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Alberghi, b&b e affitti brevi: arriva il «grande fratello» del turismo

Albergatori, gestori di strutture ricettive e alcuni semplici locatori di “affitti brevi” saranno presto inseriti in una mega banca dati della ricettività. Ma i loro dati serviranno anzitutto all’agenzia delle Entrate.

Con il secondo e il terzo comma del nuovo articolo 13 quater del Dl 34/2019 è infatti stato previsto che il ministero dell’Interno debba fornire all’agenzia delle Entrate i dati risultanti dalle comunicazioni di cui all’articolo 109, comma 3, del Tulps. Si tratta dei dati individuati dal Dm dell’Interno del 7 gennaio 2013 che ciascun gestore di una struttura ricettiva e ciascun locatore o sublocatore di immobili concessi in godimento con contratti di durata inferiore a trenta giorni devono inviare alla questura competente per territorio mediante il portale denominato “AlloggiatiWeb”.

Dati a uso fiscale

L’Agenzia delle Entrate renderà poi disponibili detti dati, anche a fini di monitoraggio, ai Comuni che hanno istituito l’imposta di soggiorno o il contributo di soggiorno. I dati stessi, inoltre, verranno utilizzati dall’Agenzia delle Entrate, unitamente ai dati trasmessi dai soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare ai sensi dell’articolo 4, commi 4 e 5, del Dl 50/2017, ai fini dell’analisi del rischio relativamente alla correttezza degli adempimenti fiscali.

La norma, per essere concretamente attuata richiede però che criteri, termini e modalità (quasi sicuramente telematica) della trasmissione dei dati vengano stabiliti con un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell’interno, da adottare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge 58/2019 di conversione del Dl 34/2019 (cioè entro il 30 settembre 2019), sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali che deve pronunciarsi entro quarantacinque giorni dalla data di trasmissione.

La banca dati

Con il quarto e quinto comma del nuovo articolo 13 quater del Dl 34/2019 è stata infine prevista l’istituzione presso il ministero delle Politiche agricole, di una “banca dati” sia delle strutture ricettive, sia degli immobili destinati alle locazioni brevi ai sensi dell’articolo 4 del Dl 50/2017, presenti nel territorio nazionale.

La banca dati (che si prefigge di contrastare forme irregolari di ospitalità anche ai fini fiscali) dovrà quindi contenere sia le informazioni relative a tutte le strutture ricettive alberghiere ed extralberghiere (cioè, oltre agli alberghi: case e appartamenti per vacanze, bed & breakfast, affittacamere, foresterie, ostelli, rifugi alpini, campeggi e altre tipologie previste dalle singole regionali che disciplinano la materia), sia le informazioni relative ai soli immobili destinati alle locazioni brevi ai sensi dell’articolo 4 del Dl 50/2017. Poiché questi immobili destinati alle locazioni brevi sono solo quelli oggetto di contratti stipulati da persone fisiche, al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa, dalla banca dati resteranno esclusi tutti gli alloggi oggetto di contratti di locazione stipulati da persone giuridiche e tutti gli alloggi oggetto di contratti di locazione stipulati da persone fisiche nell’esercizio dell’attività di impresa.

Nella banca dati ogni struttura ricettiva e ogni immobile destinato alla locazione breve ai sensi dell’articolo 4 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, verrà identificato mediante un codice alfanumerico (cosiddetto “codice identificativo”) che dovrà essere utilizzato in ogni comunicazione inerente all’offerta e alla promozione dei servizi all’utenza. Attenzione: quest’ultimo obbligo riguarda però solo i soggetti titolari di vere e proprie strutture ricettive, chi esercita attività di intermediazione immobiliare e i gestori di portali telematici saranno tenuti a pubblicare il codice identificativo nelle comunicazioni inerenti all’offerta e alla promozione. Non, invece, i locatori di immobili concessi in godimento con contratti di durata inferiore a trenta giorni, che non sono compresi nell’elenco dei soggetti obbligati alla pubblicazione del codice.

Si dovrà comunque attendere un Dm delle Politiche agricole da adottare entro il 30 luglio 2019 contenente:

a) le norme per la realizzazione e la gestione della banca dati, compresi i dispositivi per la sicurezza e la riservatezza dei dati;

b) le modalità di accesso alle informazioni della banca dati;

c) le modalità con cui le informazioni contenute nella banca dati sono messe a disposizione degli utenti e delle autorità̀ preposte ai controlli e quelle per la conseguente pubblicazione nel sito internet istituzionale delle Politiche agricole;

d) i criteri che determinano la composizione del codice identificativo.

Fonte “Il sole 24 ore”

Sì alla riforma della class action. Per le imprese rischio costi

Cambiano le regole per avviare un’azione collettiva con l’obiettivo di ottenere il risarcimento dei danni: il Senato ha approvato in via definitiva la riforma della class action. Che passa dal Codice del consumo al Codice di civile. Immediata conseguenza, l’estensione della platea dei soggetti che potranno chiamare le imprese a rispondere: non solo i consumatori, ma chiunque ritenga di avere subìto una lesione di «diritti individuali omogenei». E a proporre l’azione potranno essere anche le associazioni rappresentative dei diritti oggetto della tutela. Sul banco degli “imputati” imprese ed enti gestori di servizi pubblici, non la Pubblica amministrazione. Non sono consentiti ricorsi su eventi passati.

Esulta il ministro della Giustizia Bonafede: «Finalmente i cittadini italiani hanno uno strumento per unirsi e far valere insieme i loro diritti». Forti restano le perplessità di Confindustria su più punti: l’allargamento dell’ambito di applicazione; la possibilità di adesione alla classe anche dopo la sentenza che ha definito la causa; i compensi premiali. Elementi che rischiano di fare sia da volano al contenzioso sia da moltiplicatore dei costi da sostenere.

Di sicuro è un cambiamento radicale. Che, nelle intenzioni dei sostenitori, dovrà portare a un significativo aumento delle azioni collettive. Ieri il Senato ha approvato definitivamente la riforma della class action (introdotta con un blitz nella manovra del 2008: passò con un emendamento approvato per un voto e un senatore sbagliò a votare). Larga la maggioranza (206 sì, 44 no e 1 astenuto) che ha dato il via libera al passaggio dell’azione di classe dal Codice del consumo al Codice civile. Cambiamento che non è solo formale, visto che, nei fatti, condurrà a un’immediata estensione della platea dei soggetti che potranno promuovere la richiesta di risarcimento: non più i soli consumatori, ma chiunque ritiene di avere subìto una lesione di «diritti individuali omogenei», oltre che le associazioni rappresentative dei diritti oggetto della tutela

Ad allargarsi è inoltre il perimetro oggettivo di applicazione. Anche se sono confermate individualità e omogeneità dei diritti, la legge individua nella class action lo strumento utile per tutte le ipotesi di responsabilità contrattuale (in linea con la disciplina vigente) e quelle di responsabilità extracontrattuale, oggi limitate a pratiche commerciali scorrette e comportamenti anticoncorrenziali. Per esempio, nel caso del dieselgate, la disciplina attuale fa valere “solo” la lesione alla normativa sulla concorrenza (prodotto diverso da quello pubblicizzato); in futuro si potranno far valere anche lesioni a diritti come quello alla salute o all’ambiente.

Esulta il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede che sottolinea come «l’azione di classe sinora era limitatissima e aveva diversi paletti che l’avevano resa inutilizzabile nel corso degli anni. Ora diventa uno strumento generale che i cittadini, deboli da soli, potranno utilizzare, unendosi per fare valere i propri diritti».

Bonafede tiene a ricordare che la class action potrà essere usata anche dagli imprenditori e tuttavia fortissime restano le perplessità di Confindustria che, più volte anche nel corso dei lavori parlamentari, ha espresso contrarietà su una serie di punti. Tra questi, oltre alla vastissima estensione dell’ambito di applicazione, almeno altri due aspetti qualificanti: la possibilità di adesione alla classe anche dopo la sentenza che ha definito la causa e i compensi premiali dovuti al rappresentante comune della classe e agli avvocati dei ricorrenti. Tutti elementi che rischiano sia di fare da volano al contenzioso sia da moltiplicatore dei costi da sostenere.

Rispetto alla versione iniziale del testo sono state introdotte alcune modifiche significative, escludendo, per esempio, la retroattività, con la nuova disciplina che si applicherà cioè alle condotte illecite poste in essere solo dopo l’entrata in vigore; l’estensione da 6 a 12 mesi del periodo transitorio: la riforma si applicherà dopo un anno dall’entrata in vigore; la possibilità per il giudice di sospendere, per gravi e fondati motivi, la liquidazione delle somme da corrispondere a titolo di risarcimento; l’unicità dell’azione, evitando di avviare, per gli stessi fatti e contro la medesima impresa, più azioni di classe.

La competenza è affidata alle sezioni specializzate in materia d’impresa, con una procedura articolata in tre fasi: ammissibilità, decisione e (eventuale) liquidazione. Confermato il meccanismo di ingresso nella classe attraverso manifestazione di volontà (opt in, a distinguere l’azione di classe italiana dalla class action degli Stati Uniti, dove si è inseriti automaticamente nella classe) che può avvenire in 2 momenti dopo l’ammissibilità oppure dopo la decisione.

 Fonte “Il sole 24 ore”

La nuova class action amplia la platea di chi esercita l’azione risarcitoria

La nuova disciplina prevista nel Codice di procedure civile in materia di azione di classe, approvata mercoledì in via definitiva dal Senato (si veda Il Quotidiano del Fisco di ieri ), cancellando ogni precedente riferimento a consumatori e utenti, introduce la facoltà di esperire l’azione giudiziaria per tutti coloro che avanzino un diritto al risarcimento di danni contrattuali ed extracontrattuali relativi alla lesione di «diritti individuali omogenei» (non più quindi, come era previsto nel codice del consumo, ad «interessi collettivi»). Ciascun componente della cosiddetta “classe”, ovvero le organizzazioni o associazioni senza scopo di lucro che avranno come obiettivo la tutela dei suddetti diritti, e che saranno iscritte in un elenco tenuto dal ministero della Giustizia, saranno quindi nella titolarità di poter esperire la loro azione risarcitoria. Nella nuova normativa è stato pertanto ampliato in modo significativo l’ambito di applicazione oggettivo dell’azione, che è esperibile a tutela delle situazioni soggettive maturate a fronte di condotte lesive sia per ottenere l’accertamento della responsabilità che per avere la condanna al risarcimento del danno e alle eventuali restituzioni contrattuali ed extracontrattuali.

I soggetti passivi delle azioni di classe sono individuati dalla norma (articolo 840 bis e seguenti del Codice di procedura civile) nelle imprese commerciali ma anche nei confronti di enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, relativamente ad atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento delle rispettive attività.

Altro elemento di novità assoluta è la disciplina del compenso derivante dall’azione di classe che si sostanzia in una vera propria quota lite, che già autorevole dottrina (si veda ancora Il Quotidiano del Fisco di ieri ) ha paragonato ad una sorta di anticipazione di danni punitivi in quanto somma aggiuntiva al risarcimento tradizionale classico. Questa nuova voce di danno sarà una somma che, a seguito del decreto del giudice delegato, il soggetto passivo in caso di condanna dovrà corrispondere al rappresentante comune degli aderenti e al difensore dei partecipanti all’azione di classe . Questa nuova voce di danno sarà liquidata attraverso una percentuale dell’importo complessivo derivante dalla condanna principale che i destinatari delle azioni di classe saranno condannati a pagare. Tale percentuale secondo la nuova normativa verrà calcolata in base al numero dei componenti la classe in misura inversamente proporzionale, sulla base di sette scaglioni progressivi: da 1 a 500 componenti, in misura non superiore al 9%; da 501 a 1.000, in misura non superiore al 6%; da 1.001 a 10.000, in misura non superiore al 3%; da 10.001 a 100.000, in misura non superiore al 2,5%; da 100.001 a 500.000, in misura non superiore all’1,5%; da 500.001 a 1.000.000, in misura non superiore all’1%; oltre 1.000.000, in misura non superiore allo 0,5%.

È evidente che l’introduzione di questa nuova azione di classe non potrà non avere effetti immediati e diretti anche sui bilanci e gli accantonamenti dei fondi rischi ed oneri delle aziende pubbliche e private,e dovrà anche essere analizzato il trattamento fiscale dei risarcimenti erogati ed erogandi. Nel caso dei bilanci delle aziende i criteri di prudenza nel valutare i contenziosi dovranno letteralmente fare i conti con la nuova norma che oltre ad ampliare l’ambito dei diritti estende significativamente la platea dei soggetti passivi ed attivi con la possibile moltiplicazione dei risarcimenti e delle percentuali aggiuntive e punitive previste.

Relativamente al trattamento fiscale andrà valutato se e in che misura sarà possibile la deduzione del risarcimento da parte del soggetto erogante e l’eventuale tassazione del risarcimento del soggetto percipiente.

Infine, visti i nuovi rischi per le imprese, andranno valutate le assicurazioni professionali esistenti e probabilmente saranno introdotte nuove forme di coperture assicurative.

Fonte “Il sole 24 ore”

Sanatoria per tutte le violazioni relative alle comunicazioni Iva

È possibile definire anche le sviste e le carenze sui dati per gli studi di settore
La regolarizzazione vale solo per violazioni che non impattano sull’imponibile
Il provvedimento 62274/2019, attuativo della sanatoria delle violazioni formali (articolo 9 del Dl 119/2018) varato venerdì dall’agenzia delle Entrate, non individua precisamente le fattispecie interessate dalla regolarizzazione, enunciando invece principi di carattere più generale: in particolare, la violazione, per essere considerata formale, non deve incidere sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo precisando, a scanso di equivoci, che l’omessa presentazione delle dichiarazioni (imposte sui redditi, Irap o Iva), anche qualora non dovesse risultare alcuna imposta dovuta, non rientra nella sanatoria delle irregolarità formali, perché questa omissione rileva sempre ai fini della determinazione della base imponibile.
Per individuare esattamente le violazioni sanabili occorre quindi interrogarsi sulla precisa latitudine della sanatoria tenendo a mente che la definizione non è subordinata al solo pagamento della quota fissa di 200 euro per anno, ma anche alla regolarizzazione postuma della violazione.
Si possono senz’altro considerare formali e quindi rientranti nella sanatoria, tutte le violazioni che vengono punite dall’articolo 8 del Dlgs 471/1997 (violazioni relative al contenuto e alla documentazione delle dichiarazioni) con la sanzione fissa. È il caso, ad esempio, dell’omessa o irregolare presentazione dei dati afferenti l’applicazione degli studi di settore. Inoltre, sono da considerarsi formali e, quindi, rientranti nella sanatoria, la gran parte degli obblighi di comunicazione previsti dall’articolo 11 dello stesso Dlgs 471/1997, come, ad esempio, la comunicazione di sintesi delle liquidazioni periodiche, la comunicazione dei dati delle fatture e degli elenchi Intrastat. Rientrano, inoltre, sicuramente nella sanatoria anche le violazioni relative all’inversione contabile quando l’imposta è stata assolta dalla controparte (articolo 6, commi 9-bis1 e 9-bis2), l’omessa presentazione del modello F24 a saldo zero e diverse altre per le quali si rimanda alla tabella a fianco.
Il provvedimento precisa anche che rientrano nella sanatoria non solo le violazioni formali commesse dai contribuenti, ma pure quelle che riguardano i sostituti d’imposta, gli intermediari ed i soggetti, più in generale, tenuti alla comunicazione di dati fiscalmente rilevanti. In quest’ambito vanno quindi segnalate le eventuali violazioni commesse dagli intermediari abilitati nelle trasmissioni delle dichiarazioni dei propri assistiti, sanzionabili ai sensi dell’articolo 7-bis del Dlgs 241/1997 e quelle più in generale inerenti le varie comunicazioni all’anagrafe tributaria .
Più dubbia è l’applicabilità della sanatoria alle violazioni che non sono state già regolarizzate grazie al ricorso alla cosiddetta remissione in bonis. Ci riferiamo, ad esempio, all’accesso ai regimi fiscali opzionali, subordinati all’obbligo di preventiva comunicazione o di altro adempimento di carattere formale. Vista la posizione assunta nel provvedimento si potrebbe sostenere che queste violazioni possono aver inciso sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo per cui resterebbero estranee alla sanatoria.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Dario Deotto
Gian Paolo Ranocchi

Paradisi fiscali, anche gli Emirati nella nuova lista nera Ue

Bruxelles. L’Italia non gradiva la presenza degli Eau nell’elenco, ma ha tolto la riserva dopo rassicurazioni Dalla black list limiti all’accesso dei fondi comunitari
Dopo un tira-e-molla dell’ultimo minuto, i Ventotto hanno approvato ieri qui a Bruxelles un sofferto aggiornamento della lista dei paradisi fiscali, ossia delle giurisdizioni con i quali eventuali rapporti finanziari saranno soggetti a particolare controllo da parte delle autorità comunitarie e nazionali. L’Italia ha tolto l’iniziale riserva contro la presenza nell’elenco degli Emirati Arabi Uniti, un paese che tra le altre cose è stato di recente azionista di Alitalia attraverso Etihad.
Nata nel dicembre del 2017, la nuova lista comprende ora 15 giurisdizioni, 10 aggiunte oggi e altre cinque già esistenti. I nuovi paesi nell’elenco messo a punto dalla Commissione europea e approvata dai Ventotto sono Aruba, il Belize, Barbados le isole Bermuda, Dominica, le isole Figi, le isole Marshall, il sultanato di Oman, le isole Vanuatu e gli Emirati Arabi Uniti. Questi si aggiungono alle Samoa americane, Samoa, Guam, le isole Vergini americane e Trinidad & Tobago.
In un primo tempo, l’Italia ha posto una riserva sulla presenza nell’elenco degli Emirati Arabi Uniti, convinta che il Paese stesse facendo abbastanza per garantire trasparenza fiscale. Parlando ieri prima della riunione ministeriale e dando nei fatti il via libera italiano, il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha spiegato che la prossima approvazione di una serie di misure da parte del paese comporterà in ultima analisi una sua prossima uscita dalla lista. Il ministro Tria ha ottenuto di modificare le conclusioni della riunione, prevedendo che la lista possa essere aggiornata almeno una volta all’anno sulla base dei nuovi impegni da parte di paesi che vogliono uscire dalla lista dei paradisi fiscali. È da presumere che l’Italia voglia preservare i suoi rapporti con gli Emirati Arabi Uniti con cui ha profondi legami. Etihad è stato per alcuni anni azionista di Alitalia, mentre l’Eni ha appena rilevato una raffineria nel paese con un investimento di 3,3 miliardi di dollari.
Istituzioni finanziarie nei paesi inseriti nell’elenco non possono ricevere denaro comunitario nell’ambito del Fondo europeo di sviluppo sostenibile e del Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi). Schemi fiscali che coinvolgono questi paesi dovranno essere denunciati alle autorità. Solo gli investimenti diretti in queste giurisdizioni (ossia il finanziamento di progetti sul campo) sono consentiti, allo scopo di preservare gli obiettivi di sviluppo e sostenibilità. Altri 34 Paesi sono su una lista cosiddetta grigia (compresa la Svizzera), perché si sono impegnati a modificare la loro legislazione nazionale. L’approvazione di ieri giunge dopo che la settimana scorsa i Ventotto hanno bocciato un altro elenco preparato dalla Commissione europea, questa volta comprendente le giurisdizioni che non collaborano a livello internazionale contro il riciclaggio di denaro sporco. Una netta maggioranza di paesi si è opposta alla presenza nella lista dell’Arabia Saudita.
La nuova lista di paradisi fiscali ha provocato le reazioni negative dell’organizzazione non governativa Oxfam a causa dell’assenza di alcuni paesi quali le Bahamas o le isole Cayman. D’altra parte, l’elenco comunitario si vuole più rigoroso di altre liste nere perché messo a punto con criteri più stringenti e più numerosi. La stessa Commissione europea si dice convinta che l’elenco nato nel 2017 stia contribuendo a maggiore trasparenza fiscale a livello internazionale. Sempre ieri, infine, i ministri hanno raggiunto un accordo sulle misure necessarie a semplificare le norme fiscali nelle vendite online. Le nuove regole garantiranno un’introduzione fluida delle nuove misure in materia di imposta sul valore aggiunto nel commercio elettronico concordate nel dicembre 2017 e destinate a entrare in vigore nel gennaio 2021. Dovrebbero anche aiutare i paesi a recuperare i cinque miliardi di euro di introiti fiscali persi nel settore ogni anno.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”
Beda Romano

La doppia partita del Fisco tra «pace» e alert preventivi

Partita doppia. Negli stessi giorni in cui dovranno decidere se sfruttare la chance della pace fiscale, molte famiglie, professionisti e imprese riceveranno dal Fisco 1,78 milioni di lettere per la compliance. Comunicazioni a cui il Piano delle performance 2019-21 dell’agenzia delle Entrate ricollega un recupero di gettito di 1,5 miliardi di euro.
Passate dalle 395mila del 2015 agli 1,89 milioni dell’anno scorso (dato preconsuntivo), le lettere per la compliancesono il simbolo della campagna per il “fisco amico” lanciata dal Governo Renzi. Di fatto, puntano a evidenziare le anomalie tra ciò che i contribuenti hanno dichiarato e quanto risulta dalle banche dati dell’Agenzia, sollecitandoli a mettersi in regola con uno sconto sulle sanzioni, tramite l’istituto ravvedimento operoso.
Dalla cedolare secca all’Iva
Il provvedimento del direttore delle Entrate del 15 febbraio scorso indica le tipologie di proventi su cui si concentrerà la prima tornata di comunicazioni. Redditi di fabbricati, compresi quelli soggetti alla cedolare secca. Redditi da partecipazione in società di persone e Srl a base ristretta. Assegni periodici, come quelli al coniuge. Redditi da lavoro dipendente. Pensiamo ad esempio al caso di un lavoratore che ha ricevuto due Certificazioni uniche (Cu) e non ha presentato la dichiarazione dei redditi.
L’esperienza degli ultimi anni, però, insegna che un gran numero di lettere per la compliance riguarerà l’Iva. Tributo che ha raccolto poco più del 50% delle segnalazioni inviate nel 2017, per esempio. E rispetto al quale le Entrate contano di far tesoro dei dati raccolti con la fattura elettronica, a partire dai 228 milioni di file Xml trasmessi al Sistema di interscambio da 2,3 milioni di titolari di partita Iva in occasione della liquidazione del 18 febbraio.
Le decisioni del 30 aprile e 31 maggio
Le lettere per la compliance non sono atti impositivi in senso tecnico e non sono impugnabili in modo autonomo. Il sito delle Entrate ricorda che chi ne riceve una “infondata” deve inviare al Fisco «eventuali elementi e documenti di cui l’Agenzia non era a conoscenza». In questi termini, le lettere non hanno nulla a che fare con la pace fiscale, che nelle sue varie articolazioni riguarda processi verbali di contestazione (Pvc), avvisi di accertamento, liti pendenti, cartelle esattoriali.
Eppure, le due campagne – compliance e pace fiscale – finiscono per intrecciarsi, almeno in parte. Riguardano gli stessi contribuenti. Vanno finanziate dagli stessi portafogli, già esposti ai primi effetti della recessione economica. Hanno un calendario sovrapposto, con le date chiave del 30 aprile (istanze di rottamazione-ter) e del 31 maggio (liti pendenti, errori formali, Pvc e violazioni doganali). Ma seguono, paradossalmente, logiche opposte: se le lettere per la compliance invitano cittadini e imprese a ravvedersi prima che sia troppo tardi, la pace fiscale – al contrario – sembra riaffermare che non è mai troppo tardi per riconciliarsi con le pretese del Fisco.
L’attesa per nuove sanatorie
Gli strumenti di contrasto all’evasione fiscale messi in campo di quest’anno dal Fisco derivano in parte da istituti lanciati alla fine della scorsa legislatura e confermati dall’attuale Governo, come la fattura elettronica, cui è stato anzi aggiunto l’invio automatico dei corrispettivi (per i grandi contribuenti dal prossimo 1° luglio e per tutti dal 2020). Mentre, per un altro verso, vengono riproposti istituti già utilizzati negli anni scorsi, dalla definizione delle liti pendenti alla rottamazione delle cartelle, arrivata alla terza edizione in due anni.
E c’è già chi scommette su un’estensione della rottamazione ai carichi affidati nel 2018 (ora si ferma al 31 dicembre 2017). O su un ampliamento alle imprese del saldo e stralcio – misura che prevede uno sconto anche sull’imposta, oltre che sulle sanzioni – sulla falsariga di quanto auspicato nei giorni scorsi dal vicepremier, Matteo Salvini. Di sicuro, nei prossimi 100 giorni si potrà capire se l’attesa per altre sanatorie avrà frenato l’appeal di quelle in corso.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”
Cristiano Dell’Oste
Giovanni Parente

Contratto preliminare dal notaio per gli immobili in costruzione

Il Dlgs 14/2019 prevede l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata
L’imperatività della norma indica che i contratti in forma diversa sono nulli
Nuove regole per le compravendite di “immobili da costruire”, vale a dire i contratti aventi a oggetto il trasferimento di edifici (o loro porzioni) per la cui costruzione sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare oppure la cui costruzione «non risulti essere stata ultimata versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità».
Infatti, il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, recato dal decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, comporta alcune importanti innovazioni in questo delicato ambito, disciplinato dal Dlgs 20 giugno 2005, n. 122 il quale viene appunto modificato dal Codice della crisi d’impresa (articoli 389-391)
Queste nuove norme divengono applicabili (articolo 5, comma 1-ter, Dlgs 122/05) ai contratti aventi a oggetto “immobili da costruire” per i quali il relativo titolo abilitativo edilizio sia stato richiesto o presentato successivamente al 16 marzo 2019 (vale a dire il trentesimo giorno successivo a quello di pubblicazione in Gazzetta ufficiale del Codice sulla crisi d’impresa che infatti è stata effettuata il 14 febbraio 2019: articolo 389, comma 1).
È stato anzitutto modificato l’articolo 6 del Dlgs 122/05, il quale ora dispone che il contratto preliminare «ed ogni altro contratto che … sia comunque diretto al successivo acquisto in capo a una persona fisica della proprietà» di un immobile da costruire «devono essere stipulati per atto pubblico o per scrittura privata autenticata». L’innovazione apportata dalla norma consiste nel fatto che la legge attualmente vigente consente di stipulare questi contratti anche nella forma della scrittura privata non autenticata.
La legge non reca un’espressa sanzione per la violazione di questa prescrizione formale: si devono applicare, pertanto, le previsioni “generali”: vale a dire (dato che l’imperatività della norma è fuori discussione, in quanto il legislatore ricorre al verbo «devono») l’articolo 1418, comma 1 del Codice civile, per il quale è nullo il contratto contrario a norme imperative, e gli articoli 1325, n. 4), 1350, n. 13) e 1418, comma 2, del Codice civile, per i quali sono nulli gli atti stipulati in una forma diversa da quella prescritta dalla legge. La nullità in questione è “assoluta”: è insanabile (articolo 1423 del Codice civile), l’azione è imprescrittibile (articolo 1422 del Codice civile), può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile d’ufficio dal giudice (articolo 1421 del Codice civile). La prescrizione di forma in commento, per il “principio di simmetria delle forme” che vige nel nostro ordinamento, comporta che per atto pubblico o scrittura privata, a pena di nullità, debbano essere redatte anche la proposta e l’accettazione finalizzate alla stipula dei contratti in questione (e la modulistica delle agenzie va fuorilegge) nonché la procura che sia rilasciata in vista di essi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”
Angelo Busani

Sì alla detrazione Iva per le spese sostenute sugli immobili di terzi

«Deve riconoscersi il diritto alla detrazione Iva per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche in ipotesi di immobili di proprietà di terzi, purché sia presente un nesso di strumentalità con l’attività di impresa o professionale, anche se quest’ultima sia potenziale o di prospettiva. E ciò pur se – per cause estranee al contribuente – la predetta attività non abbia poi potuto concretamente esercitarsi».
È questo il principio di diritto espresso dalla Cassazione, Sezioni Unite civili, con la sentenza 11533/2018, che ha messo la parola fine alla controversa questione sulla detrazione d’imposta delle spese di ristrutturazione o manutenzione di immobili non di proprietà, bensì soltanto detenuti da soggetti passivi di imposta a titolo di locazione.
La pronuncia in esame trae origine dal ricorso presentato da una Srl avverso tre avvisi di accertamento con i quali veniva recuperata l’Iva, ritenuta indebitamente detratta, in relazione a spese di ristrutturazione di un complesso immobiliare detenuto in locazione dalla stessa e di proprietà della controllante estera della ricorrente.
L’immobile destinato a residence per vacanze era inizialmente accatastato come abitativo in categoria A/2 e, solo al termine della ristrutturazione, aveva ricevuto il diverso inquadramento catastale come immobile in categoria D/2.
La fattispecie de qua inoltre si caratterizzava per la ulteriore circostanza che la società contribuente aveva detratto l’Iva senza mai esercitare in concreto l’attività d’impresa. Difatti, le suddette spese erano state sostenute nella prospettiva di una futura attività imprenditoriale che tuttavia non è mai stata avviata dalla società italiana in ragione della vendita del complesso turistico ristrutturato successivamente alla incorporazione della controllante.
Occorre evidenziare che, in casi simili, precedenti pronunce avevano escluso il diritto alla detrazione dell’imposta in ragione del fatto che il contratto di locazione potesse essere solo strumentale, predisposto cioè al solo fine di permettere al conduttore una detrazione di cui il proprietario dell’immobile, in quanto “consumatore finale”, non avrebbe potuto aver diritto in quanto non esercente attività di impresa o professionale.
Pur prendendo atto di tale preoccupazione, la Suprema Corte è giunta ad una soluzione mediana e, conformemente al fondamentale principio europeo di neutralità dell’Iva, ha riconosciuto il diritto alla detrazione Iva per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche se su immobili di proprietà di terzi, purché sia presente un nesso di strumentalità con l’attività d’impresa o professionale.
Tale nesso di strumentalità viene meno soltanto quando l’attività economica, anche se potenziale o prospettica, non abbia mai potuto concretamente esercitarsi per circostanze dipendenti e non estranee al contribuente, non potendosi tollerare in via di principio limitazioni al diritto di detrazione.
È stato infine precisato che ai fini della detrazione vi deve essere un tipico accertamento di fatto che tenga conto della esistenza o meno della natura strumentale dell’immobile rispetto all’attività economica effettivamente svolta o che il contribuente avrebbe potuto svolgere.
Accertamento che nel caso di specie la Ctr ha invece omesso di fare, ritenendo erroneamente esclusa la detrazione perché in corso di ristrutturazione l’immobile era indicato in categoria A/2 abitativa.
È evidente che si vuole ancora una volta tutelare il diritto alla detrazione, ancorando la sua limitazione ad una concreta e puntuale verifica.

Fonte “Il sole 24 ore”

Il Fisco mette sotto tiro i costi dedotti per accordi transattivi

di Rosanna Acierno

Sempre più spesso gli Uffici recuperano a tassazione i costi che il contribuente, attraverso accordi di transazione, ha sostenuto per prevenire o decretare la cessazione di liti legali sorte nell’esercizio dell’attività. Si tratta, in sostanza, dei casi molto frequenti in cui un’impresa, o anche un professionista o altri titolari di partita Iva, corrispondono somme di denaro ad altri soggetti, in base a un accordo scritto (detto, appunto, «transazione») con cui, mediante reciproche concessioni, pongono fine a una lite già sorta o che sta per cominciare (articolo 1965 del Codice civile).

Sotto un profilo fiscale, colui che corrisponde le somme a titolo di transazione ad un altro soggetto per risarcirlo (in parte), ad esempio, del danno arrecatogli o per indennizzarlo (sempre in parte), ad esempio, per un mancato guadagno, generalmente le deduce integralmente dal proprio reddito nell’esercizio in cui la relativa spesa viene sostenuta, sebbene nel Tuir non si rinvenga una norma che considera sopravvenienze passive le indennità da corrispondere a titolo di risarcimento di danni. Secondo, infatti, quanto previsto dall’articolo 101, comma 4, del Tuir, rappresentano sopravvenienze passive le spese, le perdite o gli altri oneri sostenuti a fronte di ricavi o di altri proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi. A sua volta, il soggetto che riceve le somme dovrebbe considerarle come sopravvenienze attive e dovrebbe assoggettarle a tassazione in base al principio di competenza, così come previsto dall’articolo 109, commi 1 e 2, del Tuir.

Tuttavia, in questi casi, nel corso di verifiche e accertamenti nei confronti soprattutto dei soggetti erogatori delle somme il Fisco tende a disconoscerne la deducibilità per diverse ragioni.

A volte accade che la deduzione sia disconosciuta per il presunto carattere di liberalità che sarebbe connesso all’esborso finanziario e/o per difetto di inerenza, laddove gli accertatori ritengano che il sostenimento del costo non sia strettamente funzionale alla produzione dei ricavi.

In altri casi, il disconoscimento della deduzione della spesa sostenuta viene giustificata dagli Uffici per presunta antieconomicità della transazione perché magari ritenuta ingente e poco conveniente o, ancora, per l’assenza di certezza ritenendo che, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, i componenti economici relativi a una controversia divengono certi e obiettivamente determinabili quando la loro valutazione estimativa si basa su criteri non soggettivi, ma oggettivi. Pertanto, per gli accertatori, gli oneri relativi a una controversia diventano certi e oggettivamente determinabili soltanto a seguito della chiusura definitiva della controversia mediante una sentenza di condanna.

In altri casi ancora, i costi vengono disconosciuti per non aver il contribuente adottato, secondo il Fisco, un comportamento corretto dato che, in base al principio contabile Oic 19, avrebbe dovuto prudenzialmente accantonare negli anni precedenti delle somme a titolo di fondo per rischi, sulla base di una valutazione previsionale della passività potenziale, e dedurre i relativi accantonamenti annuali.

Come è intuibile, il disconoscimento della deduzione operata, a prescindere dalle ragioni addotte dall’ente accertatore, non viene accettato dal contribuente. E questo soprattutto laddove si vede recuperare somme (a volte, anche di ingente valore) corrisposte mezzi tracciabili, e dunque, in maniera certa e inconfutabile, a soggetti terzi, nell’ambito di una transazione stipulata, magari a seguito di estenuanti trattative a suon di carte bollate, per porre fine o per prevenire una controversia che lo avrebbe oltremodo danneggiato.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Le scadenze del saldo Iva al test del calendario

I pagamenti del saldo annuale Iva per il 2017, in unica soluzione o a rate, possono beneficiare di più spostamenti se cadono di sabato o nel periodo dal 1° al 20 agosto. Ad esempio, il saldo Iva per il 2017, in scadenza ordinaria al 16 marzo 2018, può essere versato, con lo 0,40% in più per ogni mese o frazione di mese successivo al 16 marzo, entro il termine ordinario per il saldo delle imposte sui redditi, cioè entro il 30 giugno 2018, che, essendo sabato, slitta a lunedì 2 luglio. I contribuenti potranno anche versare il saldo Iva entro i 30 giorni successivi alla scadenza del 2 luglio 2018. In questo caso, sulle somme dovute fino al 2 luglio 2018, al netto delle compensazioni dei crediti, si dovrà applicare una ulteriore maggiorazione dello 0,40 per cento. Con il differimento del termine al 2 luglio 2018, i 30 giorni successivi, a partire dal 3 luglio 2018, scadono il 1° agosto 2018. La scadenza del 1° agosto slitta poi al 20 agosto in quanto beneficia della proroga estiva. È infatti stabilito che gli adempimenti fiscali e i versamenti da fare con il modello F24 in scadenza dal 1° al 20 agosto possono essere eseguiti fino al 20 agosto senza maggiorazioni.

Le diverse modalità per pagare il saldo Iva
In conclusione, il saldo Iva per il 2017 potrà essere versato:
– in un’unica soluzione entro il 16 marzo 2018, oppure a rate, maggiorando dello 0,33% l’importo mensile di ogni rata successiva alla prima;
– in un’unica soluzione entro il 30 giugno 2018, che, essendo sabato, slitta a lunedì 2 luglio 2018, o entro i 30 giorni successivi al 2 luglio 2018, che, a partire dal 3 luglio 2018, scadono il 1° agosto 2018, che a sua volta slitta al 20 agosto.

Nei predetti casi, l’importo dovuto deve essere maggiorato dello 0,40 per cento, per ogni mese o frazione di mese successivi al 16 marzo (escludendo però il periodo feriale dal primo al 20 agosto); chi paga a rate deve maggiorare prima l’importo da versare dello 0,40% per ogni mese o frazione di mese successivi al 16 marzo, e poi aumentare dello 0,33% l’importo mensile di ogni rata successiva alla prima.

Il calcolo dello 0,40 per cento
L’esempio che segue riguarda un contribuente, che chiude la dichiarazione annuale Iva per il 2017 con un debito Iva di 20 mila euro. Se il contribuente effettua il pagamento dopo il 16 giugno ed entro il 30 giugno 2018, che slitta al 2 luglio 2018, il versamento dell’Iva relativa al saldo annuale 2017 è pari a:

– debito Iva 20.000 euro; maggiorazione totale 1,60% (0,40% dal 17 marzo al 16 aprile, più 0,40% dal 17 aprile al 16 maggio, più 0,40% dal 17 maggio al 16 giugno, più 0,40% dal 17 giugno al 30 giugno); 20 mila euro per 1,60% è uguale a 320 euro; importo dovuto 20.320 euro.

Il debito di 20.320 euro può essere:
– pagato a rate, unitamente ai versamenti dei Redditi 2018;
– versato in unica soluzione, insieme agli altri versamenti dei Redditi 2018.
Il contribuente può anche pagare il saldo Iva maggiorato dello 0,40%, dal 3 luglio al 1° agosto 2018, che slitta al 20 agosto 2018. In questo caso, deve aggiungere però un ulteriore 0,40% al saldo dell’Iva aumentato della maggiorazione dovuta dal 16 marzo al 2 luglio 2018. Nel caso del contribuente, che sposta il pagamento del saldo Iva 2017 di 20 mila euro, tenuto conto che la maggiorazione fino al 2 luglio è uguale a 320 euro, lo 0,40 per cento in più, per l’ulteriore spostamento dal 3 luglio al 20 agosto 2018, deve essere calcolato sull’importo di 20.320 euro. Perciò, lo 0,40% su 20.320 euro è uguale a 81,28 euro; in totale 20.401,28 euro.

Fonte “Il sole 24 ore”

Cessioni, vale il passivo «inerente»

Nel calcolo del valore imponibile del contratto di cessione d’azienda, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, è consentito diminuire il valore dell’attivo aziendale in misura pari al valore delle passività che il cedente non tiene in capo a sé (e che, quindi, il cessionario si accolla), ma solo se si tratta di passività “inerenti” all’azienda ceduta. Lo ribadisce una nota della Dre Lombardia recentemente indirizzata ai Consigli notarili lombardi nell’ambito del rapporto di collaborazione che si concretizza nel “tavolo regionale” attorno al quale si riuniscono esponenti dell’amministrazione finanziaria e notai.

Che le passività, per essere deducibili, debbano essere anche “inerenti” (lo si afferma, ad esempio, nelle sentenze di Cassazione 11167/2013, 10218/2016, 2048/2017) è concetto così scontato che la legge nemmeno ne accenna, evidentemente presupponendolo. Deve però anche essere ovvio che la passività accollata (definendola come una passività “aziendale”) al cessionario dell’azienda si deve presumere, fino a prova contraria (prova che è a carico dell’amministrazione, la quale intenda disconoscerla, al fine di incrementare, corrispondentemente, l’imponibile: in tal senso la sentenza di Cassazione 10218/2016), afferente all’azienda ceduta.

Un altro concetto da sottolineare è che la possibilità di diminuire l’imponibile del contratto di cessione d’azienda esponendo voci di passivo aziendale è una facoltà che compete al contribuente, prima di essere un criterio-guida dell’attività di accertamento da parte dell’Ufficio: se questo ragionamento appare anch’esso banale, meno ovvio diventa se si pensa che lo scomputo delle passività è maldestramente contemplato dalla legge (l’articolo 51, comma 4, Dpr 131/1986) dettata nel contesto di una locuzione che il legislatore scrive con riguardo all’attività di accertamento dell’Ufficio ma che, evidentemente, non può non essere ritenuta quale espressione del principio in base al quale si deve compiere la valutazione dell’azienda; e ciò in base alla esigenza sistematica di una rigorosa corrispondenza tra presupposto e base imponibile e tra criteri valutativi da adottare sia in fase iniziale che in sede di controllo.

Inspiegabile è, dunque, il costante contrario avviso della Cassazione sul punto (sentenze 22223/2011, 8912/2014, 23873/2015) e da interpretare, probabilmente, come frutto di un equivoco, a sua volta causato da imperizia nella redazione di questi contratti,

L’ultimo tema caldo è quello delle aliquote applicabili alla base imponibile: dovrebbe essere scontato (ma nel rapporto tra utenti e Uffici non sempre lo è) che se ci sono crediti separatamente valorizzati, a tale valore si applica l’aliquota specifica dello 0,5% e non quella generica del 3% (quest’ultima è la tesi errata sostenuta in Ctr Firenze, 8 novembre 2016); e che se nel patrimonio aziendale siano compresi contratti soggetti a Iva e quote di partecipazione al capitale sociale di società, il loro valore (sempre se individualmente esplicitato) va sottratto dall’imposizione proporzionale per essere assoggettato all’imposta di registro in misura fissa.

Fonte “Il sole 24 ore”

Clausole vessatorie sempre annullabili

La legge di Bilancio 2018 è intervenuta anche sull’equo compenso, introdotto dal collegato fiscale che era uscito in Gazzetta poche settimane prima. La legge 205/2017, per lo più, ha irrigidito la disciplina, con modifiche mirate sulla quantificazione dei compensi, sulla possibilità di negoziare clausole vessatorie e sul regime dell’azione di nullità delle clausole contrarie alla legge. Ma vediamo il quadro d’insieme che ne è venuto fuori.

I rapporti disciplinati

Le norme riguardano i rapporti tra, da un lato, banche, assicurazioni e in generale le grandi imprese e, dall’altro lato, i professionisti, iscritti o meno a ordini professionali. L’obiettivo principale sono gli affidamenti di servizi professionali standardizzati e ripetitivi, come il recupero dei crediti, per i quali spesso la concorrenza sui prezzi diviene molto agguerrita. Le norme entrano in gioco quando i servizi sono regolati da convenzioni predisposte unilateralmente dai clienti, con la presunzione legale che siano tali salvo prova contraria.

La doppia tutela

Le tutele per i professionisti sono due: il diritto all’equo compenso e il divieto di clausole vessatorie. Non sono propriamente una novità perché, in parte, si sovrappongono a quelle della legge 81/2017 sulle «clausole abusive» e sugli abusi di dipendenza economica nei confronti dei lavoratori autonomi.

Come regola generale, l’equo compenso va stabilito in relazione alla quantità e qualità della prestazione, al tipo di servizio da svolgere. In pratica, quello che peserà di più è il rinvio ai decreti ministeriali con i parametri per i compensi professionali. La legge forense ne prevede uno specifico per gli avvocati, per le altre professioni regolamentate si fa riferimento ai parametri per la determinazione giudiziale dei compensi. Qui la legge di Bilancio ha introdotto una modifica importante, precisando che l’equo compenso deve essere «conforme» a questi parametri, mentre in precedenza era sufficiente che ne «tenesse conto». Per i rapporti disciplinati dalla legge, equivale a un ritorno alle tariffe minime.

Le clausole vessatorie

Il divieto di clausole vessatorie è costruito sulla falsariga del codice del consumo. C’è anche qui un criterio generale, per il quale sono vessatorie le clausole che generano un «significativo squilibrio» contrattuale a carico del professionista.

La norma elenca poi alcuni casi tipici di clausole vietate. Ad esempio, le convenzioni non possono riservare al cliente il potere di modificare unilateralmente il contratto, né prevedere prestazioni gratuite a carico del professionista. Il testo originario della norma consentiva di salvare alcuni tipi di clausole vessatorie se era dimostrato che fossero il frutto di una trattativa. La legge di Bilancio ha eliminato questa possibilità, per cui clausole del genere potrebbe essere applicate solo quando la convenzione nel suo insieme sia stata negoziata.

L’azione di nullità

La legge considera nulle le clausole che riconoscono compensi non equi o che hanno carattere vessatorio. La nullità è del genere cosiddetto di protezione, va soltanto a vantaggio del professionista e non si estende al resto del contratto. Il professionista potrà così chiedere in giudizio che il compenso sia rideterminato o che le clausole vessatorie non siano applicate.

Nel testo iniziale, la norma prevedeva per l’azione di nullità un termine di decadenza di ventiquattro mesi. Questa limitazione, che era singolare rispetto alla ordinaria imprescrittibilità della nullità, è venuta meno con la legge di Bilancio. Possono sempre prescriversi, però, le altre azioni che derivano dalla nullità. Le azioni per ottenere i compensi professionali e i rimborsi spese, ad esempio, si prescrivono in tre anni.

Le pubbliche amministrazioni

Sullo sfondo di tutto c’è il settore pubblico. Anche le pubbliche amministrazioni devono garantire il principio dell’equo compenso, per gli incarichi conferiti dopo l’entrata in vigore della legge. L’impatto è ancora tutto da appurare.

Qualche preoccupazione deve essere però sorta da subito, perché la legge di bilancio ha stabilito un regime speciale per gli agenti della riscossione, i cui aggi pesano in definitiva sulle entrate fiscali. Per loro la normativa non si applica, occorre solo che garantiscano compensi «adeguati» all’importanza dell’opera da prestare, tenendo anche conto della sua eventuale ripetitività.

Fonte “Il sole 24 ore”

Successioni, slitta il modello telematico

Slitta dal 1° gennaio 2018 al 1° gennaio 2019 l’obbligo di presentare – per le successioni aperte dal 3 ottobre 2006 – la dichiarazione di successione in via esclusivamente telematica. Lo stabilisce il provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate del 28 dicembre 2017 (prot. n. 305134) . Di conseguenza, viene stabilito che:
• il 31 dicembre 2018 (e non più il 31 dicembre 2017) è il termine fino al quale si può utilizzare il modello cartaceo per presentare la dichiarazione di successione;
• per le successioni aperte prima del 3 ottobre 2006 (e per le successioni integrative, sostitutive o modificative di tutte le dichiarazioni presentate in cartaceo) si dovrà sempre usare la carta, anche dopo il 31 dicembre 2018;
• dal 1° gennaio 2019 si dovrà utilizzare il nuovo modello di dichiarazione approvato ora (e qui c’è un rinvio di un anno);
• per tutto il 2018, in alternativa al cartaceo, si potrà spedire telematicamente, ma fino al 14 marzo 2018 si dovrà usare il modello informatico approvato col provvedimento del 15 giugno 2017, dal 15 marzo al 31 dicembre 2018 si potrà usare, in alternativa ad esso, quello approvato ora.

Quest’ultimo contiene anche le istruzioni per compilare il nuovo modello informatico. La loro mole e il ricorso a esempi pratici comportano che spesso le istruzioni evolvono fino a diventare quasi una circolare interpretativa della legge sull’imposta di successione, a quasi trent’anni dalla sua entrata in vigore (1991).

Ad esempio, dalle istruzioni si apprende che le Entrate, sul valore delle quote di partecipazione al capitale di società oggetto di successione ereditaria, si fondano (in mancanza di un bilancio pubblicato) su un «inventario vidimato regolarmente redatto», essendo invece noto che la vidimazione annuale del libro inventari non è più prevista da quando il Dl 357/1994 l’ha depennata dall’articolo 2216 del Codice civile.

Ancora, si apprende che l’amministrazione ritiene ancora vigente la normativa sul coacervo tra massa ereditaria e donazioni stipulate in vita dal de cuius a eredi e legatari, che invece la Cassazione (sentenza n. 24940/2016) considera abrogata fin dal 10 dicembre 2000 (entrata in vigore della legge 342/2000, che soppresse la tassazione delle successioni con aliquote progressive): le istruzioni al modello telematico affermano che nel quadro ES «vanno indicati i beni oggetto delle donazioni e di ogni altro atto a titolo gratuito nonché quelli oggetto di vincoli di destinazione, effettuati dal defunto a favore degli eredi e legatari» e che tale indicazione è fatta ai «fini della determinazione delle franchigie applicabili sulla quota devoluta all’erede o al legatario».

Fonte “Il sole 24 ore”

Dati antiriciclaggio utilizzabili dal Fisco

Le informazioni “sensibili” raccolte per l’antiriciclaggio e il contrasto al finanziamento del terrorismo passano agli archivi del fisco e si possono/devono scambiare automaticamente tra i Paesi membri dell’Ue.

Dal 1° gennaio sono infatti entrate in vigore le nuove regole europee che obbligano gli Stati membri a fornire alle autorità fiscali competenti (quelle cioè del Paese di residenza della persona fisica interessata) l’accesso ai dati raccolti sul riciclaggio del denaro proveniente da business illeciti. È questo l’effetto della direttiva Ue 2016/2258 recepita dalla legge di delegazione europea 2016-2017 (legge 25 ottobre 2017, n. 163) entrata in vigore il 21 novembre scorso e che prevede – come stabilito tassativamente dalla direttiva – l’avvio dello scambio automatico di informazioni dal 2018.

L’ambito normativo in cui si inserisce questo strumento di lotta all’evasione internazionale è quello tradizionale dello scambio obbligatorio automatico di informazioni previsto dalla direttiva 2014/107/Ue, che modificava la direttiva 2011/16/Ue già esecutiva dal 1° gennaio 2016 agli Stati membri e dal 1° gennaio 2017 all’Austria. Tale normativa dà attuazione allo standard globale per lo scambio automatico di informazioni fiscali all’interno dell’Unione, garantendo così che le informazioni sui titolari dei conti finanziari siano trasmesse allo Stato membro in cui risiede il titolare del conto.

La direttiva prevede che in alcuni casi, tutt’altro che infrequenti nelle transazioni internazionali, se il titolare di un conto è una struttura intermediaria, le istituzioni finanziarie debbano individuare e segnalare alle autorità fiscali nazionali competenti i beneficiari effettivi (cosiddetti “Bo”, beneficial owner). Questo step si aggancia alle informazioni in materia di antiriciclaggio ottenute sulla base della direttiva 2015/849 (comunemente nota come IV Direttiva antiriciclaggio, recepita dal decreto legislativo 90 del 2017) per l’identificazione dei titolari effettivi.

Le autorità nazionali hanno accesso diretto alle informazioni sui proprietari di imprese, beneficiari, trust e altre entità e sul loro ruolo di clienti. La nuova direttiva Ue permette in linea teorica alle autorità fiscali degli Stati Ue di reagire rapidamente nei casi di evasione e aggiramento delle norme fiscali.

È evidente il cambio di passo nella lotta internazionale – almeno su scala europea – all’evasione fiscale, attività di contrasto che dal 2018 potrà utilizzare gli strumenti molto più incisivi dell’Anti-money laundering. Il trasferimento diretto delle informazioni sui titolari effettivi di enti schermati alle agenzie nazionali, e la loro diretta utilizzabilità nelle procedure di accertamento, consentirà un’efficacia molto più diretta e tempestiva dell’azione di contrasto all’elusione e all’evasione tributaria . Con un solo rischio applicativo, legato al fatto che non sempre la disciplina fiscale che individua i contribuenti nelle normative nazionali corrisponde con i criteri internazionali di individuazione del titolare effettivo.

Fonte “Il sole 24 ore”

La Svizzera rilancia il segreto bancario

Non sarà ancora un vento di restaurazione, ma il raffreddamento di sensibilità sulla trasparenza fiscale internazionale – mantra degli ultimi 5 anni – è ormai un dato di fatto difficile da ignorare.
Dopo l’allerta dell’Ocse, che nel suo “Implementation report” di novembre segnalava il ritardo di decine di Paesi nell’adeguamento agli standard per il futuro scambio di informazioni, ora la cronaca porta dritto in Svizzera. Domani il plenum dei due rami del Parlamento di Berna voterà un’interpretazione molto restrittiva del rilascio delle informazioni riguardanti cittadini stranieri con conti e investimenti nei suoi istituti finanziari, tornando in sostanza a rilanciare lo storico brand di cassaforte alpina di “segreti&riservatezza”. Le banche e gli altri intermediari dovranno avvisare in anticipo i correntisti/risparmiatori/investitori stranieri circa i dati che si accingono a inviare automaticamente alle loro autorità fiscali. Non a caso avvocati e professionisti stanno già mettendo a punto la strategia di rallentamento per via giudiziaria (ricorsi e opposizioni) del rilascio delle info, soprattutto in direzione Sud.
L’inversione di orientamento sul tema “trasparenza” non è comunque un’esclusiva d’oltralpe. Come si vede nella cartina mappamondo pubblicata a lato, dall’incrocio dei 148 Paesi che hanno siglato accordi multilaterali o bilaterali per lo scambio di informazioni fiscali, ben più della metà (90) mantengono una forma più o meno intensa di segreto bancario, e 37 di questi addirittura conservano il totale segreto bancario. Ancora più esplicita la posizione di altri 22 Paesi che non hanno siglato alcun tipo di accordo per lo scambio di informazioni fiscali.
Questa fotografia spiega meglio di ogni altra considerazione l’ultimo rapporto dell’Ocse (Implementation report on automatic exchange of information) secondo cui tra l’essere compliant nella legislazione e l’attivare gli scambi con le altre giurisdizioni c’è un saltum non da poco. L’atteggiamento temporeggiante è variegato, tra Paesi che non stanno raccogliendo i dati che poi dovrebbero trasmettere ai 100 e più partner «in quanto non interessati a ricevere informazioni», e altre giurisdizioni che stanno impiegando «tempi eccessivamente lunghi per mettere in opera le basi legali per il funzionamento dello scambio automatico e per gli accordi multilaterali» necessari a far “scorrere” le informazioni. Il 15 % della platea degli Stati, narra il rapporto, non ha neppure terminato l’allineamento con la legislazione internazionale, tra questi un buon numero dei paesi del Golfo (a cominciare da Quatar, Emirati, Kuwait, Brunei) e la Turchia che per varie ragioni non hanno ancora ratificato la Convenzione per lo scambio automatico. Altri paesi caraibici e “oceanici” sono ancora più indietro nei processi di risalita verso l’emersione, tanto che il Report conclude che «un certo numero di giurisdizioni ha mancato pietre miliari» sul percorso e ora ha timeline sfidanti, per usare un eufemismo.
Intanto però l’Europa, molto attiva in queste settimane sul piano del rilancio della fiscalità, ha approvato ieri le raccomandazioni sui reati fiscali. Si tratta di misure ispirate dai 211 suggerimenti formulati dalla Commissione speciale d’inchiesta del Parlamento europeo sul riciclaggio di denaro, l’elusione fiscale e l’evasione fiscale, che i deputati hanno approvato con 492 voti in favore, 50 contrari e 136 astensioni. Tra i piani d’azione spicca la creazione di registri pubblici dei titolari effettivi delle aziende, le sanzioni contro gli intermediari che favoriscono la pianificazione fiscale aggressiva e la richiesta di costituire una commissione permanente per indagare sulla fiscalità.
Fonte “Il sole 24 ore”

Liquidazioni Iva, in arrivo le pec sulla non conformità

In arrivo le comunicazioni di non conformità (compliance) delle comunicazioni delle fatture emesse e registrate con la liquidazione periodica Iva; ciò al fine di favorire l’adempimento spontaneo degli obblighi tributari. Infatti l’agenzia delle Entrate metterà a disposizioni le informazioni derivanti dal confronto tra i dati delle fatture acquisiti con lo spesometro e quelli delle comunicazioni delle liquidazioni Iva; in questo modo, i contribuenti che hanno omesso la comunicazione della liquidazione potranno sanare la loro posizione spontaneamente.
L’agenzia delle Entrate ha pubblicato ieri, sul proprio sito internet, il provvedimento n. 275294 con cui da attuazione ai commi 634 -636 della legge 190/2014 i quali prevedono l’adozione di un nuovo modello di cooperazione tra l’amministrazione finanziaria e i contribuenti, finalizzato a stimolare l’assolvimento degli obblighi tributari e a favorire l’emersione spontanea delle basi imponibili.
Nello specifico, l’Agenzia metterà a disposizione le informazioni dalle quali risulta che, nel trimestre di riferimento, sono state emesse fatture, e quindi comunicati telematicamente i relativi dati ai sensi dell’articolo 21 del Dl 78/2010, mentre manca la comunicazione della liquidazione Iva (articolo 21-bis dello stesso Dl 78/2010).
Le informazioni saranno trasmesse dall’agenzia delle Entrate a mezzo pec al contribuente e riguarderanno i dati fiscali e gli elementi utili per individuare la violazione commessa; inoltre, i contribuenti potranno trovare la medesima comunicazione nell’area riservata del portale dell’agenzia delle Entrate denominata “La mia scrivania”. Nell’area riservata del sito saranno, inoltre, disponibili ulteriori dati rispetto a quelli comunicati a mezzo pec, tra cui, il dettaglio dei documenti emessi e ricevuti (tipo e numero documento, data di emissione e registrazione, imponibile/importo, aliquota Iva e imposta, natura operazione e stato documento).
Come precisato nel provvedimento, le informazioni, oltre che al contribuente, sono rese note anche alla Guardia di Finanza tramite strumenti informatici.
A seguito del ricevimento della comunicazione, i contribuenti possono richiedere informazioni o fare segnalazioni direttamente o avvalendosi di intermediari abilitati. Qualora, invece, si riconosca la validità della comunicazione, è possibile procedere alla regolarizzazione di errori o omissioni secondo le modalità previste dall’articolo 13 del Dlgs 472/1997 ovvero con ravvedimento operoso. Infatti la comunicazione ricevuta a mezzo Pec non ha le caratteristiche di alcun provvedimento che impediscano il ravvedimento.
Si ricorda che ai sensi del comma 2-ter dell’articolo 11 del Dlgs 471/1997 l’omessa, incompleta o infedele comunicazione dei dati delle liquidazioni periodiche, è punita con la sanzione amministrativa da euro 500 a euro 2.000 e che sanzione è ridotta alla metà se la trasmissione è effettuata entro i quindici giorni successivi alla scadenza prevista o se, nel medesimo termine, è effettuata la trasmissione corretta dei dati.
Quindi nella ipotesi in cui sia stata omessa la comunicazione della liquidazione il contribuente deve provvedere alla trasmissione e versare la sanzione nella misura di un nono di 500 euro se non sono trascorsi 90 giorni (esempio liquidazione del secondo trimestre 2017) dalla scadenza originaria oppure un ottavo se il ritardo è superiore come ad esempio per la liquidazione del primo trimestre.
Fonte il sole 24 ore

Auto aziendali dedotte al 20%

I costi delle auto aziendali non possono essere dedotti integralmente, ma subiscono il taglio al 20% anche se si tratta di beni utilizzati solo per l’attività dell’imprenditore. Per le Entrate, infatti, la deduzione piena si può avere solo per auto senza le quali «l’attività non può essere esercitata». Lo stupore per questa normativa è contenuta nella mail che un imprenditore ha inviato alla casella ilmiogiornale@ilsole24ore.com . (LA TABELLA )
Per il reddito d’impresa, però, la deduzione di ammortamenti, canoni di leasing o noleggio, spese di manutenzione, assicurazione, custodia, carburanti, tassa di circolazione ecc., è piena (quindi, non ridotta al 20%, al 50% per i minimi e i forfettari o all’80% per gli agenti, con limiti massimi di spesa rilevante fiscalmente) solo per i seguenti veicoli:
autocarri, a patto che abbiano un rapporto tra potenza e portata inferiore al coefficiente 180 (provvedimento Entrate 6 dicembre 2006), autobus, trattori stradali, autotreni, autoarticolati, autosnodati, mezzi di trasporto non a motore (biciclette e gondole) (circolare 1/E/2007), a patto che siano inerenti all’attività d’impresa (circolare 48/E/1998 e risoluzione 244/E/2002);
i veicoli adibiti a uso pubblico, come taxi e Ncc , muniti di licenza comunale (articolo 164, comma 1, lettera a, punto 2, Tuir);
autovetture, autocaravan, aeromobili da turismo, navi e imbarcazioni da diporto (articolo 54, comma 1, lettere a e m, Dlgs 285/1992), ciclomotori e motocicli, utilizzati «esclusivamente come beni strumentali nell’attività propria dell’impresa» (articolo 164, comma 1, lettera a, punto 1, Tuir, regola valida solo per le imprese e non per i professionisti, circolare 48/E/1998), cioè «senza i quali l’attività stessa non può essere esercitata», come le autodelle imprese che effettuano noleggi o leasing (circolari 48/E/1998, 11/E/2007, risposta 8.2, 13 febbraio 1997 n. 37/E e risoluzione 59/E/2007) o quelle utilizzate dalle autoscuole (circolare 11/E/2007).
I costi delle altre autovetture, quindi, non sono deducibili al 100%, ma al 20% (80% per gli agenti e 50% per i minimi e i forfettari), come le auto usate per pubblicizzare i servizi offerti, tramite l’allestimento all’esterno di messaggi pubblicitari e marchi d’impresa (circolari 1/E/2007 e 50/E/2002) o per i mezzi che gli alberghi utilizzano per il trasporto dei clienti verso impianti di risalita, piste da sci, scuole di sci, servizi di noleggio, stazioni ferroviarie, aeroporti. In questi casi, per le Entrate non ricorrono gli elementi per ritenere detti beni utilizzati esclusivamente come beni strumentali nell’attività dell’impresa, in quanto non sono beni senza i quali l’attività non può essere esercitata (interrogazione parlamentare del 3 agosto 2016, n. 5-09338).

 

 

 

Notifica cartelle, aumentano i soggetti abilitati

L’approvazione di ieri al Senato del decreto legge fiscale collegato alla manovra 2018 porta con sé delle novità in materia di modalità di perfezionamento della notifica delle cartelle di pagamento.
In sostanza, la modifica interviene per disciplinare i soggetti, diversi dal notificante, che possono eseguire le formalità necessarie per il perfezionamento del processo notificatorio.
La notifica della cartella, salvo che non si utilizzi la posta elettronica certificata, avviene tramite gli ufficiali della riscossione o può essere eseguita da altri soggetti abilitati dal concessionario ovvero, previa eventuale convenzione tra comune e concessionario, dai messi comunali o dagli agenti della polizia municipale.
Ma il compimento delle sole formalità imputabili al notificante ha solo l’effetto di convalidare l’osservanza e il rispetto di un termine (di decadenza e/o prescrizione) e non di anticipare gli effetti sostanziali e processuali che la notificazione produce.
Tali effetti sono condizionati, risolutivamente, al perfezionamento integrale della procedura notificatoria nei confronti del destinatario dell’atto ( es. l’atto giunge a buon fine), ovvero che siano stati effettuati gli altri adempimenti previsti dalla legge affinché l’atto sia comunque entrato nella disponibilità del destinatario (ricezione dell’atto), o che siano state eseguite le procedure affinché il destinatario sia messo a conoscenza dell’atto a lui destinato (es. compiuta giacenza).
Con l’intervento normativo vengono abilitati soggetti diversi da quelli che hanno eseguito la notifica vera e propria, per compiere le formalità che portano al perfezionamento della notifica.

In pratica, se il processo notificatorio non è andato a buon fine in prima battuta tali nuovi soggetti sono abilitati, nel termine di trenta giorni, ad eseguire tutte le formalità necessarie per il perfezionamento della notifica.
Tutte le operazioni fatte devono risultare da un’apposita relazione datata e sottoscritta.

Disciplina del gruppo Iva (seconda parte)

L’opzione è esercitata mediante dichiarazione telematica contenente le indicazioni previste nel comma 2 dell’art. 70 quater, D.P.R. 633/1972 (cui si rinvia) e vincola i partecipanti per un triennio purchè permangano i requisiti:

  • se la dichiarazione è presentata tra il 1° gennaio ed il 30 settembre l’opzione ha effetto a decorrere dall’anno successivo;

  • se la dichiarazione è presentata tra il 1° ottobre ed il 31 dicembre l’opzione ha effetto a decorrere dal secondo anno successivo.

Al termine del primo triennio l’opzione si rinnova automaticamente per ciascun anno successivo fino a quando non è esercitata la revoca.

La cessazione dell’intero gruppo Iva si verifica in ogni caso se e quando viene meno la pluralità dei soggetti partecipanti.

Effetti dell’opzione

Soggettività

L’esercizio dell’opzione comporta che, durante tutto il periodo di vigenza dell’opzione, i soggetti passivi che partecipano al gruppo Iva perdono la loro autonoma soggettività ai fini Iva: unico soggetto passivo diviene, infatti, il gruppo Iva che si sostituisce interamente ai soggetti partecipanti ed agisce come qualsiasi autonomo soggetto passivo. Il gruppo Iva, quale unico soggetto passivo, è identificato con unica partita Iva.

Il venir meno della soggettività in capo ai singoli partecipanti è ciò che differenzia specificamente il gruppo Iva rispetto alla liquidazione Iva di gruppo disciplinata dall’art. 73, co. 3, D.P.R. 633/1972 : quest’ultimo istituto, infatti, consente la mera compensazione delle posizioni Iva a debito ed a credito ed i soggetti partecipanti mantengono intatta la propria rispettiva soggettività passiva. I soggetti partecipanti ad un gruppo Iva, peraltro, perdendo la loro posizione soggettiva individuale, non possono partecipare ad una procedura di liquidazione Iva di gruppo.

Disciplina

La prima conseguenza dell’opzione è certamente l’irrilevanza ai fini Iva delle cessioni di beni e prestazioni di servizio che intercorrono tra i soggetti partecipanti ad un medesimo gruppo Iva: per effetto dell’opzione, infatti, assumono rilevanza esclusivamente le cessioni e le prestazioni effettuate da un soggetto facente parte del gruppo Iva nei confronti di un terzo non facente parte e, specularmente, quelle effettuate da un terzo non facente parte del gruppo Iva nei confronti di un soggetto facente parte del gruppo Iva che si considerano rispettivamente effettuate e acquistate dal gruppo Iva.

Anche gli obblighi ed i diritti derivanti dall’applicazione delle norme in materia di Iva sono, rispettivamente, a carico ed a favore (soltanto) del gruppo Iva.

La generalizzata irrilevanza delle operazioni intervenute tra i soggetti partecipanti al gruppo Iva determina una complessiva semplificazione: i contribuenti beneficiano dell’abbattimento di oneri legati all’esecuzione di una serie di adempimenti formali mentre l’Agenzia delle Entrate beneficia di uno snellimento dell’attività di controllo a questi relativa.

In via del tutto esemplificativa spetterà al gruppo Iva procedere:

  • all’applicazione dell’Iva sulle operazioni imponibili poste in essere;

  • alla determinazione dell’Iva detraibile;

  • al calcolo dell’eventuale rettifica della detrazione;

  • al pagamento dell’imposta;

  • alle richieste di rimborso;

  • all’assolvimento degli adempimenti formali di fatturazione, annotazione e dichiarazione;

  • all’esercizio delle opzioni che la normativa in materia di Iva accorda ai soggetti passivi.

Rimangono comunque applicabili al gruppo Iva le modalità ed i termini speciali di emissione, numerazione e registrazione delle fatture nonché di esecuzione delle liquidazioni e dei versamenti periodici stabiliti dai decreti di attuazione delle deleghe contenute negli artt. 22, co. 2, e 74, D.P.R. 633/1972 .

Eccedenze detraibili

L’art. 70 sexies, D.P.R. 633/1972 disciplina il regime delle eccedenze detraibili: il passaggio, per i soggetti partecipanti al gruppo Iva, da una soggettività passiva Iva individuale ad una soggettività passiva Iva collettiva in capo al gruppo, infatti, determina alcune conseguenze sui crediti Iva che emergono dalle dichiarazioni Iva dei singoli partecipanti.

Le eccedenze Iva detraibili che emergono dalla dichiarazione annuale del soggetto che entra a far parte di un gruppo Iva non possono essere trasferite al gruppo Iva e restano nella esclusiva disponibilità della singola società cui si riferiscono. Con una disposizione di favore è stato però previsto che tali eccedenze possono essere:

  • chieste a rimborso a prescindere dalla ricorrenza dei requisiti previsti dall’art. 30, D.P.R. 633/1972 ;

  • utilizzate in compensazione  orizzontale ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241 .

La preclusione al trasferimento al gruppo Iva concerne, però, soltanto la parte del credito eccedente i versamenti dell’Iva effettuati per l’anno precedente a quello di entrata a far parte del gruppo Iva: il divieto, viceversa, non vale per la parte delle eccedenze detraibili pregresse che trova capienza nei versamenti Iva effettuati nell’anno precedente al primo anno di partecipazione al gruppo Iva.

In questo senso, ipotizzando che un soggetto entri a far parte del gruppo Iva a partire dal 2017, che la dichiarazione annuale relativa al 2016 evidenzi un credito pari a 1.000 e che il predetto soggetto abbia effettuato versamenti periodici Iva per il 2016 pari a 500, ne conseguirebbe che l’eccedenza creditoria sarebbe limitatamente trasferibile al gruppo Iva per un importo di 500(6).

L’eccedenza creditoria che risulta dalla dichiarazione del gruppo Iva e che non sia stata chiesta a rimborso all’atto della cessazione del medesimo, per effetto del venir meno della pluralità dei partecipanti, rimane nell’esclusiva disponibilità del rappresentante del gruppo Iva che potrà computarla in detrazione nelle proprie liquidazioni periodiche o nella propria dichiarazione annuale.

Soggetto responsabile

Un ruolo preminente nella disciplina in esame è certamente quello attribuito al rappresentante del gruppo Iva.

Tale soggetto, infatti, è chiamato ad adempiere tutti gli obblighi ed esercitare tutti i diritti derivanti dall’applicazione delle norme in materia di Iva rispettivamente a carico ed a favore del gruppo Iva. Tale soggetto, inoltre, assume una funzione cautelativa delle esigenze dell’Erario: il rappresentante del gruppo Iva, infatti, è solidalmente responsabile con le altre società partecipanti per le somme che risultano dovute a titolo d’imposta, interessi e sanzioni a seguito delle attività di liquidazione e di controllo.

La responsabilità che sussiste sui partecipanti al gruppo Iva, secondo quanto precisato nella Relazione governativa, è una responsabilità solidale paritetica giustificata dalla unitarietà del soggetto passivo costituito dal gruppo Iva.

Tale responsabilità solidale paritetica ha però destato qualche perplessità.

Il modello adottato dal Legislatore, infatti, rispecchia l’assetto sostanzialmente previsto per il consolidato fiscale nazionale: quest’ultimo regime però presenta marcate differenze rispetto al gruppo Iva. Nel consolidato fiscale nazionale, infatti, le singole società consolidate mantengono, a differenza del gruppo Iva, la propria soggettività e procedono alla liquidazione del rispettivo imponibile con l’unica differenza che non procedono, in sede di dichiarazione, alla liquidazione dell’imposta; il soggetto consolidante recepisce i dati che riceve dalle società controllate senza poterne sindacare correttezza o veridicità: è per tale ragione che il Legislatore ha escluso una responsabilità oggettiva ed esclusiva del consolidante. Nel gruppo Iva, viceversa, le singole società partecipanti perdono la loro soggettività e non sono onerate da adempimenti di natura contabile né da obblighi di determinazione dell’imposta che gravano esclusivamente sul rappresentante del gruppo Iva. La responsabilità solidale paritetica imputata ai singoli partecipanti del gruppo Iva non appare pertanto coerente: la scelta del Legislatore è evidentemente motivata dall’esigenza di garantire la riscossione del credito erariale perché i partecipanti al gruppo Iva, pur perdendo la loro soggettività, mantengono una propria autonomia economica e finanziaria.

Il rappresentante del gruppo Iva è individuato ope legis nel soggetto che esercita sugli altri partecipanti al gruppo Iva il controllo di cui all’art. 70 ter , co. 1, D.P.R. 633/1972 (vincolo finanziario) ossia il soggetto che dal 1° luglio dell’anno solare precedente esercita il controllo ai sensi dell’art. 2359, co. 1, n. 1, c.c. Nelle ipotesi in cui nessun soggetto che esercita il controllo di diritto possa esercitare l’opzione (secondo la Relazione governativa il caso più frequente è quello in cui i soggetti stabiliti nel territorio dello Stato siano «sorelle» in quanto controllati da un soggetto che non è stabilito nel territorio dello Stato) il rappresentante del gruppo Iva è individuato nel soggetto partecipante « con volume d’affari o ammontare di ricavi più elevato nel periodo precedente alla costituzione del gruppo medesimo» (art. 70 septies, co. 2, D.P.R. 633/1972): secondo la Relazione governativa è tale il soggetto che «comparando gli importi dei volumi d’affari e dei ricavi dei partecipanti al gruppo, esprima il valore assoluto più elevato» (7).

Nell’ipotesi in cui, in pendenza dell’opzione, il rappresentante del gruppo Iva venga meno o cessi di fare parte del gruppo Iva, non cessano gli effetti dell’opzione in capo agli altri partecipanti: in tal caso dal giorno successivo e senza soluzione di continuità subentra quale rappresentante del gruppo Iva il soggetto individuato in forza del valore assoluto più elevato del relativo volume d’affari o di ricavi (con riferimento all’ultima dichiarazione presentata).

Entrata in vigore

Le disposizioni concernenti il gruppo Iva trovano applicazione a partire dal 1° gennaio 2018 (art. 1, co. 30, L. 232/2016): ciò comporta che per i soggetti passivi la possibilità di costituire gruppi Iva opererà concretamente dal 2019.

Tale lasso temporale dovrebbe consentire al Mef di poter utilmente procedere, come previsto dall’art. 11, Direttiva 2006/112/CE, alla consultazione del Comitato consultivo (art. 1, co. 31, L. 232/2016).

Conclusioni

L’introduzione del gruppo Iva nel sistema italiano deve certamente essere valutato con favore perché, al di là della (solo) apparente semplicità della relativa disciplina (la cui complessità è viceversa testimoniata dalla circostanza che il Legislatore ha dedicato ben 11 nuovi articoli alla fattispecie), comporterà sicuri benefici in termini di imposta e di adempimenti in capo alle società partecipanti nonché, più in generale, una semplificazione per contribuenti ed Erario.

I vantaggi in termini di imposta saranno, ovviamente, ben più evidenti nelle ipotesi in cui tra i soggetti aderenti al gruppo Iva ci siano società con un’alta limitazione al diritto di detrazione; nel sistema vigente ad ogni soggetto passivo corrisponde un differente pro rata di detraibilità: nel nuovo gruppo Iva il pro rata, infatti, dovrà essere individuato in funzione di tutte le operazioni effettuate dai partecipanti del gruppo Iva verso terzi così limitando di fatto gli effetti del pro rata di detrazione che si verificherebbero sulle singole società.

“Gruppo Iva nazionale”

(Sandro Cerato)

La Settimana fiscale n. 6/2017, pag. 16

(2) La Relazione Governativa precisa che in tale ipotesi, in caso di soggetto che eserciti una pluralità di aziende, costituisce evidentemente condizione ostativa alla partecipazione al gruppo Iva anche il sequestro di una sola di esse.

(3) Nella Comunicazione del 2009 della Commissione europea sono altresì riportate le definizioni concernenti il contenuto dei «rapporti finanziari, economici ed organizzativi»: il vincolo finanziario è definito «in relazione ad una percentuale di partecipazione al capitale o ai diritti di voto (oltre il 50%), o con riferimento ad un contratto di franchising, il quale garantisce che un’impresa ha effettivamente il controllo su un’altra»; il vincolo economico è da ritenersi sussistente quando «L’attività principale dei membri del gruppo è dello stesso genere, o le attività dei membri del gruppo sono complementari o interdipendenti, o un membro del gruppo svolge attività che avvantaggiano, pienamente o sostanzialmente, gli altri membri»; il vincolo organizzativo è definito «in relazione all’esistenza di una struttura di gestione almeno parzialmente condivisa».

(4) La Relazione Governativa riporta l’esempio di vincolo finanziario che sussiste qualora il soggetto A controlla sia il soggetto B che, a sua volta, controlla il soggetto C, sia il soggetto D che, a sua volta, controlla il soggetto E.

(5) Il comma 5 dell’art. 70 quater, D.P.R. 633/1972, cui si rinvia, regolamenta l’ipotesi in cui in pendenza dell’opzione venga a sussistere il vincolo finanziario in capo a soggetti passivi in relazione ai quali originariamente non sussisteva sia l’ipotesi in cui, essendo stata riconosciuta dall’Agenzia delle Entrate l’insussistenza del vincolo economico o di quello organizzativo in capo ad un dato soggetto (con conseguente esclusione dal gruppo Iva), successivamente tali vincoli vengano a sussistere.

(6)Esempio riportato nella Relazione governativa.

(7)Nella Relazione governativa sono riportati diversi esempi numerici cui si rinvia concernenti la comparazione degli importi.

(1)La giurisprundenza comunitaria, peraltro, ha riconosciuto la possibilità di aderire ad un gruppo Iva anche a soggetti non passivi di imposta (Corte di Giustizia Ue, 9 aprile 2013, C-85/11).

Disciplina del gruppo Iva (prima parte)

La Legge di Bilancio 2017 (L. 11 dicembre 2016, n. 232) ha introdotto in Italia l’istituto del gruppo Iva, così come previsto in via facoltativa dall’art. 11, Direttiva 2006/112/CE: con l’intervento legislativo, più specificamente, è stato inserito il titolo V bis nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 composto da 11 nuovi articoli (art. 70 bis – art. 70 duodecies).
La novità rappresenta un’importante opzione per i soggetti passivi ed allinea il sistema italiano a quelli già vigenti in diversi Paesi dell’Unione Europea colmando, sotto questo profilo, il gap competitivo con i soggetti passivi che ivi operano.
La relativa disciplina presenta diversi profili di particolarità e merita approfondimento per alcune sue specifiche peculiarità.
Premessa
L’art. 11, par. 1, Direttiva 2006/112/CE prevede che nei rispettivi ordinamenti nazionali è possibile, previa consultazione del comitato Iva, «considerare come un unico soggetto passivo le persone   stabilite nel territorio dello stesso Stato membro che siano giuridicamente indipendenti, ma strettamente vincolate fra loro da rapporti finanziari, economici ed organizzativi»; la norma replica l’originaria disposizione già prevista nell’art. 4, par. 4, co. 2, Direttiva 77/388/CEE.
La Direttiva Iva, pertanto, concedela facoltà agli Stati membri di riconoscere la soggettività di un gruppo Iva ove sussistano tra più soggetti passivi «rapporti finanziari, economici ed organizzativi »: la disciplina comunitaria non individua la definizione di tali «rapporti» per i quali, pertanto, occorre rinviare alla normativa domestica. Sotto questo profilo, tra l’altro, il par. 2 dell’art. 11 Direttiva 2006/112/CE prevede che qualora sia stata esercitata tale facoltà lo Stato membro «può adottare le misure necessarie a prevenire l’elusione o l’evasione fiscale».
Il Legislatore domestico ha regolamentato in ben 11 articoli (art. 70 bis – art. 70 duodecies,  D.P.R. 633/1972) la disciplina del gruppo Iva.
Presupposti per la costituzione del gruppo Iva
Requisiti soggettivi
L’art. 70 bis, co. 1, D.P.R. 633/1972 dispone che il gruppo Iva possa essere costituito (esclusivamente) da soggetti passivi di imposta esercenti attività di impresa o di arti e professioni, stabiliti nel territorio dello Stato, per i quali sussistano congiuntamente determinati vincoli di natura finanziaria, economica ed organizzativa.(1)
Il successivo art. 70 quater, D.P.R. 633/1972, peraltro, stabilisce che, per quanto la costituzione del gruppo Iva sia opzionale, una volta esercitata l’opzione essa vincola tutti i soggetti passivi rispetto ai quali sussistano congiuntamente i predetti vincoli.
Dal combinato disposto delle due norme consegue che il Legislatore ha inteso adottare la regola dell’all in all out secondo cui l’esercizio dell’opzione obbliga tutti i soggetti passivi, per i quali sussistano i predetti vincoli, a partecipare necessariamente alla disciplina Iva di gruppo: in linea di principio, quindi, i gruppi societari che ritengano opportuno costituire un gruppo Iva hanno l’obbligo di far optare in tal senso tutti i soggetti passivi tra i quali ricorrano i tre vincoli. In altre parole, i soggetti passivi tra cui sussistono i tre vincoli hanno un’alternativa secca: possono scegliere se partecipare tutti a un gruppo Iva ovvero se non costituire affatto un gruppo Iva.
La partecipazione al gruppo Iva, in ogni caso, è esclusa dall’art. 70 bis, co. 2, D.P.R. 633/1972 per:
1) le sedi e le stabili organizzazioni all’estero di società italiane;
2) i soggetti la cui azienda sia sottoposta a sequestro giudiziario ex art. 670, c.p.c.(2);
3) i soggetti sottoposti a procedura concorsuale;
4) i soggetti posti in liquidazione ordinaria.
Qualche perplessità è stata avanzata quanto all’esclusione dal gruppo Iva delle sedi e stabili organizzazioni all’estero di società italiane. Tale esclusione, infatti, comporta che se un operatore parte di un gruppo Iva in Italia si avvale di una stabile organizzazione all’estero, tale stabile organizzazione resta esclusa dal gruppo Iva cui fa parte la casa madre; per l’effetto, le prestazioni tra casa madre e stabile organizzazione non sono considerate come effettuate nell’ambito del gruppo Iva e non possono avvalersi della relativa esclusione dall’applicazione dell’imposta che, viceversa, opera per i soggetti passivi che fanno parte del medesimo gruppo Iva (come si dirà infra): tali operazioni restano, pertanto, assoggettate ad imposta.
Requisiti oggettivi
Il Legislatore domestico ha previsto che il gruppo Iva possa sussistere tra soggetti passivi per i quali ricorrono congiuntamente «vincoli» di natura finanziaria, economica ed organizzativa: i tre vincoli rappresentano requisiti cumulativi e l’assenza (anche) soltanto di uno dei tre preclude la possibilità di costituire il gruppo Iva. L’art. 11, par. 1, Direttiva 2006/112/CE, in realtà, non impone espressamente la contemporanea sussistenza di tali vincoli: tale requisito, però, è stato posto quale ulteriore condizione per l’attivabilità del regime nella Comunicazione del 2009 della Commissione europea.
Il contenuto dei tre vincoli non è specificato nella Direttiva 2006/112/CE ed il loro contorno è talmente vago che l’individuazione di una loro definizione da parte del Legislatore domestico avrebbe potuto lasciare margini di opinabilità(3): per tale ragione il Legislatore domestico ha definito nell’art. 70 ter, D.P.R. 633/1972 il vincolo finanziario ancorandolo a criteri obiettivi e gli ha attribuito una ben determinata «preminenza» introducendo una presunzione secondo cui la presenza del vincolo finanziario fa ritenere sussistenti anche gli altri due vincoli economico ed organizzativo (art. 70 ter, co. 4, D.P.R. 633/1972).
Il vincolo finanziario è definito con un parametro oggettivo determinato sulla base della nozione di controllo cd. di diritto, diretto o indiretto, di tipo assembleare di cui all’art. 2359, co. 1 n. 1), c.c.: il controllo deve sussistere fin dal 1° luglio dell’anno precedente a quello di esercizio dell’opzione.
Sulla base di tale definizione, pertanto, sussiste un vincolo finanziario quando:
  • tra i soggetti passivi esiste, direttamente o indirettamente, un rapporto di controllo;
  • i soggetti passivi sono controllati, direttamente o indirettamente, dal medesimo soggetto, purchè residente nel territorio dello Stato oppure in uno Stato appartenente all’Unione europea ovvero aderente all’Accordo sullo Spazio economico europeo ovvero con il quale comunque l’Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni(4).
Il vincolo economico, viceversa, sussiste laddove tra determinati soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato sussista almeno una delle forme di cooperazione economica identificate nello svolgimento:
  • di un’attività dello stesso genere;
  • di attività complementari o interdipendenti;
  • di attività che avvantaggiano pienamente o sostanzialmente uno o più di essi.
Da ultimo, il vincolo organizzativo sussiste quando tra gli organi decisionali di determinati soggetti ricorre un coordinamento, operato in via di diritto (ai sensi del capo nono del libro V, c.c.) o di fatto, ancorché svolto da un altro soggetto.
L’art. 70 ter, co. 4, D.P.R. 633/1972, come anticipato, definisce in che misura il vincolo finanziario assuma preminenza rispetto agli altri attraverso una presunzione di carattere relativo: se tra determinati soggetti passivi ricorre il vincolo finanziario, si presumono sussistenti fra gli stessi anche i vincoli economico ed organizzativo. La preminenza assegnata al vincolo finanziario, peraltro, come affermato nella Relazione governativa, deriva non soltanto dalla più agevole accertabilità dello stesso ma anche dalla circostanza che quando un soggetto è vincolato finanziariamente ad un altro, in via generale lo è anche dal punto di vista economico ed organizzativo.
È una presunzione relativa che è comunque superabile dal contribuente ove fornisca prova contraria; a tal fine occorre presentare preventivamene apposito interpello probatorio, ai sensi dell’art. 11, co. 1, lett. b), L. 27 luglio 2000, n. 212 : si tratta di un interpello finalizzato ad ottenere l’avallo dell’Agenzia delle Entrate circa l’esclusione dal perimetro del gruppo Iva di soggetti che, in linea di principio, dovrebbero esservi inclusi per la sussistenza del vincolo finanziario.
La presunzione, peraltro, opera soltanto a favore del contribuente nel senso che l’Agenzia delle Entrate in presenza del vincolo finanziario non può contestare la sussistenza degli altri due requisiti né fornire la prova della loro mancata ricorrenza: è solo il contribuente che, in presenza del vincolo finanziario, può provare l’assenza di uno degli (o di entrambi gli) altri vincoli.
Con un’ulteriore presunzione è stabilito che il vincolo economico si considera in ogni caso insussistente per i soggetti per i quali il vincolo finanziario ricorra in dipendenza di partecipazioni acquisite nell’ambito degli interventi finalizzati al recupero di crediti o derivanti dalla conversione in azioni di nuova emissione di crediti verso imprese in temporanea difficoltà finanziarie di cui all’art. 113, Tuir .
Tale presunzione ha, in sostanza, la finalità di mitigare la rigidità dell’all in all out principle ed escludere il vincolo economico rispetto a partecipazioni che sono state acquisite in modo occasionale o al di fuori di precise scelte imprenditoriali. I contribuenti, peraltro, qualora il vincolo economico venga ad esistenza in relazione a tali soggetti, ed abbiano interesse ad inserirli nel gruppo Iva, possono presentare all’Agenzia delle Entrate apposito interpello probatorio, ai sensi dell’art. 11, co. 1 lett. b), L. 212/2000: si tratta di un interpello avente una funzione diametralmente opposta all’interpello indicato in precedenza. Anche tale presunzione opera soltanto a favore del contribuente e, per l’effetto, l’Agenzia delle Entrate non può contestare la sussistenza del vincolo economico nei confronti di soggetti il cui vincolo finanziario sia stato acquisito tramite le menzionate procedure.
Esercizio dell’opzione
L’art. 70 quater, D.P.R. 633/1972 disciplina, come anticipato, il criterio dell’all in all out secondo cui, ove l’opzione sia esercitata, tutti i soggetti passivi tra cui ricorrono i tre vincoli indicati devono obbligatoriamente partecipare al gruppo Iva: l’opzione riveste pertanto carattere onnicomprensivo. La scelta del Legislatore, probabilmente dovuta alla preoccupazione di prevenire possibili utilizzi abusivi del nuovo istituto, rischia, però, di rappresentare un impedimento alla creazione di un gruppo Iva con specifico riferimento ai gruppi societari di più grandi dimensioni e formati da un elevato numero di società.
La rigidità di tale previsione è stata, peraltro, delimitata attenuando le conseguenze derivanti alla mancata inclusione nel gruppo Iva di soggetti passivi, invece, titolati a parteciparvi. Nell’ipotesi di mancato esercizio dell’opzione da parte di uno o più dei soggetti per cui ricorrano i tre vincoli è infatti previsto:
  • da un lato il recupero in capo al gruppo Iva dell’effettivo vantaggio fiscale conseguito;
  • dall’altro la cessazione del gruppo Iva ma soltanto dall’anno successivo rispetto a quello in cui è accertato il mancato esercizio dell’opzione e soltanto se tali soggetti non esercitino l’opzione.
In altre parole, l’avvio del gruppo Iva senza la presenza di tutti i soggetti che ne dovrebbero far parte non inficia ex tunc l’opzione a suo tempo esercitata: la mancata inclusione nel gruppo Iva di uno o più soggetti non travolge l’opzione ma rende possibile, in caso di contestazione da parte dell’Agenzia delle Entrate, esclusivamente il recupero del vantaggio fiscale eventualmente conseguito; anche la cessazione del gruppo Iva è eventuale e ricorre soltanto ove i soggetti all’epoca non inclusi non esercitino l’opzione per partecipare al gruppo Iva(5).

AGEVOLAZIONE PRIMA CASA: TRASFERIMENTO DI RESIDENZA CON TEMPI LUNGHI

Con la Legge di Stabilità 2016, e più di preciso con il co. 55, il Legislatore ha ampliato la possibilità di fruire dell’agevolazione prima casa, prevedendo che si possa ottenere l’aliquota ridotta anche nel caso in cui l’acquirente detenga un immobile acquisto con l’agevolazione prima casa a patto che si provveda alla sua cessione entro un anno dalla data di stipula dell’atto con il quale viene acquistato il “nuovo” immobile.

L’intento del Legislatore, come si evince dalla Relazione tecnica alla Legge di Stabilità 2016, è quello di rendere più elastica la fruizione dell’agevolazione in parola senza determinare variazioni nel numero dei soggetti beneficiari, tenendo evidentemente conto delle attuali esigenze del mercato immobiliare e dei conseguenti tempi e modi della contrattazione, considerato che spesso il contribuente, intenzionato ad alienare la propria “prima casa” per acquistarne un’altra, può trovarsi nella difficoltà di riuscire a concludere la vendita prima del nuovo acquisto.

Nel formulare l’agevolazione “ampliata” il Legislatore ha introdotto il nuovo punto 4-bis, della nota II bis, dell’art. 1, della parte prima della Tariffa allegata al D.P.R.131/1986, la quale prevede che:

  • 4-bis. L’aliquota del 2 per cento si applica anche agli atti di acquisto per i quali l’acquirente non soddisfa il requisito di cui alla lettera c) del comma 1 e per i quali i requisiti di cui alle lettere a) e b) del medesimo comma si verificano senza tener conto dell’immobile acquistato con le agevolazioni elencate nella lettera c), a condizione che quest’ultimo immobile sia alienato entro un anno dalla data dell’atto. In mancanza di detta alienazione, all’atto di cui al periodo precedente si applica quanto previsto dal comma 4”.

Per comprendere appieno la nuova formulazione normativa, pare necessario indicare i requisiti necessari per fruire dell’agevolazione prima casa, dettati dalla nota II-bis) all’articolo 1 della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. 131/1986:

  1. immobile ubicato nelterritoriodelcomuneincui l’acquirente ha o stabilisca entro diciotto mesi dall’acquistolapropria residenza o, se diverso, in quello in cui l’acquirentesvolgelapropria attività ovvero, se trasferito all’estero per ragioni di lavoro, inquello in cui ha sede o esercita l’attività il soggetto da cui dipende ovvero, nel caso in cui l’acquirente sia cittadino italianoemigratoall’estero,che l’immobile sia acquisito come prima casa sul territorioitaliano.La dichiarazione di voler stabilire la residenza nel comune ove è ubicato l’immobile acquistatodeveessereresa,apenadidecadenza, dall’acquirente nell’atto di acquisto;
  2. nell’atto di acquisto l’acquirente dichiari di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del comune in cui è situato l’immobile da acquistare;
  3. nell’atto di acquisto l’acquirente dichiara di non essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale su tutto il territorio nazionale dei diritti di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà su altra casa di abitazione acquistata dallo stesso soggetto o dal coniuge con le agevolazioni prima casa;
  4. l’agevolazione è subordinata al fatto che la casa acquistata con il beneficio fiscale non sia ceduta per almeno un quinquennio oppure che, se ceduta prima del decorso del quinquennio, entro un anno sia acquista altra prima casa.

La condizione per l’applicazione dell’aliquota del 2 per cento è che il precedente immobile acquistato con le agevolazioni di cui alla lettera c) venga alienato entro un anno dal nuovo acquisto.

In merito al requisito di cui alla lettera a), va evidenziato che la nuova formulazione normativa prevede che il requisito stesso va verificato “senza tener conto dell’immobile acquistato con le agevolazioni elencate nella lettera c).

Secondo il Consiglio Nazionale del Notariato (Studio n. 5-2016/T) il suddetto inciso potrebbe essere inteso quale mera precisazione che, quanto alla residenza dell’acquirente, rilevi quella riferibile al Comune in cui è ubicato il nuovo immobile, con obbligo pertanto di trasferirvi la stessa anche laddove il precedente immobile agevolato fosse situato in un altro Comune.

A parere di chi scrive, la precisazione del Legislatore potrebbe indicare che non rileva la residenza detenuta nel Comune in cui è ubicato l’immobile preposseduto acquistato con le agevolazione prima casa. In sostanza, se si ha la residenza in un Comune diverso da quello nel quale è effettuato l’acquisto del nuovo immobile e dove è ubicato l’immobile preposseduto con le agevolazioni prima casa, non è necessario effettuare il trasferimento di residenza nel perentorio termine di 18 mesi dall’acquisto del nuovo immobile.

Tenuto conto però che l’immobile preposseduto va ceduto entro 12 mesi dall’acquisto del nuovo immobile, da questa data decorreranno i 18 mesi per effettuare il trasferimento di residenza.

In merito al requisito di cui alla lettera b), si evidenzia che nell’atto di acquisto l’acquirente deve dichiarare di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del Comune in cui è situato l’immobile da acquistare, salva l’ipotesi in cui si tratti dell’abitazione già acquistata con le agevolazioni “prima casa” di cui alla lett. c), che si intende alienare entro l’anno successivo.

In sostanza, l’agevolazione prima casa viene concessa anche se si acquista il “nuovo” immobile nel Comune ove è ubicato l’immobile preposseduto acquistato con l’agevolazione prima casa. Diversamente, qualora l’immobile preposseduto sia stato acquistato senza agevolazioni prima casa, se si acquista il “nuovo” immobile nel Comune ove è ubicato l’immobile preposseduto non si potrà fruire dell’agevolazione.

Altra questione poco chiara è l’applicabilità della nuova previsione normativa ai fini IVA.

Nell’ipotesi in cui l’acquisto di una nuova abitazione da parte di un contribuente ancora titolare di un altro immobile acquistato usufruendo delle agevolazioni “prima casa” di cui alla lettera c) della nota II-bis, sia imponibile agli effetti dell’iva, è da valutare se, in presenza degli altri requisiti e condizioni di cui alla nota II-bis, sia applicabile l’aliquota iva del 4%.

Il n. 21 tabella, parte II, allegata al D.P.R. n. 633/1972 dispone l’applicazione dell’aliquota nella misura del 4% alle cessioni «case di abitazione ad eccezione di quelle di categoria catastale A1, A8 e A9, ancorché non ultimate, purché permanga l’originaria destinazione, in presenza delle condizioni di cui alla nota II-bis) all’articolo 1 della tariffa, parte prima, allegata al testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131. In caso di dichiarazione mendace nell’atto di acquisto, ovvero di rivendita nel quinquennio dalla data dell’atto, si applicano le disposizioni indicate nella predetta nota».

Il rinvio alle condizioni di cui alla nota II-bis dovrebbe essere idoneo a ricomprendere anche l’acquisto per il quale la condizione di cui alla lettera c) non sussista al momento della cessione, purché entro l’anno l’immobile preposseduto venga alienato, secondo quanto disposto dal comma 4-bis della nota II-bis.

In sostanza, l’ampliamento dell’agevolazione dovrebbe trovare applicazione anche ai fini IVA.

AUTORE: GIOACCHINO DE PASQUALE

 

REGIME FORFETTARIO E RETTIFICA DELLA DETRAZIONE IVA

Con il passaggio dal regime IVA ordinario al regime forfettario, scatta la rettifica della detrazione IVA di cui all’art. 19 bis-2 DPR 633/72.
In particolare, il comma 3 della norma succitata così recita:
“Se mutamenti nel regime fiscale delle operazioni attive, nel regime di detrazione dell’imposta sugli acquisti o nell’attività comportano la detrazione dell’imposta in misura diversa da quella già operata, la rettifica è eseguita limitatamente ai beni e ai servizi non ancora ceduti o non ancora utilizzati e, per i beni ammortizzabili, è eseguita se non sono trascorsi quattro anni da quello della loro entrata in funzione.”
Dunque, il passaggio dal regime iva ordinario al regime forfettario, comporta la rettifica dell’iva già detratta sui “beni e servizi” non ancora “ceduti” e/o “utilizzati” e sui “beni ammortizzabili”.
La rettifica dell’IVA inizialmente detratta va operata considerando che:

  • le disposizioni di cui all’art. 19 bis-2 DPR 633/72, relative ai beni ammortizzabili, devono intendersi riferite anche ai beni immateriali di cui all’articolo 68 del TUIR;
  • per i beni ammortizzabili materiali ed immateriali la rettifica va eseguita solo se non sono ancora trascorsi cinque anni dalla loro entrata in funzione. Limitatamente alla norma in esame non si considerano ammortizzabili i beni di costo unitario non superiore a 516,46 €, ne’ quelli il cui coefficiente di ammortamento stabilito ai fini delle imposte sul reddito è superiore al 25%;
  • agli effetti del presente articolo i fabbricati o porzioni di fabbricati sono comunque considerati beni ammortizzabili ed il periodo di rettifica è stabilito in dieci anni, decorrenti da quello di acquisto o di ultimazione;
  • fra i beni non ancora ceduti o non ancora utilizzati rientra certamente il valore delle rimanenze finali ed i contratti di leasing in essere. Riguardo al valore delle rimanenze finali, l’IVA va rettificata integralmente, mentre nel caso dei contratti di leasing, la rettifica dell’iva, originariamente assolta con il maxi canone iniziale, va effettuata proporzionalmente al tempo che residua alla conclusione del contratto;

Le rettifiche delle detrazioni iva andranno effettuate nella Dichiarazione annuale IVA relativa all’anno in cui si verificano gli eventi che le determinano, sulla base delle risultanze delle scritture contabili obbligatorie.
Pertanto, l’ex contribuente ordinario nell’ultima Dichiarazione Iva, che nel nostro caso corrisponderà alla Dichiarazione Iva 2016 per l’anno 2015, al rigo VA14 dovrà barrare la casella 1, al fine di indicare che trattasi dell’ultimo anno (il 2015) in cui verranno applicate le regole ordinarie in materia di iva.
Sulla scorta dell’art. 19 bis-2 DP.R. 633/72 dovrà quindi procedere alla rettifica della detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti, riportando nel rigo VF56 il valore complessivo delle rettifiche iva operate.
L’IVA eventualmente da versare corrisponderà:

  • al 100% dell’IVA detratta per le rimanenze finali e i servizi non ancora utilizzati;
  • ai quinti residui per i beni strumentali;
  • ai decimi rimanenti per i beni immobili.

L’IVA dovuta a seguito della rettifica confluirà all’interno della dichiarazione IVA e concorrerà alla determinazione dell’importo a debito/credito risultante dalla dichiarazione annuale.
Relativamente all’IVA dovuta a seguito di rettifica della detrazione a sfavore, a differenza del regime dei minimi, l’imposta non dovrà essere più versata autonomamente: l’importo indicato al rigo VF56 confluirà infatti nel rigo VL, all’interno dell’imposta complessiva a debito o a credito, e l’eventuale debito dovrà essere versato in un’unica soluzione con il codice tributo 6099 anno di riferimento 2015.
L’eventuale credito iva, che emergerà dall’ultimo anno in cui l’iva è applicata nei modi ordinari, potrà essere chiesto a rimborso oppure compensato con il modello F24.
La rettifica alla detrazione iva vale anche in senso opposto, ossia nel caso di passaggio dal regime forfettario al regime ordinario (per opzione o per obbligo). In tal caso l’iva non detratta diviene detraibile. Quindi i contribuenti non più forfettari devono determinare l’Iva assolta sulle merci in rimanenza, sui beni strumentali di importo superiore a 516,46 euro o con percentuale di ammortamento inferiori al 25% e sui servizi non utilizzati.
Infine, con il passaggio dal regime iva ordinario al regime forfettario, può esserci il caso dell’esigibilità differita dell’iva o dell’iva in sospensione per via dell’adozione da parte del contribuente del meccanismo della liquidazione dell’iva “per cassa”. Anche in tal caso va data notizia nella prima Dichiarazione Iva Annuale utile e potrebbe emergere un debito che andrà versato con le modalità su esposte.

AUTORE: MASSIMILIANO BELLINI

INTERVENTI DI EFFICIENTAMENTO ENERGETICO: DETRAZIONE DELLE SPESE

L’agevolazione è confermata anche per il 2016

L’art. 14 del D.L. 14 giugno 2013 n° 63, ai fini di un miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici esistenti, ha previsto una detrazione del 65% delle spese sostenute con riferimento a :
  • miglioramento termico dell’edificio (coibentazioni – pavimenti – finestre, comprensive di infissi);
  • installazione di pannelli solari;
  • sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale.

Dal 1 gennaio 2017 il beneficio sarà del 36%, cioè quello ordinariamente previsto per i lavori di ristrutturazione edilizia.
Soggetti beneficiari– Rientrano tra i soggetti che possono richiedere l’agevolazione: le persone fisiche, comprese gli esercenti arti e professioni; i contribuenti che conseguono reddito d’impresa; le associazioni tra professionisti; gli enti pubblici e privati che non svolgono attività commerciale purché siano soggetti al pagamento dell’Ires (dunque non i Comuni ad esempio). Possono fruire dell’agevolazione anche i titolari di un diritto reale sull’immobile; i condomini, per gli interventi sulle parti comuni condominiali; gli inquilini; i familiari del possessore. Dal 1° gennaio 2016 sono ammessi anche gli Istituti autonomi per le case popolari.
Immobili interessati – Gli interventi devono essere eseguiti su unità immobiliari e su edifici (o su parti di edifici) esistenti, di qualunque categoria catastale, anche se rurali, compresi quelli strumentali (per l’attività d’impresa o professionale). Non sono agevolabili, quindi, le spese effettuate in corso di costruzione.
La Legge di stabilità 2016 al comma 74 ( Legge n° 208 del 28 dicembre 2015) ha confermato la detrazione anche per il 2016 e al comma 88 ammette all’agevolazione anche le spese per l’acquisto, l’installazione e la messa in opera di dispositivi multimediali per il controllo da remoto degli impianti di riscaldamento o produzione di acqua calda o di climatizzazione delle unita’ abitative, volti ad aumentare la consapevolezza dei consumi energetici da parte degli utenti e a garantire un funzionamento efficiente degli impianti. Questi dispositivi devono mostrare attraverso canali multimediali i consumi energetici, mediante la fornitura periodica dei dati, le condizioni di funzionamento correnti e la temperatura di regolazione degli impianti e consentire l’accensione, lo spegnimento e la programmazione settimanale degli impianti da remoto.
In particolare le spese agevolabili fanno riferimento a :

  • interventi di riqualificazione energetica di edifici esistenti, che ottengono un valore limite di fabbisogno di energia primaria annuo per la climatizzazione invernale inferiore di almeno il 20% rispetto ai valori riportati in un’apposita tabella (i parametri cui far riferimento sono quelli definiti con decreto del ministro dello Sviluppo economico dell’11 marzo 2008, così come modificato dal decreto 26 gennaio 2010). Il valore massimo della detrazione è pari a 100.000 euro
  • interventi su edifici esistenti, parti di edifici esistenti o unità immobiliari, riguardanti strutture opache verticali, strutture opache orizzontali (coperture e pavimenti), finestre comprensive di infissi, fino a un valore massimo della detrazione di 60.000 euro. La condizione per fruire dell’agevolazione è che siano rispettati i requisiti di trasmittanza termica U, espressa in W/m2K, in un’apposita tabella (i valori di trasmittanza, validi dal 2008, sono stati definiti con il decreto del ministro dello Sviluppo economico dell’11 marzo 2008, così come modificato dal decreto 26 gennaio 2010). In questo gruppo rientra anche la sostituzione dei portoni d’ingresso, a condizione che si tratti di serramenti che delimitano l’involucro riscaldato dell’edificio verso l’esterno o verso locali non riscaldati e risultino rispettati gli indici di trasmittanza termica richiesti per la sostituzione delle finestre
  • l’installazione di pannelli solari per la produzione di acqua calda per usi domestici o industriali e per la copertura del fabbisogno di acqua calda in piscine, strutture sportive, case di ricovero e cura, istituti scolastici e università. Il valore massimo della detrazione è di 60.000 euro
  • interventi di sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di caldaie a condensazione e contestuale messa a punto del sistema di distribuzione. La detrazione spetta fino a un valore massimo di 30.000 euro;
  • sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con pompe di calore ad alta efficienza e con impianti geotermici a bassa entalpia, con un limite massimo della detrazione pari a 30.000 euro;
  • interventi di sostituzione di scaldacqua tradizionali con scaldacqua a pompa di calore dedicati alla produzione di acqua calda sanitaria, con un limite massimo della detrazione pari a 30.000 euro.
  • Non è agevolabile, invece, l’installazione di sistemi di climatizzazione invernale in edifici che ne erano sprovvisti.

La detrazione del 65% si applica anche alle spese documentate e rimaste a carico del contribuente:

  • per interventi relativi a parti comuni degli edifici condominiali o che interessino tutte le unità immobiliari di cui si compone il singolo condominio, sostenute dal 6 giugno 2013 al 31 dicembre 2016;
  • per l’acquisto e la posa in opera delle schermature solari di cui all’allegato M al Dlgs 311/2006, sostenute dal 1 gennaio al 31 dicembre 2016, fino a un valore massimo della detrazione di 60.000 euro;
  • per l’acquisto e la posa in opera di impianti di climatizzazione invernale dotati di generatori di calore alimentati da biomasse combustibili, sostenute dal 1 gennaio 2015 al 31 dicembre 2016, fino a un valore massimo della detrazione di 30.000 euro.

Altra novità prevista dalla Legge 208 del 28 dicembre 2015 (Legge di stabilità 2016) è la possibilità per gli interventi su parti comuni dei condomini di cedere l’ecobonus alle aziende che fanno i lavori in cambio di uno sconto. In questo modo si permette anche agli inquilini incapienti di sfruttare le detrazioni. Le modalità operative della cessione dovranno essere chiarite dall’Agenzia delle Entrate, con un provvedimento da emanarsi entro il 1° marzo 2016, probabilmente il credito si potrà cedere non solo alle imprese ma anche ai professionisti tecnici.
La detrazione deve essere ripartita in dieci rate annuali di pari importo, non è cumulabile – per i medesimi interventi con la detrazione del 50% per le ristrutturazioni o con altri incentivi come il conto termico (cui hanno diritto, in alternativa alla detrazione, pannelli solari termici e pompe di calore).

AUTORE: REDAZIONE FISCAL FOCUS

TELEFISCO 2016: QUADRO RW E IVAFE

Nel corso di Telefisco 2016 l’Amministrazione Finanziaria ha chiarito come deve essere compilato il quadro RW e come si calcolano le sanzioni in presenza di un dossier titoli intrattenuto dal contribuente con un intermediario estero.

I casi prospettati all’Amministrazione Finanziaria sono stati i seguenti.

Un contribuente deteneva un dossier titoli al 1° gennaio del 2015 il cui valore complessivo era 1.000.000 euro al 1° gennaio 2015 e di 1.100.000,00 al 31 dicembre 2015. Il questo caso il capitale iniziale è sempre stato investito in un solo titolo che si è rivalutato.

Nella fattispecie prospettata il contribuente compilerà un solo rigo del quadro RW, indicando come valore inziale 1.000.000 e come valore finale 1.100.000 e come giorni di possesso 365.

Nelle ipotesi di omessa compilazione del modello RW, la sanzione è determinata applicando la percentuale prevista dall’art. 5, Dl 167/90 al valore al termine del periodo di detenzione, rappresentato dall’intero anno, pari a euro 1.100.000.

CASO 2 – Un contribuente deteneva un dossier titoli al 1° gennaio del 2015 il cui valore complessivo era 1.000.000 euro, che è stato investito e reinvestito più volte nel corso dell’anno con i seguenti valori rispettivamente iniziali e finali con questo stesso ordine:

  • Valore iniziale, 1.000.000, valore finale, 1.015.323; giorni, 31.
  • Valore iniziale, 1.015.323; valore finale, 1.030.647; 28 giorni.
  • Valore iniziale, 1.030.647, valore finale, 1.045.970, giorni 31;
  • Valore iniziale, 1.045.970, valore finale, 1.061.293, giorni 30;
  • Valore iniziale, 1.061.293, valore finale, 1.076.616, giorni 31;
  • Valore iniziale, 1.076.616, valore finale, 1.091.940, giorni 30;
  • Valore iniziale, 1.091.940, valore finale, 1.107.263, giorni 31;
  • Valore iniziale, 1.107.263, valore finale, 1.122.586, giorni 31;
  • Valore iniziale, 1.122.586, valore finale, 1.137.909, giorni 30;
  • Valore iniziale, 1.137.909, valore finale, 1.153.233, giorni 31;
  • Valore iniziale, 1.153.233, valore finale, 1.168.556, giorni 30;
  • Valore iniziale, 1.168.556, valore finale, 1.183.879, giorni 31.

Il tale caso il calcolo della sanzione deve avvenire moltiplicando ciascun importo valore finale per i relativi giorni di possesso. La somma dei valori così determinati deve essere divisa per 365.

A titolo esemplificativo, la sanzione per l’omessa dichiarazione del titolo ceduto nel mese di gennaio sarà pari al 3% (6%) di (1.015.323*31)/365 e cosi via. La somma delle sanzioni riferibili a ciascun periodo di detenzione determinerà la sanzione complessiva dovuta per le violazioni della normativa sul monitoraggio fiscale.

Questo è un importante chiarimento. Infatti la sanzione dal 3 al 15 per cento (o dal 6 al 30 percento in caso di detenzione degli investimenti in Stati non collaborativi) si applica sulla media ponderata delle giacenze in luogo della somma degli investimenti indicati in colonna 8 (valore finale) che nel caso di specie sarebbe stata pari ad euro 13.195.214.

Viene altresì chiarito che dal punto di vista della temporalità delle operazioni di investimento e disinvestimento rientranti all’interno di un unitario rapporto finanziario, l’individuazione del termine si riferisce al rapporto finanziario nel suo complesso. Pertanto, gli adempimenti dichiarativi previsti dovranno prevedere l’indicazione del valore iniziale e del valore finale di detenzione della relazione finanziaria, non rilevando le eventuali singole variazioni della composizione di quest’ultima.

In termini pratici questo significa che in caso di possesso di un dossier titoli con valore iniziale 2.000.000,00 di euro e valore finale 3.000.000,00 di euro, estinto a novembre 2015, visto che le operazioni di investimento e disinvestimento rientrano all’interno di un unitario rapporto finanziario si dovrà compilare un solo rigo della dichiarazione, indicando come valore finale 3.000.000,00 di euro.

Altro chiarimento sul quadro RW riguarda il soggetto delegato. SU tale aspetto viene chiarito, compatibilmente con le indicazioni fornite nella C.M. 28/E/2012, che l’Ivafe è dovuta dalle persone fisiche residenti che detengono all’estero attività finanziarie a titolo di proprietà o di altro diritto reale, indipendentemente dalle modalità della loro acquisizione e, quindi, anche se pervengono da eredità o donazioni.
Pertanto, i soggetti delegati su un conto estero, comunque obbligati alla compilazione del modulo RW, non sono tenuti al versamento dell’Ivafe.

AUTORE: GIOACCHINO DE PASQUALE

 

 

LA FATTURA ELETTRONICA PUÒ ESSERE ANCHE “DIFFERITA”

Premessa – A decorrere dal 31 marzo 2015 (Dl n. 66/2014), tutti gli enti nazionali e le amministrazioni locali non possono più accettare le fatture in formato cartaceo ma sono obbligate alla fatturazione elettronica (per Ministeri, Agenzie fiscali ed enti nazionali di previdenza, l’obbligo già decorreva dal 6 giugno 2014).
Inoltre, a oggi, le pubbliche amministrazioni non potranno procedere al pagamento del fornitore del bene o del servizio, neppure parziale, fino all’invio del documento in forma elettronica.
Si ricorda che, l’obbligo di fatturazione in forma elettronica nei confronti delle Amministrazioni dello Stato è stato introdotto dalla Finanziaria 2008 (Legge n. 244/2007) cui sono succeduti due decreti attuativi:

  • decreto 7 marzo 2008 (Gazzetta Ufficiale n.103 del 03/05/2008) con cui il legislatore ha individuato nell’Agenzia delle Entrate il Gestore del Sistema di Interscambio (SDI) per l’invio e la ricezione delle fatture elettroniche verso la PA, definendone compiti e responsabilità. Con lo stesso decreto è stata Individuata nella SOGEI Spa la struttura dedicata ai servizi strumentali e alla conduzione tecnica dell’SDI;
  • decreto Ministro Economia e Finanze n. 55 del 3 aprile 2013 (Gazzetta Ufficiale n.118 del 22/05/2013) che rende operative le regole tecniche per la gestione dei processi di fatturazione elettronica verso la pubblica amministrazione.

Quando la fattura è elettronica – La fattura elettronica, sostituisce in tutto e per tutto la fatturazione cartacea ma restano tuttavia ferme le regole di fatturazione. Secondo il precedente chiarimento dell’Agenzia delle Entrate, fornito con la circolare n. 18/E/2014, affinché una fattura possa essere definita elettronica e non cartacea, non è rilevante il formato utilizzato per la sua creazione (elettronico o cartaceo), bensì il solo fatto che la stessa sia in formato elettronico quando è emessa o messa a disposizione, ricevuta e accettata dal destinatario.
In particolare, secondo l’amministrazione finanziaria, è elettronica anche la fattura cartacea trasformata in documento informatico per essere spedita e ricevuta dal destinatario via posta elettronica. Non può, invece, essere considerata elettronica la fattura che seppur generata tramite un software di contabilità, è comunque inviata all’ente in formato cartaceo.

La fattura elettronica differita – A oggi, la possibilità di emettere fattura differita cartacea, è prevista sia per le cessioni di beni che per le prestazioni di servizi. Ciò è espressamente previsto dall’articolo 21, comma 4, lettera a), del D.P.R. n. 633 del 1972, in cui è disposto che “per le cessioni di beni la cui consegna o spedizione risulta da documento di trasporto o da altro documento idoneo a identificare i soggetti tra i quali è effettuata l’operazione ed avente le caratteristiche determinate con decreto del Presidente della Repubblica 14 agosto 1996, n. 472, nonché per le prestazioni di servizi individuabili attraverso idonea documentazione, effettuate nello stesso mese solare nei confronti del medesimo soggetto, può essere emessa una sola fattura, recante il dettaglio delle operazioni, entro il giorno 15 del mese successivo a quello di effettuazione delle medesime”.
Per quanto riguarda le prestazioni di servizi individuabili attraverso “idonea documentazione”, l’Agenzia delle Entrate, con la stessa circolare n. 18/E/2014 ha chiarito che per “idonea documentazione” potrebbe intendersi, ad esempio, oltre del documento attestante l’avvenuto incasso del corrispettivo, del contratto, della nota di consegna lavori, della lettera d’incarico, della relazione professionale, purché risultino in modo chiaro e puntuale la prestazione eseguita, la data di effettuazione e le parti contraenti.
Anche la fattura elettronica, così come quella cartacea può essere emessa in modalità “differita” entro il 15 del mese successivo alla consegna del bene oggetto di compravendita o dall’avvenuto incasso della prestazione resa.
Quindi, ciò ad esempio, sta significando che il fornitore potrebbe consegnare all’ente pubblico (esempio Comune) i beni acquistati ed emettere la preventiva bolla di consegna (o DDT) per poi emettere la fattura elettronica (per la quale sussiste l’obbligo) entro il 15 del mese successivo alla consegna con la possibilità di fatturare tutti i beni acquistati e consegnati il mese precedente a condizione che nella fattura siano comunque richiamati il numero e la data della bolla.

AUTORE: PASQUALE PIRONE

 

Cooperative di tipo B: la fine di un modello?

Le cooperative sociali nascono con la finalità di perseguire l’interesse generale della comunità, garantendo la promozione umana e l’integrazione sociale dei cittadini. Proprio questa “vocazione collettiva” le distingue dagli altri tipi di cooperative che mirano esclusivamente a rispondere agli interessi “individuali” dei singoli soci.
Le cooperative sociali, nell’espletamento delle proprie funzioni, operano bilanciando il legittimo interesse economico al profitto con l’altrettanto fondamentale obiettivo a perseguire questo attraverso l’inserimento di soggetti svantaggiati che devono essere almeno il 30% sul totale della forza lavoro impiegata.
La Legge 381/1991 che disciplina le cooperative sociali distingue tra:
• Cooperative sociali di tipo A che si occupano della gestione dei servizi socio sanitari ed educativi rivolte a persone che per svariate ragioni (età, salute, condizione personale e sociale) si trovino in una condizione di svantaggio;
• Cooperative sociali di tipo B che si rivolgono ai medesimi destinatari ma svolgono attività diverse: agricole, industriali, commerciali o servizi.
Per favorire l’inserimento lavorativo delle categorie più svantaggiate, la Legge prevedeva per le cooperative di tipo B la possibilità di stipulare convenzioni con gli Enti Pubblici finalizzate alla fornitura di beni e servizi (ad esclusione di quelli di natura socio sanitaria ed educativa, di competenza delle cooperative di tipo A) in deroga alla normativa del Codice dei contratti, purché gli affidamenti riservati fossero di importi inferiori alla soglia di rilevanza comunitaria fissata a 40.000 euro.
Il comma 610 dell’art.1 Testo Unico della Legge di Stabilità 2015 ha de facto eliminato l’affidamento diretto aggiungendo all’art.5 della Legge 381/1991 quanto di seguito:
“Le convenzioni di cui al presente comma sono stipulate previo svolgimento di procedure di selezione idonee ad assicurare il rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di efficienza”.
Tre righe che cambiano tutto e che rischiano di svuotare di senso il ruolo della cooperazione nel panorama politico-economico italiano.
Il disposto in oggetto va a smantellare un sistema efficiente che ha garantito fino a questo momento la tutela di categorie di lavoratori altrimenti esclusi dal mercato del lavoro, snaturando di fatto lo spirito insito nella Legge 381/91.
La scelta politica che sembra emergere, alla luce dei recenti scandali di Mafia Capitale, è quella di andare a “punire” quegli esempi virtuosi che costituiscono la stragrande maggioranza del panorama delle cooperative.
Più che la trasparenza e la non discriminazione l’unico obiettivo che sembra volersi perseguire è quella dell’efficienza economica tout court. L’aspetto sociale rischia di passare in secondo piano alla luce di criteri ispirati esclusivamente alla logica del vantaggio economico totale.
La norma, inoltre, va nella direzione opposta a quanto stabilito dalla nuova Direttiva Europea sugli appalti pubblici 2014/24/UE la quale al comma 1 dell’articolo 20 stabilisce che: Gli Stati membri possono riservare il diritto di partecipazione alle procedure di appalto a laboratori protetti e ad operatori economici il cui scopo principale sia l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate o possono riservarne l’esecuzione nel contesto di programmi di lavoro protetti quando almeno il 30% dei lavoratori, operatori economici o programmi sia composto da lavoratori con disabilità o da lavoratori svantaggiati.
Tale orientamento viene riaffermato dalla Risoluzione Legislativa del Parlamento Europeo del 15 gennaio 2014 sulla proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio riguardante la modifica della Direttiva 18/2004 sugli appalti pubblici. L’articolo 36 sottolinea come porre sullo stesso piano le imprese sociali con le altre sul mercato costituirebbe di fatto una distorsione delle regole. Il disposto, in questo senso, è chiarissimo: “Lavoro e occupazione contribuiscono all’integrazione nella società e sono elementi chiave per garantire pari opportunità a tutti. In questo contesto, i laboratori protetti possono svolgere un ruolo significativo. Lo stesso vale per altre imprese sociali il cui scopo principale è l’integrazione o reintegrazione sociale e professionale delle persone con disabilità e delle persone svantaggiate, quali i disoccupati, le persone appartenenti a minoranze svantaggiate o comunque a categorie socialmente emarginate. Tuttavia, detti laboratori o imprese potrebbero non essere in grado di ottenere degli appalti in condizioni di concorrenza normali. Appare pertanto opportuno prevedere che gli Stati membri possano avere la facoltà di riservare la partecipazione alle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici o di determinati lotti di appalti a tali laboratori o imprese o riservarne l’esecuzione nel contesto di programmi di lavoro protetti”.
L’Europa prende ad esempio il nostro sistema di tutele ma l’Italia prosegue in “direzione ostinata e contraria” e in tutto ciò viene da chiedersi se l’obiettivo finale sia il superamento del sistema cooperativo, relegando nuovamente ai margini quelle categorie “svantaggiate” a cui fino ad oggi le cooperative hanno dato la possibilità di essere cittadini attivi.

Fonte UNSIC

Alla Consulta il contraddittorio «a macchia di leopardo»

Con la sentenza n. 24823 del dicembre scorso, le Sezioni Unite hanno sancito che non esiste, nell’ordinamento nazionale, un principio generale che impone all’Amministrazione finanziaria un obbligo circa l’instaurazione del preventivo contraddittorio con il contribuente.

La convenienza del nuovo forfettario

La convenienza del nuovo forfettario – Agevolato l’avvio di nuove iniziative produttive

Premessa – A seguito dell’abrogazione del regime dei minimi il legislatore ha previsto nel nuovo regime forfettario la riduzione dell’aliquota dell’imposta sostituiva dal 15% al 5% per le start up con l’intento di continuare ad agevolare l’avvio di nuove iniziative produttive. Nel calcolo della convenienza del regime tale riduzione di aliquota va aggiunta alla forfetizzazione dei costi e al regime previdenziale agevolato per artigiani e commercianti.

Start up – La legge di stabilità 2016 prevede per i contribuenti forfettari la riduzione dell’aliquota d’imposta dal 15 % al 5 % per i primi cinque anni, solo nell’ipotesi di inizio di una nuova attività. I soggetti che al termine del quinquennio agevolato con tassazione al 5% possederanno ancora i requisiti richiesti dalla Legge 190/2014 (art. 1 commi da 54 a 89) potranno continuare ad avvalersi del regime di favore transitando attraverso la tassazione al 15%.

Abrogazione – Contemporaneamente viene definitivamente abrogato il regime previsto per l’imprenditoria giovanile ex D.L. 98/2011 per le nuove attività (c.d. “regime dei minimi”), poiché si prevede all’interno del forfettario (L. 190/2014) la suddetta possibilità di tassare in maniera più favorevole le start up ed inoltre viene cancellato il comma 65, art. 1 L. 190/2014 nella parte in cui ammetteva l’agevolazione prevista per i primi tre anni di attività consistente nella riduzione del reddito imponibile per 1/3.

Avvio nuove attività – La norma, dunque, persegue in maniera evidente la finalità di favorire l’avvio di nuove iniziative produttive. Si può infatti ben affermare che il vantaggio potrà essere ancora maggiore rispetto al passato poiché chi parte con una nuova attività dal 01.01.2016 oltre al beneficio legato all’aliquota 5% (già presente nei precedenti minimi) potrà ora aggiungere anche la forfettizzazione dei costi.

Reddito forfettario – Circa la determinazione del reddito forfetario bisogna sottolineare il fatto che la percentuale di costi forfetariamente riconosciuta è variabile in relazione all’attività economica, quindi per ciascuna posizione va verificata l’incidenza dei costi effettivi e confrontata con la percentuale forfetaria.

Carico fiscale – In relazione all’applicazione dell’imposta sostitutiva, invece, va considerato che l’aliquota irpef effettiva non corrisponde a quella nominale applicata in quanto l’imposta netta è influenzata dalla specifica detrazione d’imposta spettante per i possessori di redditi d’impresa/lavoro autonomo. In virtù di ciò l’aliquota al 5% è certamente più conveniente del regime ordinario irpef, al contrario l’applicazione dell’aliquota del 15% deve essere confrontata con l’Irpef ordinaria gravante sul contribuente sulla base del reddito effettivamente conseguito e delle detrazioni a lui spettanti.

Soglie dei ricavi – Anche l’aumento delle soglie dei ricavi avrà una convenienza tangibile per chi è già operativo e sarebbe stato tagliato fuori dalle condizioni più stringenti fissate lo scorso anno per accedere al forfetizzato.

Regime previdenziale – Per i soli imprenditori iscritti alla Gestione IVS va anche valutata la possibilità, in caso di applicazione del regime forfetario, di usufruire, in via facoltativa, di un regime previdenziale di favore consistente nel pagamento dei contributi previdenziali sul reddito in misura ridotta.

Autore: redazione fiscal focus

 

IMU e TASI immobili in comodato: entro il 20 gennaio la registrazione del contratto per lo sconto pieno

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Ci siamo! E’ scattato l’anno 2016 ed è scattata la corsa, da parte dei possessori di immobili, verso gli studi commerciali e CAF per chiedere informazioni e capire come agire alla luce delle novità IMU e TASI introdotte dalla legge di stabilità 2016.

Certamente tra tutti, quelle che vogliono capirci qualcosina in più sono i genitori che hanno, oltre alla propria abitazione principale, altri immobili a disposizione che potrebbero essere concessi (o che sono già concessi) in comodato gratuito ai figli (o anche i figli che vorrebbero concederli ai genitori).

La motivazione di quanto appena affermato è data dal comma 10 della legge di stabilità 2016, con il quale il legislatore stabilisce, per IMU e TASI, che “la base imponibile per il calcolo dell’imposta è ridotta del 50% per le unità immobiliari, fatta eccezione per quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9, concesse in comodato dal soggetto passivo ai parenti in linea retta entro il primo grado che le utilizzano come abitazione principale”.

Per alcuni, la predetta disposizione potrebbe essere considerata un passo indietro rispetto agli anni passati, poiché prima della manovra 2016, la possibilità di assimilazione dell’immobile concesso in comodato a parenti in linea retta era si prevista ma era lasciata alla completa autonomia comune (il quale poteva o no porre come condizione fondamentale l’obbligo di registrazione del contratto di comodato) ed inoltre era prevista solo ai fini IMU (e non TASI). L’assimilazione, tuttavia, consentiva l’esenzione totale dal tributo (sempre se l’immobile era non di lusso).

Quindi ad esempio, nel caso di un comune che nel 2015 aveva previsto tale possibilità, per il genitore che aveva provveduto a concedere l’immobile in comodato al figlio e da questi adibito ad abitazione principale, l’agevolazione prevista dal comma 10 della legge di stabilità 2016, potrebbe essere considerata un passo indietro, poiché se lo scorso anno l’immobile in questione era completamente esente da IMU (se non di lusso), nel 2016, invece, sarà soggetto ad IMU anche se con l’agevolazione del 50%. Tuttavia, per la TASI, la misura ha dei risvolti positivi, poiché se nel 2015 il tributo è stato assolto in misura piena, quest’anno godrà della riduzione del 50%.

Le condizioni – Con lo stesso comma 10 della manovra 2016, sono fissate altresì le condizioni per godere dell’agevolazione. In particolare, oltre al fatto che l’immobile (non di lusso) deve essere concesso in comodato al parente in linea retta entro il primo grado (quindi tra genitori e figli o viceversa) ed essere da questi adibito ad abitazione principale, è altresì necessario che:

  • il contratto di comodato sia registrato;
  • il comodante possieda un solo immobile in Italia e risieda anagraficamente nonché dimori abitualmente nello stesso comune in cui è situato l’immobile concesso in comodato.

Tuttavia, il beneficio si applica altresì nel caso in cui il comodante oltre all’immobile concesso in comodato possieda nello stesso comune (in cui è ubicato l’immobile concesso in comodato) un altro immobile adibito a propria abitazione principale, ad eccezione delle unità abitative classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9.

L’agevolazione spetterà anche alle pertinenze, ma al riguardo c’è da capire se resta ferma la regola che prevede il limite di tre pertinenze ciascuna appartenente a categoria catastale C/2, C/6 e C/7 (la legge di stabilità nulla dispone in tal senso).

La registrazione del contratto entro il 20 gennaio – La condizione da rispettare per godere dell’agevolazione che più di tutte sta facendo sorgere quesiti e richiesta di informazioni in questi giorni è quella della registrazione del contratto di comodato.

E ciò non solo per i costi da sostenere (200 euro d’imposta di registro e la marca da bollo da 16 euro, per ogni copia da registrare, ogni quattro facciate e comunque ogni 100 righi) ma soprattutto per la data di stipula e decorrenza.

Infatti, considerando che la registrazione di un contratto di comodato deve avvenire entro 20 giorni dalla data di stipula e dato che la data di stipula deve essere anteriore a quella di decorrenza, ne consegue che al fine di godere dell’agevolazione in esame per tutto l’anno 2016 (da gennaio a dicembre), le parti devono far si che la data di stipula e quella di decorrenza decadano entro i primi 15 giorni di gennaio. Infatti, vale sempre la regola che è considerato per intero il mese in cui il possesso si è protratto per più di 15 giorni.

Quindi, per un contratto di comodato con data di stipula e decorrenza 1 gennaio 2016, occorrerà procedere alla registrazione entro il 20 gennaio e l’agevolazione potrà essere applicata per tutto i mesi del 2016.

Così come, ad esempio, un contratto di comodato stipulato il 10 gennaio 2016, con decorrenza 14 gennaio 2016, andrà registrato entro il 30 gennaio (20 giorni dalla stipula), e consentirà l’agevolazione per tutti i mesi del 2016, poiché anche per gennaio, il possesso in capo al comodatario si protrae per più di 15 giorni (dal 14 gennaio) e quindi il mese va computato per intero.

Stessa cosa non si può, invece, dire ad esempio nel caso di un contratto di comodato stipulato il 1° febbraio 2016, con decorrenza 18 febbraio, il quale deve, comunque, essere registrato entro il 20 febbraio, ma consentirà l’agevolazione solo per 10 mesi (marzo – dicembre), mentre per due mesi (gennaio – febbraio) l’agevolazione non potrà essere applicata e ciò poiché per il mese di febbraio, il possesso in capo al comodatario si è protratto per meno di 15 giorni (dal 18 febbraio).

Infatti, considerando che la registrazione di un contratto di comodato deve avvenire entro 20 giorni dalla data di stipula, ne consegue che al fine di godere dell’agevolazione in esame per tutto l’anno 2016 (da gennaio a dicembre), le parti devono stipulare e far decorrere il comodato dal 1° gennaio 2016 e provvedere quindi alla registrazione entro il 20 gennaio. Inoltre, vale sempre la regola che è considerato per intero il mese in cui il possesso si è protratto per più di 15 giorni.

Quindi, ad esempio, un contratto di comodato stipulato il 1° febbraio 2016, con decorrenza 18 febbraio, deve, comunque, essere registrato entro il 20 febbraio, ma consentirà l’agevolazione solo per 10 mesi (marzo – dicembre), mentre per due mesi (gennaio – febbraio) l’agevolazione non potrà essere applicata.

Chi, invece, ad inizio 2016, ha già un contratto di comodato registrato (perché già fatto nel 2015 o in precedenza ed ancora in essere) potrà godere sicuramente dell’agevolazione per tutto il 2016.

E utile, infine, ricordare che, il comodante liquiderà IMU e TASI 2016 applicando le aliquote previste per le seconde case e che deve attestare i requisiti fissati dal comma 10 della legge di stabilità 2016, nella dichiarazione IMU (da presentarsi entro il 30/06/2017 in riferimento agli immobili concessi in comodato nel 2016).

Autore: Pasquale Pirone

Confronto tra POS e scontrini: presunzione di cessioni “in nero”

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

E’ noto come l’Amministrazione finanziaria nel corso di un’attività ispettiva, in presenza di una contabilità esistente e regolare, possa comunque procedere alla ricostruzione indiretta del volume d’affari del contribuente verificato, sulla base di elementi probatori di carattere, appunto, indiretto – presuntivo.

Sovente, nell’ambito di verifiche eseguite nei confronti di esercenti attività di commercio al minuto, soggetti all’obbligo di emissione dello scontrino o della ricevuta fiscale, le prove indirette – presuntive vengono acquisite dai verbalizzanti attraverso il confronto tra gli scontrini fiscali emessi (dati rilevabili dalle matrici delle ricevute fiscali e dal giornale di fondo del registratore di cassa) e gli accrediti sul conto dell’esercente, mediante utilizzo di carte di debito (bancomat), ovvero di carte di credito.

Il regime sanzionatorio dell’omessa certificazione dei corrispettivi. Il regime sanzionatorio concernente la mancata emissione dello scontrino o ricevuta fiscale è disciplinato dal combinato disposto dagli artt. art. 6, comma 3 e 12, commi da 2 a 2-quater del D.Lgs n. 471/1997.

In base alla prima disposizione richiamata, la mancata emissione dello scontrino o ricevuta fiscale è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria pari al 100% dell’imposta corrispondente all’importo non documentato. La stessa sanzione si applica in caso di omesse annotazioni su apposito registro dei corrispettivi relativi a ciascuna operazione in caso di mancato o irregolare funzionamento degli apparecchi misuratori fiscali.

Le sanzioni accessorie. L’art. 12, di contro, disciplina le sanzioni accessorie connesse alla violazione sopra citata; in particolare, a mente del comma 2, in caso di contestazione, nel corso di un quinquennio, di quattro distinte mancate emissioni del documento certificativo dei corrispettivi, commesse in giorni diversi, viene disposta la sospensione della licenza o dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività, ovvero dell’esercizio dell’attività medesima per un periodo da tre giorni ad un mese.

Peraltro, trattasi di un provvedimento immediatamente esecutivo, in deroga al principio sancito dall’art. 19, comma 7 del D.Lgs n. 472/1997, per il quale l’esecutività della sanzione accessoria tributaria interviene con la definitività del provvedimento di irrogazione.

L’art. 12, comma 2 in commento prevede inoltre un’aggravante speciale, per cui, se l’importo complessivo dei corrispettivi oggetto di contestazione eccede l’importo di 50 mila euro, la sospensione è disposta per un periodo da uno a sei mesi.

La ricostruzione indiretta dei corrispettivi. Sovente l’Amministrazione finanziaria, nel corso delle verifiche fiscali nei confronti di aziende obbligate alla certificazione dei corrispettivi tramite scontrino o ricevuta fiscale, procede alla ricostruzione indiretta del ciclo d’affari, confrontando i singoli documenti certificativi emessi (dati rilevati dalle matrici delle ricevute fiscali conservate, ovvero dal giornale di fondo del registratore di cassa) con i singoli pagamenti effettuati dal cliente tramite carte di debito o di credito.

Tale riscontro, oltre ad interessare masse di operazioni, viene anche eseguito per singola operazione di cessione o prestazione, nel senso che il personale ispettivo cerca tendenzialmente di rilevare la precisa corrispondenza tra la somma indicata nel documento certificativo emesso e l’importo accreditato sul conto aziendale mediante strumenti elettronici di pagamento.

La mancanza di tale corrispondenza può indurre i verificatori a ricostruire (in modo appunto indiretto) il volume d’affari imputando in aumento a quanto dichiarato dal contribuente le differenze positive tra gli accrediti operati con strumenti di pagamento elettronico e i singoli documenti dal medesimo emessi.

Indicazioni di prassi. La stessa Guardia di Finanza, nell’istruzione operativa n. 1/2008 in tema di verifiche fiscali, segnala ai propri Reparti la possibilità di esperire tale tipologia di riscontro, associandola di norma ad altre tipologie di verificazioni esperibili in locali aperti al pubblico (quali, bar, ristoranti, pub, pizzerie, discoteche, stabilimenti balneari, etc.); in particolare vengono evidenziate, quali attività utili per acquisire elementi di fatto su cui impostare un procedimento di ricostruzione del reale volume d’affari dell’azienda, la rilevazione delle presenze giornaliere della clientela mediante rilevamenti diretti da parte del personale ispettivo (anche in forma riservata), ovvero mediante rilevamenti fotografici.

Trattasi di rilevamenti (quelli delle presenze) che difficilmente possono, per se stessi, validamente supportare una ricostruzione di tipo indiretto e le conseguenti proposte di recupero a tassazione; tuttavia, qualora siano corroborati da altre circostanze, tra le quali, appunto, la discordanza tra importi certificati e importi risultanti dai pagamenti elettronici, ben possono fornire un quadro generale di carattere fortemente indiziario, su cui impostare proficuamente la ricostruzione del reale ciclo d’affari.

Lo stesso documento di prassi osserva, con specifico riferimento al confronto fra documenti fiscali emessi e risultanze degli strumenti di pagamento elettronico, come la stessa giurisprudenza di legittimità abbia, tra l’altro, “riconosciuto fondata, ex art. 54, comma 2, del D.P.R. n. 633/72, la presunzione di occultamento di maggiori ricavi ove dalla documentazione contabile risulti un divario tra la somma degli importi coperti da scontrini fiscali e la somma, superiore, degli importi incassati tramite carte di credito, in relazione all’obbligo del contribuente, ex art. 24 del medesimo decreto, di indicare, nell’apposito registro, l’ammontare complessivo dei corrispettivi giornalieri, ivi compresi quelli relativi a pagamenti parziali e nel giornale di fondo tutti i corrispettivi, anche se non riscossi”.

La difesa del contribuente. E’ evidente, tuttavia, come non esista alcuna norma positiva che imponga al contribuente una perfetta coincidenza tra importo certificato con scontrino o ricevuta fiscale e importo risultante dal pagamento elettronico.

Si pensi, a titolo esemplificativo, ai casi in cui la prestazione del ristorante sia stata fornita ad una comitiva di persone le quali, al termine della stessa, abbiano pagato separatamente le proprie consumazioni, alcuni con bancomat, altri con carta di credito, altri infine in contanti, a fronte dell’emissione di un unico scontrino fiscale per l’importo complessivo: l’organo verificatore, riscontrando in tal caso una serie di pagamenti elettronici a fronte dei quali non esistono documenti certificativi per ogni singolo importo, potrebbe contestare la mancata documentazione della sommatoria dei corrispettivi risultanti da tali pagamenti, nonché la mancata emissione di tanti scontrini, quanti sono numericamente gli accrediti bancari privi di riscontro.

E’ vero che in numerose occasioni la giurisprudenza di merito ha affermato che la mancata corrispondenza tra le risultanze del Pos e gli scontrini fiscali, rientrando nell’ambito delle ccdd. “presunzioni semplici”, non è, da sola, significativa della mancata emissione degli scontrini stessi (cfr, ad esempio sentenza CTR dell’Aquila, sezione distaccata Pescara, n. 188/2013); è anche vero che il contribuente, in sede di contraddittorio, potrebbe riuscire a giustificare le incongruenze evidenziate dai verbalizzanti utilizzando, ad esempio, documenti extracontabili normalmente emessi per la gestione dei tavoli; ma è altrettanto vero che, a distanza di tempo, tale ricostruzione analitica potrebbe risultare di fatto impossibile al contribuente che, di conseguenza, potrebbe trovarsi a gestire un contenzioso dall’esito incerto.

Il rischio connesso alla verbalizzazione di tali violazioni, soprattutto con riferimento alla possibilità per l’Amministrazione finanziaria di irrogare, dopo aver accertato quattro mancate emissioni in giorni diversi, la sanzione accessoria della chiusura dell’esercizio, dovrebbe suggerire al contribuente l’opportunità di uniformare le proprie procedure di certificazione dei corrispettivi, facendo sì che ad ogni accredito elettronico corrisponda necessariamente uno scontrino o una ricevuta fiscale per l’esatto importo, ancorché tale modus operandi si possa rivelare particolarmente oneroso.

Autore: Marco Brugnolo

Anno nuovo ravvedimento nuovo

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Il D.lgs. 158/2015 ha modificato l’art. 13 del D.lgs. 472/1997, dimezzando la sanzione base prevista per gli omessi o insufficienti versamenti delle imposta.

Si passa così da una sanzione del 30% ad una sanzione del 15%. Tuttavia, tale riduzione si applica solo per i ritardi fino a 90 giorni. Dal 91° giorno la sanzione torna ad essere del 30%.

Inoltre, è dimezzata, altresì la sanzione base per i ritardi nei versamenti entro 14 giorni dalla violazione, passando così dal 2% all’1%.

La riforma del sistema sanzionatoria entra il vigore dal 1° gennaio 2016, con l’applicazione del favor rei.

Come cambia il ravvedimento dal 2016 – Il 31 dicembre 2015, dunque, va in pensione la sanzione del 30% per i ritardi di versamento entro i 90 giorni e del 2% per i ritardi entro i 14 giorni e ciò avrà dei riflessi anche per l’istituto del ravvedimento operoso, con la conseguenza che a decorre dal 1° gennaio 2016, le nuove sanzioni saranno:

  • Ravvedimento sprint: con sanzione, per ogni giorno di ritardo, pari a 1/10 della sanzione prevista per i pagamenti eseguiti entro 14 giorni dalla violazione (quindi 1/10 dell’1% cioè 0,1% per ogni giorno di ritardo fino al 14° giorno). In tal caso, dunque, la sanzione massima applicabile sarà del 1,4% (0,1 per 14 giorni di ritardo) a fronte del 2,8% ante-riforma (0,2% x 14 giorni di ritardo).
  • Ravvedimento breve: con sanzione pari ad 1/10 della sanzione base se il versamento è eseguito entro 30 giorni dalla violazione (quindi 1/10 del 15% e cioè 1,5%);
  • Ravvedimento intermedio: con sanzione pari ad 1/9 della sanzione base se il versamento è eseguito entro 90 giorni dalla violazione (quindi 1/9 del 15% e cioè 1,67%);
  • Ravvedimento lungo: con sanzione pari ad 1/8 della sanzione base (quindi 1/8 del 30% e cioè 3,75%) se il versamento è eseguito dal 91° giorno successivo la violazione ma entro il termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno nel corso del quale è stata commessa la violazione, ovvero, se non è prevista dichiarazione periodica, entro un anno dall’omissione o dall’errore;
  • Ravvedimento ultrannuale (solo per i tributi amministrati dall’Agenzia delle Entrate) con sanzione pari al 4,29%, a condizione che il versamento sia eseguito entro il termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo a quello nel corso del quale è stata commessa la violazione, ovvero, se non è prevista dichiarazione periodica, entro 2 anni dall’omissione o dall’errore;
  • Ravvedimento “lunghissimo (solo per i tributi amministrati dall’Agenzia delle Entrate) con sanzione pari al 5% se il versamento è eseguito oltre il termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo a quello nel corso del quale è stata commessa la violazione, ovvero, se non è prevista dichiarazione periodica, oltre 2 anni dall’omissione o dall’errore.

Gli effetti del favor rei – Come anticipato in premessa, la riforma sanzionatoria entra in vigore il 1° gennaio 2016 ma troverà applicazione il principio del favor rei, con la conseguenza che il contribuente potrà beneficiare della sanzione ulteriormente ridotta per regolarizzare anche le violazioni commesse nel 2015 con inevitabili risvolti positivi.

Cosi, ad esempio, con riferimento alla scadenza del 16 dicembre 2015 delle ritenute operate dal sostituto d’imposta sulle retribuzioni di novembre, qualora questi avesse omesso il versamento avrebbe potuto ravvedersi entro il 23 dicembre, poiché in tal caso avrebbe versato una sanzione massima pari a 1,4% (cioè 0,2% per 7 giorni di ritardo). Non gli sarebbe convenuto, invece, ravvedersi nel periodo 24/12 – 30/12, poiché in tal caso avrebbe applicato una sanzione superiore rispetto a quella applicabile attendendo il 2016.

Qualora, infatti, il sostituto d’imposta si fosse, ad esempio, ravveduto il 24 dicembre (il ravvedimento sprint è possibile fino a 14 giorni dalla violazione, quindi, fino al 30 dicembre) questi, avrebbe dovuto applicare una sanzione pari a 1,6% (0,2% per 8 giorni), ciò superiore a quella che applica aspettando il 2016 e ravvedendosi entro il 15 gennaio (1,5%).

Nemmeno gli converrebbe ravvedersi il 31 dicembre, poiché in tal caso dovrebbe applicare una sanzione ancora maggiore pari al 3% (1/10 del 30% e cioè quella del ravvedimento breve ante-riforma.)

Oltre, la sanzione, ovviamente occorre che egli versi l’importo omesso e gli interessi al tasso legale annuo per ciascun giorno di ritardo(pari allo 0,5% per il 2015 e allo 0,2% per il 2016).

Autore: Pasquale Pirone

Regime forfettario e attività escluse: continua a pagarne anche la seconda attività

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – il DDL di Stabilità 2016, definitivamente approvato (e quindi diventato legge) cambia ancora una volta il regime IVA agevolato dei minimi (forfettario dal 2015).

E’ possibile parlare di un vero e proprio mix tra quello che era il “vecchio regime dei minimi” (con aliquota del 5%) e il nuovo “regime forfettario” introdotto dalla Legge di stabilità 2015 (con aliquota del 15%).

Con la nuova manovra 2016, è, infatti, è innalzata di 15.000 (quindi si passa da 15.000 a 30.000 euro) la soglia di ricavi per l’accesso al regime per i liberi professionisti (per le altre categorie l’incremento della soglia è di 10.000 euro) ed è ridotta al 5% l’aliquota sostitutiva (in luogo del 15%) per i primi 5 anni di attività. Restano invece fermi gli altri requisiti di accesso (la spesa in un anno per dipendenti e collaboratori non deve superare i 5.000 euro lordi e non deve essere oltrepassata la soglia relativa all’acquisto di beni strumentali, fissata in 20.000 euro in un anno).

Inoltre, per chi, oltre all’attività di impresa, arte e professione esercitasse anche l’attività di lavoro dipendente, mentre la Legge di stabilità del 2015 prevedeva l’esclusione dal regime qualora i redditi da lavoro dipendente superassero i redditi d’impresa, arte e professione e contemporaneamente la somma dei redditi derivanti da attività professionale e dipendente eccedesse i 20.000 euro, la Legge di stabilità 2016 stabilisce, invece, che non può accedere al regime il contribuente che abbia conseguito, nell’anno precedente a quello in cui intende avvalersi del regime forfettario, un reddito da lavoro dipendente o assimilato superiore a 30.000 euro (salvo il caso in cui il lavoro dipendente risulti cessato).

Le attività che continuano ad esserne escluse – Continuano a restare “ex lege” esclusi dal regime agevolato in questione i soggetti che si avvalgono di regimi speciali IVA o di regimi forfetari del reddito (Risoluzione n. 73/E/2007). In particolare si tratta dei soggetti esercenti le seguenti attività: agricoltura e attività connesse e pesca; vendita sali e tabacchi; commercio dei fiammiferi; editoria; gestione di servizi di telefonia pubblica; rivendita di documenti di trasporto pubblico e di sosta; intrattenimenti, giochi e altre attività di cui alla tariffa allegata al D.P.R. n. 640/72; agenzie di viaggi e turismo; agriturismo; vendite a domicilio; rivendita di beni usati, di oggetti d’arte, d’antiquariato o da collezione; agenzie di vendite all’asta di oggetti d’arte, antiquariato o da collezione.

Sulla base di quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate con la successiva Circolare n. 7/E/2008 e in mancanza di successivi orientamenti, è da continuare a ritenersi valido, anche per il nuovo regime forfettario, quanto precisato nelle predetta circolare per i “vecchi minimi”. In particolare, quindi, un soggetto che esercita un’attività per cui è precluso l’accesso al regime forfettario (ad esempio agenzia di viaggi) non potrà avvalersi del regime forfettario nemmeno per una seconda attività che decidesse esercitare (ad esempio formatore per tour operetor). Infatti nella circolare, l’amministrazione finanziaria in risposta ad un quesito inerente affermava che “l’esercizio di una delle attività escluse, perché soggette ad un regime speciale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, comporta che il contribuente non potrà avvalersi del regime dei minimi neppure per le ulteriori attività di impresa o di lavoro autonomo eventualmente esercitate. In altri termini, l’esercizio di un’attività soggetta a regime speciale IVA, espressiva ai fini IRPEF di un reddito d’impresa, impedisce di avvalersi del regime dei minimi, non solo per il trattamento di tale attività, ma anche per le ulteriori attività di impresa, arte o professione”.

Nella stessa circolare l’Agenzia delle Entrate riporta, quindi a titolo esemplificativo, che l’esercente, una rivendita di tabacchi non potrà avvalersi del regime dei minimi per la stessa attività di rivendita tabacchi né per la connessa gestione del bar, a nulla rilevando che l’ammontare complessivo dei corrispettivi, riferito ad entrambe le attività, non superi i 30.000 euro.

Autore: Pasquale Pirone

Pensione ai superstiti: a chi spetta?

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il passaggio a nuove nozze fa perdere il diritto al trattamento pensionistico ai superstiti

Nell’ambito dell’art. 22 della L. n. 903/1965, che disciplina il trattamento pensionistico ai superstiti, risulta di fondamentale importanza capire chi può accedere alla successione del de cuius e a quali requisiti. A tal fine, l’INPS con la recente Circolare n. 185/2015 ha tracciato una linea guida che vede – in ordine di spettanza – i seguenti beneficiari: coniuge superstite, coniuge divorziato superstite, figli ed equiparati, genitori, fratelli celibi e sorelle nubili.

Ma vediamo nel dettaglio i requisiti che ciascun potenziale percettore deve avere affinché veda riconosciuto il trattamento pensionistico.

Coniuge superstite – Partendo dal coniuge superstite, il conseguimento del diritto al trattamento pensionistico ai superstiti non è subordinato a nessuna condizione soggettiva. Unica eccezione si ha in caso di nuove nozze da parte del coniuge superstite; in tale caso, si ha diritto ad un assegno pari a due annualità della pensione, ex art. 3 del decreto legislativo luogotenenziale del 18 gennaio 1945, n. 39 nella misura spettante alla data del nuovo matrimonio.

Coniuge divorziato superstite – Particolare è invece il caso del coniuge divorziato superstite che, ai sensi del secondo comma dell’articolo 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, stabilisce che “in caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare dell’assegno ai sensi dell’art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza”.

Pertanto, nel caso in cui l’assicurato, a seguito di divorzio, non sia passato a nuove nozze, il coniuge divorziato superstite ha diritto al trattamento pensionistico in presenza delle seguenti condizioni:

  • abbia la titolarità dell’ assegno periodico divorzile di cui all’articolo 5 della legge n. 898 del 1970. Al riguardo, si precisa che, in caso di liquidazione dell’assegno divorzile in un’unica soluzione, il coniuge divorziato superstite che lo ha ricevuto perde il diritto al trattamento pensionistico ai superstiti, venendo meno il legame patrimoniale con il de cuius;
  • non risulti passato a nuove nozze. Il passaggio a nuove nozze esclude il coniuge divorziato dal diritto alla pensione ai superstiti anche se alla data del decesso dell’assicurato o del pensionato il nuovo matrimonio risulti sciolto per morte del coniuge o per divorzio;
  • la data di inizio del rapporto assicurativo del de cuius sia anteriore alla data della sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio;risultino perfezionati, in caso di decesso di assicurato, i requisiti di assicurazione e contribuzione stabiliti dalla legge.
  • risultino perfezionati, in caso di decesso di assicurato, i requisiti di assicurazione e contribuzione stabiliti dalla legge.

Sul punto si rammenta che, in caso di concorso di coniuge divorziato e coniuge superstite, mancando nella norma previsioni circa le aliquote di pensione spettanti, la ripartizione sarà operata dal Tribunale a cui il coniuge divorziato dovrà rivolgersi per ottenere il riconoscimento del proprio diritto e la determinazione della relativa misura. L’importo del trattamento pensionistico complessivamente attribuibile al coniuge superstite e al coniuge divorziato è pari al 60% della pensione già liquidata o che sarebbe spettata all’assicurato deceduto.

La sentenza del giudice costituisce giuridicamente il titolo per la determinazione dell’ammontare delle relative quote spettanti.

Pertanto, in tale fattispecie, le sedi, in attesa della notifica della sentenza del Tribunale:

  1. verificheranno se sulla pensione diretta del dante causa veniva trattenuto l’importo dell’assegno divorzile e, in caso affermativo, accantoneranno cautelativamente una somma mensile di pari importo dalla quota di pensione spettante al coniuge superstite;
  2. non erogheranno al coniuge divorziato alcuna quota di pensione;
  3. effettueranno i pagamenti nella misura stabilita al soggetto avente diritto, ossia al coniuge superstite, detraendo da detta quota, un importo pari all’assegno divorzile di cui al precedente punto 1.

A decorrere dal primo giorno del mese successivo a quello della notifica del provvedimento del Tribunale, le sedi ripartiranno la prestazione tra gli aventi diritto che abbiano presentato domanda di pensione, sulla base di quanto stabilito dal Giudice. Contestualmente al primo pagamento, al coniuge divorziato verrà liquidata l’eventuale quota cautelativamente accantonata.

Figli ed equiparati – A seguito dell’equiparazione giuridica tra “figli legittimi” e “figli naturali”, sostituendo tali termini semplicemente con quello di “figlio”, l’art. 22 del D.Lgs. n. 903/1965 stabilisce che hanno diritto alla pensione ai superstiti i figli e le persone ad essi equiparati che alla data di decesso dell’assicurato o del pensionato non abbiano superato il 18° anno di età o, indipendentemente dall’età, siano riconosciuti inabili al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso di quest’ultimo.

Sul punto, si ricorda che per i figli superstiti studenti che non prestino lavoro retribuito e a carico del genitore defunto al momento della morte, il limite di 18 anni è elevato a 21 anni in caso di frequenza di scuola media o professionale e a tutta la durata del corso di laurea, ma non oltre al 26° anno di età, in caso di frequenza dell’Università.

Genitori – In assenza del coniuge e dei figli o se, pur esistendo essi non abbiano diritto alla pensione ai superstiti, il diritto al trattamento pensionistico in parola è riconosciuto ai genitori dell’assicurato o pensionato che al momento della morte di quest’ultimo:

  • abbiano compiuto il 65° anno di età;
  • non siano titolari di pensione diretta o indiretta;
  • siano a carico del lavoratore deceduto.

Resta fermo che qualora il genitore, dopo il conseguimento del trattamento pensionistico ai superstiti, diventa beneficiario di un’altra pensione, perde il diritto alla pensione ai superstiti con effetto dal primo giorno del mese successivo a quello di decorrenza della nuova pensione.

Fratelli celibi e sorelle nubili – Infine, in assenza sia del coniuge che dei figli o del genitore o se, pur esistendo essi non abbiano diritto alla pensione ai superstiti, il diritto al trattamento pensionistico in parola è riconosciuto ai fratelli celibi e sorelle nubili dell’assicurato o pensionato che al momento della morte di quest’ultimo:

  • siano inabili al lavoro;
  • non siano titolari di pensione diretta o indiretta;
  • siano a carico del lavoratore deceduto.
Autore: redazione fiscal focus

Pensioni: fermo il limite dei 1.000 euro

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Sempre più caos nella complessa disciplina della circolazione del contante: pensioni bloccate a 1.000 euro e carte di credito per il parchimetro

Il limite per la circolazione del contante, dal 2016, si innalzerà a 3.000 euro, ma non se a pagare è una pubblica amministrazione: in questo caso, il limite rimarrà fermo a 1.000 euro.

Micro-pagamenti con carte di credito che si affiancano a maxi-pagamenti in contanti, obblighi differenziati in base alla natura pubblica o privata del soggetto che procede al versamento delle somme: insomma, se oggi ci lamentiamo del caos che regna in tema di pagamenti in contanti, sicuramente le nostre speranze non potranno essere riposte nel futuro.

Il limite dei 1.000 euro

Con un emendamento della legge di Stabilità approvato nella giornata di martedì viene previsto che “si mantiene fermo per le pubbliche amministrazioni l’obbligo di procedere al pagamento degli emolumenti a qualsiasi titolo erogati superiori a mille euro esclusivamente mediante l’utilizzo di strumenti telematici“.

È stata quindi accolta la proposta del presidente dell’Inps Tito Boeri, che in occasione dell’audizione in commissione Enti previdenziali, aveva chiesto al governo particolari cautele con riferimento alle corresponsioni, in contanti, delle pensioni.

Il rischio è infatti soprattutto quello che i pensionati finiscano per essere truffati nel prelievo del contante, ma, altro aspetto essenziale è dato anche dal fatto che, parte del 20 % dei complessivi risparmi nei costi operativi dell’Inps negli ultimi tre anni è imputabile ai pagamenti effettuati mediante bonifico o assegno.

Nonostante l’innalzamento del limite per il pagamento in contanti, rimarrà quindi l’obbligo, per molti pensionati, di ricevere i versamenti mediante strumenti tracciabili di pagamento: l’emendamento, però, si badi bene, non si limita a riproporre il vecchio limite soltanto per le pensioni erogate dall’Inps, ma anche in tutti i casi in cui a pagare sia una pubblica amministrazione.

Gli altri provvedimenti

Il mini-restyling della legge di stabilità è stato l’esito di una lunga maratona di 37 ore in Commissione Bilancio alla Camera.

Dalla mattinata di lunedì al martedì sono stati infatti accolti una serie di emendamenti e il testo definitivo è stato approvato soltanto in tarda serata.

Per questi motivi, il provvedimento arriverà in Aula soltanto nella giornata di oggi, con uno slittamento di un giorno rispetto ai previsti programmi, mentre l’approvazione della Camera è previsto per domenica.

Molti i provvedimenti allo studio: dall’innalzamento delle borse di studio, alla card di 500 euro ai diciottenni per l’acquisto di libri, l’accesso a monumenti, aree archeologiche, parchi naturali, cinema, teatro, mostre e spettacoli dal vivo, ma anche il nuovo credito d’imposta per l’installazione d’impianti di allarme e l’eliminazione della “supertassa” su yacht e imbarcazioni di lusso introdotta nel 2011.

Sempre sul fronte “contanti”, un’altra novità potrebbe essere introdotta dal 1° luglio 2016: la possibilità di pagare il parchimetro sulle strisce blu con bancomat e carte di credito.

Autore: redazione fiscal focus

Agevolazioni:immobili destinati alla locazione

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Le spese che godono dell’agevolazione

Premessa – E’ stato pubblicato in “Gazzetta Ufficiale” n. 282 del 3 dicembre il decreto 8 settembre che regolamenta la deduzione Irpef del 20% sul prezzo di acquisto degli immobili destinati alla locazione. Secondo quanto previsto per fruire dell’agevolazione le unità immobiliari devono risultare invendute alla data del 12 novembre 2014.

Agevolazione – Come noto, a favore delle persone fisiche (privati) che nel periodo 1.1.2014 – 31.12.2017 sostengono spese per l’acquisto/costruzione di unità immobiliari da destinare a locazione, l’art. 21, DL n. 133/2014 riconosce una specifica deduzione dal reddito complessivo. Con il Decreto 8.9.2015, pubblicato sulla G.U. 3.12.2015, n. 282, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) e il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) hanno definito, ai sensi del comma 6 del citato art. 21, “le ulteriori modalità attuative”, stante la “ravvisata necessità di fornire ai contribuenti un’informazione completa sui soggetti legittimati, sui titoli abilitanti, sui termini previsti e sugli adempimenti amministrativi necessari per usufruire della deduzione …”.

Le spese – L’agevolazione in esame spetta per le spese sostenute dall’1.1.2014 al 31.12.2017 in relazione all’acquisto ovvero alla costruzione su un’area edificabile già posseduta. La deduzione è riconosciuta per l’acquisto di unità immobiliari a destinazione residenziale di nuova costruzione ovvero oggetto di ristrutturazione/restauro/risanamento conservativo ex art. 3, comma 1, lett. c) e d), DPR n. 380/2001 cedute dall’impresa/cooperativa edilizia costruttrice o che ha effettuato il predetto intervento.

Unità invendute – Ai fini dell’agevolazione l’unità immobiliare deve risultare invenduta al 12.11.2014 (data di entrata in vigore della legge di conversione del DL n. 133/2014). Come precisato dall’art. 1 del recente DM, è considerata tale quella che a detta data era già interamente/parzialmente costruita ovvero per la quale a tale data era stato rilasciato il titolo abilitativo edilizio, comunque denominato ovvero per la quale a tale data “era stato dato concreto avvio agli adempimenti propedeutici all’edificazione quali la convenzione tra Comune e soggetto attuatore dell’intervento, ovvero gli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale”.

Soggetti – Come stabilito dall’art. 2 del citato DM la deduzione è riconosciuta ai soggetti titolari del diritto di proprietà dell’unità immobiliare in relazione alla quota di proprietà per l’acquisto di unità abitative per le quali, nel periodo 1.1.2014 – 31.12.2017, è stato rilasciato il certificato di agibilità o si sia formato il silenzio – assenso ex art. 25, DPR n. 380/2001.

Costruzione – L’agevolazione spetta altresì per le prestazioni di servizi, dipendenti da un contratto d’appalto, per la costruzione di unità immobiliari a destinazione residenziale su aree edificabili possedute prima dell’inizio dei lavori o sulle quali sono già riconosciuti diritti edificatori. Come specificato dall’art. 3 del citato DM, le spese devono essere attestate dalle fatture emesse dall’impresa che esegue i lavori di costruzione. La deduzione è riconosciuta per la costruzione di unità immobiliari, da ultimare entro il 31.12.2017, per le quali prima del 12.11.2014 è stato rilasciato il titolo abilitativo edilizio, comunque denominato e per le spese attestate nel periodo 1.1.2014 – 31.12.2017.

Autore: redazione fiscal focus

Responsabilità TASI tra comproprietari e coinquilini

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – La caratteristica peculiare della TASI è che, a differenza dell’IMU, si tratta di un tributo dovuto sia dal possessore dell’immobile (a titolo di proprietà, usufrutto, ecc.) sia dal detentore/occupante l’immobile. La percentuale di TASI dovuta da quest’ultimo è quella fissata dalla stessa delibera comunale nel rispetto dei limiti di legge (tra il 10% e il 30% e se nulla prevede la delibera si deve intendere la misura del 10%).

Dunque, se per il versamento dell’IMU la responsabilità del versamento ricade sul proprietario (o comproprietari con responsabilità “autonoma” e non solidale tra di essi), per la TASI oltre al proprietario è tenuto al versamento anche l’eventuale occupante (inquilino).

Tuttavia, il detentore dell’immobile (inquilino) è tenuto al versamento della sua quota TASI solo se nell’anno il possesso in capo ad egli si è protratto per più di sei mesi (considerando per intero il mese in cui il possesso si è protratto per più di 15 giorni). Infatti, ai sensi del comma 673 Legge n. 147/2013 (Legge di Stabilità 2014) “in caso di detenzione temporanea di durata non superiore a sei mesi nel corso dello stesso anno solare, la TASI è dovuta soltanto dal possessore dei locali e delle aree a titolo di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e superficie”.

Per la TASI, dunque, c’è da ben sapere su chi ricade la responsabilità in caso di omesso o insufficiente versamento tra comproprietari, coinquilini e tra proprietario e inquilino.

La responsabilità tra i comproprietari – A differenza dell’IMU, in cui ogni comproprietario è responsabile autonomamente della propria obbligazione tributaria, per la TASI i comproprietari sono responsabili solidalmente (comma 671 Legge n. 147/2013).

Dunque, ad esempio, in ipotesi di comproprietà tra due coniugi di un immobile soggetto alla TASI, in caso di omesso o insufficiente versamento da parte di uno dei due della propria quota TASI, ne risponde in solido anche l’altro coniuge comproprietario e, dunque, il comune, per il recupero delle somme dovute, potrà rivolgersi indifferentemente a tutti e due i comproprietari.

La responsabilità tra i coinquilini – Spesso può accadere che l’inquilino dell’immobile sia più di uno e in tal caso ognuno verserà la sua quota TASI in ragione della percentuale di possesso. Quindi, ad esempio, nel caso di contratto di locazione cointestato tra tre conduttori, ognuno versa la sua quota TASI nella misura del 33,33 per cento ciascuno. Al riguardo si supponga un immobile con rendita catastale di 1.700,00 euro e che la delibera TASI stabilisca un’aliquota al 2 per mille (sia per acconto che saldo) e la quota TASI a carico dell’occupante nella misura del 20%. La TASI dovuta da ciascun coinquilino sarà così determinata:

  • TASI complessiva= [(1.700 + 5%) x 160] x 0,2% = 571,20
  • TASI complessiva occupante = 571,20 x 20% = 114,24
  • TASI ciascun coinquilino = 114,24 x 33,33% = 38,08

Ciascun inquilino versa una TASI 2015 per l’importo complessivo di 38,08 euro da ripartire tra acconto e saldo.

Come per i comproprietari, anche per i coinquilini, il comma 671 della Legge n. 147/2013, sancisce la responsabilità solidale tra di essi. Pertanto, in caso di omesso o insufficiente versamento da parte di uno dei tre inquilini, ne rispondono in solido anche gli altri e, dunque, il comune, per il recupero delle somme dovute, potrà rivolgersi indifferentemente a tutti e tre.

La responsabilità tra proprietario e occupante – Ultima ipotesi da esaminare e la responsabilità tra proprietario e occupante l’immobile. In particolare, ai sensi del comma 681 della stessa Legge n. 147/2013 “nel caso in cui l’unità immobiliare è occupata da un soggetto diverso dal titolare del diritto reale sull’unità immobiliare, quest’ultimo e l’occupante sono titolari di un’autonoma obbligazione tributaria”.

Pertanto, proprietario e inquilino rispondono ciascuno per la propria quota TASI non versata o versata in maniera insufficiente, senza responsabilità solidale tra di essi.

In conclusione, dunque, riguardo la TASI, la responsabilità solidale esiste tra comproprietari e tra coinquilini, mentre non esiste tra proprietario e inquilino, i quali sono titolari di un’autonoma obbligazione tributaria.

Autore: PASQUALE PIRONE

La Guardia di Finanza definisce gli obiettivi operativi per il 2016

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Quattro sono gli obiettivi individuati dal Comando Generale della Guardia di Finanza nella circolare concernente la programmazione operativa per l’anno 2016, pubblicata il 10 dicembre scorso. Tre di tali obiettivi sono definiti “strategici”, quindi vincolanti; il quarto, “obiettivo di natura strutturale”.

Trattasi, in aderenza alle direttive programmatiche in precedenza impartite dall’Autorità di governo, di azioni di contrasto agli illeciti in materia tributaria e di spesa pubblica, ma anche finalizzate alla tutela dell’economia legale, in conformità ai compiti istituzionali riconosciuti al Corpo dal D.Lgs 19 marzo 2001, n. 68, nel suo ruolo di Polizia economica e finanziaria.

Contrasto all’evasione, all’elusione e alle frodi fiscali. L’obiettivo, definito “strategico”, riguarda il core business del Corpo; lo stesso dovrà essere attuato mediante l’esecuzione di 20 piani operativi, la metà dei quali “con indicatore di attuazione predeterminato”; i restanti “con indicatore di attuazione generico”.

I 10 piani vincolanti riguardano i tradizionali settori delle verifiche e dei controlli fiscali; nulla di nuovo sotto tale aspetto, in quanto nel target delle attività ispettive da programmare nel prossimo anno rientrano tutti i contribuenti titolari di partiva IVA: imprese di minori, medie e rilevanti dimensioni, lavoratori autonomi, enti non commerciali e Onlus.

Oggetto delle attività ispettive saranno tutti i comparti tributari (imposte sui redditi, Iva, altri tributi indiretti, accise) e comprenderanno, come già avvenuto nei precedenti anni, anche il contrasto alle frodi all’Iva comunitaria, i controlli richiesti da Autorità fiscali estere su base convenzionale, le azioni a tutela della riscossione, nonché il controllo economico del territorio attuato anche mediante il servizio di pubblica utilità “117”.

I 10 piani operativi con indicatore di attuazione generico riguardano comunque settori che hanno caratterizzato l’azione operativa della Guardia di Finanza anche nelle precedenti annualità ma, essendo privi di vincoli predeterminati, saranno adattati in corso d’anno; i settori operativi interessati vengono individuati nel sommerso d’azienda e di lavoro, fiscalità internazionale, evasione immobiliare e affitti in nero, giochi e scommesse illegali, imprese in perdita sistemica, indebite compensazioni di crediti d’imposta.

I numeri dei controlli. Sotto il profilo quantitativo, la direttiva del Comando generale prevede l’esecuzione di un piano ispettivo generale basato sugli stessi numeri dell’anno in corso, prevedendo tuttavia una riduzione del carico operativo assegnato al Comandi Regionali Emilia Romagna e Lazio.

Nel primo caso, la riduzione operativa si giustifica con la necessità di completare gli interventi ispettivi scaturiti dalle risultanze dell’indagine nota come “Operazione Torre d’Avorio”, delegata dalla Procura di Forlì al locale Nucleo di Polizia Tributaria, nel cui contesto sono stati acquisiti dati relativi agli anni dal 2006 al 2014, su rapporti bancari detenuti presso istituti di credito sanmarinesi da circa 27 mila soggetti (per lo più imprenditori e lavoratori autonomi), due terzi dei quali risultano residenti nelle regioni prossime alla Repubblica del Titano.

La riduzione del carico prevista per i Reparti laziali è invece connessa alle esigenze di concorso con le altre forze di polizia all’ordine e alla sicurezza pubblica in occasione del Giubileo.

Contrasto agli illeciti in materia di spesa pubblica. L’obiettivo strategico in questione dovrà essere attuato mediante l’esecuzione di 10 piani operativi. In tale contesto vanno ricomprese tutte le attività di prevenzione e contrasto alle truffe a danno dei finanziamenti nazionali, comunitari, nonché dei contributi a carico dei bilanci delle regioni e deli enti locali.

Contrasto alla criminalità economica e finanziaria. Anche il terzo obiettivo, ugualmente di natura strategica, si profila in continuità con le linee operative degli anni precedenti. In tale ambito sono ricomprese le indagini patrimoniali per l’individuazione dei fondi e dei beni illecitamente accumulati dalla criminalità organizzata.

Nell’obiettivo in questione rientrano altresì le consuete azioni di contrasto al riciclaggio, sia sotto il profilo penale su delega dell’Autorità giudiziaria, sia su quello amministrativo con la programmazione di ispezioni e controlli antiriciclaggio; in tale contesto verranno incrementate le attività investigative nei confronti di soggetti con elevato tenore di vita e redditi dichiarati esigui se non nulli, proprio al fine di individuare fenomeni di riciclaggio o reinvestimento di proventi provenienti da attività criminose. Saranno peraltro perseguite anche le condotte di autoriciclaggio da evasione e frode fiscale, poste in essere dal 1° gennaio scorso, alla luce della nuova fattispecie delittuosa prevista e punita dall’art. 648-ter.1 del codice penale, introdotta dall’art. 3, comma 3 della Legge 15/12/2014, n. 186.

Concorso alla sicurezza interna del Paese. In tale ambito, ancora in continuità con l’azione operativa realizzata in passato, rientra il contrasto agli altri traffici illeciti, tra i quali quello concernente gli stupefacenti e le armi, nonché il contrasto all’immigrazione clandestina e alla tratta di esseri umani.

Si profila, tuttavia, analogamente a quanto previsto per le altre forze di polizia, un incremento dei servizi di vigilanza e di controllo del territorio per la sicurezza del Paese in occasione del Giubileo straordinario, recentemente indetto dal Santo Padre.

Autore: Marco Brugnolo

Lavoro & Previdenza 730: stop alle sanzioni di lieve entità

A cura di Antonio Gigliotti

Non sarà sanzionabile, per l’anno 2015, l’invio tardivo del mod. 730 precompilato. Le sanzioni si applicheranno solo dal prossimo anno

Sospiro di sollievo per professionisti, CAF e contribuenti che saranno “salvi” in caso di sanzioni per ritardi ed errori di lieve entità nella trasmissione del mod. 730 precompilato e della Certificazione Unica 2015. A prevederlo è un emendamento al Disegno di Legge Stabilità 2016 presentato giovedì scorso al Governo in commissione Bilancio alla Camera.

In ogni caso, non sfuggono alle sanzioni: la mancata presentazione del 730 ovvero l’indebita fruizione di detrazioni o deduzioni.

La novità si è resa necessaria in considerazione del fatto che il 2015, anno nel quale è stato introdotto il mod. 730 precompilato, ha carattere sperimentale; di conseguenza, le sanzioni previste avranno efficacia solo a partire dal prossimo anno.

Sul punto, si ricorda che la Legge di Stabilità 2016 ha previsto nuove modifiche in merito alle detrazione da inserire nel mod. 730. Innanzitutto, si segnala la possibilità di poter detrarre – fino ad un importo massimo di 1.550,00 euro – le spese funebri. Detrazione, che spetta sia ai parenti del defunto (de cuius) ma anche da chiunque abbia pagato le spese funebri. Per quanto riguarda, invece, le spese sostenute per la frequenza di corsi universitari non statali è previsto che la detraibilità massima sia parificata a quella degli istituti non provati e che vari a seconda della facoltà.

Sempre sul fronte delle detrazioni, appare opportuno evidenziare la possibilità di poter detrarre, anche per il 2016, al 50% le agevolazioni su ristrutturazioni edilizie e al 65% quelle per la riqualificazione energetica; mentre per il bonus mobili è al 50%. Altra detrazione al 50% concerne gli immobili acquistati da giovani coppie come prima casa, per un tetto di spesa fino a 16.000,00 euro.

L’emendamento, inoltre, ha previsto nuovi obblighi di trasmissione all’Agenzia delle Entrate da parte di medici e strutture sanitarie dei dati sulle prestazioni erogate nel 2015: tali dati dovranno essere inviati tramite il “Sistema Tessera Sanitaria”.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Forfettari: novità anche per chi ha aderito nel 2015

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Nuovo limite dei ricavi e imposta ridotta per le start up

Premessa – Secondo quanto previsto dal disegno di legge di stabilità 2016 per i contribuenti forfettari dal 2016 sono previsti limiti di ricavi più elevati e per le start up un’imposta sostitutiva del 5 %. Tali nuove norme verranno applicate anche a coloro che hanno aderito a al regime agevolato già dal 2015.

Legge di stabilità 2016 – Come noto il D.D.L. Stabilità 2016 prevede una serie di modifiche al regime forfettario tra cui l’innalzamento delle soglie di ricavi e compensi che consentono di accedere al regime aumentandole di 10.000 euro per tutte le attività ad eccezione delle attività professionali ed equiparate il cui aumento è pari a 15.000 euro portando così il tetto a 30.000 euro.

Limite dei ricavi – La verifica del suddetto requisito va effettuata avendo riguardo all’anno precedente quello di riferimento. Pertanto con riferimento al 2016, le condizioni di accesso vanno verificate nel 2015. Si ritiene, quindi, che i nuovi limiti dei ricavi che entreranno in vigore dal 1.1.2016 si applicheranno per la verifica dei requisiti per il periodo d’imposta 2016 prendendo ad esame il periodo d’imposta 2015. Un libero professionista che nel 2015 ha applicato il regime forfettario conseguendo ricavi per € 20.000 potrà quindi operare nel regime forfettario anche nel 2016 in quanto il limite in vigore al 1.1.2016 corrisponde a 30.000 euro ed il contribuente avendo conseguito nel 2015 ricavi per 20.000 euro può rimanere nel regime agevolato anche nel 2016.

Start up – Altra modifica è data dal fatto che per i contribuenti che rispettano i requisiti per il regime forfettario e che intraprendono un’attività “nuova”, il reddito determinato con le regole previste per il regime forfettario non sarà più ridotto di 1/3 per l’anno di inizio attività e per i due successivi ma al contrario secondo quanto previsto dal testo del disegno di Legge di Stabilità 2016 dal 2016, si applicherà l’aliquota del 5% per i primi 5 anni di attività.

Inizio nel 2015 – Nel comma 3 dell’art. 8 del DDL di Stabilità 2016 è stato espressamente stabilito che i contribuenti che hanno intrapreso una nuova attività nel 2015 avvalendosi della riduzione di un terzo del reddito possono applicare la nuova aliquota del 5% nei successivi 4 anni, cioè dal 2016 al 2019. Al contrario il contribuente che nel 2015 ha operato in regime ordinario qualora nel 2016 transiti al regime forfettario dovrà applicare l’aliquota piena del 15%.

Regime Inps – I commi da 76 a 84, art. 1, Legge di Stabilità 2015, hanno introdotto una misura agevolativa in ambito previdenziale, riservata ai soli contribuenti obbligati al versamento previdenziale presso le gestioni speciali artigiani e commercianti. I soli contribuenti esercenti attività d’impresa, se applicano il regime forfettario, possono usufruire di un regime agevolato contributivo che consiste nel non applicare il minimale contributivo di cui all’articolo 1, comma 3, Legge n. 233/1990.

Modifiche – Il disegno di Legge di Stabilità interviene ora sul comma 77 sostituendolo integralmente. In virtù delle modifiche apportate si prevede che sul reddito forfettario determinato sulla base delle percentuali di redditività come modificate dallo stesso DDL la contribuzione dovuta ai fini previdenziali sia “ridotta del 35 per cento”. Non essendo state apportate altre modifiche, è confermato anche che il regime contributivo in questione potrà essere attivato esclusivamente su opzione del contribuente.

Comunicazione – Dovrà essere chiarito al riguardo se i soggetti che hanno optato nel corso del 2015 per la contribuzione ridotta, versione Stabilità 2015, siano automaticamente attratti dalle nuove modalità di versamento ovvero se si debba in qualche modo confermare l’opzione. Sul punto l’Inps dovrà, eventualmente, fornire istruzioni.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

IMU e TASI: modalità di versamento per i residenti all’estero

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – I cittadini non residenti in Italia, devono liquidare e versare l’IMU e la TASI per gli immobili posseduti nel nostro Paese e in prossimità dell’imminente scadenza del saldo, fissata al 16 dicembre, è opportuno ricordare le modalità di versamento da seguire.

Si ricorda, altresì che, i predetti soggetti sono esentanti dall’IMU per una e una sola unità immobiliare (se di categoria catastale non di lusso) posseduta in Italia se si tratta di pensionati esteri iscritti all’AIRE e sono rispettati gli ulteriori requisiti fissati dall’art.9-bis D.L. n. 47/2014 e successivi chiarimenti da parte del MEF (Risoluzione n. 6/DF del 26 giugno 2015 e Circolare n. 10/Df/2015). Infatti, tale immobile è assimilato all’abitazione principale, per cui se non di lusso è esente da IMU mentre se di lusso si applicano aliquote e detrazioni previste per l’abitazione principale. Per gli altri immobili posseduti in Italia e non assimilati ad abitazione principale, valgono, invece, le regole ordinarie di liquidazione.

Sempre sulla base dell’art. 9-bis del predetto D.L. e nel rispetto dei requisiti previsti (iscrizione AIRE, pensione estera, ecc.) la TASI sull’immobile, posseduto in Italia e assimilato ad abitazione principale, è ridotta di 2/3.

Il bonifico bancario come modalità di versamentodell’IMU – Mentre, il cittadino residente in Italia può versare l’IMU e la TASI con modello F24 (cartaceo o telematico a seconda dei casi) oppure con bollettino di c/c postale, per i residenti all’estero, le modalità di versamento sono ben diverse.

In particolare, con il comunicato stampa del 31 maggio 2012, il MEF stabilisce che nel caso in cui non sia possibile utilizzare il modello F24 per effettuare i versamenti IMU dall’estero, occorre contattare direttamente il comune beneficiario per ottenere le relative istruzioni e il codice IBAN del conto sul quale accreditare l’importo dovuto.

Pertanto, i residenti all’estero versano l’IMU dovuta, tramite bonifico in cui riportare il codice IBAN del comune destinatario del versamento.

Tuttavia, è possibile che il cittadino italiano residente all’estero sia anche titolare di un c/c in Italia presso una delle banche convenzionate con l’Agenzia delle Entrate. Pe cui, questi potrebbe, previa registrazione ai servizi telematici della stessa Agenzia delle Entrate, compilare il Modello F24 ed eseguire il pagamento online delle imposte tramite il software F24 online.

Come compilare il bonifico – Con lo stesso comunicato stampa del 31 maggio 2012, il MEF indica anche le modalità di compilazione del bonifico. In particolare, oltre al codice IBAN corretto del comune destinatario, occorre riportare:

  • il codice fiscale o la partita IVA del contribuente o, in mancanza, il codice di identificazione fiscale rilasciato dallo Stato estero di residenza, se posseduto;
  • la sigla “IMU” e il nome del comune ove sono ubicati gli immobili e i relativi codici tributo (indicati nella risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 35/E del 12 aprile 2012);
  • l’annualità di riferimento;
  • l’indicazione “Acconto” o “Saldo” o “Unica soluzione”.

E per la TASI? – Il Comunicato stampa del 31 maggio 2012, riguarda esclusivamente l’IMU (anche perché a quella data la TASI non era stata ancora introdotta nel nostro ordinamento tributario).

Per la TASI non sono state, dunque, previste specifiche regole normative, per cui si rimanda tutto all’autonomia comunale. Si consiglia, quindi, di leggere attentamente la delibera o il regolamento comunale, anche se per analogia di disciplina molto probabilmente il comune fissa le stesse modalità di versamento previste per l’IMU.

Autore: PASQUALE PIRONE

UNICO: mancata compilazione del rigo RS140

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Entro il 29/12 l’integrativa con sanzione ridotta

Premessa – Ai sensi dell’art. 5 (“Obbligo di comunicazione e di esibizione delle scritture e dei documenti rilevanti ai fini tributari”) comma 1 del D.M. 17 giugno 2014 “il contribuente comunica che effettua la conservazione in modalità elettronica dei documenti rilevanti ai fini tributari nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta di riferimento”.

Con riferimento al Modello UNICO 2015 (periodo d’imposta 2014) tale comunicazione andava effettuata compilando:

  • il rigo RS140 per il Modello UNICO persone fisiche;
  • il rigo RS104 per il Modello UNICO società di capitali;
  • il rigo RS40 per il Modello UNICO società di persone;
  • il rigo RS83 per il Modello UNICO enti non commerciali.

Nei predetti righi occorreva indicare il “codice 1” (qualora il contribuente nel periodo d’imposta 2014 avesse conservato in modalità elettronica almeno un documento rilevante ai fini tributari) oppure il “codice 2” (qualora il contribuente nel periodo d’imposta 2014, non avesse conservato in modalità elettronica alcun documento rilevante ai fini tributari).

La sanzione in caso di mancata compilazione – La compilazione del rigo RS140, RS104, RS40 o RS83 è un adempimento obbligatorio espressamente sancito dal legislatore, e pertanto l’invio del Modello UNICO in cui manca la compilazione del predetto rigo costituisce una violazione di adempimento formale necessario (errori rilevabili in sede di applicazione degli art. 36-bis e 26-ter del Dpr n. 633/1973).

Ne consegue l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 8 D.lgs. n. 471/1997 da un minimo di 258,23 a un massimo di 2.065,83 (da un minimo di 250 a un massimo di 2.000 nel testo aggiornato in vigore dal 22/10/2015).

Possibilità di integrativa entro il 29/12 – Il contribuente cha ha omesso la compilazione del relativo rigo RS nel Modello UNICO 2015, ha la possibilità di rimediare ricorrendo al ravvedimento operoso presentando una dichiarazione “integrativa” entro 90 giorni dalla scadenza del termine ordinario.

Dunque, questi può presentare un Modello UNICO integrativo entro il prossimo 29/12 versando, ai sensi dell’art. 13 lett. a) bis D.lgs. n. 472/1997) una sanzione ridotta e pari ad 1/9 del minimo quindi 1/9 di 258,23.

Il versamento della sanzione è eseguito con modello F24 codice tributo 8911.

Decorso il termine di 90 giorni, è possibile ancora rimediare presentando sempre un Modello UNICO integrativo entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi riferita al 2015 (quindi entro il 30/09/2016), ma in tal caso la sanzione sarà di 1/8 di 258,23.

Autore: PASQUALE PIRONE

Obblighi antiriciclaggio anche nelle cause di divorzio

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il caso – Gli avvocati sono soggetti alle disposizioni di cui al D. Lgs. n. 231/2007 quando forniscono la loro assistenza nell’ambito delle cause di separazione e divorzio?

L’analisi

Al fine di fornire una risposta al quesito prospettato è necessario, in primo luogo, richiamare il dato normativo, ovvero quanto stabilisce l’articolo 12, comma 1, lettera c) del D.Lgs. 231/2007.

In virtù della disposizione in oggetto, infatti, i notai e gli avvocati sono tenuti al rispetto della normativa antiriciclaggio “quando, in nome o per conto dei propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare e quando assistono i propri clienti nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni riguardanti:

1) il trasferimento a qualsiasi titolo di diritti reali su beni immobili o attività economiche;

2) la gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni;

3) l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito e conti di titoli;

4) l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione, alla gestione o all’amministrazione di società;

5) la costituzione, la gestione o l’amministrazione di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi

Non sussiste tuttavia l’obbligo di segnalazione di cui all’articolo 41 del D.Lgs. 231/2007 nel caso in cui le informazioni sulle operazioni sospette siano state acquisite nel corso dell’attività professionale prima, durante e dopo il procedimento giudiziario.

Più precisamente, l’articolo 12 comma 2 del D.Lgs. 231/2007 stabilisce che “l’obbligo di segnalazione di operazioni sospette di cui all’articolo 41 non si applica ai soggetti indicati nelle lettere a), b) e c) del comma 1 per le informazioni che essi ricevono da un loro cliente o ottengono riguardo allo stesso, nel corso dell’esame della posizione giuridica del loro cliente o dell’espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza del medesimo in un procedimento giudiziario o in relazione a tale procedimento, compresa la consulenza sull’eventualità di intentare o evitare un procedimento, anche tramite una convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati ai sensi di legge, ove tali informazioni siano ricevute o ottenute prima, durante o dopo il procedimento stesso”

Deve pertanto ritenersi che l’esclusione sussista anche nel caso in cui, a seguito dell’esame preliminare della posizione giuridica del cliente, si valuti conveniente evitare il procedimento: non è quindi necessario dimostrare che vi sia stato un procedimento giudiziario per escludere gli obblighi di segnalazione.

Si badi bene, però: l’esclusione dagli obblighi di segnalazione non comporta l’automatica esenzione anche dagli obblighi di adeguata verifica della clientela.

Quindi, anche nel caso in cui si instauri un procedimento giudiziario, sarà sempre necessario identificare il cliente, il titolare effettivo, e ottenere informazioni sullo scopo e la natura della prestazione professionale.

È invece errato ritenere che, in virtù dell’esonero sancito per gli obblighi di segnalazione, il professionista possa ritenersi esonerato dagli adempimenti antiriciclaggio.

Le cause di separazione o divorzio

Con specifico riferimento al quesito prospettato merita di essere richiamato il parere n. 62 del 24 ottobre 2012 del Consiglio Nazionale Forense (Rel. Cons. Merli).

Nel parere in oggetto viene infatti chiarito che gli obblighi di adeguata verifica della clientela sussistono sia nel caso in cui siano instaurati procedimenti civili, come anche in occasione di arbitrati e di pratiche risarcitorie stragiudiziali.

Sussiste quindi l’obbligo di adeguata verifica della clientela per i trasferimenti immobiliari in sede di giudizi di separazione e divorzio, così come anche per le cause di divisione immobiliare, per le cause di usucapione e per le azioni ex art. 2932 c.c..

È in ogni caso richiesto che:

  • i procedimenti appena richiamati siano finalizzati al trasferimento di diritti reali su beni immobili;
  • il valore dei beni in oggetto sia pari o superiore ad € 15.000,00.

Conclusioni

L’avvocato sarà tenuto ad adempiere alle disposizioni antiriciclaggio nel caso in cui il giudizio di separazione/divorzio comporti il trasferimento di diritti su beni immobiliari avente un valore pari o superiore ad € 15.000,00.

Autore: redazione fiscal focus

Reverse charge Vs. Lettera d’intento: chi prevale?

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

In tema di reverse charge, l’Amministrazione Finanziaria non ha mai chiarito se il meccanismo dell’inversione contabile prevalga nel confronto con il regime di non imponibilità ex art. 8, co. 1, lett. c), D.P.R. 633/1972.

Si tratta in sostanza di capire se nel caso in cui un’impresa debba emettere una fattura di vendita ad un fornitore che si qualifica come “esportatore abituale”, che ha inviato puntualmente la lettera d’intento, vada emessa fattura soggetta a reverse charge oppure in regime di non imponibilità ex articolo 8, comma 1, lettera c, oppure ex articolo 17, comma 6 del D.P.R. 633/1972.

Sulla questione va evidenziato che la C.M. 14/E/2015, fornendo applicazione in relazione alle nuove ipotesi di reverse charge in edilizia, introdotte dalla Legge di Stabilità 2015, l’Amministrazione Finanziaria ha chiarito che “qualora la lettera di intento inviata dall’esportatore abituale sia emessa con riferimento ad operazioni assoggettabili al meccanismo dell’inversione contabile, di cui all’articolo 17, comma 6, del medesimo D.P.R. n. 633/1972, relativamente a tali operazioni troverà applicazione la disciplina del Reverse charge, che, attesa la finalità antifrode, costituisce la regola prioritarie”.

Secondo le indicazioni fornite dall’Amministrazione Finanziaria nel summenzionato documento di prassi, la finalità “antifrode” dell’inversione contabile la rende prevalente rispetto al regime di non imponibilità proprio dell’esportatore abituale.

Tradotto in termini pratici, nel caso in cui ad esempio un’impresa italiana debba fatturare a un “fornitore abituale” delle prestazioni di manutenzione di impianti relativi ad edifici, troverà applicazione il reverse charge in luogo del regime di non imponibilità più volte richiamato.

Va evidenziato che nel fornire il concetto di prevalenza del reverse charge sul regime non imponibilità degli esportatori abituali, l’Amministrazione Finanziaria fa espresso riferimento alle ipotesi di reverse charge ex art. 17, co. 6, D.P.R. n. 633/1972.

SI tratta delle seguenti operazioni:

  • subappalto in edilizia;
  • cessione di fabbricati imponibili per opzione;
  • le prestazionidiservizidipulizia,didemolizione,di installazione di impianti e di completamento relative ad edifici;
  • cessioni di apparecchiature terminali per ilserviziopubblico radiomobile terrestre di comunicazioni soggette alla tassa sulle concessioni, nonchédeiloro componenti ed accessori;
  • cessionidipersonalcomputeredeilorocomponentied accessori;
  • cessionidimaterialieprodottilapidei,direttamente provenienti da cave e miniere;
  • ai trasferimenti di quote di emissioni digasaeffettoserra;
  • ai trasferimenti dicertificati relativi al gas e all’energia elettrica;
  • alle cessioni di gas e dienergiaelettricaaunsoggetto passivo-rivenditore.

Nell’ipotesi di conflitto tra reverse charge e regime di non imponibilità, rifacendoci alle indicazioni fornite dall’Amministrazione Finanziaria, le suddette prestazioni, dovranno essere fatturate ai sensi dell’articolo 17, comma 6, del D.P.R. n. 633 del 1972 e non ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera c), del medesimo D.P.R. n. 633. L’applicazione del reverse charge non consentirà dunque l’utilizzo del plafond.

Autore: redazione fiscal focus

IMU e TASI in caso di assegnazione “altro immobile” all’ex coniuge

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – L’art. 4 comma 12-quinquies, D.L. 16/2012 dispone che ai fini dell’IMU, l’assegnazione dell’abitazione coniugale a favore di uno dei coniugi, disposta a seguito di provvedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio “si intende in ogni caso effettuata a titolo di diritto di abitazione”.

Con l’art. 1, comma 707, della legge n. 147/2013, il legislatore ha poi espressamente disposto la piena inapplicabilità dell’IMU “sulla casa coniugale assegnata al coniuge, a seguito di provvedimento di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio”.

“Altro immobile” assegnato all’ex coniuge – Dunque, sulla base di quanto appena affermato in premessa, ai fini IMU, la casa coniugale assegnata all’ex coniuge è considerata abitazione principale per il coniuge assegnatario e come tale è esonerata dall’IMU se appartenente alle categorie catastali A2, A3, A4, A5, A6 e A7 e relative pertinenze. Mentre è assoggettata a IMU con aliquote e detrazioni previste per l’abitazione principale se di categoria A/1, A8 e A/9 e relative pertinenze.

In genere, al coniuge, viene assegnata la casa che rappresentava l’abitazione principale dell’intero nucleo familiare prima della separazione.

Tuttavia, potrebbe accadere che, date le necessità, il giudice assegni all’ex coniuge un altro immobile che sia sempre di proprietà del coniuge non assegnatario.

Ad esempio, prima della separazione, marito e moglie vivevano e risiedevano entrambi in un immobile situato nel comune di Roma (di intera proprietà del marito). Il marito lavora a Roma ed anche proprietario di altro immobile situato ad Aprilia. In seguito a separazione, il giudice assegna alla moglie non l’immobile di Roma (in cui il marito continuerà a vivere ed avere residenza), ma quello situato ad Aprilia (la moglie vi trasferisce la residenza con il bambino).

In ipotesi di questo tipo la domanda che è lecito porsi e se entrambi gli immobili possano essere considerati abitazione principale (quello di Roma per il marito e quello di Aprilia per l’ex moglie).

Dal combinato disposto dell’art. 4 comma 12-quinquies D.L. 16/2012 (si intende effettuata a titolo di diritto di abitazione l’assegnazione dell’abitazione coniugale a favore di uno dei coniugi) e dell’art. 1 comma 707 legge n. 147/2013 (inapplicabilità IMU sulla casa coniugale assegnata al coniuge), al precedente quesito deve essere data risposta negativa, con la conseguenza che l’immobile di Roma sconterà l’IMU come abitazione principale (o esonero se di categoria non di lusso) e quello di Aprilia come seconda abitazione.

Non trova, peraltro nemmeno applicazione quanto chiarito con la Circolare 3/Df/2012, secondo cui i coniugi (non legalmente separati) sono legittimati a sdoppiare la residenza qualora gli immobili siano ubicati in comuni diversi.

Riguardo la TASI, invece, poiché si tratta di un tributo dovuto da proprietario e detentore (per quest’ultimo nella misura tra il 10% e il 30%), ne consegue, che sull’immobile di Aprilia, l’ex marito continua ad essere proprietario mentre l’ex moglie diventa detentore. Pertanto, quest’ultima sconta la sua quota TASI in qualità di occupante (se nulla dovesse prevedere la delibera comunale in merito la quota TASI a suo carico è del 10%) e l’ex marito sconta la restante quota in qualità di proprietario.

Autore: Pasquale Pirone

Regimi agevolati e bonus Irpef 80 euro: la verifica del reddito complessivo

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Il bonus fiscale di 80 euro mensili, spettante ai soli percettori di reddito di lavoro dipendente ed assimilati è stato introdotto dal Governo Renzi con decreto-legge 24 aprile 2014 n.66 (decorrenza del bonus dal mese di maggio 2014) e reso a regime con la legge di stabilità 2015.

E’ erogato direttamente in busta paga dal sostituto d’imposta e a regime, l’importo è pari a:

  1. 80 euro mensili, se il reddito complessivo del lavoratore non è superiore ai 24.000 euro;
  1. all’importo dato da 960 x [(26.000 – reddito complessivo) / 2.000] se il reddito complessivo del lavoratore è compreso tra i 24.000 e i 26.000 euro.

Al fine di avere il beneficio, tuttavia, è necessario il verificarsi di due condizioni fondamentali:

  1. il reddito complessivo del lavoratore non deve essere superiore ad euro 26.000;
  1. l’Irpef lorda dovuta dal lavoratore (sul reddito da lavoro dipendente ed assimilati) deve essere superiore alle detrazioni d’imposta per lavoro spettanti. In altre parole le detrazioni da lavoro devono trovare capienza nell’Irpef lorda dovuta sul reddito da lavoro dipendente e assimilati (la circolare n. 8/E/2014 ha chiarito che rilevano solo le detrazioni da lavoro e non gli altri tipi di detrazione, come ad esempio, quelle per carichi di famiglia previste dall’art. 12 TUIR).

La condizione di cui al punto 1) si riferisce al reddito complessivo del lavoratore e quindi non solo al suo reddito da lavoro dipendente ma alla somma di tutte le tipologie di reddito conseguite nell’anno (reddito da lavoro dipendente, reddito da fabbricati, redditi diversi, ecc.).

Tuttavia, possono esserci redditi conseguiti dal lavoratore dipendente che siano assoggettati ad imposta sostitutiva (dell’Irpef e delle relative addizionali) e che quindi come tali non concorrono alla determinazione del suo reddito complessivo ai fini IRPEF: in particolare può trattarsi ad esempio del canone di locazione soggetto a cedolare secca o del reddito conseguito nell’esercizio di un’attività in regime fiscale agevolato (es. ex minimi o nuovo forfettario). Si tratta di redditi che sono tassati in maniera “sostitutiva” e che quindi non soggiacciono alle ordinarie regole Irpef.

La domanda che si tende a fare in questo caso è se tali redditi concorrono alla formazione del reddito complessivo del lavoratore dipendente ai fini della verifica della soglia per la spettanza del bonus di 80 euro.

Nessun chiarimento per i regimi agevolati – Con la circolare n. 9/E/2014, l’Agenzia delle Entrate è intervenuta a chiarire il quesito appena esposto in premessa ma limitatamente ai redditi assoggettati a cedolare secca, precisando che, in coerenza a quanto già previsto dal comma 7, articolo 3, D.lgs. sebbene il canone di locazione soggetto a cedolare non concorre alla formazione del reddito complessivo del percettore ai fini del calcolo dell’Irpef, rileva invece per il riconoscimento, o meno, di deduzioni, detrazioni e benefici di qualsiasi titolo (e tra tali benefici rientra anche il bonus fiscale di 80 euro).

Stesse precisazioni non sono state fornite, invece, in merito ai regimi fiscali agevolati che prevedono un’imposta sostitutiva quale ad esempio quello degli ex minimi o nuovo forfettario.

Tuttavia, nella stessa circolare l’amministrazione finanziaria, nel riconoscere che il decreto che ha introdotto il bonus di 80 euro, nello stabilire i presupposti per la sua erogazione, non definisce anche regole volte a differenziarne l’applicazione in funzione delle eventuali disposizioni particolari che interessino determinate tipologie di lavoratori, afferma che “al di fuori dei casi in cui tali altre disposizioni particolari prevedano diversamente (come, ad esempio, nel caso dell’imposta sostitutiva sugli incrementi di produttività), la verifica della spettanza del credito deve essere effettuata in base alle regole generali”.

Ne consegue che, poiché la normativa attuale non prevede uno specifico riscontro come invece previsto per il regime della cedolare secca, è possibile ritenere che un lavoratore dipendente che contestualmente svolga anche attività d’impresa (o lavoro autonomo) soggetta a regime fiscale degli ex minimi (aliquota 5%) o nuovo forfettario (aliquota 15%) ai fini del calcolo della soglia di spettanza del bonus Irpef di 80 euro può escludere dal suo reddito complessivo il reddito derivante da tale attività.

E’ auspicabile, tuttavia un preciso chiarimento dell’amministrazione finanziaria come avvenuto per la cedolare secca.

Autore: Pasquale Pirone

L’iscrizione come PMI innovativa

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Per le start up innovative l’impiego del personale qualificato può avvenire sia in forma di lavoro dipendente che a titolo di para-subordinazione o comunque ‘‘a qualunque titolo’’. Non è quindi posto alcun pregiudizio nei confronti delle forme giuridiche contrattuali di collaborazione del personale ‘‘qualificato’’ con la società.

Pmi innovativa – Per l’iscrizione come PMI innovativa, una società intende avvalersi dell’impiego come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in percentuale uguale o superiore al quinto della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di titolo di dottorato di ricerca o che sta svolgendo un dottorato di ricerca presso un’università italiana o straniera, oppure in possesso di laurea e che abbia svolto, da almeno tre anni, attività di ricerca certificata presso istituti di ricerca pubblici o privati, in Italia o all’estero, ovvero, in percentuale uguale o superiore a un terzo della forza lavoro complessiva di personale in possesso di laurea magistrale. La società ha chiesto al Mise cosa si intende per “collaboratori a qualunque titolo”.

Mise – Il mise ha risposto che la norma consente, in armonia con l’attuale disciplina giuslavoristica, che l’impiego del personale qualificato possa avvenire sia in forma di lavoro dipendente che a titolo di parasubordinazione o comunque “a qualunque titolo”. In altri termini il legislatore non pone, né con riferimento alle PMI innovative, né alle start-up, alcun pregiudizio nei confronti delle forme giuridiche contrattuali di collaborazione del personale “qualificato” con la società.

Amministratore unico – Il richiedente ha posto anche un quesito relativo alla propria posizione e cioè se come amministratore unico pagato dalla società rientri nel parametro “quota almeno pari a 1/3 della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di laurea magistrale”

Impiego – Il Mise ha al riguardo precisato che la locuzione “collaboratore a qualsiasi titolo” non può scindersi dall’altra “impiego”. Pertanto se i soci amministratori, sono anche impiegati nella società (in qualità di soci lavoratori o “a qualunque titolo”), nulla osta a che risulti verificata la previsione, sopra richiamata. Al contrario, ove si tratti di meri organi sociali, che pure hanno l’amministrazione della società, ma non sono in essa impiegati, tale condizione non appare verificata.

Brevetto – Con un altro quesito è stato richiesto se il deposito di marchi permette di soddisfare il terzo criterio previsto dall’art. 4 comma 1, lett. e), n. 3, Dl 179/2012. Secondo il Mise il requisito sarebbe soddisfatto anche nel caso in cui la start up avesse presentato domanda per la registrazione del brevetto, pur non conoscendone ancora l’esito. Pertanto, ove la società abbia già depositato formalmente il brevetto, ancorché sia ancora in attesa di registrazione, appare verificato il requisito dell’”essere depositaria”, ed in quanto tale appare iscrivibile nella sezione speciale del registro delle imprese”. Posizione che deve oggi essere integralmente ribadita e trasferita anche alla fattispecie delle PMI.

Autore: redazione fiscal focus

Moneta elettronica anche per i micro-pagamenti

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Un legge di stabilità a due facce, quella che si sta delineando. Da un lato, infatti, si vuole innalzare il limite per l’uso del contante, portandolo da 1.000 a 3.000 euro, mentre, dall’altro si vuole abbassare il tetto attualmente previsto per i pagamenti con carte di debito, eliminando l’attuale limite dei 30 euro.

La situazione attuale

Dal 30 giugno 2014 è stato previsto l’obbligo, per imprenditori e professionisti, di accettare pagamenti di importi superiori a 30 euro con carte di debito.

Tuttavia, in mancanza di specifiche sanzioni, ad oggi, il professionista o l’imprenditore che non rispetta l’obbligo rischia soltanto la mora del creditore ai sensi dell’art. 1226 del Codice Civile.

In linea di massima, la mora del creditore impedisce a quest’ultimo di richiedere il pagamento degli interessi nel caso di tardivo pagamento, e consente altresì al debitore di chiedere il rimborso delle eventuali spese sostenute per la corresponsione degli importi.

Non si può quindi sicuramente parlare di vere e proprie sanzioni: ecco il motivo per il quale l’accettazione del pagamento con carte di debito è rimasto semplicemente un “obbligo sulla carta”, e a fronte di un aumento dei terminali disponibili (da 1,53 milioni nel 2013 a 1,8 milioni nel 2014) l’utilizzo della moneta elettronica non è assolutamente aumentato.

L’Italia rimane pertanto, ad oggi, ancora lontana dagli standard europei. Se infatti in Europa le transazioni complessive in contanti coprono solo il 65% di quelle totali, nel nostro Paese la percentuale sale all’83%

Le modifiche previste

Con una proposta di emendamento alla legge di stabilità, firmata dai deputati Boccadutri, Coppola, Bruno Bossio, Causi, Misiani, Losacco, Basso, Dallai, Ascani e Tentori, viene previsto un abbassamento del tetto dei 30 euro sotto il quale gli esercenti possono rifiutare ancora i pagamenti con carte di debito.

Qualora tale proposta dovesse trovare accoglimento, pertanto, anche tutti i micro-pagamenti, dal caffè al bar al giornale in edicola, potrebbero essere regolati per mezzo di strumenti elettronici di pagamento.

Le commissioni bancarie

Uno dei limiti alla diffusione della moneta elettronica è stato, da sempre, l’elevato costo delle transazioni.

Nel nostro Paese, infatti, le commissioni sono talmente elevate che anche l’Unione europea non ha mancato di evidenziare questo paradosso: è stato stimato, infatti, che la moneta elettronica costa ai rivenditori 10 miliardi di euro l’anno, e non va meglio per i clienti, che, oltre ai normali costi connessi alla carta di credito vedono spesso richiedersi degli ulteriori costi aggiuntivi.

Ecco il motivo per il quale, dal prossimo 9 dicembre è stato imposto dall’Unione europea un tetto massimo alle commissioni bancarie, pari allo 0,3% sul valore della singola transazione per le carte di credito e allo 0,2% per i bancomat e le prepagate.

Come chiarito però dall’Associazione bancaria italiana non può essere ancora cantata vittoria: l’applicazione dei nuovi massimali potrebbero infatti portare ad un aumento di costi per i consumatori.

Un cane che si morde la coda, quindi, e che rischia di vedere l’Italia ancora come la “patria del contante”.

Ecco il motivo per il quale, con l’emendamento alla legge di stabilità è stato altresì previsto che, entro il mese di aprile 2016, i gestori delle carte di pagamento dovranno definire le regole e le misure contrattuali per regolare i micropagamenti e le commissioni, le quali dovranno essere altresì proporzionali ai costi effettivamente sostenuti dai prestatori dei servizi di pagamento.

In caso di mancato adeguamento scatterà il limite legale dei 7 millesimi per i pagamenti con carte di debito e di 1 centesimo per quelli con carte di credito.

Autore: redazione fiscal focus

Ravvedimento degli acconti

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Dal 1.1.2016 sanzione ridotta per i versamenti entro 90 giorni

Premessa – Qualora la legge di stabilità 2016 confermi l’anticipo al 1.1.2016 delle nuove norme previste dal D.Lgs 158/2015 sulla riduzione delle sanzioni per omessi versamenti per il contribuente che non sana il mancato pagamento dell’acconto entro 8 giorni per potere procedere con il ravvedimento operoso conviene attendere l’1.1.2016.

Acconti imposte dirette – Ieri 30 novembre 2015 è scaduto il termine entro cui i contribuenti (persone fisiche, società di persone, società di capitali e soggetti ed esse equiparati) dovevano versare la seconda o unica rata degli acconti relativi alle imposte sui redditi per il periodo d’imposta 2015. I contribuenti che hanno omesso l’acconto delle imposte possono ora rimediare fruendo del ravvedimento operoso, il quale varia a seconda del momento in cui viene fatto.

Ravvedimento entro 15 giorni – In caso di omesso/tardivo versamento delle imposte è applicabile la sanzione pari al 30% dell’importo non versato. Tale misura è tuttavia ulteriormente ridotta con riferimento ai versamenti effettuati entro 15 giorni dal termine previsto. La sanzione ordinaria del 30%, applicabile sui tardivi od omessi versamenti di imposte, si riduce infatti ad un quindicesimo per ogni giorno di ritardo: varia dal 2% per un giorno di ritardo, fino al 28% per 14 giorni di ritardo. A partire dal quindicesimo giorno di ritardo si applica la misura fissa del 30%. Tale sanzione ridotta può essere ulteriormente abbassata usufruendo del ravvedimento operoso (sempre che ne ricorrano i presupposti), il quale permette di diminuire la sanzione ad un decimo diventando così dello 0,2% per ogni giorno di ritardo: variando quindi dallo 0,2% per un giorno di ritardo, fino al 2,8% per 14 giorni di ritardo.

Versamento tra il 15° e 30° giorno dalla scadenza – Per i versamenti effettuati dal 15° al 30° giorno dalla scadenza, la sanzione ordinaria a carico del contribuente che non effettua in tutto o in parte il pagamento è pari al 30% dell’importo non versato. La fattispecie dell’omesso o insufficiente versamento può essere sanata versando l’imposta o maggiore imposta più la sanzione ridotta ad un decimo, quindi il 3% (1/10 del 30%) e, infine, non ci si deve dimenticare degli interessi.

Ravvedimento medio – Il ravvedimento medio è applicabile dopo il 30° giorno di ritardo fino al 90° giorno, e prevede una sanzione fissa del 3,33% (sanzione del 30% ridotta ad 1/9) dell’importo da versare più gli interessi giornalieri calcolati sul tasso di riferimento annuale (comma 637 Legge di Stabilità 2015);

Ravvedimento Lungo – Il ravvedimento lungo è applicabile dopo il 90° giorno di ritardo, ma comunque entro i termini di presentazione della dichiarazione relativa all’anno in cui è stata commessa la violazione. E’ prevista una sanzione fissa del 3,75% (1/8 del 30%) dell’importo da versare più gli interessi giornalieri calcolati sul tasso di riferimento annuale.

Nuove sanzioni dal 1.1.2016 – Ricordiamo però che secondo quanto previsto dal Dlgs 158/2015 la sanzione per insufficiente/omesso versamento del tributo viene ridotta alla metà se il versamento viene eseguito con ritardo non superiore a 90 giorni. Tali nuove norme secondo quanto attualmente in vigore verranno applicate dal 1.1.2017. La bozza della legge di stabilità 2016 approvata al senato anticipa però tali nove norme al 1.1.2016. Se l’anticipo verrà confermato nel testo finale della legge di stabilità in caso di omesso pagamento dell’acconto qualora questo non venisse regolarizzato entro gli 8 giorni successivi risulterà conveniente aspettare il 1.1.2016 e sanare l’omissione entro 90 giorni dall’omissione (28 febbraio) in quanto si fruirebbe di un ravvedimento “super conveniente “ pari all’1,67 per cento (la penalità passerebbe dal 30 al 15 per cento ridotta ad 1/9 fruendo del ravvedimento operoso).

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

ESTROMISSIONE AGEVOLATA DELL’IMMOBILE STRUMENTALE: ASPETTI APPLICATIVI

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Con uno specifico emendamento all’art. 9 del Ddl. di stabilità 2016, già approvato al senato ed ora in attesa dell’esame alla camera, è stata introdotta la possibilità per le ditte individuali di poter usufruire di alcune disposizioni agevolative in materia di estromissione dell’immobile strumentale dell’imprenditore individuale (si veda il ns articolo apparso sul quotidiano del 19 novembre scorso).

L’intervento si innesta in un più ampio disegno emergente dalla stessa bozza di Legge di stabilità 2016 atto a far “fuoriuscire” a costo fiscale agevolato i beni immobili dal patrimonio delle imprese.

La ditta individuale che alla data del 31 ottobre 2015 possiede immobili strumentali (sia per natura che per destinazione) di cui all’art. 43 comma 2 D.p.r. 917/86, può decidere di optare per l’uscita dello stesso fabbricato dal patrimonio dell’impresa con destinazione alla persona fisica. Vediamo di analizzare i principali dettagli dell’operazione.

La disciplina per le imposte dirette

L’operazione di trasferimento dalla sfera d’impresa a quella privata si concretizza con il pagamento di un’imposta sostitutiva dell’8 % (in sostituzione di Irpef e Irap) sulla differenza tra il valore normale degli immobili estromessi e il loro costo fiscalmente riconosciuto.

Sotto il profilo operativo, si riepilogano le principali regole previste :

  • passaggio da perfezionare entro il 31 maggio 2016;
  • estromissione possibile solo a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 2016;
  • I beni devono essere posseduti alla data del 31 ottobre 2015;
  • plusvalenze assoggettate all’imposta sostitutiva dell’8% da versare il 60% entro il 30.11.2016 ed il restante 40% entro il 30.06.2017.
  • plusvalenza calcolata come differenza fra il valore normale del bene ed il costo fiscalmente riconosciuto in bilancio;
  • possibile sostituzione del valore normale con il valore catastale degli immobili, al pari di quanto avviene per l’assegnazione agevolata ai soci.

La disciplina per l’Iva

Sotto il profilo IVA, l’operazione è qualificabile come destinazione di beni a finalità estranee all’impresa, (art. 2 comma 2 n. 5 del DPR 633/72) e quindi si tratta di iniziativa rientrante nell’ambito di applicazione del tributo.

Costituiscono eccezione a tale principio i beni per i quali l’imprenditore non ha operato la detrazione dell’imposta all’atto dell’acquisto (es. immobile acquisito da privato).

Dal punto di vista operativo l’estromissione va fatturata (nel caso di specie autofatturata), solitamente, in regime di esenzione di cui all’art. 10 comma 1 n. 8-ter del DPR 633/72, salvo il caso in cui l’imprenditore non intenda optare specificatamente per l’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto.

Tale opzione, però, non è vantaggiosa a causa del fatto che l’Iva (solitamente con aliquota al 22%) esposta in fattura derivante dall’assegnazione andrebbe poi di norma versata all’Erario e si configura evidentemente come un costo che ricade tutto a carico dello stesso imprenditore.

Pro rata

Come detto, generalmente l’operazione di estromissione in questione si qualifica come esente ai sensi all’articolo 10 comma 1 n. 8-ter del DPR 633/72.

Nel caso in questione trattandosi tipicamente di immobile strumentale dell’attività (es il capannone o il laboratorio in cui si è svolta l’attività) si applica l’art. 19-bis del DPR 633/72 nella parte in cui la disposizione afferma che i beni ammortizzabili ceduti (od estromessi come in questo caso) non concorrono al calcolo della percentuale di pro rata.

Rettifica detrazione

Se è pur vero quanto sopra affermato, non bisogna però dimenticare che se l’operazione avviene nel corso del periodo di tutela fiscale, (pari a dieci anni per i beni immobili), generalmente questa provoca un cambio di destinazione, in quanto il bene non è più impiegato per operazioni imponibili ma, come si è detto, per una operazione esente che non consente il recupero dell’imposta.

Le altre imposte indirette

Infine niente sarà dovuto ai fini delle imposte di registro, ipotecaria e catastale, in quanto non si effettua alcun trasferimento della proprietà dell’immobile, il quale rimane in capo allo stesso soggetto, seppure passando dalla sfera imprenditoriale a quella personale.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS