al riguardo.

Inoltre, il back up dei dati archiviati nel Pc dello studio era stato eseguito dai militari con la collaborazione del personale dello studio presente e pertanto non si poteva considerare un’apertura coattiva che imponeva l’autorizzazione del magistrato.

Da ultimo viene evidenziato che, in ogni caso, l’illegittima acquisizione di dati e notizie da parte de verificatori comporta la loro inutilizzabilità solo ove siano violati diritti costituzionali.

Le rigorose conclusioni della Suprema Corte suggeriscono alcuni spunti difensivi in occasione di accessi e verifiche. Innanzitutto, è opportuno contestare immediatamente le eventuali violazioni alle regole procedurali che si ritengono commesse dai verificatori o, comunque, in sede di redazione del verbale di constatazione, laddove il contribuente ha il diritto di rilasciare dichiarazioni. In difetto, diventa difficile sostenere a distanza di anni (che normalmente intercorrono tra la l’accesso e il contenzioso) che non erano stati osservati determinati adempimenti.

Inoltre, nel momento in cui il professionista sia assente e deleghi altre persone a presenziare alle operazioni dei verificatori, è necessario che queste assumano per suo conto le idonee iniziative difensive.

Infine, da segnalare il consolidato orientamento in base al quale l’inutilizzabilità ai fini tributari, dei dati e delle notizie irritualmente acquisite da verificatori, scatta soltanto se vengano violati diritti costituzionalmente garantiti (in genere il riferimento è alla violazione di domicilio). In questo caso, sono state acquisite informazioni sullo stato di salute dei pazienti che forse richiedevano una maggiore tutela da parte dei giudici di legittimità.

 Fonte “Il sole 24 ore”

La contabilità in nero costituisce un valido elemento indiziario

Nell’ambito dell’accertamento sulle imposte sui redditi, la contabilità in nero, costituita da appunti personali e da informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’articolo 39 del Dpr 600/1973 in quanto, nella nozione di scritture contabili disciplinate dall’articolo 2709 e successivi del Codice civile, devono ricomprendersi tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore e il risultato economico dell’attività svolta, competendo poi al contribuente l’onere di fornire un’adeguata prova contraria. A tale conclusione è giunta la Cassazione attraverso l’ordinanza 3738/2019 (clicca qui per consultarla ).

Nel corso di una verifica tributaria può accadere che gli accertatori si imbattano in documenti fiscali dai quali sia possibile evincere la sussistenza di una contabilità parallela, dalla quale si comprenda che il reddito dichiarato dal soggetto verificato non corrisponde a quello effettivamente prodotto.

La Suprema corte, con la sentenza 26141/2016, ha in passato affermato la legittimità dell’accertamento induttivo in presenza di una contabilità in nero, in quanto la stessa rappresenta un valido elemento indiziario dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

È tuttavia necessario individuare in quale ambito accertativo si muovono i verificatori in presenza di documentazione parallela ovvero se il rinvenimento di documenti non ufficiale renda inattendibile la contabilità del contribuente (accertamento induttivo puro o extracontabile (ex articolo 39 comma 2) o se, invece, la documentazione extracontabile costituisca elemento per una ricostruzione presuntiva del reddito, a condizione che un riscontro con la contabilità ufficiale abbia fornito a tale documentazione i requisiti di gravità, precisione e concordanza (accertamento analitico-induttivo, ex articolo 39 comma 1 lettera d).

Talora la Cassazione ha affermato (sentenza 17952/2013) che il ritrovamento da parte della Guardia di Finanza di una contabilità parallela a quella ufficialmente tenuta dalla società sottoposta a verifica fiscale, legittima di per sé il ricorso all’accertamento induttivo-extracontabile in quanto si tratta di dati e notizie da cui possono essere desunte omissioni o false o inesatte indicazioni atteso che, fermi restando i limiti di efficacia delle scritture contabili delle imprese soggette a registrazione, anche le altre scritture provenienti dall’imprenditore possono operare come prova.

Tuttavia pare maggiormente condivisibile la tesi sostenuta dalla Suprema corte (sentenza 22465/2015) la quale, pur riconoscendo piena validità alla documentazione extracontabile, perfettamente idonea alla ricostruzione presuntiva dell’imponibile, ritiene che una contabilità in nero non legittima di per sé, a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso all’accertamento induttivo all’articolo 39 comma 2), occorrendo pur sempre la ricorrenza di «omissioni, false, inesatte indicazioni» o di «irregolarità formali», così «gravi, numerose e ripetute» da consentire all’ufficio di prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze delle scritture contabili.

Pertanto l’Agenzia, in presenza di una contabilità parallela, è tenuta a procedere attraverso un accertamento analitico-induttivo ex articolo 39, comma 1, lettera d) in quanto, tale documentazione, possiede i requisiti tipici della presunzione grave, precisa e concordante (Cassazione, sentenza 26141/2016 e 4168/2001).

 Fonte “Il sole 24 ore”

Black list, sul raddoppio dei termini sempre meno spazio alla retroattività

La Cassazione dice ancora no all’applicazione, prima del 2009, della presunzione di evasione per le attività finanziarie detenute nei paradisi fiscali e non dichiarate. È quanto stabilito dall’ordinanza 5471 dello scorso 25 febbraio , che consolida l’orientamento già invalso nella giurisprudenza di legittimità (sentenza 2662/2018) su una questione giuridica – ancora – oggetto di numerosi contenziosi pendenti.
I fatti riguardavano l’accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, per gli anni 2005-2008, di un maggior reddito in capo ad una persona fisica residente in Italia che non aveva dichiarato le attività detenute all’estero. La contestazione era fondata sull’applicazione (retroattiva) della presunzione introdotta dall’articolo 12, comma 2, Dl 78/2009. La norma prevede che gli investimenti e le attività finanziarie detenuti, negli Stati a fiscalità privilegiata, in violazione dei relativi obblighi di dichiarazione (nel quadro RW della dichiarazione dei redditi) si presumono costituiti, salvo prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. In tal caso, le sanzioni, i termini di decadenza per le violazioni in materia di monitoraggio fiscale e i termini per l’accertamento dei redditi connessi alle attività estere sono raddoppiati.
Sin dall’entrata in vigore (1 luglio 2009) della citata presunzione è scaturito un contrasto interpretativo circa la sua possibile applicazione retroattiva. Secondo l’amministrazione finanziaria, la norma avrebbe carattere processuale e, come tale, sarebbe applicabile anche in relazione ai periodi antecedenti il 2009. Secondo una diversa interpretazione, accolta dalla prevalente giurisprudenza di merito, la nuova presunzione inciderebbe sui profili sostanziali del rapporto tributario e, pertanto, sarebbe applicabile solo per il futuro.

L’intervento chiarificatore della Suprema Corte fissa ora alcuni principi condivisibili e, si spera, definitivi:

a) l’articolo 12, comma 2, Dl 78/2009, ha previsto, rispetto alla disciplina previgente, una più favorevole presunzione legale a beneficio del fisco;

b) nell’ordinamento italiano, le norme in tema di presunzioni sono collocate – non a caso – nel Codice civile, tra quelle sostanziali, e non nel codice di rito;

c) sicché anche alla norma in esame non può che attribuirsi natura sostanziale e non processuale.

Il meccanismo presuntivo incide, infatti, sulla ripartizione dell’onere della prova tra contribuente e amministrazione finanziaria perché consente a quest’ultima di ravvisare una maggiore capacità contributiva in capo al soggetto detentore di attività offshore non dichiarate.
Peraltro, una differente interpretazione risulterebbe in contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, potendo pregiudicare l’effettività del diritto di difesa, con riferimento, ad esempio, alla scelta del contribuente di non conservare documentazione riguardante periodi ante 2009. Tale scelta, compiuta in maniera legittima prima dell’introduzione della presunzione in esame, limiterebbe irragionevolmente la prova contraria in caso di accertamento “attivato” dopo l’entrata in vigore della norma.

Fonte “Il sole 24 ore”

Rimborso IVA. Sufficiente l’indicazione in dichiarazione

Cassazione Tributaria, ordinanza depositata il 28 febbraio 2019

Autore: Paola Mauro
In materia di IVA, la corretta indicazione del credito d’imposta nella dichiarazione manifesta la volontà di chiedere il rimborso e fa operare la prescrizione decennale.

È quanto emerge dall’ordinanza n. 5938/2019 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione.

Il caso.Il contribuente ha impugnato il provvedimento di diniego sull’istanza di rimborso IVA, relativa a un credito esposto in dichiarazione per l’anno 2004 ai quadri “VL” ed “RX”.

Nel caso di specie è mancata la presentazione del modello VR e l’Agenzia delle Entrate ha contestato la decadenza, avendo il contribuente presentato domanda di rimborso per la prima volta oltre il termine di due anni dalla data di presentazione della dichiarazione per il 2004.

Ebbene, la Commissione Tributaria Provinciale di Caserta, interpellata dal contribuente, a differenza dell’Ufficio, ha ritenuto non applicabile il termine biennale ex art. 21 D.lgs. n. 546/1992 e tale conclusione è stata avallata dalla Commissione Tributaria Regionale per la Campania.

La C.T.R. ha, infatti, richiamato la giurisprudenza di legittimità, secondo cui, una volta manifestata con la dichiarazione IVA la volontà di recuperare il credito, il diritto al rimborso non è più assoggettabile al termine biennale di decadenza, bensì a quello ordinario di prescrizione decennale, ai sensi dell’art. 2946 cod. civ., pur in assenza di una ulteriore domanda preordinata a dare inizio al procedimento di esecuzione del rimborso.

A questo punto l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso presso la Corte di Cassazione, ma l’iniziativa non ha avuto successo.

Principio di diritto. I giudici della Sezione Tributaria della Suprema Corte, come già avvenuto in precedenti occasioni, hanno affermato che:

  • «in tema di rimborsi dell’Iva, la compilazione del quadro Rx del modello di dichiarazione unica, nel campo attinente al credito di cui si chiede il rimborso, e legittimamente considerata alla stregua di manifestazione di volontà di ottenere il rimborso; tale manifestazione di volontà identifica, invero, ai sensi del dpr 633/72, articolo 38 bis, la domanda di rimborso fatta nella dichiarazione, e, ancorché non accompagnata dalla presentazione del modello Vr ai fini della determinazione dell’importo richiesto a rimborso nella dichiarazione Iva, sottrae la fattispecie al termine biennale di decadenza sancito, in via residuale, dal decreto legislativo 546/92 articolo 21».

La sentenza impugnata ha correttamente applicato questo principio di diritto.

Ne è conseguito il rigetto del ricorso erariale, senza condanna dell’Ufficio alle spese, posto che il contribuente non ha svolto attività difensiva.

 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

L’avviso bonario è un atto impositivo La Cassazione riapre la partita sulle liti

Due pronunce della Corte contro la posizione espressa dalle Entrate
Per l’Agenzia le cartelle hanno natura «liquidatoria»
Le cartelle di pagamento emesse in base agli articoli 36-bis, Dpr 600/73, e 54-bis, Dpr 633/72, sono atti impositivi e pertanto le relative controversie possono essere definite in forza dell’articolo 16, legge 289/2002. La precisazione, contenuta in due recenti sentenze della Corte di cassazione (23269/2018 e 1158/2019) è di grande attualità, con riferimento alla definizione delle liti pendenti, di cui all’articolo 6 del Dl 119/2018. Sia il precedente del 2002, esaminato dalla Corte, che la disciplina vigente, infatti, sono imperniati sulla nozione di “atti impositivi”.
Secondo la tesi dell’agenzia delle Entrate, espressa nelle risposte a Telefisco 2019, le controversie in materia di avvisi bonari non possono essere definite, poiché hanno ad oggetto atti che hanno natura meramente liquidatoria. Il concetto è stato rafforzato dalle istruzioni alla compilazione del modello di istanza, recentemente approvate. Vi si afferma infatti che non possono essere condonate le liti relative, tra l’altro, a ruoli e cartelle di pagamento.
La Cassazione ha in proposito osservato che le cartelle emesse in sede di liquidazione delle dichiarazioni rappresentano il primo atto ricevuto dal contribuente, nel quale si manifesta la pretesa tributaria. Per questo motivo, le stesse sono impugnabili per vizi propri e dunque rientrano nella nozione di atti impositivi (sentenza 1158/2019).
Nel precedente del 2018 richiamato dalla pronuncia di quest’anno, l’argomentazione adottata dalla Corte è ancor meglio esplicitata. Anche in quel caso, la controversia riguardava una cartella ex articolo 54-bis del Dpr 633/72. Il merito della questione, tuttavia, atteneva al mancato riconoscimento dei crediti Iva rivenienti da dichiarazioni omesse negli anni precedenti. Nell’impugnare in origine la cartella, il contribuente aveva allegato la documentazione comprovante la spettanza del credito contestato. Nelle more del contenzioso, era stata presentata istanza di definizione, ai sensi dell’articolo 16, legge 289/2002. L’istanza era stata tuttavia rigettata dalle Entrate, in quanto per l’appunto la procedura non riguardava un atto impositivo. Il diniego di definizione veniva infine impugnato dal contribuente.
Il giudice di legittimità, nella sentenza 23269/2018, ha ribadito il seguente importante criterio di diritto: «è di per sé irrilevante la circostanza che la cartella contenga la liquidazione di imposte dichiarate e non versate, una volta che, da un lato, si tratta del primo atto con cui l’Amministrazione ha esercitato la propria pretesa nei confronti della contribuente, e, dall’altro, quest’ultima ha instaurato una controversia effettiva, facendo valere, nell’impugnare la cartella, il proprio diritto alla emendabilità, in sede contenziosa, della dichiarazione».
Ne consegue che per stabilire la condonabilità delle cartelle occorre guardare non solo al contenuto delle stesse ma anche ai motivi di ricorso. Sotto il primo profilo è certo che se dalla liquidazione della dichiarazione emerge una rettifica dei dati dichiarati, la relativa controversia è definibile. Inoltre, in tutti i casi in cui il contribuente pone in discussione la stessa esistenza della pretesa impositiva deve ugualmente ammettersi la facoltà di definizione. Si pensi ad esempio all’ipotesi in cui si contesti la decadenza del potere del Fisco, seppure riferita ad un recupero di imposte dichiarate e non versate. O anche, come nei casi decisi dalla Cassazione, alla eventualità che il soggetto passivo in sede di impugnazione chieda di correggere i dati dichiarati. In proposito, vale ricordare come, ai sensi dell’articolo 2, comma 8-bis, Dpr 322/98, il contribuente abbia sempre il diritto di far valere errori commessi a suo danno anche direttamente in sede giudiziale.
Le precisazioni dei giudici , che paiono consolidate nella lettura delle sentenze citate, ampliano dunque in modo significativo la sfera operativa della chiusura delle liti pendenti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”
Luigi Lovecchio

Puniti gli omessi versamenti con indebito utilizzo di crediti

Linea dura della Cassazione sulle indebite compensazioni: commette il reato chi utilizza un credito Iva fittizio in detrazione delle liquidazioni periodiche successive: la norma, infatti, non circoscrive il delitto alla sola presentazione del modello F24, tanto meno alla sola compensazione orizzontale, ma punisce tutte le condotte volte all’omesso versamento di imposte attraverso l’indebito utilizzo di crediti. A fornire questo principio è la Suprema corte con la sentenza n. 5934 depositata ieri. La vicenda traeva origine da un rilevante credito Iva ritenuto inesistente, inserito nella dichiarazione del 2002 e riportato negli anni successivi. Il credito veniva utilizzato in detrazione dei debiti Iva delle diverse liquidazioni. Era quindi contestata l’indebita compensazione prevista dall’articolo 10 quater del Dlgs 74/2000. Gli imputati, condannati in appello, ricorrevano in Cassazione lamentando, in sintesi, che il comportamento adottato riguardasse la detrazione Iva e non un’indebita compensazione, in quanto nessun modello F24 era stato presentato. I giudici di legittimità hanno ricordato che il reato in questione è configurabile in caso di compensazione sia orizzontale sia verticale. L’articolo 10 quater punisce, infatti, i comportamenti illeciti, quali l’utilizzo improprio della compensazione, commessi per omettere il versamento dell’imposta. L’articolo 17 del Dlgs 241/97, richiamato espressamente dalla norma penale non fa riferimento al modello F24, ma, più in generale, all’utilizzo di crediti per il pagamento di debiti. Ne consegue che la detrazione Iva diviene sostanzialmente un’operazione di compensazione, non tanto perché i due istituti (detrazione e compensazione) sono omogenei, ma perché il risultato conseguito è il medesimo: in entrambi i casi, infatti, il contribuente evita il pagamento di imposte grazie ad un credito nei confronti dello Stato. A prescindere, quindi, dalla procedura formale seguita dal contribuente (indicazione in dichiarazione o modello F24), l’utilizzo indebito di un credito per il pagamento di un debito tributario rientra nel precetto penale.

La Cassazione ha altresì escluso che la contestazione possa configurare infedele dichiarazione (articolo 4 Dlgs 74/00): in questo delitto, infatti, il contribuente esprime il mendacio nella dichiarazione annuale, mentre nell’indebita compensazione avvenuta nella specie, il riporto negli anni successivi del credito Iva ha consentito l’omesso versamento di imposte. Da segnalare che le Entrate nella risoluzione 36/18 ha ritenuto che per l’indicazione in dichiarazione di un credito inesistente, si applica la sanzione per infedele dichiarazione e non per indebita compensazione. Ne consegue così che la medesima violazione, che ai fini tributari non viene sanzionata per indebita compensazione, ai fini penali costituisce delitto.

Fonte “Il sole 24 ore”

La notifica del ricorso chiude la lite con il 5%

Le Entrate a Telefisco: se l’avviso è pervenuto entro il 19 dicembre 2018
A Telefisco 2019 le Entrate hanno chiarito alcuni dubbi sulla definizione delle liti pendenti in Cassazione. Il Dl fiscale, in caso di vittoria del contribuente in entrambi i giudizi di merito, ha previsto la chiusura della lite con il pagamento del solo 5% delle imposte pretese. Circa il periodo temporale di riferimento, la norma lasciava qualche dubbio parlando dei ricorsi «pendenti innanzi alla Corte di cassazione», non chiarendo se fosse sufficiente la pendenza dei termini per l’impugnazione, la notifica del ricorso o la costituzione in giudizio da parte dell’Avvocatura dello Stato. L’Agenzia ha precisato che per definire la lite con il 5%, oltre alla soccombenza dell’Ufficio in tutti i precedenti gradi, occorre la notificazione del ricorso per cassazione entro il 19 dicembre 2018. Quindi beneficiano del pagamento del 5% delle imposte pretese, senza interessi e sanzioni, chi ha sentenza favorevole in Ctp e in Ctr e ha già ricevuto la notifica del ricorso in Cassazione da parte dell’Avvocatura entro il 19 dicembre 2018. Conseguentemente, chi si trova nella medesima situazione, ma ha ricevuto il ricorso dell’Avvocatura dal 20 dicembre in poi, potrebbe definire la lite con il pagamento del 15%.
Nel caso invece di giudizi intermedi in entrambi i gradi di merito, e ricorso pendente in cassazione, la definizione per la parte che ha dato ragione al contribuente va effettuata con il pagamento del 15% (resta fermo il 100% sulla quota di soccombenza).
Il momento rilevante per l’individuazione del dovuto coincide con il 24 ottobre 2018 e pertanto pronunciamenti successivi sono irrilevanti. L’unica eccezione attiene la decisione della Cassazione senza rinvio, una pronuncia definitiva che pregiudica la possibilità di definizione. La norma, infatti, consente di aderire alla sanatoria solo a condizione che alla data di presentazione della domanda non sia intervenuta pronuncia definitiva. In ogni caso, tale ipotesi può riguardare solo una decisione della Cassazione, poiché per le sentenze di merito (Ctp e Ctr) i termini di impugnazione sono automaticamente sospesi, con la conseguenza che, nelle more della presentazione della domanda, non possono divenire definitive.
Sussiste ancora qualche perplessità per l’importo da versare in caso di sentenza di rinvio della Cassazione. La norma dispone che le controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte l’Agenzia, aventi ad oggetto atti impositivi, pendenti in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello in Cassazione e anche a seguito di rinvio, possono essere definite con il pagamento del 100% del valore di lite. Ne consegue così che anche per il rinvio, secondo la regola generale, è dovuto il 100%. Il dubbio sorge perché la relazione al Dl 119/2018 precisava che con una sentenza della Cassazione con rinvio, la controversia si considera pendente in primo grado senza decisione. Il nuovo comma 1-bis ha previsto che per i ricorsi pendenti in primo grado, la definizione possa avvenire con il pagamento del 90% (non più 100%) del valore della controversia. Occorre comprendere se, in caso di rinvio, sia dovuto il 100% o il 90%.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Antonio Iorio

Amministratori di condominio, rendiconto da inviare con gli allegati

Amministratori attenti : con il rendiconto non si scherza. Ecco un caso e una recente pronuncia della Cassazione che toglierà il sonno a qualcuno.

Un condomino impugna il consuntivo della trascorsa gestione ordinaria, sostenendo che l’amministratore non avesse allegato all’avviso di convocazione dell’assemblea il registro contabile, il riepilogo finanziario e la nota esplicativa della gestione.

Nei due gradi di giudizio di merito gli era stato dato torto: era infatti pacifico che l’amministratore, prima dell’assemblea, avesse posto a disposizione dei condomini, presso il suo studio, tutta la documentazione condominiale «per eventuale consultazione».

In Cassazione, però, avviene un totale cambiamento di rotta a suo favore.

La Corte di cassazione, infatti, con l’ordinanza 33038 del 20 dicembre 2018 (sezione II civile, consigliere relatore Antonio Scarpa) ha statuito che, in base all’articolo 1130 bis del Codice civile (introdotto dalla legge 220 del 2012, entrata in vigore il 18 giugno 2013), se il rendiconto non è composto da registro, riepilogo e nota, parti inscindibili di esso, e i condòmini non risultino perciò informati sulla reale situazione patrimoniale del condominio quanto ad entrate, spese e fondi disponibili, la delibera assembleare di approvazione è annullabile. E ciò indipendentemente dal possibile esercizio del concorrente diritto spettante ai condòmini di prendere visione ed estrarre copia dei documenti giustificativi di spesa presso lo studio dell’amministratore.

Infatti, secondo la Suprema Corte, il registro di contabilità, il riepilogo finanziario e la nota sintetica esplicativa della gestione, che compongono il rendiconto, perseguono certamente lo scopo di soddisfare l’interesse del condomino a una conoscenza concreta dei reali elementi contabili esposti nel bilancio consuntivo.

Solo in tal modo verranno dissipate le insufficienze, le incertezze e le carenze di chiarezza circa i dati del rendiconto e verrà consentito in assemblea l’espressione di un voto cosciente e meditato.

Pertanto, il consuntivo inviato ai condòmini in previsione dell’assemblea dove sarà discusso e approvato deve contenere anche il registro di contabilità, il riepilogo finanziario e la nota sintetica esplicativa della gestione.

In mancanza di tutto ciò, ciascun condomino, dopo aver esperito la prevista procedura di mediazione (che sospende i termini), può impugnare entro trenta giorni dall’assemblea (se presente personalmente o per delega) oppure entro trenta giorni dal ricevimento del relativo verbale (se assente), la delibera di approvazione del consuntivo in questione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Valore ridotto alla comunicazione di notifica per posta

Se il contribuente contesta la mancata ricezione della raccomandata informativa, relativa alla precedente notifica di un atto impositivo, l’amministrazione non può limitarsi a esibire la cartolina compilata dall’ufficiale giudiziario e recante il numero di spedizione. Tale annotazione, infatti, non beneficia della fede privilegiata poiché il notificatore, essendosi avvalso del servizio postale, non può certificare fatti non avvenuti in sua presenza.

A fornire questo principio è la Corte di cassazione con l’ ordinanza n. 1699 che è stata depositata ieri.

Un contribuente impugnava un estratto di ruolo eccependo, tra i diversi motivi, anche un vizio di notifica della cartella di pagamento stante l’assenza della raccomandata informativa.

Entrambi i giudici di merito confermavano la regolarità della notifica, dal momento che dalla relata risultava l’invio tramite servizio postale della predetta raccomandata.

Avverso la decisione di appello il contribuente ricorreva in Cassazione, lamentando una violazione delle norme sulla procedura notificatoria.

Si ricorda che nel caso di irreperibilità relativa, ossia quando il contribuente è momentaneamente assente, in base all’articolo 140 del codice di procedura civile, se non è possibile eseguire la consegna, l’ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa comunale ed affigge avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, dandone notizia con raccomandata a/r (la cosiddetta “informativa”).

Il compimento delle formalità previste per il processo notificatorio deve risultare dalla relazione di notificazione che fa fede fino a querela di falso essendo attestata dall’ufficiale giudiziario operante (Cassazione 4844/93).

Nella specie, la Suprema corte ha rilevato che nella relata era indicato il numero della raccomandata inviata all’interessato.

Tuttavia, l’efficacia probatoria privilegiata degli atti pubblici è circoscritta ai fatti che il pubblico ufficiale attesti essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti.

Ne consegue che quando il notificatore si avvale del servizio postale per l’inoltro della raccomandata informativa, nella relata si potrà al più dare atto di aver consegnato alle poste l’avviso informativo da spedire per raccomandata A/R, ma non è evidentemente attestabile anche l’effettivo inoltro.

Si tratta infatti, di un’operazione non eseguita in sua presenza e pertanto priva del carattere “fidefaciente” tipico della relata di notifica.

I giudici di legittimità hanno così chiarito che in simili ipotesi, l’eventuale prova del mancato recapito potrà essere fornita dal destinatario senza necessità di impugnare la relata mediante querela di falso. Sarà poi l’ufficio notificante a dover dimostrare l’effettiva ricezione da parte del contribuente.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Il committente è responsabile solidale per le retribuzioni non pagate

Il lavoratore si può rivolgere direttamente all’azienda ritenuta più solvibile
La garanzia a carico di chi ordina le opere è piena e non sussidiaria
Responsabilità solidale stretta per il committente nei confronti dei lavoratori dei dipendenti dell’appaltatore. Con la sentenza 444/2019, la Suprema corte si è pronunciata sul regime della responsabilità solidale tra appaltatore e committente in relazione ai trattamenti retributivi e contributivi dei lavoratori impiegati nell’appalto.
Nel caso specifico, il tribunale di Firenze aveva accolto il ricorso promosso da una lavoratrice nei confronti della società appaltante per il pagamento di somme retributive. La Corte d’appello ha confermato la pronuncia di primo grado ritenendo sussistente, nei confronti del committente, un’obbligazione solidale in senso stretto (e non una mera garanzia sussidiaria come dedotto dalla società committente), con conseguente irrilevanza di una preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore.
La Corte di legittimità – precisando che la fattispecie sottoposta al proprio vaglio era soggetta alla disciplina dell’articolo 29 del decreto legislativo 276/2003 nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dalle leggi 92/2012 e 35/2012 (che avevano introdotto il beneficio di preventiva escussione) – ha ribadito che «l’obbligazione del committente…pur avendo carattere accessorio, è solidale con quella del debitore principale e pertanto…non può essere considerata né sussidiaria né eventuale» e ciò in ragione del «tenore letterale dell’articolo 29 del Dlgs 276 del 2003 (nella versione precedente alle novelle del 2012)» nonché della «ratio perseguita dal legislatore (consistente nell’affidare al committente il controllo sulla corretta esecuzione del contratto di appalto da parte dell’appaltatore)».
Quanto statuito nell’occasione dalla Suprema corte, seppur fondato sull’interpretazione di una norma successivamente modificata da plurimi interventi legislativi, appare di estrema attualità.
Si rammenta, infatti, che il beneficio di escussione ha avuto nel nostro ordinamento una durata breve: introdotto nel 2012, è stato successivamente abolito dal legislatore con il decreto legge 25/2017, che ha riportato al 2003 le lancette del vincolo della solidarietà per quanto riguarda sia la posizione processuale del committente (che si vede ora privato del beneficio di preventiva escussione) sia la possibilità dei contratti collettivi nazionali di lavoro di derogare al regime legale della responsabilità solidale negli appalti.
Con il “dietro front” legislativo sul beneficio di preventiva escussione si sono pertanto prodotti due fondamentali effetti sul piano processuale: da una parte, come pure precisato nella sentenza 444/2019, è venuta meno la necessità del litisconsorzio tra committente, appaltatori ed eventuali subappaltatori; dall’altra, si è eliminata la gerarchia tra i debitori.
Con la conseguenza che, come avveniva anteriormente al 2012, tutte le imprese legate dal vincolo di responsabilità solidale si troveranno di fronte alla possibilità che, a seguito delle inadempienze del proprio datore di lavoro, i lavoratori scelgano di rivolgersi alle imprese ritenute più solide e solvibili (ossia, generalmente, al committente) per ottenere le retribuzioni e i versamenti contributivi non percepiti a fronte dell’opera prestata nell’appalto.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Angelo Zambelli

La nullità non richiede altre prove se salta il contraddittorio per legge

In caso di omesso contraddittorio preventivo, se la nullità dell’atto è prevista dalla norma, il contribuente non deve fornire la prova di resistenza, cioè le ragioni che avrebbe potuto illustrare al fisco durante il confronto non avvenuto. A enunciare questo principio è la Cassazione con la sentenza 701 .

La pronunzia trae origine da un accertamento conseguente ad una verifica con accesso presso la sede di una società, emesso prima del termine di 60 giorni previsto dallo Statuto del contribuente. Il provvedimento veniva annullato in entrambi i gradi di merito, e l’Agenzia ricorreva in Cassazione.

La Suprema corte ha innanzitutto ricordato che, secondo le Sezioni unite (sentenza 18184/2013), la previsione contenuta nell’articolo 12, comma 7 dello Statuto è applicabile solo nelle ipotesi di accessi, ispezioni e verifiche presso la sede del contribuente e l’emissione dell’accertamento prima del decorso di 60 giorni della consegna del Pvc comporta l’invalidità dell’atto impositivo. Per i controlli a tavolino, invece, non esistendo un obbligo generalizzato di contraddittorio prodromico all’emissione dell’atto, occorre distinguere tra tributi armonizzati e non: per i primi valgono le regole comunitarie, e quindi occorre riconoscere il diritto al confronto preventivo, per i secondi tale diritto deve essere accordato solo se previsto per legge.

In ogni caso, per i tributi armonizzati occorre superare la cosiddetta «prova di resistenza», ossia la verifica dell’impatto della violazione sull’esito del provvedimento, a condizione che sia il contribuente ad enunciarne le ragioni (sentenza 24823/2015). I giudici di legittimità hanno poi evidenziato, che secondo la giurisprudenza comunitaria, il diritto al contraddittorio è regolato dai principi di equivalenza (le regole per il tributo armonizzato non devono essere meno favorevoli rispetto ai tributi interni) e di effettività (non sia impossibile o eccessivamente gravoso l’esercizio dei diritti dell’ordinamento Ue).

Per la Suprema corte, in applicazione di questi principi, con riferimento al comma 7 dell’articolo 12, non esiste alcuna distinzione tra tributi armonizzati e non. Inoltre, è evidente che l’operatività della prova di resistenza vada circoscritta al caso di assenza di una specifica disposizione normativa. In conclusione, secondo la Cassazione:

l’articolo 12, comma 7 dello Statuto si applica ai casi di accessi, ispezione o verifica senza alcuna necessità di prova di resistenza e a prescindere dal tipo di tributo;

l’espressa previsione all’interno di una norma di legge della sanzione di nullità per il mancato rispetto del contraddittorio preventivo, fa venire meno la necessità della prova di resistenza ai fini dell’invalidità dell’atto;

per i tributi armonizzati la necessità della prova di resistenza scatta solo se la normativa interna non preveda già la sanzione della nullità.

Fonte “Il sole 24 ore”

Concordato con continuità sempre rilevante penalmente

di Giovanni Negri

Il reato previsto in materia di concordato preventivo e accordo di ristrutturazione del debito vale anche nel caso di concordato con continuità aziendale. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 39517/2018 (clicca qui per consultarla ) della Quinta sezione penale. La pronuncia sterilizza così gli effetti delle modifiche effettuate nel 2012 sulla legge fallimentare con l’innesto dell’articolo 186 bis.

Una modifica che, nella interpretazione della Cassazione, va letta correttamente come la semplice previsione in dettaglio di benefici speciali collegati all’istituto del concordato con continuità aziendale. Fattispecie, quest’ultima, peraltro già prevista tra le varie articolazioni dell’istituto del concordato preventivo.

È vero che la norma penale non fa un esplicito richiamo al concordato con continuità aziendale, ma non si tratta dell’espressione della volontà del legislatore di procedere a una sorta di esenzione penale per condotte anche gravi consumate prima o attraverso la procedura. Sarebbe infatti del tutto «irragionevole ritagliare una pretesa area di impunità in riferimento a condotte distrattive poste in essere prima dell’ammissione o nel corso del concordato preventivo, in qualunque declinazione l’istituto operi».

E a una diversa conclusione non si può arrivare neppure se si intende valorizzare l’elemento della continuità visto che la funzione di conservazione del patrimonio d’impresa rappresenta l’obiettivo cui tende l’istituto, mentre invece la ratio della misura penale prevista dall’articolo 236 della legge fallimentare si basa sull’avere provocato, attraverso operazioni dolose di distrazione, lo stato di crisi che rappresenta il presupposto di ammissione alla procedura, oltre a rappresentare un concreto pericolo per i creditori. Irrilevante di conseguenza, sul punto, la natura conservativa e non liquidatoria dell’istituto.

Respinta quindi la tesi della difesa che invocava un diverso regime penale per l’ipotesi di concordato in continuità. Esiste sì una distinzione, ma è valida solo sul piano civilistico per assicurare la prosecuzione dell’attività imprenditoriale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Il pagamento non consente di dedurre il costo per un’operazione soggettivamente inesistente

di Andrea Taglioni

Non è deducibile il costo relativo a un’operazione soggettivamente inesistente semplicemente adducendone il pagamento della fattura. Quest’ultimo, infatti, rappresenta solamente la movimentazione finanziaria sottostante al documento cartolare. Di conseguenza, il costo per l’acquisizione del bene o servizio, sebbene documentato da fattura per operazioni soggettivamente inesistenti e purché non utilizzato per commettere reati, è deducibile se il contribuente dimostra la certezza del componente negativo e l’inerenza con l’esercizio dell’attività d’impresa. È quanto emerge dall’ordinanza 17788/2018 della Cassazione (clicca qui per consultarla ).

L’agenzia delle Entrate notificava ad una società un avviso di accertamento a fini Iva e delle imposte dirette fondato sul disconoscimento di costi derivanti da fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti. L’avviso veniva impugnato dalla contribuente e la Commissione rigettava il ricorso.

In sede di appello la Commissione tributaria regionale accoglieva parzialmente il ricorso limitatamente alla detraibilità dei costi ai fini delle dirette, confermando l’indetraibilità dell’Iva. In particolare, i giudici ritenevano che l’intervenuto pagamento dell’importo fatturato fosse sufficiente ai fini della deducibilità del costo. Di diverso avviso è stata la Cassazione che, a seguito dell’impugnazione della sentenza, ha accolto il ricorso dell’ufficio.

Prima di esaminare la questione attinente la deducibilità dei costi i giudici ricordano come, nel caso di fatture soggettivamente inesistente, anche nell’ipotesi in cui il cessionario sia consapevole della frode, l’indeducibilità opera unicamente quando i costi e le prestazioni di servizio siano stati direttamente utilizzati per il compimento dell’attività delittuosa.

Tuttavia, secondo la Cassazione, l’accertamento del pagamento della fattura non poteva essere l’elemento determinante, in assenza dei presupposti di legge, per confermare la deducibilità.

Ai fini del rispetto dei criteri generali per la determinazione del reddito d’impresa è necessario, quindi, verificare la concreta deducibilità dei costi con riferimento, non tanto all’esborso finanziario, quanto, piuttosto, ai requisiti di certezza, inerenza, effettività, competenza, determinatezza o determinabilità, del costo sostenuto.

Pertanto, se ai fini Iva risulta pacifica l’indetraibilità dell’imposta afferente l’inesistenza sia essa oggettiva che soggettiva dell’operazione, per le imposte dirette la deducibilità del costo, anche se la fattura è soggettivamente falsa, è comunque subordinata alla sussistenza dei presupposti previsti per la corretta determinazione del reddito.

Fonte “Il sole 24 ore”

 

Il Fisco riconosce il trasferimento all’estero solo a partire dalla cancellazione in Comune

di Francesco Avella

 

La Corte di cassazione nella sentenza n.16634/18 ribalta il verdetto della Ctr Puglia n. 64/07/2017 (si veda il Qf del 31 marzo 2017) affermando che ai sensi dell’articolo 2, comma 2, Tuir le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente dovrebbero considerarsi «in ogni caso residenti» con la conseguenza che, ai fini delle imposte sui redditi, «il trasferimento della residenza all’estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano».
La Ctr Puglia, al contrario, aveva giudicato non decisivo il mantenimento dell’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente (e la mancata iscrizione all’Aire), posto che la situazione fattuale mostrava un chiaro trasferimento della dimora abituale e del centro degli interessi vitali all’estero: nel caso di specie, il contribuente persona fisica si era infatti trasferito da anni nel Regno Unito e ivi svolgeva la sua attività lavorativa. La Ctr Puglia era giunta a tale conclusione senza far leva sulla tie-breaker rule contenuta nella Convenzione Italia-Regno Unito, ma semplicemente interpretando la norma interna valorizzando i principi costituzionali: «L’applicazione di qualsivoglia strumento presuntivo non può avvenire in maniera asettica e automatica, dovendo esso, per converso, avere riguardo necessariamente alla reale capacità contributiva ex articolo 53 Costituzione, nonché evitare una inammissibile duplicazione d’imposta».
La chiusura della Corte di cassazione – che con la sentenza n.16634/18 ribadice peraltro una posizione già espressa nelle precedenti sentenze 21970/2015, 677/2015 e 9139/2006 – continua a non convincere.
Nel caso di specie (Regno Unito), così come nella maggior parte dei casi precedenti (Svizzera, Romania), il trasferimento era avvenuto in uno Stato con il quale era in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni che avrebbe comunque consentito di superare il dato normativo nazionale, posto che riveste carattere di specialità rispetto alle corrispondenti norme nazionali e dovendo la potestà legislativa essere comunque esercitata, ai sensi dell’articolo 117 Costituzione, nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (da ultimo, in tal senso, Cassazione 13 ottobre 2017, n. 24112). La Cassazione avrebbe cioè potuto superare il dato meramente formale dell’iscrizione nelle anagrafi della popolazione valorizzando la tie-breaker rule contenuta nella Convenzione Italia-Regno Unito (sebbene dalle sentenze non si comprenda se il contribuente ne avesse invocato i benefici) e i criteri ivi contenuti, in particolare il centro degli interessi vitali che, nel merito, la Ctr Puglia aveva stabilito essere nel Regno Unito e non in Italia.
Inoltre, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 2, comma 2, Tuir come quella fornita dalla Ctr Puglia pare più rispondente al canone della capacità contributiva e più rispettosa dei vincoli posti dal diritto dell’Unione Europea in termini di libertà fondamentali (almeno ogni qual volta, come nel caso di specie, il trasferimento avvenga verso uno Stato membro dell’Ue) e, pertanto, sarebbe stata preferibile anche prescindendo dalla Convenzione Italia-Regno Unito.
La sentenza della Cassazione impone quindi ai contribuenti particolare attenzione e cautela, affinché non sottovalutino un adempimento – quello della cancellazione dalle anagrafi della popolazione residente e della conseguente iscrizione all’Aire – che, pur avendo carattere formale, rischia di avere un impatto drammaticamente sostanziale.

Fonte “Il sole 24 ore”

L’indennità di buonuscita a carico del lavoratore non sfugge a prelievo ordinario

di Romina Morrone

La quota di indennità di buonuscita afferente al periodo riscattato con somme interamente a carico del lavoratore è soggetta a tassazione ordinaria, trattandosi di contributi non correlati ad un rapporto previdenziale riferibile al datore di lavoro. Lo ha affermato la Cassazione nell’ordinanza 16560/2018 del 22 giugno.

Un ufficiale dell’aeronautica militare ha impugnato il silenzio-rifiuto dell’agenzia delle Entrate, formatosi a seguito dell’istanza di rimborso della maggiore trattenuta Irpef 2004, effettuata sulla liquidazione dell’indennità di buonuscita per cessazione dell’attività lavorativa. A parere del contribuente, l’imponibile fiscale del Tfr erogato dall’Inpdap doveva essere calcolato detraendo la quota parte riferibile ai contributi da lui versati. Altalenante l’esito del giudizio nei gradi di merito. L’agenzia ha impugnato la sentenza della Ctr in Cassazione, sostenendo che il giudice di appello aveva erroneamente ritenuto applicabile l’articolo17 del Tuir ad una fattispecie di contribuzione volontaria totalmente a carico del lavoratore e sottolineando che il periodo di riscatto (e cioè quello corrispondente ad anni e a mesi che il dipendente decide volontariamente di aggiungere al periodo di servizio, versando quote contributive per rendere tali annualità, altrimenti non valutabili, utili ai fini del calcolo della buonuscita) doveva essere tassato per intero poiché non era correlato ad un rapporto previdenziale riferibile al datore di lavoro.

La Corte ha accolto il ricorso ribadendo che, se la formazione di una parte dell’indennità di buonuscita viene alimentata con contributi interamente ed esclusivamente a carico del dipendente (come nel caso delle anzianità convenzionali e per i servizi pre-ruolo ammessi a riscatto), da lui versati volontariamente, tale parte dell’indennità non va sottratta ad imposizione fiscale ordinaria Irpef, poiché, in tal caso, la funzione del versamento consegue il riconoscimento normativo dell’anzianità convenzionale. Tali conclusioni sono conformi alla giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza 178/86), secondo la quale la non tassabilità pro parte (non è applicabile nelle ipotesi di contribuzione volontaria totalmente a carico del lavoratore, come quella in esame, poiché) è determinata sulla base del rapporto, alla data in cui è maturato il diritto alla percezione, fra l’aliquota del contributo previdenziale posto a carico dei lavoratori dipendenti e quella complessiva dello stesso contributo.

Fonte “Il sole 24 ore”

Concordato con obbligo di transazione fiscale

di Giulio Andreani

La proposta di definizione dei debiti fiscali disciplinata dall’articolo 182-ter della legge fallimentare (la “transazione fiscale”) è obbligatoria, nell’ambito di un concordato preventivo di qualsiasi tipo, qualora il piano concordatario non preveda il pagamento integrale e senza dilazione di questi debiti (quindi sostanzialmente sempre). Pertanto la mancata presentazione della stessa costituisce un vizio del ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato.

Ma che cosa accade, ai fini dell’ottenimento delle falcidie e delle dilazioni richieste, se la proposta, una volta presentata, non è approvata dal Fisco?

Posizione paritaria per il Fisco

All’Erario non sono attribuiti diritti diversi e maggiori di quelli spettanti agli altri creditori e pertanto, se le maggioranze previste dalla legge vengono comunque raggiunte, il suo rigetto della proposta di transazione fiscale non impedisce l’approvazione della domanda di concordato e la produzione degli effetti previsti da tale proposta.

Lo ha affermato da tempo la Cassazione (sentenza 22931/2011 ), stabilendo che la omologazione del concordato obbliga tutti i creditori, indipendentemente dal loro voto favorevole o contrario, poiché è da escludere la sussistenza di un particolare statuto per il Fisco, non essendo dubbio che un’eccezione al principio maggioritario, se fosse stata voluta, sarebbe stata espressamente prevista dal legislatore. In assenza di una previsione di tale natura, vale quindi anche nei confronti dell’amministrazione finanziaria il disposto dell’articolo 184 L.f. ai sensi del quale «il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso di cui all’articolo 161».

È vero che la Suprema corte ha affermato questo principio prima delle modifiche apportate al citato articolo 182-ter dalla Legge di bilancio 2017, quando la transazione fiscale era facoltativa, ma non vi è ragione per non ritenerlo applicabile tuttora, perché il principio traeva origine dal menzionato articolo 184 e non dall’articolo 182-ter. Va da sé che, indipendentemente dalle considerazioni che precedono, per effetto dell’entità dei debiti fiscali il voto del Fisco può anche risultare decisivo, così come può esserlo quello di qualsiasi altro creditore; ma ciò è, semmai, l’effetto di una situazione di fatto e non di un particolare diritto attribuito all’Erario.

Gli effetti del «no»

Nel concordato in continuità gli effetti della mancata approvazione della proposta di transazione fiscale sono più incerti, perché l’articolo 186-bis, comma 2, lettera c), della L.f stabilisce che il piano può prevedere «una moratoria fino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni sui quali sussiste la causa di prelazione».

L’incertezza nasce dal fatto che la dottrina e la giurisprudenza interpretano diversamente questa norma. Infatti, secondo un primo orientamento, essa avrebbe natura precettiva solo ai fini della esclusione del diritto di voto da parte dei creditori prelatizi di cui sia previsto il soddisfacimento entro un anno dalla omologazione, ma non impedirebbe un pagamento ultrannuale, a condizione che i creditori prelatizi cui esso è offerto vengano ammessi al voto, essendo in tal caso il loro trattamento equiparabile a un pagamento non integrale.

In base, invece, a un secondo orientamento, la norma testé citata impedirebbe in assoluto al debitore di prevedere una moratoria oltre l’anno per il pagamento dei creditori prelatizi, tra i quali rientra il Fisco, salvo il caso in cui il creditore vi abbia acconsentito attraverso la stipula di un apposito patto. La prima tesi è prevalente ed è stata avallata dalla Cassazione, ma la seconda ha trovato conforto nelle pronunce di alcuni tribunali, come quelli di Roma e di Milano.

I dubbi sullo stop oltre l’anno

Adottando questo secondo indirizzo, l’accoglimento della proposta di transazione fiscale da parte dell’agenzia delle Entrate risulta decisiva ai fini della possibilità di pagare i debiti fiscali oltre un anno dalla omologazione; infatti, in base a questo orientamento, l’obbligo di pagamento infrannuale stabilito dal citato articolo 186-bis può essere derogato solo in presenza del consenso dei creditori prelatizi interessati, da esprimere mediante un patto paraconcordatario, che, per quanto attiene i rapporti con il Fisco, dovrebbe essere costituito dalla transazione fiscale.

Questo consenso è ritenuto necessario anteriormente alla domanda di concordato, ma relativamente ai crediti fiscali ciò non è possibile, visto che la proposta di transazione fiscale viene approvata mediante il voto della proposta di concordato, che può essere espresso solo successivamente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Via libera alla deduzione dei costi per i lavori su immobili di terzi

di Gianfranco Ferranti

La decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione in merito alla detraibilità dell’Iva relativa alle spese di ristrutturazione o manutenzione straordinaria degli immobili di terzi consente di dare soluzione anche alla questione concernente la deducibilità dei relativi costi ai fini delle imposte sui redditi.

La Suprema corte ha affermato, nella sentenza a Sezioni unite 11533 dello scorso 11 maggio , che va riconosciuto il diritto alla detrazione dell’Iva per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche in ipotesi di immobili di proprietà di terzi, purché sia presente un nesso di strumentalità con l’attività d’impresa o professionale, anche se quest’ultima risulti soltanto potenziale o di prospettiva. E ciò anche se, per cause estranee al contribuente, tale attività non abbia poi potuto concretamente esercitarsi.

La sentenza della Corte riguarda l’Iva ma la soluzione adottata è destinata, come detto, ad esplicare effetto anche rispetto all’analoga questione della deducibilità per il conduttore degli stessi costi ai fini delle imposte sui redditi.

La questione Iva

La problematica oggetto del giudizio di legittimità ha riguardato l’inerenza delle spese di ristrutturazione degli immobili detenuti in locazione ai fini sia del diritto ad esercitare la detrazione dell’Iva (nel caso in cui l’attività d’impresa non avesse ancora avuto inizio) sia del rimborso della stessa imposta, riconosciuto, dall’articolo 30, terzo comma, lettera c), del Dpr 633/1972 , in presenza di costi ammortizzabili.

La Corte, dopo aver ricordato il contrasto interpretativo emerso nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, ha ricordato che le sentenze “negative” erano fondate sul timore che il contratto di locazione fosse stato predisposto allo scopo di consentire alla conduttrice una detrazione di cui la proprietaria dell’immobile in quanto «consumatrice finale» non avrebbe avuto diritto, «al di là della giustificazione giuridica fornita, che con riguardo alla detrazione è stata anche quella del divieto previsto per i beni non ammortizzabili».

Tale tesi non è stata, però, condivisa alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenze C-672/16 del 2018 , C-132/16 del 2017, C-124/12 del 2013 e C-29/08 del 2009) che, in base al principio di neutralità dell’imposta, ha riconosciuto il diritto alla detrazione dell’Iva «purché sia presente un nesso di strumentalità con l’attività d’impresa o professionale, anche se quest’ultima sia potenziale o di prospettiva. E ciò pur se – per cause estranee al contribuente – la predetta attività non abbia poi potuto concretamente esercitarsi».

Effetti sulle imposte sui redditi

Il locatario può dedurre, ai fini delle imposte sui redditi, i costi sostenuti per la ristrutturazione o la manutenzione straordinaria dell’immobile nel quale lo stesso svolge l’attività d’impresa, essendo gli stessi inerenti all’esercizio dell’impresa. A tale conclusione è possibile pervenire alla luce della sentenza 11533/2018, nella quale viene fatto un breve cenno anche alle precedenti incertezze della giurisprudenza della Cassazione in merito alla «simmetrica questione della deduzione dei costi».

In alcune sentenze era stata negata la deducibilità dei costi in esame per difetto del requisito dell’inerenza, perché il locatore sarebbe risultato il beneficiario ultimo dei miglioramenti apportati all’immobile. In altre pronunce era stata, invece, sostenuta la tesi opposta, ritenendo che la deducibilità degli stessi costi non potesse essere subordinata al diritto di proprietà dell’immobile, essendo sufficiente che fossero sostenuti nell’esercizio dell’impresa, al fine del migliore svolgimento dell’attività imprenditoriale da parte del locatario.

Quest’ultima soluzione è senz’altro condivisibile, anche perché altrimenti la deduzione degli stessi costi non spetterebbe né al conduttore né al locatore (in quanto non sostiene la spesa).

Fonte “Il sole 24 ore”

L’avvenuto pagamento determina le modalità dell’impugnazione

Il contribuente, che dichiara ma omette di versare una determinata imposta, può attendere, senza incorrere in alcuna decadenza, di opporsi in sede contenziosa all’iscrizione a ruolo della pretesa tributaria (nel caso di specie, Irap dichiarata e non versata da un avvocato). Viceversa, se l’imposta viene versata, non si potrà più ricorrere contro l’iscrizione a ruolo, bensì dovrà instaurarsi un contenzioso sul silenzio-rifiuto nei termini decadenziali previsti, perché la dichiarazione dei redditi è sempre emendabile e la natura del processo tributario è di tipo impugnatorio.

Cassazione ordinanza 14541/2018

 

Dagli studi di settore all’eredità, tante liti senza speranza per l’Erario

di Salvina Morina e Tonino Morina

Sono frequenti le condanne a carico degli uffici che proseguono il contenzioso perdente, subendo una doppia beffa. L’erario non incassa nulla e l’ufficio è condannato a pagare le spese di giudizio. Sono diversi i casi in cui gli ufficipotrebbero evitare la prosecuzione del contenzioso. Ecco, di seguito, quelli più frequenti.

La rinuncia all’eredità «salva» dal Fisco
Per la Cassazione, ordinanza 13639/18, depositata il 30 maggio 2018, chi rinuncia all’eredità non ha alcuna responsabilità per i debiti del contribuente deceduto. Sbaglia perciò l’ufficio che insiste nella richiesta di pagamento agli eredi rinunciatari, e, quindi, deve essere accolto il ricorso dei contribuenti con condanna alle spese a carico dell’agenzia delle Entrate per 15mila euro, oltre rimborso forfetario ed accessori di legge.

L’ufficio deve provare che le operazioni sono inesistenti
Per la Cassazione, l’ufficio che nega la detrazione dell’Iva per presunte operazioni soggettivamente inesistenti, deve fornire la “prova” che le operazioni non sono mai state poste in essere. In mancanza di questa prova, l’accertamento del Fisco deve essere annullato, l’ufficio non incassa nulla ed è condannato a pagare le spese di giudizio, a favore del contribuente, per oltre 6mila euro.

Stop alle sanzioni sugli errori formali
Per i giudici di legittimità, ordinanza 14933 del giorno 8 giugno 2018, non è punibile il contribuente che presenta in ritardo le scritture contabili, a condizione che la violazione «sia priva di incidenza sulla determinazione della base imponibile dell’imposta e sul versamento del tributo e sia inidonea ad arrecare pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo». Il “guaio” è che, dopo quasi 13 anni di contenzioso, l’erario, dopo avere subìto una triplice bocciatura, primo grado, in secondo grado e in Cassazione, non incassa nulla e deve anche pagare le spese di giudizio per circa 5mila euro.

La media semplice non è ponderata
Per la Cassazione, è illegittimo il ricorso alla media semplice, anziché alla media ponderata, quando tra i vari tipi di merci esiste una notevole differenza di valore ed i tipi più venduti presentano una percentuale di ricarico inferiore a quella risultante dal ricarico medio (Cassazione, n. 13319 del 2011; n. 4312 del 2015). Sono diversi i contenziosi in materia di applicazione sbagliata della media aritmetica semplice, “scambiata” per media ponderata. Per giurisprudenza consolidata in materia, è costante l’accoglimento del ricorso dei contribuenti, con conseguente bocciatura dell’operato della Finanza e degli uffici delle Entrate che non applicano correttamente il ricarico medio ponderato.

Il rimborso Iva è soggetto alla prescrizione decennale
Per la Cassazione, sentenza n. 19510 del 19 dicembre 2003, il credito del contribuente per il rimborso dell’Iva si consolida decorsi due anni dal termine per la presentazione della dichiarazione annuale senza che l’amministrazione finanziaria abbia notificato alcun avviso di rettifica o di accertamento ed è esigibile alla scadenza dei successivi tre mesi. Pertanto, il termine di prescrizione decennale del diritto al rimborso decorre a partire da due anni e tre mesi dalla data di presentazione della dichiarazione annuale, non essendo il diritto medesimo esigibile prima del decorso di detto termine.

L’Inps chiede i contributi in base agli accertamenti
L’Inps non ha alcun titolo per chiedere i contributi che scaturiscono dagli accertamenti del Fisco definiti con la chiusura delle liti pendenti. È perciò priva di effetti la richiesta fatta dall’istituto previdenziale, con un avviso di addebito, sulla base dell’accertamento emesso dall’agenzia delle Entrate, direzione provinciale di Siracusa. Per il Tribunale di Siracusa, deve essere perciò accolto il ricorso del contribuente, e, per l’effetto, deve essere annullato l’avviso di addebito emesso dall’Inps (sentenza n. 108/2018, pubblicata il 5 febbraio 2018).

Stop agli studi di settore automatizzati
Proseguono le bocciature della Cassazione nei confronti degli uffici che emettono accertamenti standardizzati da studi di settore. Un esempio è nella sentenza 9755/17, depositata il 18 aprile 2017. Per la Cassazione, sbagliano gli uffici che considerano gli studi di settore uno strumento di accertamento.

Dopo 5 anni di silenzio il Fisco perde i soldi
Le richieste di pagamento, così come i fermi amministrativi notificati dopo i 5 anni dalla notifica della cartella di pagamento, sono prive di effetto. Per la Cassazione, sezioni unite civili, sentenza 23397/16, depositata il 17 novembre 2016, le pretese della Pubblica Amministrazione, agenzia delle Entrate, Inps, Inail, Comuni, Regioni, e altri enti impositori, si prescrivono nel termine “breve” di cinque anni, con l’eccezione dei casi in cui la sussistenza del credito non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato o a mezzo di decreto ingiuntivo.

I conti fittizi devono essere provati
Per la Cassazione, deve essere annullato l’accertamento dell’ufficio, relativo all’anno 2002, che non ha “provato” in alcun modo che i versamenti rilevati sui conti personali del socio e della figlia fossero effettivamente riferibili alla società (ordinanza 9212/2018, depositata il 13 aprile 2018). Dopo tre bocciature, primo grado, secondo grado e Cassazione, e dopo oltre 10 anni, il Fisco rimane con un pugno di mosche in mano e con una condanna al pagamento delle spese che la Cassazione liquida in 6mila euro per compensi, più 200 euro per esborsi e il 15% a titolo di spese forfettarie.

Contraddittorio preventivo obbligatorio
Gli atti emessi dal Fisco senza alcun confronto con il contribuente devono essere annullati. Per la Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sentenza 48/02/2018, depositata il 17 gennaio 2018, «la violazione del diritto del contribuente al contraddittorio preventivo, ossia antecedente all’emanazione dell’atto di accertamento, determina pertanto l’illegittimità dell’atto, e di conseguenza, il suo annullamento».

Fonte “Il sole 24 ore”

Omesse ritenute ante ottobre 2015, non basta il 770

di Antonio Iorio

Il reato di omesso versamento delle ritenute, prima delle modifiche in vigore dal 22 ottobre 2015, non può essere provato soltanto con la dichiarazione del sostituto di imposta, essendo necessarie le certificazioni rilasciate ai percipienti. A fornire questa importante interpretazione sono le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, con la sentenza 24782 depositata ieri.

La pronuncia dovrebbe definitivamente risolvere un contrasto interpretativo sorto all’interno della terza sezione penale sulla rilevanza della sola dichiarazione del sostituto di imposta per la configurazione del reato di omesso versamento delle ritenute, previsto dall’articolo 10 bis Dlgs 74/2000.

La versione iniziale del citato articolo 10 bis, (precedente alle modifiche introdotte con il Dlgs 158/2015) prevedeva la reclusione da sei mesi a due anni per chiunque non avesse versato, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, le ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo.

Di sovente, in passato l’accusa per provare al colpevolezza di questo reato si basava esclusivamente sui dati “autodichiarati” dal contribuente nel 770, trasmesso dall’Agenzia delle Entrate al Pm.

Inizialmente, la Suprema corte ha ritenuto soddisfatto l’onere probatorio con la mera allegazione del modello 770 all’interno del quale sono elencate le ritenute.

Successivamente la Cassazione ha mutato orientamento, fornendo un’interpretazione più aderente al dato letterale: il reato è collegato all’omesso versamento, non delle ritenute indicate nel 770, ma di quelle risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti e quindi la prova dell’illecito è rappresentata dalle certificazioni e non dalla dichiarazione.

Il Dlgs 158/2015 ha modificato anche questa fattispecie penale. In particolare il nuovo delitto ora concerne le omissioni risultanti anche dalla dichiarazione, non essendo più necessaria la prova delle certificazioni ai sostituiti. E quindi, con l’entrata in vigore (22 ottobre 2015) del predetto decreto, per la commissione del reato non sono più necessarie le certificazioni, ma è sufficiente l’indicazione nel modello 770 dell’importo poi non versato.

Secondo alcune pronunce della terza sezione penale, questa modifica doveva intendersi quale chiarimento della precedente norma: quindi anche per il passato si sarebbe potuta provare la sussistenza del delitto, mediante la semplice produzione della dichiarazione 770.

Da qui l’intervento delle Sezioni Unite, che ora hanno definitivamente chiarito che per il passato la dichiarazione 770 proveniente dal sostituto di imposta non può essere ritenuta di per sé sola sufficiente ad integrare la prova dell’avvenuta consegna al sostituito della certificazione fiscale.

Nonostante, come si è detto, il reato sia poi stato modificato a decorrere da ottobre 2015, per i delitti consumati fino a quella data (i cui procedimenti, anche numerosi, sono tuttora in corso), l’assenza di produzione da parte del Pm delle certificazioni (circostanza frequente in quanto l’agenzia delle Entrate in genere inviava il solo modello 770 del contribuente) comporterà l’assoluzione del’imputato.

Fonte “Il sole 24 ore”

Costi pluriennali, stop ai controlli «infiniti»

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Per i costi pluriennali la rettifica da parte dell’amministrazione è possibile solo se nell’esercizio di sostenimento, ossia il primo di imputazione, il potere di accertamento non è ancora decaduto, a nulla rilevando le successive imputazioni annuali. È questo l’importante orientamento assunto recentemente dalla Corte di cassazione.

La questione
I costi di «utilità pluriennale» non sono dedotti integralmente nell’esercizio di sostenimento, ma vengono imputati anche negli anni successivi.Ne consegue così che in un determinato periodo di imposta potrebbero esserci quote di ammortamento relative a beni acquistati in anni il cui potere di accertamento è già decaduto.

La circostanza ha suscitato dubbi nell’ambito dell’attività di controllo: secondo la prassi seguita dai verificatori, infatti, poiché “parte” di quel costo ha rilevanza in esercizi ancora accertabili, è possibile verificarne la congruità fin dall’origine e, quindi, è legittimo disconoscere parte o tutto del valore di acquisto.

Si pensi ad esempio a un macchinario acquistato al prezzo di 100mila euro nel 2010 (periodo di imposta per il quale è decaduto a fine 2015 il potere di rettifica da parte dell’amministrazione) e ammortizzato al 10% annuo, pari cioè a 10mila euro imputati in ciascun esercizio. Cosa succede se nel corso di una verifica nel 2018 e relativa al 2014 (anno ancora accertabile), nell’ambito del controllo dei beni strumentali, i verificatori ritengono per le più svariate ragioni che solo 20mila dei 100mila euro sostenuti siano deducibili?

Secondo l’interpretazione dell’amministrazione, poiché la quota di ammortamento ha rilevanza in anni ancora accertabili, è possibile recuperare a tassazione la parte ritenuta indeducibile rispetto al costo originario. E quindi, seguendo l’esempio, è legittimo il recupero di 8mila euro dei 10mila imputati in ammortamento.

Il principio della Cassazione
È stato richiesto alla Suprema corte di stabilire se per i costi che danno luogo a una deduzione frazionata in più anni la decadenza del potere di accertamento dell’amministrazione si realizzi al 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di ciascun periodo di imposta in cui è dedotto il costo ovvero a quello in cui è stato iscritto il costo originario.

Con la recente sentenza 9993/2018 i giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che in conformità dei principi affermati dalla Consulta (sentenza 352/2004), l’interpretazione della norma sulla decadenza non può lasciare il contribuente esposto all’azione esecutiva del fisco per termini eccessivamente dilatati. Ciò anche perché il contribuente è tenuto alla conservazione dei documenti per gli anni oggetto di possibile controllo.

Per non violare questi principi, secondo i giudici di legittimità nell’ipotesi di costi la cui deducibilità è frazionata nel tempo, il computo della decadenza decorre dall’anno in cui è stato iscritto in bilancio il valore da ripartire. Perciò, se il Fisco non ha disconosciuto tale originaria iscrizione, le relative quote imputate negli esercizi successivi divengono deducibili.

L’unica contestazione in tali periodi di imposta, può riguardare un’eventuale errata determinazione perché ad esempio imputata in misura superiore o malamente calcolata.

Gli acquisti non rettificabili
Alla luce di questo principio occorre individuare se l’acquisto del bene strumentale in ammortamento sia avvenuto in un anno non ancora decaduto:

fino al periodo di imposta 2015 (modello Unico 2016), gli uffici potevano notificare accertamenti entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione (o quinto in caso di omessa dichiarazione). Quindi, se la dichiarazione è stata presentata, nel 2018 risultano decaduti gli acquisti effettuati fino al 2012, a prescindere dal fatto che il relativo ammortamento sia ancora in corso. Inoltre, la norma prevedeva il raddoppio dei termini se la violazione comportava l’obbligo di denuncia di un reato tributario. È pertanto verosimile che in tale ipotesi, il maggior termine consenta all’ufficio di verificare gli acquisti di cespiti anche se avvenuti in periodi precedenti al 2012;

dal periodo d’imposta 2016 (modello Redditi 2017), invece, gli uffici possono notificare gli accertamenti entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (ovvero se omessa o nulla entro il 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui si sarebbe dovuta presentare). E quindi, ad esempio, il bene strumentale acquisito nel 2016, potrà essere verificato e nel caso contestato solo fino al 2022, senza peraltro alcuna possibile proroga anche in presenza di reato, dato che la modifica ha abrogato il raddoppio dei termini.

Fonte “Il sole 24 ore”

Accertamento, utilizzabili solo i dati «regolari»

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Se l’accesso presso i locali adibiti promiscuamente ad abitazione e a sede dell’attività non è autorizzato dalla Procura i dati acquisiti non sono utilizzabili a nulla rilevando la consegna spontanea ai verificatori da parte dell’interessato. Nessuna norma, infatti, subordina l’autorizzazione alla volontà del soggetto sottoposto a verifica. A fornire questo importante chiarimento è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 13711 depositata ieri.

L’agenzia delle Entrate rettificava a un contribuente un avviso di accertamento fondato sulla documentazione rinvenuta in occasione dell’accesso presso i locali adibiti promiscuamente ad abitazione e a sede dell’attività. Il contribuente impugnava l’atto impositivo evidenziando tra i diversi motivi di ricorso che l’accesso dei verificatori era avvenuto in assenza dell’autorizzazione (ex articolo 52 del Dpr 633/1972).

Entrambi i giudici di merito annullavano l’accertamento e l’agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione. In particolare, l’Ufficio evidenziava che la spontanea consegna della documentazione da parte del contribuente avrebbe escluso la necessità della predetta autorizzazione, potendosi utilizzare il materiale indiziario comunque raccolto.

I giudici di legittimità hanno premesso che non esiste nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, con la conseguenza che i verificatori devono solo rispettare le disposizioni dettate dalle norme tributarie. Tuttavia, proprio tali norme, prevedono la necessità di una preventiva autorizzazione del procuratore della Repubblica per procedere a specifici accessi diversi dalla mera sede dell’attività.

La giurisprudenza in proposito ha chiarito che la mancanza di tale autorizzazione, ove richiesta, determina la inutilizzabilità degli elementi probatori sui quali sia stato fondato l’accertamento solo nell’ipotesi di accesso domiciliare. Più precisamente, la norma dispone che se i locali sono adibiti anche ad abitazione (cosiddetto uso promiscuo) è necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica, quale mero atto amministrativo. Mentre se si tratta di un accesso presso la sola abitazione occorre un’autorizzazione con specifica indicazione degli indizi gravi indizi di violazione delle norme tributarie.

Tale inutilizzabilità, sebbene non espressamente prevista per legge, deriva sia dalla regola generale secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola, sia dal principio dell’inviolabilità del domicilio (articolo 14 della Costituzione). Il giudice deve così vagliare le prove offerte in causa solo se ritualmente acquisite.

La Cassazione, alla luce di queste premesse, ha rilevato che tali principi non possono essere derogati per effetto della consegna spontanea della documentazione da parte del contribuente. Ed infatti, l’accesso, effettuato senza la necessaria autorizzazione, in ogni caso non è legittimo; l’eventuale consenso o dissenso del contribuente è privo di rilievo giuridico non essendo richiesto e o preso in considerazione da nessuna norma di legge. Nella specie, quindi, poiché la sede era adibita sia ad attività sia ad abitazione, occorreva l’autorizzazione del procuratore della Repubblica a prescindere che il contribuente avesse spontaneamente consegnato i documenti richiesti.

La decisione è particolarmente importante poiché non di rado, in occasione dei controlli, i verificatori ritengono di poter bypassare le necessarie autorizzazioni solo perché il contribuente si mostra collaborativo, consegnando ciò che gli viene richiesto.

Fonte “Il sole 24 ore”

La rinuncia dei soci al credito cerca una via d’uscita dall’imposta di registro

di Giuseppe Carucci e Barbara Zanardi

Il finanziamento dei soci persone fisiche enunciato nel verbale di assemblea potrebbe essere a rischio di assoggettamento a imposta di registro proporzionale. Pertanto, in occasione della copertura delle perdite mediante rinuncia dei soci alla restituzione del finanziamento, alcuni accorgimenti operativi potrebbero scongiurare l’imposizione per enunciazione. Il tema è attuale per i soggetti che sono ancora alle prese con il bilancio 2017, ad esempio, perché hanno differito a 180 giorni il termine di approvazione.

L’origine del problema
Il rischio di enunciazione del finanziamento è connesso al contenuto della sentenza della Cassazione 15585/2010, che ha sancito l’obbligo di corrispondere l’imposta di registro del 3% per un finanziamento dei soci non registrato, ma richiamato in un successivo verbale di assemblea straordinaria nel quale, attraverso la rinuncia dei soci, si ricostituiva il capitale sociale eroso dalle perdite.

L’accertamento troverebbe fondamento nell’articolo 22 del Dpr 131/1986, che prevede l’applicazione dell’imposta alle disposizioni enunciate in un determinato atto e contenute in contratti verbali o atti scritti formati in precedenza e non registrati.

Soluzioni operative
Nonostante le critiche subite da tale decisione della Suprema corte, prudenzialmente, per cercare di evitare il rischio di una imposizione del finanziamento enunciato, è opportuno adottare le seguenti principali soluzioni operative individuate dalla prassi notarile, prescindendo da ulteriori valutazioni prettamente giuridiche (ad esempio, effetti di diluizione dei soci che non sottoscrivono l’aumento del capitale).

Conversione finanziamento in capitale
La prima soluzione consiste nel convertire preventivamente il finanziamento soci in versamento in conto capitale e, solo successivamente, di utilizzare, per l’aumento del capitale sociale, la riserva di patrimonio netto generata a seguito di tale conversione.
In tal modo, pertanto, prima si effettua la rinuncia al credito, ad esempio con lettera, e, poi, nel verbale, si da atto solo dell’esistenza della riserva che viene utilizzata per l’aumento del capitale.

Delibera aumento e successiva esecuzione
Un’altra soluzione consiste nel procedere con la sola delibera di aumento, riservando in un secondo momento, e con differenti modalità (ad esempio mediante scambio di corrispondenza), l’esecuzione materiale dell’aumento stesso, che, pertanto, non è parte della delibera assembleare. In tal modo si evita di eseguire in un unico contesto l’aumento e la sottoscrizione del capitale, nonché la liberazione della sottoscrizione mediante rinuncia del socio al credito derivante dal finanziamento effettuato a favore della società.

Restituzione finanziamento
Infine, si potrebbe procedere alla restituzione del finanziamento soci prima dell’adozione della delibera di aumento del capitale e, successivamente, al conferimento in società del denaro. Tale soluzione non è sempre percorribile, soprattutto quando il finanziamento non sia facilmente liquidabile e rimborsabile. In definitiva, come si evince dalle soluzioni operative sopra analizzate, al fine di cercare di sottrarre tali delibere di copertura perdite dal rischio di imposizione, è opportuno che la “rinuncia” al credito o il suo utilizzo per una ricapitalizzazione si perfezioni al di fuori di un verbale notarile o comunque non in atti sottoposti a registrazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Fatture per operazioni inesistenti, la prova grava sul contribuente

di Massimo Romeo

L’onere della prova circa la legittima deduzione dei costi ed il diritto alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto, in relazione ad importi fatturati per operazioni qualificate dal fisco come oggettivamente inesistenti, grava sul contribuente, il quale deve dimostrarne la non fittizietà, non essendo sufficiente la mera esibizione delle fatture, né la sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, normalmente utilizzati per far apparire reale un’operazione fittizia. Questo il principio che emerge dalla sentenza della Ctp Milano n. 2081/2018 depositata il 14 maggio.

Il focus della controversia milionaria finita all’attenzione dei giudici tributari milanesi traeva origine dalle risultanze di un’ indagine della Gdf, culminata in un pvc, a cui facevano seguito avvisi di accertamento per la presunta inesistenza oggettiva di prestazioni di servizi rese a favore della ricorrente da imprese operanti nel settore della logistica e dei trasporti, definite dal fisco “fantasma”, cioè prive di personale e di mezzi sufficienti a generare un così alto volume d’affari.

La ricorrente eccepiva la ricostruzione fatta dai verificatori già nella fase di presentazione delle osservazioni al pvc , contestandone l’omessa motivazione nei successivi avvisi di accertamento e ritenendo carente l’impianto probatorio offerto dall’Ufficio che avrebbe determinato a suo carico una grave ingiustizia per essersi tramutata l’infedeltà dei singoli prestatori ( accertata in esito ad un’indagine penale dinanzi al tribunale) in uno strumento per aggredirla attraverso mere «allusioni e illazioni>; a conforto produceva contestazioni da parte dell’Inps, verbali d’infrazione al codice della strada nonché emessi dalla Polizia stradale a carico di automezzi di una delle ditte fornitrici dei servizi, dichiarazioni dei dipendenti che facevano riferimento ad attività espletata in outsourcing, tutti elementi che, a suo parere, dovevano condurre a presupporre l’esistenza di strutture operanti sul territorio.

L’ufficio considerava inconfutabili le situazioni emerse dalle indagini del Nucleo di polizia tributaria ritenendo altresì incontestabile l’esosità dei prezzi esposti nelle fatture, assolutamente fuori mercato e pertanto antieconomici i servizi pretesi dalla ricorrente come espletati; ne faceva quindi discendere il disconoscimento dei costi ai fini delle dirette e la non deducibilità dell’Iva, spostando l’onere della prova sulla contribuente in virtù della rilevanza e gravità degli elementi emersi.

Preliminarmente ed in punto di diritto i giudici ambrosiani rigettano le eccezioni della contribuente richiamando a supporto alcuni principi espressi dai giudici di legittimità:

•sul mancato rispetto dell’articolo 12 comma 7 dello Statuto, in ordine all’omessa motivazione dell’avviso sulle osservazioni prodotte, in quanto le parti si sono contrapposte con articolate argomentazioni e repliche che non consentono di ipotizzare una potenziale limitazione dell’esercizio del diritto di difesa;

•sull’onere della prova, in quanto in presenza di operazioni oggettivamente inesistenti grava sul contribuente ( articolo 1 lettera a Dlgs 74/2000) l’onere di dimostrare che le operazioni fatturate siano state effettivamente eseguite ed all’Ufficio contestarne l’effettività anche sulla base di presunzioni;

•sulla prova, che non può consistere nella mera esibizione delle fatture, né nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, normalmente utilizzati per far apparire reale un’operazione fittizia ( Cassazione 23550 novembre 2014 – Cassazione 11155 del 21 maggio 2014).

Nel merito il Collegio, a parte rigettare tutte le varie eccezioni sullo “sforzo” compiuto dalla ricorrente di dimostrare l’effettiva operatività delle imprese fornitrici, considera dirimente e decisivo, «per sgombrare il campo da qualsiasi incertezza» e smentire l’asserita diligenza invocata dalla ricorrente nei rapporti con le imprese prestatrici di servizi ( esibizione Durc), l’analisi dei “mastrini contabili”, di cui ne ha appositamente richiesto il deposito con ordinanza, nonché l’assenza assoluta di documentazione di dettaglio in soccorso della laconicità della descrizione delle fatture disconosciute.

In particolare i giudici osservano che l’analisi di congruità dei movimenti riportati nelle sopracitate schede contabili non può prescindere dalle rilevazioni dei verificatori in merito alla consistenza patrimoniale (alquanto modesta) dei prestatori nonché dalla natura delle prestazioni (che richiedono molta manodopera); pertanto, in siffatto contesto, emergeva una sostanziale incongruenza in quanto le varie imprese avrebbero dovuto pagare la forza lavoro al massimo mensilmente, rendendo non possibile la concessione di un credito così ampio e duraturo nel tempo, in considerazione della rilevata modesta inconsistenza patrimoniale delle imprese che avrebbero eseguito i lavori fatturati. Non avendo pertanto assolto l’onere della prova la Ctr decide di respingere i ricorsi riuniti.

Fonte “Il sole 24 ore”

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Falso in bilancio, serve il dolo

di Giovanni Negri

Per contestare il reato di falso in bilancio non è sufficiente che la violazione di norme contabili sia stata rilevante. Serve il dolo. E poi, l’omissione di dati contabili imposti dalla legge e suscettibili di incidere sulla consistenza del patrimonio dell’impresa può dare luogo a singoli reati istantanei di falso in bilancio, con ripercussioni sui termini prescrizione. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 21672 della Quinta sezione penale depositata ieri. La Corte ha così respinto il ricorso presentato contro la condanna ai soli effetti del risarcimento delle parti civili emessa nei confronti del legale rappresentante di una società di costruzioni dalla Corte d’appello, in relazione alla mancata rappresentazione dell’importo del ricavato della vendita di una serie di unità immobiliari.

Rispetto al motivo di ricorso che si concentrava sul riconoscimento della prescrizione e sul fatto che il falso in bilancio, nell’ipotesi contravvenzionale prevista dall’articolo 2621 del Codice civile, sia un reato istantaneo suscettibile di essere consumato in relazione a ciascun esercizio al momento del deposito del bilancio, senza trascinamento nel tempo, la Cassazione prende una linea diversa. Mette in evidenza cioè come una violazione, anche di natura contravvenzionale, che ha la capacità di incidere sulla consistenza del patrimonio dell’impresa nel tempo, e quindi anche negli esercizi successivi rispetto all’esercizio in cui i valori economici sono venuti ad esistenza, può andare a realizzare singoli reati istantanei di falso in bilancio riferiti a ciascun anno di esercizio, fino al momento in cui la condotta non viene a cessare.

Quanto all’elemento psicologico, poi, la Cassazione, avverte che la prova del dolo non può essere individuata nella rilevanza dell’importo contabile oggetto dell’omissione. Il dolo non può essere ritenuto provato nella sola violazione di norme contabili sulla esposizione delle voci in bilancio e non può neppure essere individuato nello scopo di fare vivere artificiosamente la società; l’accusa deve invece trovare elementi specifici e incontestabili in grado di mettere in evidenza nel redattore del bilancio la consapevolezza della sua azione irragionevole attraverso la realizzazione di artifizi contabili.

 Fonte “Il sole 24 ore”

L’estratto di ruolo basta a provare entità e natura dei debiti

L’estratto di ruolo è da solo idoneo a provare sia l’entità che la natura dei crediti vantati dall’Agente della Riscossione, essendo in esso elencati, in maniera dettagliata e non discrezionale, tutti i debiti del contribuente nei confronti dei diversi Enti impositori. Come tale, esso inoltre consente agevolmente l’individuazione, ad opera del contribuente, del Giudice fornito di giurisdizione in caso di ricorso contro la cartella di pagamento che si assume non notificata.
Sono queste le principali conclusioni cui è giunta la Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la ordinanza n. 11028 del 9 maggio 2018 .
La pronuncia trae origine da una opposizione da parte di una società in accomandita semplice alla procedura di pignoramento mobiliare che l’allora Equitalia aveva avviato a seguito del mancato pagamento di 28 cartelle esattoriali a causa della loro presunta irregolare notifica. A fronte della predetta doglianza di irregolare notifica, rilevando tra gli atti prodotti da Equitalia (che a sua volta si era costituita in giudizio) soltanto l’estratto di ruolo e non anche gli originali delle cartelle originali, il Tribunale di Taranto che con sentenza n. 2103 del 2016 accoglieva l’opposizione della società e, conseguentemente, annullava il pignoramento mobiliare e tutti gli atti presupposti, ritenendo l’estratto di ruolo non idoneo a provare il credito dell’Agente della Riscossione.

Trattandosi di opposizione a ruoli ormai esecutivi, Equitalia impugnava direttamente la sentenza di primo grado dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo peraltro la violazione e falsa applicazione degli articoli 26 e 57 del DPR 602/73 per aver il Tribunale di Taranto negato l’idoneità probatoria degli estratti di ruolo. La società non presentava alcuna difesa.
Nell’accogliere il ricorso e rinviando al Tribunale di Taranto in nuova composizione, i Giudici della Corte Suprema hanno precisato innanzitutto che nell’estratto di ruolo, rilasciato dal funzionario dell’Agente della riscossione su richiesta del contribuente, sono fedelmente indicati i dati risultanti dal ruolo, che sono stati poi trasfusi nella cartella di pagamento.

In particolare, secondo la Corte Suprema, la cartella esattoriale non è altro che la stampa del ruolo in unico originale notificata alla parte, e, al contrario di quanto affermato dal Tribunale di Taranto, l’estratto di ruolo è una riproduzione fedele ed integrale degli elementi essenziali contenuti nella cartella esattoriale: esso, infatti, riporta tutti i dati essenziali per consentire al contribuente di identificare a quale pretesa dell’Amministrazione esso si riferisca, oltreché tutti i dati necessari ad identificare in modo inequivoco il contribuente, ovvero nominativo, codice fiscale, data di nascita e domicilio fiscale.

L’estratto di ruolo riporta, inoltre, tutti i dati indispensabili necessari per individuare la natura e l’entità delle pretese iscritte a ruolo, ovvero il numero della cartella, l’importo dovuto, l’importo già riscosso e l’importo residuo, l’aggio, la descrizione del tributo, il codice e l’anno di riferimento del tributo, l’anno di iscrizione a ruolo, la data di esecutività del ruolo, gli estremi della notifica della cartella di pagamento, l’ente creditore (indicazioni obbligatoriamente previste dall’art. 25 del DPR n. 602 del 1973, oltre che dagli artt. 1 e 6 del DM n. 321 del 1999). L’estratto del ruolo non è quindi una sintesi del ruolo, operata a discrezione dell’Agente della Riscossione, ma è la riproduzione fedele dei ruoli che si riferiscono alle pretese impositive che si fanno valere nei confronti di quel singolo contribuente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Niente obbligo di avviso bonario per omessi o carenti versamenti

L’invio dell’avviso bonario (comunicazione di irregolarità) a seguito di controlli automatizzati sulla liquidazione delle imposte (articoli 36-bis del Dpr 600/1973 e 54-bis del Dpr 633/1972) non è necessario in caso di omissione o carenza di versamenti. Con questo principio, affermato dalla Cassazione con l’ordinanza 8318/2018 (presidente Chindemi, relatore De Masi), è stata legittimata la cartella di pagamento emessa a seguito di diretta iscrizione a ruolo dei versamenti mancanti.

La vicenda trae origine dal ricorso contro la cartella non preceduta da avviso bonario, emessa a seguito di un controllo formale del modello Unico 2005. L’amministrazione finanziaria aveva proceduto alla diretta iscrizione a ruolo delle imposte indicate in dichiarazione ma non correttamente liquidate.

Nel ricorso in Ctp, il contribuente aveva ottenuto una riduzione delle sanzioni, nonostante i giudici di primo grado si fossero pronunciati a favore della regolarità della cartella impugnata. Successivamente, nel giudizio di appello, la Ctr ha poi ristabilito l’iniziale pretesa erariale indicata nella cartella di pagamento. I giudici regionali, in linea con il disposto dell’articolo 6, comma 5, della legge 212/2000 (Statuto del contribuente), hanno ritenuto l’invio dell’avviso bonario doveroso solo al sussistere di incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, ipotesi non ricorrente in caso di omessi versamenti.

Il contribuente ha presentato ricorso per Cassazione, lamentando che nel caso esaminato l’esclusione dell’obbligo di invio dell’avviso bonario era in contrasto con il principio di collaborazione fra cittadino e amministrazione finanziaria. Inoltre, l’assenza della comunicazione di irregolarità aveva precluso il pagamento delle sanzioni nella misura agevolata prevista dell’articolo 2, comma 2, del Dlgs 462/1997.

La Cassazione, nel condividere la decisione della Ctr, ha giudicato legittima la cartella di pagamento e infondate le doglianze della parte ricorrente sulla perdita dell’opportunità di pagare in misura ridotta le sanzioni. Il collegio di legittimità ha negato la sussistenza di un obbligo generalizzato in capo all’amministrazione finanziaria di comunicare gli esiti dei controlli automatici. Ha, invece, ritenuto necessario l’invio dell’avviso bonario solo in caso di determinazione di un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione.

La Suprema corte ha ribadito nelle proprie motivazioni dei principi già esposti in precedenti giudizi di legittimità. La comunicazione di irregolarità prevista dall’articolo 36-bis del Dpr 600/1973 non persegue lo scopo di realizzare un’interlocuzione fra amministrazione finanziaria e contribuente, ma è finalizzata ad evitare la reiterazione di errori e consentire la regolarizzazione di inesattezze materiali e formali (fra le altre, sentenze 13759/2016 e 8342/2012).

Infine, nei casi in cui il legislatore ha previsto la necessità dell’avviso bonario, i giudici di legittimità hanno comunque ritenuto la sua omissione una mera irregolarità, tale da non comportare la nullità dell’iscrizione al ruolo e degli atti successivi (sentenze 13759/2016, 12023/2015 e 3366/2013). In questo caso, la Suprema corte ha riconosciuto al contribuente il diritto alla definizione agevolata delle sanzioni prevista dall’articolo 2, comma 2, del Dlgs 462/1997, esercitabile al ricevimento della cartella di pagamento non preceduta da comunicazione d’irregolarità.

Fonte “Il sole 24 ore”

Società estinta in pendenza del giudizio. Il Fisco si rivolge agli ex soci

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 19 aprile 2018

In tema di contenzioso tributario, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9672/2018, ha ribadito che, qualora l’estinzione della società di capitali, all’esito della cancellazione dal Registro delle imprese, intervenga in pendenza del giudizio di cui la stessa sia parte, l’impugnazione della sentenza resa nei riguardi della società deve essere rivolta agli (ex) soci, in quanto il limite di responsabilità degli stessi di cui all’art. 2495 C.c. non incide sulla loro legittimazione processuale ma, al più, sull’interesse ad agire del Fisco, interesse che, tuttavia, non è di per sé escluso dalla circostanza che i soci non abbiano partecipato utilmente alla ripartizione finale, potendo, ad esempio, sussistere beni e diritti che, sebbene non ricompresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, si sono trasferiti ai soci.

La controversia riguarda una cartella di pagamento ex art. 36-bis d.P.R. n. 600/73 emessa nei confronti di una S.r.l. che è cessata dopo l’emissione della sentenza che ha chiuso il secondo grado di giudizio. Poiché tale sentenza ha dato integralmente torto all’Agenzia delle entrate, la difesa erariale ha proposto impugnazione presso la Suprema Corte, notificando il ricorso sia al liquidatore sia agli (ex) soci, i quali si sono tutti costituiti nel giudizio di legittimità eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva.

Ebbene, gli Ermellini hanno accolto l’eccezione soltanto rispetto al liquidatore. Mentre, per la parte riguardante gli (ex) soci, il ricorso del Fisco è stato dichiarato ammissibile (oltreché fondato nel merito).

  • I Massimi giudici non hanno ritenuto di alcuna rilevanza la prova fornita dai soci di non aver percepito nulla in sede di bilancio finale di liquidazione.

Gli Ermellini, con la sentenza in esame, prendono le distanze dal loro precedente orientamento (fra le altre, Cass. 23916/2016) secondo il quale «gli ex soci possono ritenersi subentrati nel lato passivo nel rapporto d’imposta solo se e nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione» e, inoltre, «l’accertamento di tali circostanze costituisce presupposto della assunzione, in capo al socio, della qualità di successore e, correlativamente, della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo».

Al contrario, è corretto ritenere – come evidenziato dal più recente indirizzo giurisprudenziale in materia (Cass. n. 9094/2017, seguita da Cass. 15035/2017) che rinvia all’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenze nn. 6070 e 6072 del 2013) – che:

  • «i soci sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata (ma non definiti all’esito della cancellazione) a prescindere dall’aver goduto o meno di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione». E difatti la possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio «non consentono di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statistiche allo stato degli atti. E l’esistenza di questi beni o crediti comporta, come pure rilevato dalle Sezioni Unite, che tra i soci medesimi s’instauri “un regime di contitolarità e di comunione indivisa”».

Alla luce di questi rilievi, dunque, il ricorso di legittimità dell’Agenzia fiscale, nei confronti degli (ex) soci, è stato dichiarato ammissibile dal Supremo Collegio ed esaminato nel merito; esame che si è chiuso con il rinvio della causa alla CTR della Puglia, per nuovo giudizio, salvo che per le sanzioni irrogate. Gli Ermellini soltanto su questo punto hanno ritenuto di non poter condividere gli assunti dell’Amministrazione finanziaria, posto che, ex art. 8 D.lgs. n. 472/1997, le sanzioni non sono trasmissibili ai soci della società estinta«e ciò, a maggior ragione, a fronte del principio della riferibilità esclusiva alla persona giuridica delle sanzioni amministrative tributarie introdotto dall’art. 7, comma 1, d.l. n. 269 del 2003, conv. nella l. n. 326 del 2003».

Autore: Paola Mauro
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

Confisca del patrimonio per l’imputato di evasione anche se non condannato

Chi trae proventi con continuità e sistematicità dall’evasione fiscale e dalle truffe in danno alla pubblica amministrazione espone il patrimonio così costituito al rischio della confisca, applicabile, anche a distanza di tempo, dal tribunale sezione misure di prevenzione. È quanto emerge dalla sentenza 11846 della seconda sezione della Corte di cassazione depositata il 15 marzo scorso.

La vicenda riguarda un imprenditore calabrese che, tra il 1995 e il 2010, era stato coinvolto in diversi procedimenti penali che lo avevano visto indagato o imputato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (reato previsto dall’articolo 640-bis del Codice penale) o di condotte di false fatturazioni ed evasione fiscale per ingenti volumi di affari. Tuttavia, nessuno dei procedimenti si era concluso con una condanna passata in giudicato; ciò in quanto in alcuni si era verificata la prescrizione del reato in grado di appello dopo una condanna di primo grado e in altri erano mancate le condizioni di procedibilità anche prima dell’inizio del dibattimento.

Nel 2016 il Procuratore aveva inoltrato al Tribunale di Reggio Calabria una richiesta di applicazione della misura di prevenzione personale e patrimoniale a carico dell’imprenditore. Egli veniva ritenuto soggetto pericoloso abitualmente dedito a traffici delittuosi, che viveva anche in parte con i proventi di attività delittuose.

Veniva così invocata una ipotesi di «pericolosità generica», prevista dall’articolo 4, lettera c), del decreto legislativo 159/2011.

Il Tribunale aveva ritenuto che dai vari fatti accertati nei procedimenti penali a carico dell’imprenditore, pur conclusi per lui favorevolmente, era emersa una sua stabile dedizione ad attività illecite che gli avevano consentito di acquisire ingenti capitali. Tuttavia, questa sua condotta risultava solo fino al 2010 e, in assenza di altri elementi a suo carico per il periodo successivo, la sua pericolosità non poteva essere ritenuta attuale. Per questo il Tribunale non aveva applicato la misura di prevenzione personale, ma aveva egualmente disposto la confisca dei beni dell’imprenditore che risultavano essere stati da lui acquistati nel periodo in cui si era manifestata la sua pericolosità.

La Cassazione quindi si è trovata ad affrontare un’ipotesi di confisca senza condanna e senza pericolosità attuale del titolare dei beni, ma ha considerato legittimo il provvedimento.

Secondo la Cassazione, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) «De Tommaso contro Italia» del 23 febbraio 2017, che ha censurato la carenza di previsioni dettagliate nel Codice antimafia sul tipo di condotta da considerare espressiva di pericolosità sociale, non costituisce né sentenza pilota né diritto consolidato. Sicché non può avere conseguenze sui giudizi in corso. In altri precedenti della Cedu, poi, l’applicazione delle misure di prevenzione è stata ritenuta legittima purché ancorata a elementi certi e provati. E tali erano quelli raccolti nei procedimenti penali conclusi con dichiarazione di prescrizione, di per sè non preclusiva della valutazione della pericolosità.

La confisca si deve considerare giustificata dall’articolo 1, comma 2, del Protocollo addizionale 1 della Convenzione che salvaguarda le norme interne sull’uso dei beni in conformità all’interesse generale e che quindi consente le procedure che accertino la pericolosità soggettiva e la presumibile origine illecita dei patrimoni. E ciò vale anche quando il patrimonio abbia origine illecita seppur il suo titolare non sia più dedito ad attività illecite. La sua origine, infatti, rende il patrimonio antisociale e altera la concorrenza sul mercato.

Fonte “Il sole 24 ore”

Responsabilità solidale

Per i soggetti residenti all’estero le notifiche non vanno più eseguite in Italia
Il coniuge, regolarmente separato e residente in Svizzera, non deve dichiarare gli assegni di mantenimento percepiti dal coniuge perché non è più soggettivo passivo d’imposta in Italia come dispone il secondo comma dell’articolo 2 del Tuir. L’assoggettamento all’imposizione elvetica si fonda sia sul certificato di residenza storico sia all’iscrizione ad un Albo professionale. Nel caso esaminato, una contribuente nel 2009 percepisce assegni di mantenimento dall’ex coniuge e nel medesimo anno si trasferisce in Svizzera dove svolge anche l’attività professionale di Avvocato regolarmente iscritto all’Ordine di Ginevra. Ma secondo l’Amministrazione tali somme avrebbero dovuto essere dichiarate in Italia, e ridetermina il reddito 2009 di oltre 73mila euro e ricupera maggiore Irpef per oltre 24mila euro e addizionale regionale per oltre 600 euro. Né tanto meno è valida la notifica della cartella di pagamento nei confronti di un contribuente residente all’estero il cui indirizzo è pienamente conoscibile dall’Amministrazione tramite consultazione degli indirizzi esteri dell’iscritto all’Aire, se questa è effettuata tramite semplice affissione alla casa comunale con le modalità della irreperibilità assoluta, senza invio della raccomandata presso l’indirizzo estero.
Nel caso esaminato, il concessionario nel 2009 notifica un’iscrizione a ruolo tramite cartella concernente imposte di registro e bollo auto presso l’ultima residenza italiana del contribuente, risultato poi trasferitosi all’estero nel medesimo anno tramite deposito dell’atto presso la casa comunale e affissione dell’avviso.
Ctr Lombardia, sentenza 473/11/2018
Ctr Lombardia, sentenza 502/06/2018

Fonte “Il sole 24 ore”

Vendite dei beni-garanzia a rischio reato

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Le contestazioni del reato di sottrazione fraudolenta, negli ultimi tempi, sono decisamente aumentate: si tratta di un illecito particolarmente grave che deriva spesso da operazioni imprenditoriali straordinarie e/o di disposizione del proprio patrimonio che gli organi accertatori ritengono compiute simulatamente in frode all’Erario.

Reato e presupposti
L’articolo 11 del Dgs 74/2000 punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque simuli la vendita o compia altri atti fraudolenti per privarsi di ogni bene che l’amministrazione potrebbe aggredire in caso di riscossione coattiva, per il recupero di imposte sui redditi, Iva, interessi o sanzioni di ammontare superiore a 50mila euro, con un’aggravante di pena (da uno a sei anni) per debiti maggiori di 200mila euro.

VEDI IL GRAFICO: Gli esempi

La fattispecie costituisce una tutela nei confronti dell’Erario, diretta non solo alla riscossione dei tributi, ma alla conservazione delle garanzie patrimoniali sulle quali potrebbe rivalersi in caso di inadempimento.

Si tratta di un reato di pericolo, per il quale non è necessaria la preesistenza del debito tributario, con la conseguenza che per ritenersi integrato è sufficiente che gli atti fraudolenti posti in essere siano idonei a vanificare un’ipotizzabile futura procedura di riscossione coattiva.

In altre parole, non è necessario che sussista un tentativo di riscossione in corso o un’iscrizione a ruolo, poiché va verificato se sia stato commesso un atto simulato per occultare i propri o altrui beni al fisco. Peraltro la Cassazione con la sentenza n. 15133 del 5 aprile 2018 ha chiarito che il valore dei beni sottratti fraudolentemente al pagamento delle imposte può essere inferiore a 50mila euro. L’offensività della condotta va infatti parametrata all’attitudine di ridurre o eliminare la garanzia patrimoniale, secondo un giudizio ex ante.

Inoltre è stato anche precisato che il reato di sottrazione fraudolenta non richiede l’accertamento di un delitto tributario presupposto (Cassazione 7177/2017 ).

Tuttavia, sebbene la giurisprudenza sul punto non sia univoca, è verosimile che per integrare il delitto sia necessaria quanto meno la conoscenza da parte del contribuente di un’attività di controllo dell’amministrazione. Se così non fosse si verificherebbe il reato in presenza di qualsiasi atto, ritenuto a posteriori simulato, cui poi seguirebbe la contestazione di una norma tributaria. Così, in assenza di qualsivoglia attività di controllo, appare difficile ipotizzare la sussistenza dell’illecito.

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità, anche con una recente sentenza (la 10161/2018), ha confermato che per il perfezionamento del delitto occorrono due condotte alternative:
– vendita simulata dei beni;
– compimento di atti fraudolenti.

Vendita simulata e frode
La vendita simulata è il negozio caratterizzato da una divergenza tra la volontà dichiarata e la volontà reale. Il programma contrattuale, quindi, non corrisponde alla effettiva volontà dei contraenti.

La nozione di atto fraudolento, invece, non è così univoca. Secondo la giurisprudenza di legittimità esso sussiste quando si tratta di:

– un’alienazione che sebbene effettiva, sia idonea a rappresentare una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero;

– uno stratagemma artificioso finalizzato a sottrarre garanzie in favore dell’erario;

– una condotta atta a vanificare l’esito dell’eventuale esecuzione tributaria coattiva.

Il concetto di frode richiamato dalla norma presuppone così non soltanto la lesione del diritto (di garanzia) dell’Erario, ma che la condotta sia attuata con l’inganno volto a configurare una situazione di apparenza diversa dalla realtà. In altre parole occorre che sembri ridotto il patrimonio, ma in realtà non lo sia. Non è pertanto sufficiente una vendita in sé e per sé, poiché è necessario che sia simulata o attuata con fraudolenza.

Va da sé, ad esempio, che la cessione di beni a un prezzo di mercato e il successivo incasso di denaro non integrano la fattispecie delittuosa, nemmeno se le somme riscosse siano destinate al soddisfacimento di debiti diversi dall’Erario.

Il soddisfacimento di altri creditori, infatti, non costituisce la fraudolenza richiesta dalla norma, se la cessione avviene senza alcuna simulazione o altri atti ingannevoli (sentenza 10161/2018).

Peraltro, è stato chiarito (Cassazione 13223/2016) che in ogni caso la presenza di tale attività simulatoria e/o fraudolenta non è sufficiente a integrare la condotta illecita, poiché occorre che la pretesa erariale non possa essere altrimenti garantita dal patrimonio del contribuente.

La prescrizione
Circa i termini prescrizionali si ricorda, che, rispetto alla maggior parte dei delitti tributari la sottrazione si prescrive in sei anni da quando viene commesso l’illecito ovvero in sette anni e sei mesi se, nel frattempo, sia intervenuta una causa interruttiva.

Il raddoppio dei termini segue le regole vigenti all’epoca dei fatti

Il raddoppio dei termini, disciplinato dall’articolo 43, comma 3, del Dpr 600/1973 e dall’articolo 57, comma 3, del Dpr 633/1972, nei testi applicabili all’epoca dei fatti, contempla esclusivamente l’obbligo della denuncia penale, ai sensi dell’articolo 331 del Codice di procedura penale, per uno dei reati regolati dal Dlgs 74/2000 e non anche la sua effettiva presentazione. A tale conclusione è giunta la Cassazione attraverso l’ordinanza 5126/2018 .

La Ctr della Lombardia ha accolto l’appello proposto da un contribuente avverso una sentenza della Ctp di Varese che ne aveva respinto il ricorso contro un avviso di accertamento per imposte dirette e Iva. La Ctr ha osservato, in particolare, che l’atto impositivo impugnato risultava essere illegittimo in quanto emesso ben oltre il termine decadenziale ordinario previsto dalla legge, non potendosi applicare, nel caso di specie, l’evocata disciplina del raddoppio dei termini contemplata per il caso di rilevanza penale della fattispecie concreta, in quanto la denuncia era stata proposta allorché tale termine ordinario risultava essere già scaduto ed essendo peraltro ciò previsto, quale limite temporale, dalla nuova normativa disciplinante la materia de qua (Dlgs 128 del 2015).
Contro la decisione l’agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione in opposizione al quale ha resistito con controricorso il contribuente. Con l’unico mezzo dedotto (articolo 360 del Codice di procedura civile, comma 1, n. 3) le Entrate hanno lamentato la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 43, comma 3, del Dpr 600/1973 e dell’articolo 57, comma 3, del Dpr 633/1972.

A parere del collegio di legittimità la censura è risultata essere fondata in quanto, in tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dall’articolo 43, comma 3 del Dpr 600/1973 e dall’articolo 57, comma 3, del Dpr 633/1972, nei testi applicabili “ratione temporis”, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’articolo 331 del Codice di procedura penale, per uno dei reati previsti dal Dlgs 74 del 2000 e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte Costituzionale nella sentenza 247 del 2011.

Inoltre, il raddoppio dei termini, disciplinato dall’articolo 43 del Dpr 600/1973 e dall’articolo 57 del Dpr 633/1972, non integra un’ipotesi di proroga dei termini ordinari, trattandosi di fattispecie distinte, disciplinate direttamente e autonomamente dalla legge in relazione a presupposti diversi, costituiti dal riscontro di elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale (per i primi) e dalla sussistenza di violazioni tributarie per le quali, invece, tale obbligo di denuncia non sussiste (per i secondi).

Quanto alla retroattività dello jus superveniens all’articolo 1, commi 130-132, della legge 208/2015, oggetto della relativa eccezione proposta dal contro ricorrente, pacifico che l’atto impositivo in questione sia stato notificato il 24 aprile 2014, la Suprema corte ha ribadito che, in tema di accertamento tributario, i termini previsti dall’articolo 43 del Dpr 600/1973 e dall’articolo 57 del Dpr 633/1972, nella versione applicabile ratione temporis, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, incidano le modifiche introdotte dalla legge 208 del 2015, tra le quali l’articolo 1 comma 132 ha inserito un regime transitorio che si occupa delle sole fattispecie non ricomprese nell’ambito applicativo del precedente regime transitorio – non oggetto di abrogazione – all’articolo 2, comma 3 del Dlgs 128/2015, in virtù del quale la nuova disciplina non si applica né agli avvisi notificati entro il 2 settembre 2015 né agli inviti a comparire o ai processi verbali di constatazione conosciuti dal contribuente entro il 2 settembre 2015 e seguiti dalla notifica dell’atto recante la pretesa impositiva o sanzionatoria entro il 31 dicembre 2015.

Fonte “Il sole 24 ore”

Abuso del diritto: il divieto non scatta quando le operazioni possono essere motivate

In ambito tributario, rappresenta condotta abusiva l’operazione che abbia, quale fattore preponderante e assimilante, la mira di eludere il fisco, così che il divieto alle menzionate operazioni non si manifesta nel caso in cui le stesse possano essere motivate differentemente rispetto al mero intento di conseguire un risparmio di imposta illegittimo, ferma restando l’incombenza, gravante sull’amministrazione finanziaria, di fornire la prova del disegno elusivo e delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, reputati irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel determinato risultato tributario. A tale conclusione è giunta la Suprema Corte attraverso l’ordinanza n. 4148/2018 , depositata in cancelleria il 21 febbraio 2018.

L’agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione nei confronti di una sentenza emessa dalla Ctr che ha confermato la decisione di primo grado nel giudizio introdotto da Alfa Spa attraverso l’impugnazione dell’avviso di rettifica della dichiarazione Irpeg con il quale era stato contestato il carattere elusivo di alcune operazioni collegate, determinando una maggiore imposta, conseguente ai maggiori ricavi derivanti dalla cessione di un’azienda.

La contestazione concerne la menzionata cessione, a opera della ricorrente (al prezzo di 100 milioni di lire), alla società Beta spa alla quale in precedenza, risultando quest’ultima neocostituita, la medesima azienda era stata affittata al canone di 7,5 miliardi di lire, elevato qualche settimana dopo a 9,5 miliardi. Due mesi dopo la cessione dell’azienda, i beni strumentali e le attrezzature, erano state vendute alla stessa Beta Spa per due miliardi.

L’ufficio ha ritenuto che l’accordo fosse stato stipulato in frode alla legge o quanto meno in modo elusivo, accertando induttivamente, ai sensi dell’articolo 37 bis del Dpr n. 600/1973, un maggiore valore del bene e determinando, conseguentemente, l’imposta mediante atto di accertamento.

Il giudice d’appello ha sostenuto che è onere dell’ufficio «provare che tra le parti sono “transitati” prezzi effettivi maggiori di quelli praticati, con conseguenti maggiori ricavi e dunque maggiori imposte», osservando che è necessario stabilire se, al di là del valore dichiarato o accertato, siano passate tra le parti somme superiori a quelle ricavate dalla lettura degli atti.

Avverso la sentenza di appello l’ufficio ha denunciato «la violazione e falsa applicazione del Dpr 29 settembre 1973, n. 600, articolo 37 bis in relazione all’articolo 360 Cpc, n. 3».
A parere del Collegio di Legittimità le censure risultano essere fondate. A norma dell’articolo 37 bis del Dpr n. 600/1973, infatti, sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti i fatti e i negozi, anche collegati fra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e a ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti.

Secondo il principio in più occasioni affermato dalla Corte, infatti, «in materia tributaria, costituisce condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, sicchè il divieto di siffatte operazioni non opera qualora esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando che incombe sull’amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale».

Fonte “Il sole 24 ore”