Abuso del diritto: il divieto non scatta quando le operazioni possono essere motivate

In ambito tributario, rappresenta condotta abusiva l’operazione che abbia, quale fattore preponderante e assimilante, la mira di eludere il fisco, così che il divieto alle menzionate operazioni non si manifesta nel caso in cui le stesse possano essere motivate differentemente rispetto al mero intento di conseguire un risparmio di imposta illegittimo, ferma restando l’incombenza, gravante sull’amministrazione finanziaria, di fornire la prova del disegno elusivo e delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, reputati irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel determinato risultato tributario. A tale conclusione è giunta la Suprema Corte attraverso l’ordinanza n. 4148/2018 , depositata in cancelleria il 21 febbraio 2018.

L’agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione nei confronti di una sentenza emessa dalla Ctr che ha confermato la decisione di primo grado nel giudizio introdotto da Alfa Spa attraverso l’impugnazione dell’avviso di rettifica della dichiarazione Irpeg con il quale era stato contestato il carattere elusivo di alcune operazioni collegate, determinando una maggiore imposta, conseguente ai maggiori ricavi derivanti dalla cessione di un’azienda.

La contestazione concerne la menzionata cessione, a opera della ricorrente (al prezzo di 100 milioni di lire), alla società Beta spa alla quale in precedenza, risultando quest’ultima neocostituita, la medesima azienda era stata affittata al canone di 7,5 miliardi di lire, elevato qualche settimana dopo a 9,5 miliardi. Due mesi dopo la cessione dell’azienda, i beni strumentali e le attrezzature, erano state vendute alla stessa Beta Spa per due miliardi.

L’ufficio ha ritenuto che l’accordo fosse stato stipulato in frode alla legge o quanto meno in modo elusivo, accertando induttivamente, ai sensi dell’articolo 37 bis del Dpr n. 600/1973, un maggiore valore del bene e determinando, conseguentemente, l’imposta mediante atto di accertamento.

Il giudice d’appello ha sostenuto che è onere dell’ufficio «provare che tra le parti sono “transitati” prezzi effettivi maggiori di quelli praticati, con conseguenti maggiori ricavi e dunque maggiori imposte», osservando che è necessario stabilire se, al di là del valore dichiarato o accertato, siano passate tra le parti somme superiori a quelle ricavate dalla lettura degli atti.

Avverso la sentenza di appello l’ufficio ha denunciato «la violazione e falsa applicazione del Dpr 29 settembre 1973, n. 600, articolo 37 bis in relazione all’articolo 360 Cpc, n. 3».
A parere del Collegio di Legittimità le censure risultano essere fondate. A norma dell’articolo 37 bis del Dpr n. 600/1973, infatti, sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti i fatti e i negozi, anche collegati fra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e a ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti.

Secondo il principio in più occasioni affermato dalla Corte, infatti, «in materia tributaria, costituisce condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, sicchè il divieto di siffatte operazioni non opera qualora esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando che incombe sull’amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale».

Fonte “Il sole 24 ore”