Fatture false, serve l’indagine sul cliente

Se l’ufficio contesta l’emissione e/o utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, non può limitarsi a un controllo formale e contabile, e quindi basandosi soltanto sulle irregolarità commesse dal fornitore. Occorre, infatti, verificare in concreto se effettivamente le prestazioni sono state effettuate, attraverso un’accurata indagine in capo al committente/cliente: lo ha precisato la Ctr Lazio 6476/5/2018(presidente Gallucci, relatore Briguori).

Per i giudici laziali, in particolare, il Fisco non può approdare alla presunzione che si sia in presenza di fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti sulla sola base dei seguenti elementi:

per i periodi d’imposta considerati il fornitore non ha presentato le dichiarazioni dei redditi e dell’Iva, né il modello 770;

il medesimo soggetto risulta non aver effettuato acquisti e non ha posizioni previdenziali aperte (e di conseguenza si presume che sia privo di una idonea struttura organizzativa).

L’amministrazione è invece tenuta – spiega la Ctr – a verificare altresì le seguenti circostanze, in capo al committente/cliente.

1.L’esistenza di documenti comprovanti l’avvenuto pagamento delle prestazioni ritenute inesistenti.

2.L’avvenuta effettuazione di accessi presso il prestatore, ai fini della verifica della consistenza di quest’ultimo soggetto oppure la presenza di attrezzature idonee allo svolgimento delle attività.

3.Le eventuali testimonianze che possono essere raccolte al fine di comprovare l’effettuazione delle prestazioni.

La pronuncia appare importante perché si inserisce in un dibattito che vede la giurisprudenza – di merito e di legittimità – argomentare con distinguo l’assolvimento dell’onere della prova da parte dell’amministrazione. Qualora i riscontri effettuati conducano alla conclusione che le prestazioni di cui si dibatte si riferiscono a operazioni oggettivamente inesistenti, sotto il profilo della tassazione diretta si renderà applicabile l’articolo 8, comma 2, del Dl 16/2012, convertito in legge 44/2012, ai sensi del quale in sede di (ri)determinazione del reddito non si tiene conto dei componenti positivi «direttamente afferenti ai componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati», entro il limite dell’ammontare non ammesso in deduzione dei predetti componenti negativi. In questo caso, stante l’antigiuridicità della condotta (rilevante anche penalmente) dev’essere comunque comminata una sanzione amministrativa dal 25 al 50% dell’ammontare delle spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, che siano stati indicati nella dichiarazione dei redditi.

Sul versante dell’Iva, invece, opera l’articolo 21, comma 7, del Dpr 633/72, per effetto del quale non è ammesso in detrazione il tributo da parte del cessionario: secondo un consolidato orientamento (espresso sia dalla giurisprudenza domestica, sia dalla Corte di giustizia Ue), tale norma non viola il principio di neutralità dell’Iva.

Fonte “Il sole 24 ore”