Il Fisco mette sotto tiro i costi dedotti per accordi transattivi

di Rosanna Acierno

Sempre più spesso gli Uffici recuperano a tassazione i costi che il contribuente, attraverso accordi di transazione, ha sostenuto per prevenire o decretare la cessazione di liti legali sorte nell’esercizio dell’attività. Si tratta, in sostanza, dei casi molto frequenti in cui un’impresa, o anche un professionista o altri titolari di partita Iva, corrispondono somme di denaro ad altri soggetti, in base a un accordo scritto (detto, appunto, «transazione») con cui, mediante reciproche concessioni, pongono fine a una lite già sorta o che sta per cominciare (articolo 1965 del Codice civile).

Sotto un profilo fiscale, colui che corrisponde le somme a titolo di transazione ad un altro soggetto per risarcirlo (in parte), ad esempio, del danno arrecatogli o per indennizzarlo (sempre in parte), ad esempio, per un mancato guadagno, generalmente le deduce integralmente dal proprio reddito nell’esercizio in cui la relativa spesa viene sostenuta, sebbene nel Tuir non si rinvenga una norma che considera sopravvenienze passive le indennità da corrispondere a titolo di risarcimento di danni. Secondo, infatti, quanto previsto dall’articolo 101, comma 4, del Tuir, rappresentano sopravvenienze passive le spese, le perdite o gli altri oneri sostenuti a fronte di ricavi o di altri proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi. A sua volta, il soggetto che riceve le somme dovrebbe considerarle come sopravvenienze attive e dovrebbe assoggettarle a tassazione in base al principio di competenza, così come previsto dall’articolo 109, commi 1 e 2, del Tuir.

Tuttavia, in questi casi, nel corso di verifiche e accertamenti nei confronti soprattutto dei soggetti erogatori delle somme il Fisco tende a disconoscerne la deducibilità per diverse ragioni.

A volte accade che la deduzione sia disconosciuta per il presunto carattere di liberalità che sarebbe connesso all’esborso finanziario e/o per difetto di inerenza, laddove gli accertatori ritengano che il sostenimento del costo non sia strettamente funzionale alla produzione dei ricavi.

In altri casi, il disconoscimento della deduzione della spesa sostenuta viene giustificata dagli Uffici per presunta antieconomicità della transazione perché magari ritenuta ingente e poco conveniente o, ancora, per l’assenza di certezza ritenendo che, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, i componenti economici relativi a una controversia divengono certi e obiettivamente determinabili quando la loro valutazione estimativa si basa su criteri non soggettivi, ma oggettivi. Pertanto, per gli accertatori, gli oneri relativi a una controversia diventano certi e oggettivamente determinabili soltanto a seguito della chiusura definitiva della controversia mediante una sentenza di condanna.

In altri casi ancora, i costi vengono disconosciuti per non aver il contribuente adottato, secondo il Fisco, un comportamento corretto dato che, in base al principio contabile Oic 19, avrebbe dovuto prudenzialmente accantonare negli anni precedenti delle somme a titolo di fondo per rischi, sulla base di una valutazione previsionale della passività potenziale, e dedurre i relativi accantonamenti annuali.

Come è intuibile, il disconoscimento della deduzione operata, a prescindere dalle ragioni addotte dall’ente accertatore, non viene accettato dal contribuente. E questo soprattutto laddove si vede recuperare somme (a volte, anche di ingente valore) corrisposte mezzi tracciabili, e dunque, in maniera certa e inconfutabile, a soggetti terzi, nell’ambito di una transazione stipulata, magari a seguito di estenuanti trattative a suon di carte bollate, per porre fine o per prevenire una controversia che lo avrebbe oltremodo danneggiato.

 Fonte “Il sole 24 ore”