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Per sospendere il processo fiscale non serve l’adesione alla chiusura-liti

La sospensione del processo va concessa anche in presenza della sola eventualità di aderire alla definizione delle liti: non occorre infatti alcuna certezza in tal senso. È quanto emerge dalla lettura dell’ordinanza della Cassazione relativa al ricorso 2878/2013.
Per una lite pendente dinanzi alla Suprema Corte, la contribuente presentava nello scorso mese di novembre l’istanza di sospensione del giudizio per attivare la procedura per la definizione delle liti pendenti ai sensi dell’articolo 6 del Dl 119/2018.
La norma (comma 10) prevede che le controversie definibili non sono sospese, salvo che il contribuente faccia apposita richiesta al giudice, dichiarando di volersi avvalere della definizione delle liti pendenti. In tal caso il processo è sospeso fino al 10 giugno 2019. Se entro tale data il contribuente deposita presso l’organo giurisdizionale innanzi al quale pende la controversia copia della domanda di definizione e del versamento degli importi dovuti o della prima rata, il processo resta sospeso fino al 31 dicembre 2020.
La disposizione ha generato qualche perplessità poiché la locuzione «dichiarando di volersi avvalere» della definizione è stata interpretata da alcuni giudici di merito nel senso che la sospensione è subordinata alla “sicura” adesione all’istituto da parte del contribuente, e non per consentire la valutazione dello stesso.
Alcune commissioni tributarie, infatti, hanno rigettato la richiesta avanzata perché era stata manifestata solo l’eventuale adesione.
La Cassazione ora, invece, ha sospeso il giudizio precisando testualmente «in attesa dell’eventuale definizione».
Sembra così chiarito che non occorra l’effettiva adesione, ma la sospensione vada concessa anche solo affinché il contribuente possa valutare il da farsi.
È una conclusione di buon senso. Tale circostanza poteva desumersi già dal contenuto dell’ultimo periodo del comma in base al quale se, entro il prossimo 10 giugno, il contribuente deposita la definizione ed il relativo pagamento, il processo resta sospeso fino al 31 dicembre 2020. Ciò significa, al contrario, che in assenza della citata definizione e del relativo pagamento, il processo riprende . Appare evidente quindi che la stessa disposizione prevede la possibilità che la lite non venga definita.
Dovrebbe così risolversi una questione controversa che rischiava di vanificare l’intento del legislatore. La norma, infatti, consente fino al 31 maggio 2019 di aderire alla sanatoria e, solo concedendo la sospensione, il contribuente può beneficiare dell’intero periodo e valutare concretamente le scelte da operare.
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Laura Ambrosi

Pignoramenti, la Corte costituzionale apre all’opposizione

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Più tutele per i contribuenti nel pignoramento presso terzi dall’agente della riscossione. È stata infatti dichiarata incostituzionale la norma che non ammetteva nell’esecuzione esattoriale la tutela prevista dal codice di procedura civile in occasione delle esecuzioni ordinarie. A sancirlo è la Consulta con la sentenza 114, depositata ieri.

Ma vediamo, in estrema sintesi, i termini della questione. Nell’ipotesi in cui, a seguito della cartella di pagamento, il contribuente non adempia al proprio debito tributario richiesto dall’agente della riscossione, tra i vari poteri a disposizione di quest’ultimo vi è il pignoramento presso terzi.

In questi casi la controversia non riguarda il giudice tributario e il contribuente può solo opporsi all’esecuzione davanti al giudice ordinario. Tuttavia, rispetto alla normativa del codice di procedura civile, nell’esecuzione esattoriale e segnatamente nel pignoramento presso terzi, esistono alcune deroghe a favore del creditore (l’agente della riscossione) previste dal Dpr 602/73.

A norma dell’articolo 57 di questo decreto nel pignoramento presso terzi nelle esecuzioni esattoriali non sono ammesse: le opposizioni regolate dall’articolo 615 Cpc, fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni; le opposizioni regolate dall’articolo 617 Cpc relative alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo esecutivo.

Ne consegue che il contribuente interessato, una volta effettuato il pignoramento presso terzi dall’agente della riscossione, ha di fatto pochissimi strumenti di tutela proprio perché quelli previsti dal codice di procedura civile subiscono delle forti limitazioni.

In questo contesto i tribunali di Trieste e Sulmona rilevavano in opposizione ad atti di pignoramento dell’agente della riscossione la fondatezza sostanziale e processuale dell’impugnazione del contribuente. In particolare, nella vicenda sottoposta al vaglio dei giudici triestini, il contribuente lamentava la violazione da parte di Equitalia dell’articolo 7 del Dl 70/2011, relativo alla sospensione ex lege degli atti esecutivi esattoriali per la durata di 120 giorni.

Tuttavia, si trattava di circostanze che non potevano essere fatte valere né davanti alle commissioni tributarie, poiché gli atti dell’esecuzione esulano dalla giurisdizione tributaria, né davanti al giudice ordinario per le limitazioni poste dal ripetuto articolo 57. Vi sarebbe, così, un difetto assoluto di giurisdizione con conseguente violazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione. Da qui, in buona sostanza, la remissione alla Consulta.

La Corte ha ritenuto fondata la questione sollevata dal tribunale di Trieste. Secondo la Consulta, in estrema sintesi, la peculiarità dei crediti tributari, che può determinare una disciplina di favore per l’amministrazione fiscale, come già rilevato dalla Corte stessa anche recentemente (da ultimo, sentenza n. 90 del 2018), e che è a fondamento della speciale procedura di riscossione coattiva tributaria rispetto a quella ordinaria di espropriazione forzata, non è però tale da giustificare che, nelle ipotesi in cui il contribuente contesti il diritto di procedere a riscossione coattiva e sussista la giurisdizione del giudice ordinario, non vi sia una risposta di giustizia se non dopo la chiusura della procedura di riscossione ed in termini meramente risarcitori.

Per tali ragioni è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 57, comma 1 lettera a) del Dpr 602/73, nella parte in cui non prevede per le controversie relative agli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella le opposizioni regolate dall’articolo 615 codice procedura civile.

Fonte “Il sole 24 ore”

L’indebita compensazione allarga i confini

Il reato di indebita compensazione si realizza anche quando l’omesso versamento riguarda tributi differenti da imposte dirette e Iva. A confermare questa rigorosa interpretazione è la Corte costituzionale nella sentenza 21 febbraio 2018, n. 35 .

Il delitto di indebita compensazione previsto e punito dall’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000 prevede la reclusione da sei mesi a due anni nei confronti di chiunque non versi le somme dovute, utilizzando in compensazione crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a 50mila euro. È poi punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni se la compensazione riguarda crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai 50mila euro.

Tale differenziazione, introdotta dal Dlgs 158/2015, è giustificata dal fatto che l’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti, rispetto a quelli non spettanti, rappresenta una fattispecie estremamente offensiva. L’inesistenza presuppone, infatti, che il soggetto abbia agito con un intento fraudolento sicuramente maggiore, creando artatamente e ad hoc crediti mai esistiti al solo fine di non versare le imposte dovute.

Entrambe le condotte sono caratterizzate dal dolo generico consistente nella mera consapevolezza di utilizzare in compensazione crediti tributari inesistenti o non spettanti.

La Consulta, intervenuta su sollecitazione del Tribunale di Busto Arsizio in merito ad un possibile profilo di incostituzionalità del reato rispetto alla dichiarazione infedele (per le differenti soglie di punibilità), illustrando la fattispecie illecita sembra confermare l’orientamento rigoroso e prevalente della Corte di cassazione in base al quale il delitto in questione si presta a reprimere l’omesso versamento di somme attinenti a tutti i debiti – sia tributari, sia di altra natura – per il cui pagamento deve essere utilizzato il modello di versamento unitario.

Secondo i giudici di legittimità, infatti, risponderebbe del delitto contenuto nell’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000 non solo chi omette di versare le imposte dirette o l’Iva utilizzando indebitamente in compensazione crediti non spettanti o inesistenti concernenti altre imposte (anche regionali) o di natura previdenziale, ma anche chi si avvalga di analogo artificio per evitare di corrispondere tali ultime imposte ovvero contributi dovuti ad enti di previdenza (Cassazione, sezione III penale, 5177/2015; sezione II penale, 35968/2009). E questo anche se la disposizione risulta inserita nel Dlgs 74/2000, che, come emerge anche dal suo titolo, è posto a presidio unicamente delle imposte dirette e dell’Iva.

In altre parole è stato sempre condiviso, in dottrina come in giurisprudenza che il reato in esame sicuramente ricorre nei casi in cui attraverso l’indebita compensazione non siano versate le imposte sui redditi e l’Iva e ciò per almeno due ragioni:

– la fattispecie penale è stata introdotta per completare l’apparato repressivo di tutela degli omessi versamenti delle due imposte (e infatti venne previsto cronologicamente l’articolo 10-bis sugli omessi versamenti delle ritenute, l’articolo 10-ter sull’Iva e quindi il 10-quater ove tali omissioni siano consumate mediante indebite compensazioni);

– il reato è stato introdotto nel Dlgs 74/2000, emanato a seguito di specifica legge delega per l’introduzione di reati in materia di imposte sui redditi e Iva.

Più controverso e varie volte dibattuto, invece, se la fattispecie possa ritenersi integrata anche quando l’indebita compensazione non sia finalizzata a omettere il versamento di tali imposte (penalmente tutelate dal Dlgs 74/2000) ma altri tributi (si pensi all’Irap, ai tributi locali, eccetera) o i contributi previdenziali.

La principale motivazione addotta dai sostenitori di questa seconda e più restrittiva interpretazione circa l’ambito di applicazione del delitto si basa proprio su eventuali profili di incostituzionalità dell’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000 in caso di estensione a qualsivoglia tributo o contributo. In particolare, si sarebbe potuto configurare un eccesso di delega da parte del Governo che poteva disciplinare esclusivamente fattispecie penali in materia di imposte sui redditi e Iva e non anche riferite ad altri tributi o addirittura contributi previdenziali.

Ora la Consulta – pur non intervenendo specificamente sulla questione in quanto la sentenza era riferita a profili di incostituzionalità rispetto alla nuova soglia prevista per la dichiarazione infedele – nel descrivere la fattispecie ha ammesso, senza alcuna obiezione, che la giurisprudenza di legittimità ritiene estensibile alla fattispecie di indebita compensazione a qualunque tributo e contributo.

Fonte “Il sole 24 ore”