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L’assenza dall’Aire non prevale sulla sostanza

Quando un soggetto risulti fiscalmente residente sia in Italia sia in un altro Stato con il quale operi una convenzione contro le doppie imposizioni, il conflitto di residenza – causato dalla normativa interna di ciascuno Stato – è risolto applicando le disposizioni contenute nel trattato.

Così, per stabilire la residenza di una persona fisica che pur essendo realmente emigrata abbia omesso di cancellarsi dall’anagrafe dei residenti, la persona si considera residente, in base alle convenzioni conformi al modello Ocse:

a) nello Stato in cui dispone di un’abitazione permanente;

b) se ha l’abitazione permanente in entrambi gli Stati, in quello in cui le sue relazioni personali ed economiche sono più strette;

c) se non si può individuare tale Stato, in quello in cui “soggiorna abitualmente”;

d) se soggiorna abitualmente in entrambi gli Stati, in quello della cittadinanza;

e) in caso di doppia cittadinanza: accordo fra le autorità competenti.

Si tratta di un principio pacifico, ma è molto importante che sia stato ribadito nella recente risposta 203 del 2019 perché una certa equivoca giurisprudenza della Cassazione ha indotto alcuni uffici a ritenere erroneamente che la mancata iscrizione all’anagrafe dei cittadini italiani residenti all’estero costituisca presunzione assoluta di residenza in Italia.

A partire dalla sentenza 1215 /1998, viene costantemente replicata la massima che l’iscrizione «nelle anagrafi della popolazione residente» deve ritenersi, in materia fiscale, dato preclusivo di ogni ulteriore accertamento ai fini della individuazione del soggetto passivo d’imposta. In altri termini in materia fiscale la forma è destinata a prevalere sulla sostanza nell’ipotesi in cui la residenza venga collegata al presupposto anagrafico.

A questa pronuncia si sono rifatte diverse successive sentenze dello stesso Collegio, fra le quali la 1783 del 1999; la 9319 del 2006, la 677 del 2015, la 21970 del 2015 e di recente l’ordinanza 16634 del 2018.

Ma quattro di queste sentenze riguardano soggetti emigrati in Stati con i quali era in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni (Stati Uniti nella sentenza 1783; Svizzera nella sentenza 677; Romania nella sentenza 21970 e Regno Unito, nella sentenza 16634) circostanza, questa determinante, ma del tutto trascurata sia nella descrizione dei fatti sia nella motivazione.

Peraltro, più attenta giurisprudenza di merito non ha mancato di evidenziare come l’accertamento della residenza fiscale del contribuente non possa prescindere dall’applicazione delle tie break rules previste dai trattati (si veda ad esempio Commissione tributaria regionale della Toscana, 506 del 20 febbraio 2017 e 840 del 13 marzo 2018; Commissione regionale dell’Aquila, 614 del 5 luglio 2017; di Pescara, 475 del 17 maggio 2017; di Brescia 4207 del 31 luglio 2014; della Commissione provinciale di Firenze 131 del 12 gennaio 2016).

La chiara risposta dell’agenzia delle Entrate, 203 del 2019 dovrebbe ora evitare all’origine che siano sollevate, in caso di questo tipo, contestazioni infondate, con risparmio di tempo e costi sia per l’Agenzia sia per i contribuenti.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Bocciato l’accertamento esecutivo spedito per posta raccomandata

L’accertamento esecutivo spedito per posta raccomandata, e non tramite ufficiale giudiziario, è giuridicamente inesistente. Trattandosi, inoltre, di elemento costitutivo della validità dell’atto, il difetto di notifica non può essere sanato attraverso la tempestiva proposizione del ricorso. La pronuncia, dagli effetti potenzialmente dirompenti, giunge dalla Ctr Piemonte con la sentenza 757/3/2019 depositata l’11 giugno scorso (presidente e relatore Giusta).

A fronte della notifica per posta raccomandata di un accertamento esecutivo (o impoesattivo), il contribuente contestava la nullità dell’atto in quanto mancava un procedimento di notifica propriamente inteso, attraverso l’intermediazione di un soggetto qualificato (ufficiale giudiziario o o altro agente notificatore). Il collegio di appello ha accolto l’eccezione della parte, recependo pressocchè integralmente le tesi della dottrina più autorevole (Glendi), sulla base dell’esame del testo dell’articolo 29 del Dl 78/2010.

È stato in particolare osservato che occorre distinguere l’atto impoesattivo primario da quello secondario.

1. Con riferimento al primo, la disciplina di riferimento prescrive l’obbligo della notifica. Ne deriva che trovano naturale ingresso le regole ordinamentali in materia, recate nell’articolo 60 del Dpr 600/1973, e negli articoli 137 e seguenti del Codice di procedura civile. Tale rigore legislativo appare pienamente giustificato dal fatto che l’atto impoesattivo cumula in sé non solo la funzione impositiva (accertamento) ma anche quella esecutiva, saltando la fase della formazione del ruolo. L’inadempimento del contribuente all’intimazione di pagamento contenuta all’interno dell’avviso, dunque, legittima l’agente della riscossione all’adozione delle opportune misure espropriative.

2. Al contrario, per gli atti impoesattivi secondari è espressamente stabilito che la comunicazione possa avvenire anche tramite posta raccomandata. Si tratta dei provvedimenti di riliquidazione delle somme dovute, emessi ad esempio a seguito del deposito di una sentenza o della decadenza dalla procedura di rateazione di un accertamento con adesione. In questo caso, si attenuano le garanzie prescritte dalla legge, visto che la pretesa tributaria è stata già validamente manifestata al contribuente e si è a cospetto di atti impugnabili solo per vizi propri (come errori di calcolo).

Rileva ulteriormente la Ctr come l’acquisizione della funzione di titolo esecutivo sia collegata dalla legge al decorso del termine per la proposizione del ricorso, così valorizzando il momento di perfezionamento della notifica. D’altro canto, l’unitarietà dell’atto non consentirebbe di scindere la funzione accertativa da quella esattiva, così consentendo alla prima di esplicare comunque i suoi effetti con la sola effettiva conoscenza del provvedimento. Inoltre, il fatto che la notifica rappresenti un elemento costitutivo degli effetti giuridici dell’accertamento in esame impedisce la sanatoria prevista dall’articolo 156 del Codice di procedura civile, in virtù della tempestiva proposizione del ricorso.

È evidente la rilevanza della tesi accolta dalla Ctr, poiché se così fosse la quasi totalità degli accertamenti esecutivi risulterebbe annullabile. Va ricordato, in chiusura, che la tesi tradizionale della Cassazione è nel senso che la notifica dell’avviso di accertamento è una mera condizione di efficacia dell’atto e non un requisito di legittimità dello stesso. Non risultano però ancora approfondimenti dei giudici di legittimità rispetto agli accertamenti impoesattivi.

Fonte “Il sole 24 ore”

Scostamenti bancari motivati da incassi multipli in contanti

Il contribuente può contrastare l’accertamento bancario, dimostrando che i versamenti sul conto corrente contestati dall’ufficio sono ascrivibili a incassi per contanti relativi a gruppi di fatture di vendita o di scontrini emessi di modico importo. Lo ha stabilito la Ctp di Caserta 1866/6/2019 (presidente Graziano, relatore Savastano).

Per una parte della giurisprudenza di merito le indagini finanziarie ex articolo 32, comma 1, numero 2), del Dpr 600/1973 e articolo 51, comma 2, numero 2), del Dpr 633/1972 sono assistite da una presunzione “semplicissima”, che non è sufficiente da sola a legittimare l’accertamento, per cui il Fisco è tenuto a reperire ulteriori elementi probatori convergenti (si veda, tra le altre, Ctp Brescia 790//1/2018 e Ctp Treviso 323/1/2016). Secondo la Suprema corte, invece, tali indagini finanziarie integrano una presunzione legale relativa (Cassazione 3785 , 8266, 44562 e 25786 del 2018), per cui l’onere probatorio dell’amministrazione finanziaria è soddisfatto attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti correnti, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili a operazioni imponibili. Il contribuente deve fornire a tal fine una prova non generica, ma analitica, potendosi avvalere anche di presunzioni semplici, che devono però essere attentamente vagliate dal giudice per quanto concerne i tempi dei fatti addotti, l’ammontare e il contesto complessivo (Cassazione 26432/2018 , 17156/2018, 5758/2018, 27075/2017).

Sembra proprio inserirsi nel perimetro di queste presunzioni semplici la prova contraria fornita dal contribuente nel caso esaminato dai giudici di Caserta. L’agenzia delle Entrate aveva accertato a carico di un commerciante di prodotti alimentari ricavi omessi per circa 100mila euro, derivanti da versamenti di contanti sul conto corrente.La contestazione fiscale nasceva dal fatto che non vi era corrispondenza esatta tra gli importi delle fatture di vendita emesse e degli scontrini fiscali rilasciati dal commerciante in uno stesso giorno e il versamento di contante effettuato sul conto corrente, anche magari nei giorni immediatamente successivi. Per questo motivo tali importi erano stati complessivamente ripresi a tassazione come maggiori ricavi non dichiarati.

I giudici di merito, riconoscendo invece le ragioni del commerciante, hanno stabilito che la prova contraria alla presunzione che assiste le indagini finanziarie era stata fornita dal contribuente. Questi aveva fornito un prospetto di riconciliazione tra gli incassi in contanti e le fatture e gli scontrini emessi, riepilogando i versamenti effettuati per gruppi di fatture e scontrini i cui importi erano stati incassati in contanti, atteso il modico valore, e il tutto complessivamente per un valore corrispondente, alla fine, a quello accertato globalmente dal Fisco.

Trattandosi di piccoli importi – ha puntualizzato la Ctp – il commerciante aveva incassato per contanti, per cui non esisteva alcuna tracciabilità di tali importi, e trattandosi di versamenti cumulativi neppure poteva argomentarsi della mancata corrispondenza esatta con fatture o scontrini emessi.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Ritenute subite ma non versate: risponde solo il datore di lavoro

Qualora la ritenuta sia stata operata, il sostituito non risponde mai dell’omesso versamento. La responsabilità solidale tra sostituito e sostituto, infatti, sussiste solo in caso di mancata esecuzione della ritenuta. Sono queste le principali conclusioni cui è giunta la Ctr Lombardia con la sentenza 1926/1/2019 (presidente Chindemi, relatore Labruna). Così, con quest’ultima sentenza, pronunciata un giorno prima del deposito della sentenza della Corte di cassazione a Sezioni unite 10378/2019 , viene definitivamente superato il diverso orientamento giurisprudenziale che, fino a qualche tempo fa, riteneva legittima la richiesta da parte di numerosi uffici delle Entrate di restituzione delle ritenute subite (oltre a sanzioni e interessi) anche al sostituito in ragione del fatto che il sostituto, nonostante l’effettuazione, non le avesse poi versate all’Erario.

La pronuncia dei giudici lombardi trae origine proprio da un’iscrizione a ruolo e dalla conseguente notifica della cartella di pagamento a un percettore di reddito di lavoro autonomo in qualità di sostituito per l’omesso versamento di una ritenuta subita, ma non versata all’Erario dal sostituto.

Impugnato il ruolo, il sostituito ne eccepiva l’illegittimità per aver scomputato in dichiarazione le ritenute di fatto operate, come peraltro comprovato dalla apposita certificazione rilasciata dal sostituto. A seguito del giudizio favorevole sia dei giudici di primo che di secondo grado, l’agenzia delle Entrate ricorreva per Cassazione, sostenendo che il giudice regionale non si era pronunciato sulla sussistenza della responsabilità solidale tra sostituto e sostituito in forza dell’articolo 35 del Dpr 602/1973. . Ravvisando l’omessa pronuncia sulla sussistenza della predetta responsabilità solidale e sulla eventuale possibilità in capo al sostituito di rivalersi nei confronti del sostituto, la Cassazione accoglieva il ricorso dell’Agenzia, annullava la sentenza di secondo grado e rinviava ad altra sezione della Ctr Lombardia per il nuovo esame della questione.

Nel pronunciarsi sulla sentenza di primo grado, la prima sezione della Ctr ha respinto la tesi dell’agenzia delle Entrate, precisando che l’articolo 35 del Dpr 602/73 riguarda soltanto la fattispecie di duplice violazione ossia della omessa esecuzione della ritenuta e dell’omesso versamento. In particolare, secondo questa disposizione, il sostituito è coobbligato in solido con il sostituto soltanto quando quest’ultimo non abbia operato e versato le ritenute. Al contrario, qualora, come accaduto nel caso di specie, la ritenuta sia stata operata, il sostituito non può essere chiamato a rispondere dell’omesso versamento.

Secondo il collegio lombardo, infatti, il sostituito non è mai nelle condizioni di assicurare che il sostituto di imposta effettui regolarmente i relativi versamenti laddove, peraltro, nella certificazione che gli viene rilasciata in base all’articolo 4 del Dpr 322/98, il sostituto deve indicare le ritenute operate e non quelle che verserà. In verità, il controllo sull’effettivo versamento delle ritenute compete esclusivamente all’amministrazione finanziaria, unico titolare di tutti i poteri di accertamento di ogni adempimento.

Secondo il collegio lombardo, ritenere che il sostituito abbia un obbligo (non imposto dalla legge e, comunque, impraticabile) di verificare anche l’effettivo versamento della ritenuta da parte del sostituto sarebbe contrario ai princìpi costituzionali di ragionevolezza e di capacità contributiva, rispettivamente sanciti dagli articoli 3 e 53 della Costituzione. In questo modo, infatti, a causa della impossibilità di verificare l’effettivo versamento, il sostituito sarebbe esposto al rischio di essere tassato due volte (oltrechè sanzionato) per una violazione commessa da un altro soggetto, nonostante la propria condotta assolutamente legittima di scomputo dal reddito imponibile di ritenute subite e non incassate.

Fonte “Il sole 24 ore”

Motivazione per la rettifica dell’avviamento in caso di cessione d’azienda

Nelle operazioni aventi ad oggetto cessioni di aziende qualora venga rettificato il valore di avviamento rispetto a quello quantificato dalle parti l’amministrazione finanziaria ha l’onere di motivare compiutamente il perché abbia utilizzato dei criteri diversi; se viene utilizzato il metodo comparativo di cessione di aziende aventi analoghe caratteristiche è necessario che l’amministrazione finanziaria indichi i casi analoghi e alleghi le prove documentali in ordine a detti casi analoghi. Questo il principio che si ricava dalla sentenza della Ctr Lombardia 1561/03/2019 .

La vicenda aveva ad oggetto l’impugnazione da parte di una società per azioni di un avviso di liquidazione di imposta di registro, afferente una cessione di azienda, il cui valore dichiarato era stato rettificato dall’amministrazione finanziaria nella parte relativa alla componente dell’avviamento. La ricorrente aveva specificato che la determinazione della quota di avviamento era stata effettuata sulla base di una contrattazione tra le parti che considerava il solo fatturato realizzato con le compagnie assicuratrici e che rappresentava una quota pari a circa il 75% del fatturato globale di ogni singolo punto vendita, avendo poi provveduto ad una serie di valutazioni aventi ad oggetto l’organizzazione aziendale; pertanto il valore dell’avviamento era stato determinato moltiplicando per un coefficiente ( lo 0,8) il fatturato dei centri che non si sovrapponevano ad altri centri di proprietà e per altro moltiplicatore ( lo 0,7) il fatturato dei centri nelle cui vicinanze operava un centro già di proprietà.

Contestava , quindi, la ripresa fiscale in quanto, a suo parere, il metodo di rettifica seguito dall’Ufficio, basato su mere formule matematiche, era oltremodo generico e non idoneo a rappresentare l’effettivo valore dell’avviamento, non tenendo in considerazione le singole peculiarità dell’azienda; in particolare eccepiva che la rettifica fosse erroneamente fondata sulla valutazione del fatturato medio di una azienda di carrozzeria , che era stato preso in considerazione l’intero fatturato dei punti vendita e non il solo fatturato convenzionato, che veniva fatto riferimento ad altri atti di cessioni di azienda omettendo ogni motivazione sul punto. La Ctp accoglieva le doglianze della ricorrente sottolineando che il metodo seguito dalla società per arrivare alla determinazione del valore dell’avviamento sulla base del fatturato, rivisto alla luce delle peculiarità di ogni singolo punto vendita, aveva una sua ragion d’essere, «tenuto conto che l’avviamento rappresenta la capacità dell’azienda di produrre reddito e pertanto, proprio per tale motivo, non può prescindere da una concreta valutazione dei cespiti compravenduti, cosa che, nel caso di specie, legittimava l’applicazione del moltiplicatore in misura ridotta rispetto a quello applicato dall’amministrazione finanziaria.
La Ctr , nel confermare la decisione di prime cure, offre ulteriori approfondimenti e spunti di riflessione. In particolare i giudici regionali traggono spunto dall’orientamento di legittimità che ha dato un’interpretazione delle norme di riferimento ( articolo 51, comma 4, Tur e articolo 2, comma 4, Dpr 460 del 1996) nel senso che per le aziende il valore di avviamento è determinato sulla base della percentuale di redditività applicata alla media dei ricavi accertati o dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi d’imposta anteriori al trasferimento, moltiplicata per tre. Se tali criteri hanno la funzione di fornire indicazioni minime cui l’amministrazione finanziaria deve attenersi nella procedura transattiva che conduce ad un accertamento con adesione in materia di imposte di registro, ipotecaria, catastale, sulle successioni e donazioni, a maggior ragione la norma di cui al Dpr 131 del 1986, articolo 51, comma 4 non può che essere interpretata nel senso che il contribuente, nel dichiarare il valore dell’avviamento, deve effettuare i calcoli sulla base dei redditi ritraibili dall’azienda ceduta al lordo delle imposte» (Cassazione civile, sezione tributaria, sentenza 18941 del 17 luglio 2018); nonché che «i criteri per la determinazione del valore di avviamento di un’azienda, fissando valori minimali in funzione dell’accertamento con adesione, integrano un indizio a favore dell’amministrazione finanziari, la quale può adottare criteri diversi solo dando conto della maggiore affidabilità specifica degli stessi (Cassazione, sentenza 9089 del 7 aprile 2017). Proprio su quest’ultimo aspetto e in tema di onere della prova il collegio regionale considerava dirimente ai fini dell’annullamento della rettifica erariale che nell’avviso di accertamento si faceva espresso riferimento «all’ esame comparativo di cessione di aziende aventi analoghe caratteristiche e connesse soggettivamente per identità della figura del cessionario ….» senza che l’Ufficio avesse indicato i presunti casi analoghi e risultando omessa qualsivoglia allegazione in ordine a detti «casi analoghi».

Fonte “Il sole 24 ore”

Fatture false, serve l’indagine sul cliente

Se l’ufficio contesta l’emissione e/o utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, non può limitarsi a un controllo formale e contabile, e quindi basandosi soltanto sulle irregolarità commesse dal fornitore. Occorre, infatti, verificare in concreto se effettivamente le prestazioni sono state effettuate, attraverso un’accurata indagine in capo al committente/cliente: lo ha precisato la Ctr Lazio 6476/5/2018(presidente Gallucci, relatore Briguori).

Per i giudici laziali, in particolare, il Fisco non può approdare alla presunzione che si sia in presenza di fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti sulla sola base dei seguenti elementi:

per i periodi d’imposta considerati il fornitore non ha presentato le dichiarazioni dei redditi e dell’Iva, né il modello 770;

il medesimo soggetto risulta non aver effettuato acquisti e non ha posizioni previdenziali aperte (e di conseguenza si presume che sia privo di una idonea struttura organizzativa).

L’amministrazione è invece tenuta – spiega la Ctr – a verificare altresì le seguenti circostanze, in capo al committente/cliente.

1.L’esistenza di documenti comprovanti l’avvenuto pagamento delle prestazioni ritenute inesistenti.

2.L’avvenuta effettuazione di accessi presso il prestatore, ai fini della verifica della consistenza di quest’ultimo soggetto oppure la presenza di attrezzature idonee allo svolgimento delle attività.

3.Le eventuali testimonianze che possono essere raccolte al fine di comprovare l’effettuazione delle prestazioni.

La pronuncia appare importante perché si inserisce in un dibattito che vede la giurisprudenza – di merito e di legittimità – argomentare con distinguo l’assolvimento dell’onere della prova da parte dell’amministrazione. Qualora i riscontri effettuati conducano alla conclusione che le prestazioni di cui si dibatte si riferiscono a operazioni oggettivamente inesistenti, sotto il profilo della tassazione diretta si renderà applicabile l’articolo 8, comma 2, del Dl 16/2012, convertito in legge 44/2012, ai sensi del quale in sede di (ri)determinazione del reddito non si tiene conto dei componenti positivi «direttamente afferenti ai componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati», entro il limite dell’ammontare non ammesso in deduzione dei predetti componenti negativi. In questo caso, stante l’antigiuridicità della condotta (rilevante anche penalmente) dev’essere comunque comminata una sanzione amministrativa dal 25 al 50% dell’ammontare delle spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, che siano stati indicati nella dichiarazione dei redditi.

Sul versante dell’Iva, invece, opera l’articolo 21, comma 7, del Dpr 633/72, per effetto del quale non è ammesso in detrazione il tributo da parte del cessionario: secondo un consolidato orientamento (espresso sia dalla giurisprudenza domestica, sia dalla Corte di giustizia Ue), tale norma non viola il principio di neutralità dell’Iva.

Fonte “Il sole 24 ore”

Società estinta, inefficace l’atto notificato dopo la cancellazione

La società già estinta non ha la legittimazione a impugnare l’atto impositivo che le viene notificato, ma in ogni caso quest’ultimo non può produrre alcun effetto. A fornire questo principio è la Ctr Sicilia 1448/5/2019 depositata lo scorso 7 marzo.

La vicenda trae origine dalla notifica a una società consortile per l’anno d’imposta 2010 di un avviso di accertamento relativo a Ires e Irap. La contribuente, al momento dell’emissione dell’atto, era già da tempo stata cancellata dal registro delle imprese: nonostante ciò lo impugnava instaurando il relativo giudizio.

La Ctp dichiarava, però, inammissibile il ricorso in quanto proposto da società ormai estinta. La pronuncia di primo grado veniva appellata, preliminarmente per l’omessa pronuncia del giudice sull’eccepito vizio di notifica dell’avviso di accertamento a società cancellata e, quindi, non più esistente; venivano altresì riproposti i motivi di illegittimità nel merito della pretesa erariale.

L’agenzia delle Entrate chiedeva la conferma della sentenza gravata.

La Ctr Sicilia ha ritenuto corretta la pronuncia della Ctp, con motivazione che però mette in risalto anche la sostanziale inutilità dell’impugnazione dell’atto impositivo esperita dalla contribuente. Lo stesso appello proposto è stato considerato inammissibile in quanto instaurato da un soggetto estinto già in epoca anteriore alla notifica dell’avviso di accertamento e, pertanto, la contribuente risultava sin dall’inizio priva della necessaria capacità processuale.

In sintesi nel caso esaminato dai giudici siciliani ricorreva un insanabile e originario vizio del processo che giustamente era stato accertato e dichiarato tale dal giudice di primo grado. Infatti la cancellazione della società dal registro delle imprese l’aveva privata della legittimazione ad causam sia ai fini della proposizione del giudizio sia ai fini della sua prosecuzione in appello.

Peraltro non risultava nemmeno applicabile, come correttamente già stabilito dalla Ctp, la disposizione (articolo 28, comma 4 del Dlgs 175/2014 ) in base alla quale ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti impositivi, l’estinzione della società rileva solo trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del registro delle imprese. Infatti la norma in questione, come confermato dalla giurisprudenza di legittimità, non ha effetto retroattivo e quindi non poteva riguardare il caso dell’appellante, estinta prima della sua entrata in vigore.

La parte più interessante della sentenza in commento è, però, la considerazione finale della motivazione, nella quale i giudici precisano che l’inammissibilità originaria dell’impugnazione non può causare alcuna preoccupazione alla contribuente, poiché ciò non comporta alcuna convalida dell’atto impositivo, il quale non può comunque produrre alcun effetto, proprio perché notificato a una società già estinta. Ne consegue che la pretesa impositiva non potrà in ogni caso avere seguito e non potrà esserci alcun recupero delle maggiori somme pretese.

In casi del genere non si dovrebbe quindi intraprendere alcuna azione, lasciando passare in giudicato l’accertamento, dal momento che:

da un lato non si avrebbe legittimazione a impugnare;

dall’altro l’atto rimane comunque di fatto inefficace.

Fonte “Il sole 24 ore”

Interessi sulle cartelle di pagamento: il calcolo va dettagliato nell’avviso

La cartella di pagamento che reca la sola cifra complessiva degli interessi, senza indicazione delle modalità di calcolo per le diverse annualità, costringe il contribuente che intende verificarne la correttezza a difficoltose indagini a cui non è tenuto. Ne consegue la violazione del diritto di difesa e l’annullamento della cartella limitatamente agli interessi per carenza di motivazione relativamente ai criteri di calcolo degli stessi. È questo il principio ribadito dalla Ctp di Reggio Emilia con la sentenza 22/02/2019 n.61 (presidente Montanari, relatore Manfredini).

La controversia 
Una società riceveva la notifica di una cartella di pagamento recante un’ingente pretesa a titolo di imposte, di interessi e di sanzioni, a seguito di una sentenza sfavorevole pronunciata dalla CTR.
La società ricorreva alla Ctp deducendo l’illegittimità sia del ruolo, sia della cartella di pagamento per difetto di motivazione poiché quest’ultima recava unicamente il totale degli interessi calcolati sulle somme iscritte a ruolo, senza alcuna indicazione delle modalità di determinazione degli interessi stessi. Tale omissione, secondo il ricorrente, non aveva consentito al contribuente di verificare il calcolo degli interessi richiesti dall’Ufficio, con conseguente violazione dell’art.7, comma 1, dello Statuto del contribuente e dell’art.3 della Legge n. 241/1990.
Resisteva l’Amministrazione affermando la correttezza del proprio operato essendo perfettamente rispettoso della normativa che disciplina il contenuto della cartella ed essendo stati calcolati gli interessi in base a quanto rigidamente prescritto dalla legge.

La decisione 
La Ctp osserva che la cartella riportava solo la cifra complessiva degli interessi dovuti senza che fossero indicati i singoli tassi di interesse presi a base per il calcolo nei diversi anni. Ne consegue, secondo il Collegio, che l’operato dell’Agenzia sarebbe stato controllabile solo attraverso l’esperimento di difficoltose indagini che non competono al contribuente, il quale, in tal modo aveva subìto la violazione del proprio diritto di difesa. La Ctp, pertanto, in accoglimento del ricorso, ha dichiarato la carenza di motivazione relativamente ai criteri di calcolo degli interessi stessi e, per l’effetto, ha annullato la cartella impugnata limitatamente ai soli interessi richiesti.

Si tratta di una pronuncia che ribadisce un orientamento di legittimità consolidato (Cass. n.8651/2009; Cass. n.4516/2012; Cass. n.15554/2017; Cass. n.10481/2018). Secondo la Suprema Corte, infatti, la cartella di pagamento dev’essere sempre motivata in relazione al criterio di calcolo degli interessi maturati sul debito tributario. Né, sempre secondo gli Ermellini, può avere rilevanza che il debito sia stato riconosciuto in una sentenza passata in giudicato, dal momento sia che il contribuente dev’essere sempre messo in grado di verificare la correttezza del calcolo degli interessi, sia che alle cartelle di pagamento notificate dopo l’entrata in vigore della Legge n. 212/2002 dev’essere allegata la sentenza.

Atto annullato se manca il contraddittorio

Per i giudici tributari, gli atti del Fisco senza contraddittorio preventivo devono essere annullati. Proseguono infatti le sentenze che bocciano gli accertamenti degli uffici, che non sono preceduti da un contraddittorio preventivo.

È così che la pensa anche la Commissione tributaria provinciale di Enna, sentenza 887/2018, depositata il 9 novembre 2018, che annulla l’atto dell’ufficio «per omessa attivazione dell’obbligatoria fase del contraddittorio preventivo e/o endoprocedimentale». La recente giurisprudenza, dopo un periodo ondivago, con consolidato orientamento, annulla ora gli atti emessi senza contraddittorio preventivo. Al riguardo, ecco, di seguito, alcune sentenze di merito e di legittimità:

• per la Cassazione, ordinanza 24386/2017, depositata il 16 ottobre 2017, «per i tributi cosiddetti “armonizzati” (Iva) … la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso … l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e l’opposizione di dette ragioni … si riveli non puramente pretestuosa» (Cassazione, sezioni unite, 24823/15; confronta Cassazione, sezioni 6-5, 15744/16);

• per la Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sentenza 48/02/2018, va estesa l’applicazione del confronto preventivo tra ufficio e contribuente prima dell’emissione dell’atto di accertamento. Una tutela che va riconosciuta anche per le imposte dirette e i controlli “a tavolino”, e non solo per i tributi armonizzati come l’Iva;

•per la Commissione tributaria provinciale di Potenza, sentenza n. 731/01/16, deve essere annullato l’accertamento, in cui l’ufficio, senza attivare il contraddittorio preventivo e/o endoprocedimentale, ha considerato ricavi i movimenti bancari del socio di una società a responsabilità limitata. Contro la sentenza, l’ufficio ha proposto appello, sostenendo l’errore del giudice nel ritenere la nullità dell’accertamento per mancanza del contraddittorio endoprocedimentale che «doveva ritenersi … esercitato, come si evinceva dal verbale redatto dalla Guardia di Finanza dove risultava l’instaurazione del contraddittorio». L’ufficio ha così dimostrato di non sapere che il contraddittorio endoprocedimentale è quello che si deve fare con l’ufficio, prima dell’emissione di un atto impositivo e non quello in sede di verifica della Finanza. L’appello dell’ufficio è stato respinto dalla Commissione tributaria regionale della Basilicata, con sentenza 183/1/2018;

•per la Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione n. 9, sentenza 2506/2018, depositata il 30 maggio 2018, gli atti emessi dal Fisco senza contraddittorio preventivo vanno annullati. I giudici milanesi hanno rilevato che «numerose sentenze di questa Ctr hanno ribadito … l’esistenza di «un obbligo generalizzato in capo all’ufficio di consegnare il processo verbale di constatazione al contribuente prima di notificargli un atto impositivo anche nei casi di cosiddetto accertamento a tavolino …» (Ctr Lombardia n. 5538/2016)». Per i giudici, è irrilevante il fatto che il contribuente abbia avuto accesso all’istituto dell’accertamento con adesione.

Per la Cassazione, ordinanza 17210 del 2 luglio 2018, va annullato l’accertamento dell’ufficio che non ha visionato (o almeno valutato) le memorie difensive al Pvc. In tema di imposte sui redditi e Iva, a norma dell’articolo 12, comma 7, della legge 212 del 2000, la nullità dell’accertamento consegue alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge, oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie, nonché al mancato obbligo di (almeno) valutare le osservazioni del contribuente, pur senza esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo. Per la Cassazione «il problema non è dunque quello della mancata motivazione … ma è piuttosto quello di aver omesso un preciso adempimento fissato per legge, ossia di prendere visione delle memorie». Il citato articolo 12 impone all’ufficio di valutare le “osservazioni e richieste” del contribuente, nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente. Potrà riscontrarsi una (oggettiva) valutazione, solo in presenza di oggettiva motivazione nell’avviso di accertamento, pena il vizio di motivazione dell’atto, ex articolo 42, comma 2 del Dpr 600/1973. Considerato che il contribuente contesta i rilievi, l’ufficio, per dimostrare la valutazione delle memorie ed osservazioni presentate, dovrà “demolirle” punto per punto dimostrando l’errore del contribuente.
Le indicazioni delle Entrate

In materia di contraddittorio preventivo, è la stessa agenzia delle Entrate ad attribuire un ruolo fondamentale proprio all’obbligo di attivare, prima dell’emanazione dell’atto impositivo, il contraddittorio con il contribuente. Per l’agenzia delle Entrate, circolare n. 16/E del 28 aprile 2016, l’effettiva partecipazione del contribuente al procedimento di accertamento attraverso lo strumento del contraddittorio preventivo «rende la pretesa tributaria più credibile e sostenibile» e «scongiura l’effettuazione di recuperi non adeguatamente supportati e motivati perché non preceduti da un effettivo confronto». Il confronto non deve ridursi ad un vuoto adempimento formale ma deve rappresentare, nello spirito di aperta e leale reciproca collaborazione, come previsto dal legislatore nello Statuto del contribuente:

 per il contribuente, la concreta possibilità di esporre le proprie osservazioni e argomentazioni difensive;

 per l’agenzia delle Entrate, l’occasione di operare un vaglio critico delle proprie tesi precisando nella motivazione le eventuali ragioni per cui non ha ritenuto di poter accogliere tali deduzioni difensive.
Gli uffici più sensibili al contraddittorio

Alcuni uffici, considerate le innumerevoli sentenze dei giudici di merito e di legittimità che annullano gli atti del Fisco, si sono finalmente “accorti” dell’obbligatorietà del contraddittorio preventivo e del conseguente obbligo di informare il contribuente che, in caso di esito negativo del confronto, sarà emesso l’atto di accertamento. La conferma è in un verbale di contraddittorio redatto dall’agenzia delle Entrate, direzione provinciale di Siracusa, del 15 giugno 2018, con il quale l’ufficio, dopo avere specificato gli esiti del confronto con il contribuente, conclude, affermando che «in un’ottica di collaborazione e deflazione del contraddittorio» (è scritto così, “contraddittorio”, ma l’ufficio intendeva scrivere “contenzioso”) «ritiene applicabile il ricavo minimo ai fini Irpef/Irap/Iva, pari a euro 37.044,00, invece del ricavo puntuale di 37.834,00. La parte» cioè il contribuente «dichiara di non accettare. Tutto ciò premesso, l’ufficio conferma la ricostruzione induttiva indicata nell’invito a comparire, dichiara concluso il procedimento di accertamento con adesione e informa la parte che sarà emesso avviso di accertamento». Nulla da aggiungere, se non il fatto che, per tutti i contribuenti che hanno eccepito la violazione del contraddittorio preventivo, il Fisco rischia di rimanere con un pugno di mosche in mano, e di subire anche la condanna alle spese di giudizio per non avere rispettato il principio del contraddittorio preventivo.
Le indicazioni della direzione regionale della Sicilia

Con una direttiva del 29 giugno 2018, anche la direzione Regionale della Sicilia è intervenuta sull’opportunità di utilizzare il contradditorio preventivo come strumento di partecipazione del contribuente al procedimento accertativo ai fini di una maggior tutela dello stesso rispetto alla piena legittimità degli atti impositivi successivamente emessi. Per la direzione regionale siciliana il «contraddittorio deve essere considerato un momento fondamentale del procedimento mediante il quale si offre al contribuente la possibilità di fornire chiarimenti, precisando importanti aspetti dell’indagine fiscale e circostanze non conosciute dall’ufficio, che forniscono all’accertatore l’occasione di valutare in modo più realistico e di comprendere con maggiore sicurezza l’oggetto dell’attività istruttoria, costruendo in tal modo una pretesa più fondata e motivata, sì da determinare una minore conflittualità nel rapporto con il contribuente ed un maggiore livello di adesione».

 Fonte “Il sole 24 ore”

Obbligato all’Irap chi fattura alla Srl di cui è socio

La società non può essere considerata di altri vista la coincidenza dei clienti
Il presupposto dell’autonoma organizzazione, ai fini dell’assoggettamento all’imposta regionale sulle attività produttive, viene soddisfatto qualora un professionista fatturi le sue prestazioni nei confronti della Srl di cui è socio, che svolge la sua medesima attività; pur fatturando alla società egli lavora , in sostanza, a vantaggio degli stessi clienti finali. La circostanza, poi, che il professionista sia socio nella Srl impedisce di considerare altrui la “struttura organizzata”. Questo il principio che emerge dalla sentenza della Ctr Lombardia 1169/2019 del 13 marzo.
I giudici lombardi tornano dunque a pronunciarsi (si veda «Il Sole 24 Ore» del 1° marzo) sul presupposto dell’autonoma organizzazione ai fini Irap. Un contribuente, programmatore informatico libero professionista, impugnava il silenzio-rifiuto da parte dell’amministrazione finanziaria sull’istanza di rimborso presentata per riottenere quanto versato a titolo di Irap per alcune annualità; l’Ufficio motivava il rigetto in base a una serie di elementi che conducevano al soddisfacimento del presupposto impositivo:
la disponibilità di uno studio proprio all’interno dell’abitazione con tre libri cespiti, numero ben oltre quello necessario per l’attività;
utili corrisposti per intero dalla Srl nella quale egli aveva una partecipazione al 10% che, secondo l’amministrazione finanziaria, consentiva al ricorrente benefici organizzativi strumentali derivanti certamente dal collegamento a tale attività.
La Ctp respingeva il ricorso, sottolineando come il contribuente non avesse in alcun modo specificato la gestione della sua eventuale clientela, lasciando così dedurre che la partecipazione del professionista alla Srl gli fornisse quei “ benefici organizzativi e strumentali” derivanti dal collegamento a tale realtà associativa.
Il contribuente appellava la sentenza evidenziando che la circostanza di lavorare quasi esclusivamente per la società di cui era socio non fosse sintomo di “autonoma” organizzazione, considerato che era egli stesso ad apportare “benefici” alla società con la sua opera intellettuale e non il contrario; sottolineava altresì come fosse presente in sede solo per le riunioni dei soci e per gli incontri con i principali clienti. L’ufficio nella propria abitazione, l’assenza di collaboratori, minimi mezzi strumentali testimoniavano, a suo dire, l’assenza del presupposto impositivo.
La Ctr ha confermato il primo grado. Il Collegio regionale focalizza l’attenzione sui molteplici indizi dell’esistenza di una struttura organizzata, non estranea al professionista, che ne incrementava e valorizzava l’attività; secondo la commissione, il contribuente svolgeva la stessa attività professionale della Srl di cui era socio e, pur fatturando alla società, lavorava a vantaggio degli stessi clienti finali.
Dirimente, infine, la circostanza che il professionista fosse socio, in quota non irrilevante, della Srl; il che, secondo i giudici, non dava alcun margine per poter considerare “altrui” tale struttura organizzata.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Massimo Romeo

La contabilità in nero costituisce un valido elemento indiziario

Nell’ambito dell’accertamento sulle imposte sui redditi, la contabilità in nero, costituita da appunti personali e da informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’articolo 39 del Dpr 600/1973 in quanto, nella nozione di scritture contabili disciplinate dall’articolo 2709 e successivi del Codice civile, devono ricomprendersi tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore e il risultato economico dell’attività svolta, competendo poi al contribuente l’onere di fornire un’adeguata prova contraria. A tale conclusione è giunta la Cassazione attraverso l’ordinanza 3738/2019 (clicca qui per consultarla ).

Nel corso di una verifica tributaria può accadere che gli accertatori si imbattano in documenti fiscali dai quali sia possibile evincere la sussistenza di una contabilità parallela, dalla quale si comprenda che il reddito dichiarato dal soggetto verificato non corrisponde a quello effettivamente prodotto.

La Suprema corte, con la sentenza 26141/2016, ha in passato affermato la legittimità dell’accertamento induttivo in presenza di una contabilità in nero, in quanto la stessa rappresenta un valido elemento indiziario dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

È tuttavia necessario individuare in quale ambito accertativo si muovono i verificatori in presenza di documentazione parallela ovvero se il rinvenimento di documenti non ufficiale renda inattendibile la contabilità del contribuente (accertamento induttivo puro o extracontabile (ex articolo 39 comma 2) o se, invece, la documentazione extracontabile costituisca elemento per una ricostruzione presuntiva del reddito, a condizione che un riscontro con la contabilità ufficiale abbia fornito a tale documentazione i requisiti di gravità, precisione e concordanza (accertamento analitico-induttivo, ex articolo 39 comma 1 lettera d).

Talora la Cassazione ha affermato (sentenza 17952/2013) che il ritrovamento da parte della Guardia di Finanza di una contabilità parallela a quella ufficialmente tenuta dalla società sottoposta a verifica fiscale, legittima di per sé il ricorso all’accertamento induttivo-extracontabile in quanto si tratta di dati e notizie da cui possono essere desunte omissioni o false o inesatte indicazioni atteso che, fermi restando i limiti di efficacia delle scritture contabili delle imprese soggette a registrazione, anche le altre scritture provenienti dall’imprenditore possono operare come prova.

Tuttavia pare maggiormente condivisibile la tesi sostenuta dalla Suprema corte (sentenza 22465/2015) la quale, pur riconoscendo piena validità alla documentazione extracontabile, perfettamente idonea alla ricostruzione presuntiva dell’imponibile, ritiene che una contabilità in nero non legittima di per sé, a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso all’accertamento induttivo all’articolo 39 comma 2), occorrendo pur sempre la ricorrenza di «omissioni, false, inesatte indicazioni» o di «irregolarità formali», così «gravi, numerose e ripetute» da consentire all’ufficio di prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze delle scritture contabili.

Pertanto l’Agenzia, in presenza di una contabilità parallela, è tenuta a procedere attraverso un accertamento analitico-induttivo ex articolo 39, comma 1, lettera d) in quanto, tale documentazione, possiede i requisiti tipici della presunzione grave, precisa e concordante (Cassazione, sentenza 26141/2016 e 4168/2001).

 Fonte “Il sole 24 ore”

Aggio da giustificare con l’attività svolta dalla riscossione

Ctp di Parma: i rilievi del contribuente obbligano alla motivazione
È illegittimo l’aggio richiesto nella cartella di pagamento se l’agente per la riscossione non documenta le prestazioni eseguite e le spese sostenute. A precisarlo è la Commissione Tributaria di Parma con la sentenza n. 38, depositata il 12 febbraio 2019. 
Il contenzioso partiva da una società che impugnava una cartella di pagamento relativa a imposte dichiarate e non versate.Tra i motivi di ricorso la contribuente eccepiva la mancata indicazione del calcolo degli interessi e la giustificazione degli aggi pretesi ritenuti sproporzionati rispetto all’attività svolta. L’agente della riscossione si costituiva in giudizio.
Il collegio parmense ha innanzitutto rilevato che l’articolo 11 del Dlgs 546/1992, recentemente modificato, prevede che l’agente della riscossione (così come anche l’agenzia delle Entrate) «sta in giudizio direttamente o mediante la struttura territoriale sovraordinata». La scelta di avvalersi di avvocati del libero foro per la difesa affinché sia valida presuppone che si sia in presenza di un caso speciale, che intervenga una preventiva apposita e motivata delibera, la quale deve essere vagliata dagli organi di vigilanza e, infine, che sia prodotta in giudizio la prova della sussistenza di tali elementi (Cassazione, sentenza 28684/2018).
Ne consegue così che è nullo il mandato conferito all’avvocato del libero foro rilasciato senza il vaglio dell’organo di vigilanza e in assenza di un’esigenza specifica.
Nella specie, la procura allegata al fascicolo processuale telematico, non indicava alcun elemento necessario: mancava, infatti, la deliberazione e l’indicazione delle ragioni che avrebbero giustificato la deroga all’ordinario criterio della difesa in proprio dell’Ente pubblico. Tuttavia, i giudici hanno precisato che da ciò non conseguiva automaticamente l’accoglimento del ricorso.
Con riferimento alla mancata indicazione del calcolo degli interessi, nella sentenza è precisato che, secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cassazione, sentenza 17765/2018), il contribuente deve essere messo in condizioni di verificare la correttezza della pretesa, senza essere obbligato ad attingere a nozioni giuridiche per ricostruire il metodo seguito dall’Ufficio.
Per quanto riguarda l’aggio, invece, nella cartella di pagamento era individuato come “oneri di riscossione”.
L’articolo 17 del Dlgs 112/99 precisa che gli oneri di riscossione e di esecuzione devono essere commisurati ai costi per il funzionamento del servizio di riscossione. Tuttavia, quando il ricorrente contesta l’inesistenza o la sproporzione dell’aggio preteso, l’onere della prova si trasferisce in capo all’esattore.
Occorreva così dimostrare la consistenza delle prestazioni eseguite e la rispondenza delle somme richieste per tali prestazioni. In assenza, quindi della prova dei costi pretesi al contribuente, gli oneri della riscossione non possono ritenersi effettivamente sostenuti e di conseguenza devono essere annullati.
L’interessante decisione non sembra avere precedenti: se dovesse essere condivisa da altri giudici potrebbe comportare una maggiore trasparenza in capo all’agente della riscossione nella quantificazione dell’aggio preteso.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”
Laura Ambrosi

Omesso RW, sì all’integrativa lunga con pena fissa

L’omessa compilazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi può essere sanata mediante la presentazione di una dichiarazione integrativa a favore, come disposto dall’articolo 5, comma 1, del Dl 193/2016, al quale deve essere riconosciuta un’efficacia retroattiva in quanto norma di carattere interpretativo. In questo caso, la presentazione della dichiarazione tardiva è sanzionata in misura fissa. Questo è il principio espresso dalla Ctr della Sardegna 1143/4/2018 (presidente e relatore Rosella).
Nel caso esaminato l’ufficio notificava al contribuente un atto di irrogazione sanzioni per l’omessa compilazione del quadro RW del modello Unico 2005 (anno 2004) di attività finanziarie estere in violazione dell’articolo 4 del Dl 167/1990. In particolare, veniva applicata una sanzione in misura proporzionale (dal 3% al 15% delle attività omesse, in base all’articolo 5 del Dl 167/1990).
Nell’irrogare questa sanzione, l’ufficio non riconosceva la validità della dichiarazione integrativa mediante la quale, in data 8 maggio 2008, il contribuente aveva indicato in corrispondenza del quadro RW gli importi relativi ai trasferimenti da/verso l’estero, così come richiesto dagli articoli 2 e 4 del Dl 167/1990.
La Ctp di Cagliari ribadiva la legittimità dell’accertamento ed evidenziava l’impossibilità di escludere l’applicazione delle sanzioni connesse alla compilazione del modulo RW, in quanto l’integrativa era stata presentata oltre il termine previsto dall’articolo 2, comma 8, del Dpr 322/1998, vigente al momento della violazione (corrispondente al termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo). In senso conforme si veda la sentenza 13378/2016 delle Sezioni unite.
In appello la Ctr Sardegna ha ribaltato il primo grado, accogliendo parzialmente le ragioni del contribuente. Ha ricordato che i termini di presentazione dell’integrativa sono stati modificati dall’articolo 5, comma 1, del Dl 193/2016 (convertito nella legge 255/2016). Questo provvedimento ha modificato i commi 8 e 8-bis dell’articolo 2 del Dpr 322/1998 e ha riconosciuto la possibilità di integrare la dichiarazione dei redditi (sia a favore che a sfavore) fino alla scadenza dei termini con cui l’ufficio può procedere all’accertamento.
Pertanto l’integrativa a favore deve ritenersi valida non solo se presentata entro il termine previsto per la dichiarazione relativa all’anno successivo, ma anche oltre e fino alla scadenza dei termini di accertamento. Anche in caso sia stata presentata prima dell’entrata in vigore dell’articolo 5 del Dl 193/2016, in quanto norma di natura interpretativa e, come tale, con efficacia retroattiva. In ogni caso, la presentazione dell’integrativa, seppur valida, non esclude l’applicazione delle sanzioni, ma è soggetta alla pena in misura fissa (da 258 a 1.032 euro) prevista in caso di dichiarazione dei redditi tardiva.
© RIPRODUZIONE RISERVATA  “Il sole 24 ore”
Marco Nessi
Roberto Torelli

Salvo il socio di minoranza della Srl che prova di non conoscere il Pvc

È Illegittimo l’avviso di accertamento notificato al socio di minoranza di una Srl «a ristretta base» che può dimostrare di non conoscere il processo verbale di constatazione (Pvc) da cui scaturisce l’accertamento societario, nel frattempo divenuto definitivo. Lo afferma la Commissione tributaria regionale delle Marche, con la sentenza 515/06/2018 (presidente Boretti, relatore Nitri).
La decisione valorizza l’effettiva conoscenza degli atti prodromici all’emanazione degli avvisi di accertamento, quale indispensabile elemento alla base del principio del contraddittorio e del diritto di difesa del contribuente (in senso contrario, si vedano la Ctp Caltanissetta 1176/01/2016 commentata sul Il Sole 24 Ore del 12 dicembre 2016).
L’avviso di accertamento (basato su un Pvc della guardia di Finanza) notificato alla società (Srl composta da due soci) si era reso definitivo per assenza di impugnazione, mentre quello notificato al socio di minoranza (non amministratore), secondo la Ctp, era da considerarsi illegittimo per violazione dell’articolo 42 del Dpr 600/1973. Tale disposizione prevede, a pena di nullità, che se la motivazione dell’atto di accertamento fa riferimento a un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama, salvo che non ne riproduca il contenuto essenziale. Il che, secondo i giudici di primo grado, non era avvenuto nel caso di specie.
L’agenzia delle Entrate obiettava sul punto, sostenendo che il Pvc doveva comunque ritenersi conosciuto da entrambi i soci, considerata la ristrettezza della base sociale.
La tesi non convince la Ctr, che conferma la decisione di primo grado dopo aver verificato che la motivazione dell’avviso di accertamento conteneva solo un breve riferimento al Pvc notificato alla società, senza alcuna ulteriore indicazione circa il fondamento del maggior reddito accertato. Ciò ha privato il contribuente della concreta possibilità di controdedurre nel merito dei maggiori ricavi imputati alla società e, conseguentemente, dei maggiori imponibili a lui attribuiti.
La «trasparenza sostanziale» delle piccole Srl – sconosciuta al legislatore ma costantemente affermata dalla giurisprudenza di legittimità (si veda Il Sole 24 Ore del 16 e del 30 ottobre 2017) – pone non pochi problemi sotto l’aspetto della tutela del diritto di difesa del socio minoritario, spesso completamente ignaro delle vicende societarie.
Sul punto la Cassazione (ordinanza 15542/2017) non ritiene applicabile a questa fattispecie l’istituto del litisconsorzio necessario (articolo 14, Dlgs 546/92), ritenuto inevitabile sia per i soci delle società di persone (Sezioni unite 14815/2008) che per le Srl che hanno optato per il principio di trasparenza in base all’articolo 116 del Tuir (pronunce 9751/2017 e 24472/2015).
Si è affermato, invece, il diverso principio del «rapporto di pregiudizialità necessaria», secondo cui il procedimento relativo al socio deve essere sospeso (in base all’articolo 295 del Codice di procedura civile e dell’articolo 39, comma 1-bis, Dlgs 546/92), in attesa che divenga definitivo quello relativo alla società (tra le altre, ordinanza 8988/2017). Nel caso di specie, tuttavia, tale rapporto non rilevava, essendosi oramai consolidato l’accertamento verso la società.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”
Giorgio Gavelli

Cessazione di attività, rimborso Iva per i beni ceduti al valore inferiore di acquisto

In caso di cessazione dell’attività, il diritto al rimborso dell’Iva non può essere negato se il rifiuto si fonda su di un avviso di accertamento basato sull’incongruità che il corrispettivo dei beni ceduti fosse inferiore rispetto al costo di acquisto, soprattutto qualora l’operazione siano state considerate, dallo stesso Ufficio, come effettive ed esistenti. Va da se che, il diritto alla detrazione e, di conseguenza il rimborso dell’Iva, non possono essere negati in presenza del solo scostamento del corrispettivo rispetto al valore di mercato dei beni e in assenza di intenti fraudolenti o abusivi, come confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità in senso favorevole al contribuente.
A confermare tale orientamento è la Commissione tributaria provinciale di Caserta con le sentenze 6405 e 6406 del 21 dicembre 2018.

La vicenda tra origine, in sintesi, dal diniego di rimborso dell’Iva opposto dall’amministrazione a seguito della notifica di un avviso di accertamento. In pratica era accaduto che il contribuente, resosi conto che l’attività intrapresa non era remunerativa, provvedeva alla vendita dei beni aziendali ad un prezzo inferiore al costo e conseguentemente cessava l’impresa richiedendo il rimborso dell’Iva maturata nel corso del periodo d’imposta. Secondo l’Ufficio si trattava di operazioni prive dei requisiti di economicità e, pertanto, rettificava l’operazione sia ai fini Iva sia ai fini delle imposte dirette. Quest’ultime però, venivano annullate avendo l’Ufficio riconosciuto l’emersione di una minusvalenza in luogo della plusvalenza originarmene accertata.

La verifica degli atti in causa ha portato il collegio a rilevare la mancanza dei presupposti giuridici legittimanti l’avviso di accertamento poiché, la scelta di svendere i beni materiali era maturata a seguito della presa di coscienza dell’insussistenza della marginalità economica dell’impresa che l’Agenzia non aveva mai contestato. Quindi, il diniego del rimborso emergente a seguito della cessazione dell’attività d’impresa risultata improduttiva non poteva essere giustificato in assenza di elementi e altre circostanze finalizzate al risparmio fiscale.
Secondo i giudici, pertanto, la sola antieconomicità non può essere motivo sufficiente per negare la detrazione; quest’ultima, infatti, può essere contestata nel caso in cui il comportamento contrario ai canoni dell’economicità rilevi come ulteriore indizio di non veridicità dell’operazione o di non inerenza.
I giudici convergono nel ritenere che, negare il diritto alla detrazione, basandosi sul valore di mercato, senza tener conto dell’effettivo corrispettivo percepito, non solo contrasterebbe con i canoni del diritto unionale, ma lederebbe il principio cardine della neutralità dell’Iva in capo ai soggetti passivi.

Fonte “Il sole 24 ore”

Sì al rimborso del credito non indicato nel bilancio di liquidazione

Legittimo il diritto al rimborso dell’Iva a credito della Srl poi estinta e anche se tale credito non è stato evidenziato nel bilancio finale di liquidazione. Intanto perché si tratta di mero errore formale che non incide sulla legittimità del diritto al rimborso. Poi, in caso di estinzione della società, il credito si trasferisce in capo agli ex soci in quanto successori del sodalizio. Così la Ctr Piemonte, sentenza 1374/1/18 (Presidente Garino, Relatore Menghini) .
La decisione

Dal punto di vista sostanziale, è errata la tesi dell’agenzia fiscale secondo cui la mancata indicazione del credito Iva nel bilancio finale di liquidazione, posta in violazione dell’articolo 5 del Decreto ministeriale 26 febbraio 1992, equivale a una rinuncia del credito stesso, ossia che il credito è “non liquido”.

Per contro, è valida la tesi dei contribuenti, secondo i quali:

a) il credito Iva risulta dal Modello Iva;

b) non ne è stata contestata l’insussistenza;

c) la mancata inclusione nel bilancio finale di liquidazione non incide sulla legittimità del rimborso, dato che si tratta di mero dimenticanza formale e non sostanziale.

In altri termini, l’indicazione del credito nel bilancio finale di liquidazione risponde solo ad una esigenza formale ma non incide sulla legittimità “sostanziale” del credito correttamente esposto in dichiarazione.
Dal punto di vista procedurale, spetta ai soci della società estinta il diritto a ottenere il rimborso del credito, atteso che gli stessi sono successori dell’ente giuridico.
La vicenda

Una Srl, in liquidazione dal novembre 2013, presenta il modello Iva 2015, relativo al periodo d’imposta 2014, in cui espone un credito Iva di oltre 6mila euro, che non viene indicato nel bilancio finale di liquidazione. In seguito l’ente si estingue. I soci della ex società presentano istanza di rimborso del credito Iva, ma l’Agenzia forma nell’ottobre 2015 provvedimento di diniego, perché il credito non è stato indicato in bilancio finale di liquidazione, e, quindi, non spetta. Ma i soci non ci stanno e impugnano il diniego in Ctp, ma i giudici di prime cure sposano la tesi dell’Amministrazione e rigettano il ricorso introduttivo con sentenza del febbraio 2017 il ricorso. I contribuenti non demordo e appellano con successo la sentenza nel febbraio 2017.
Le considerazioni

In primo luogo, il giudice d’appello ha fatto un ragionamento di buon senso. Se il credito Iva, esposto in dichiarazione, non è stato contestato, esso si cristallizza, e, quindi, risulta assorbita la questione della sua inclusione, obbligatoria o meno, in un “paper” derivato, che è il bilancio di liquidazione. In secondo luogo, se si pretende che, a determinate condizioni, rispondano anche i soci della Srl per i debiti della società “estinta”, altrettanto vale questo principio per i crediti della società “estinta”, non potendo valere due misure diverse per la stessa fattispecie.
non può esserlo poi successivamente perché non inserito nella
risulta dal Modello Iva; b) Non ne è stata contestata l’insussistenza; c) La mancata inclusione nel bilancio finale di liquidazione non incide sulla legittimità del rimborso, dato che trattasi di mero dimenticanza formale e non sostanziale. In altri termini, l’indicazione del credito nel bilancio finale di liquidazione risponde solo ad una esigenza formale ma non incide sulla legittimità “sostanziale” del credito correttamente esposto in dichiarazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Stop al fermo contabile se l’accertamento è stato già annullato dalla Ctp

Stop al fermo contabile, istituto attraverso il quale l’Erario ha il potere di sospendere rimborso di somme spettanti al contribuente se risulta che lo stesso è a sua volta debitore nei confronti dell’Amministrazione, se manca il «fumus boni iuris». Pertanto va rimborsata la maggiore Ires richiesta dalla società contribuente derivante dall’applicazione dei principi contabili internazionali grazie ai quali viene rideterminato il reddito. Così la Ctr Lombardia con la sentenza 3023/14/2018 (clicca qui per consultarla ).

La decisione
Da un lato, l’Amministrazione può fare accesso all’istituto del fermo contabile, utilizzabile dall’Erario a difesa di un proprio credito anche se non «liquido ed esigibile», derivante da accertamenti emanati e impugnati dalla contribuente. Dall’altro lato tale istituto è tuttavia inapplicabile se manca il fumus boni iuris. Infatti, gli accertamenti posti a base del fermo sono stati impugnati ed annullati dalla Ctp, e, quindi, mancando il requisito del fumus, la contribuente ha pieno diritto al rimborso della maggiore Ires.

La vicenda
Una Spa decide di applicare i principi contabili internazionali in luogo di quelli nazionali. Nel dicembre 2011, tramite interpello, chiede all’agenzia delle Entrate di concordare il corretto trattamento fiscale sui derivati e propone il ricalcolo del reddito 2010 alla luce dei maggiori costi tramite presentazione della dichiarazione integrativa a favore. L’Amministrazione nega tale possibilità ma riconosce credito d’imposta e pertanto la società presenta istanza di rimborso Ires e nel marzo 2013, ulteriore sollecito, ma invano. Nel maggio 2013 presenta ricorso in Ctp avverso diniego tacito, ma l’Amministrazione si oppone: il rimborso non può essere concesso dato che la società risulta essere stata destinataria di avvisi di accertamento per gli anni 2007, 2008 e 2009. La contribuente ribadisce che gli avvisi sono stati impugnati e già definiti con sentenze ad essa favorevoli. Inoltre chiarisce che ha già versato in via provvisoria su tali accertamenti tributi nel 2012 per oltre 380mila euro, e, relativamente al 2009, somme pari oltre 571mila euro.

Fonte “Il sole 24 ore”

Omessa dichiarazione, niente sanzioni sul credito compensato

di Antonio Zappi

Un’omissione dichiarativa non preclude il riporto del credito Iva dell’anno precedente e la sua compensazione in F24 non è sanzionabile. Inoltre, senza dover necessariamente attendere la cartella di pagamento, è ammissibile impugnare direttamente anche l’avviso bonario derivante dalla liquidazione automatica e con il quale l’ente impositore contesta l’utilizzo del credito, ex articolo 54-bis del Dpr 633/1972: tale atto, infatti, contiene una specifica pretesa tributaria anche se non è ricompreso nell’elenco dell’articolo 19 del Dlgs 546/1992. A queste conclusioni è giunta la sentenza 14856/46/2018 della Ctp Roma (clicca qui per consultarla ). Nella vicenda in esame, era stata notificata una cartella di pagamento ad un contribuente che, per errore materiale, aveva omesso di “agganciare” al modello Unico 2015 (per il periodo d’imposta 2014) la dichiarazione Iva del medesimo anno, cosicché le Entrate si costituivano in giudizio sostenendo l’inammissibilità dell’impugnazione della comunicazione di irregolarità e, al contempo, contestavano sia il riporto del credito Iva, indicato al rigo VL8 del modello dell’anno successivo, che l’avvenuta compensazione orizzontale del tributo. A parere dell’Ufficio, infatti, il contribuente sarebbe stato intempestivo avendo prodotto la documentazione attestante la spettanza del diritto solo oltre i 30 giorni dalla notifica della comunicazione di irregolarità (circolari 21/E/2013 e 34/E/2012).

Per i giudici romani, invece, non solo il ricorso contro qualsiasi atto portante una pretesa tributaria deve essere ritenuto ammissibile in ragione dei principi costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della Pa (Cassazione 3315/2018), ma che nessuna conseguenza può derivare dalla previsione di un termine di adempimento «fissato non dalla legge, ma dalla stessa Amministrazione mediante circolare amministrativa, che non ha natura perentoria ed ha il solo fine di facilitare l’attività della pubblica amministrazione».

La normativa tributaria, sottolineano i giudici capitolini, «ha da tempo sottolineato il principio secondo cui al mancato rispetto delle formalità deve cedere il passo il dato sostanziale», cosicché, da un lato facendo richiamo all’articolo 10 della legge 212/2000 e, dall’altro lato, osservando come l’Ufficio avrebbe avuto la possibilità di tener conto, ancorché con qualche giorno di ritardo, della natura meramente formale della violazione ascritta alla società ricorrente, avrebbe ben potuto accoglierne i rilievi e non applicare sanzioni, anche in ragione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia.
Le stesse Sezioni Unite della Cassazione (sentenza 17758/2016) hanno, infatti, sancito che l’omessa dichiarazione non comporta la perdita del credito, potendo questo essere riportato a nuovo e/o compensato, mentre la giurisprudenza di merito ha statuito che dalla compensazione del menzionato credito non possano scaturire neanche le sanzioni pretese dal Fisco, ex articolo 13 del Dlgs 471/1997 (Ctr Sardegna 377/1/2018), ancorché in altro caso, invece, sia stata riconosciuta come corretta solo la sanzione formale per la dichiarazione omessa, ma non quella da indebita compensazione (Ctr Veneto 1093/5/2016).

Fonte “Il sole 24 ore”

Rettifica transfer price senza effetti sul penale-tributario

Sono irrilevanti sotto il profilo penale gli accertamenti di maggiori imponibili conseguenti a rettifiche di transfer pricing, in quanto basate per definizione su metodi meramente valutativi e, pertanto, connotati da margini di discrezionalità.

L’importante principio è affermato nella sentenza 3674/18/2018 della Ctr della Lombardia depositata il 4 settembre scorso, che ha negato l’applicabilità della normativa (oggi abrogata) sul raddoppio dei termini a seguito della denuncia del reato di dichiarazione infedele, basata sul mero scostamento dei redditi dichiarati rispetto a quelli presuntivamente accertati in applicazione di una diversa metodologia di transfer pricing.

La controversia scaturiva da una serie di avvisi di accertamento con cui l’Ufficio aveva riqualificato il profilo funzionale di una società italiana da «agente» a «distributore» della consociata francese, rideterminando il reddito della società in base al principio di libera concorrenza (articolo 110 del Tuir). La rideterminazione avveniva individuando un set di soggetti distributori ritenuti comparabili e applicando il metodo del margine netto della transazione (Tnmm).

Gli avvisi di accertamento venivano emessi anche in relazione ad annualità i cui termini ordinari di accertamento erano decaduti, ma per i quali l’Agenzia aveva ritenuto applicabile la normativa sul raddoppio dei termini in presenza di reato di dichiarazione infedele (articolo 4 del Dlgs 74/2000). L’Agenzia si era avvalsa del raddoppio dei termini nonostante le modifiche introdotte all’istituto dalla riforma del 2015, ritenendo applicabile il regime transitorio previsto dal Dlgs 128/2015, che faceva salvi gli avvisi già notificati.

I giudici regionali, pur accettando la tesi, peraltro molto discussa, dell’operatività del regime transitorio (in linea con la sentenza della Cassazione 26037/2016), ritenevano non applicabile il raddoppio dei termini nel caso specifico, in quanto la denuncia di dichiarazione infedele in applicazione di una diversa metodologia di transfer pricing era da ritenere strumentale ed illegittima.

Infatti, a seguito delle modifiche introdotte alla disciplina dei reati tributari, è previsto che per determinare la sussistenza delle soglie che fanno scattare il delitto di dichiarazione infedele (articolo 4) non si tenga conto della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali (tipicamente la documentazione sul Tp).

L’irrilevanza penale dei fatti basati su valutazioni giuridico-tributarie, secondo i giudici lombardi, è tipicamente applicabile alle rettifiche reddituali effettuate in applicazione della disciplina del transfer pricing, fondata per definizione su valutazioni discrezionali e su metodologie non certe e codificate dal punto di vista normativo.

Peraltro, nel caso specifico, l’applicazione della diversa metodologia di Tp proposta dall’Agenzia era ritenuta non corretta, essendo errato il presupposto su cui si fondava l’accertamento, ovvero la riqualificazione dell’impresa italiana da agente a distributore. La società, infatti, non stipulava contratti con i clienti e non operava con i rischi tipici del distributore (rischio magazzino e rischio credito).

di Giacomo Albano

Fonte “Il sole 24 ore”

Rateazione ammessa anche per una singola cartella

di Massimo Romeo

La rateazione di un debito tributario richiesta dal contribuente non deve necessariamente riguardare l’intero suo debito ma può essere presentata anche per una singola o per specifiche cartelle e la mancata regolarizzazione di precedenti cartelle non è ostativa alla concessione di dilazioni che riguardano altre cartelle diverse da quelle non regolarizzate o comunque non oggetto di rateazione. Questo il principio che emerge dalla sentenza della Ctp Milano n. 3490/2018 depositata il 27 Luglio.

La questione controversa aveva ad oggetto l’impugnazione da parte di una società di capitali di alcuni provvedimenti con cui l’agenzia della Entrate/Riscossione (di seguito Ader) aveva rigettato nuove istanze di rateazione del debito tributario in conseguenza della mancata regolarizzazione di precedenti piani revocati per decadenza. La ricorrente eccepiva l’illegittimità del diniego opposto sostenendo che l’articolo 19 del Dpr 602/1973 subordinerebbe l’accoglimento dell’istanza di dilazione solo alla presenza di temporanee obiettive difficoltà e non anche alla regolarizzazione , dedotta da Ader, in quanto la decadenza dal beneficio si porrebbe solo per il carico già rateizzato per il quale si sia verificata la decadenza e non quando, come nel caso di specie, la rateizzazione riguardi altre cartelle non oggetto di precedenti dilazioni.

Il Collegio provinciale decide di accogliere le doglianze della contribuente così legittimandone il diritto alla nuova rateazione. La motivazione del collegio giudicante, in ossequio al principio di non contestazione ( articolo 115 cpc), prende le mosse dal fatto , non contestato da Ader, che le due istanze di rateazione , oggetto dei dinieghi impugnati, riguardavano cartelle di pagamento non ricomprese nelle precedenti rateazioni concesse; quindi interpreta il dettato normativo di riferimento (articolo 19) come non ostativo, in presenza di temporanea situazione di obiettiva difficoltà del contribuente, (da quest’ultimo provata e da controparte non contestata) alla concessione di dilazioni che si riferiscono ad altre cartelle , diverse da quelle non regolarizzate o comunque non oggetto di rateazione.

La Ctp altresì specifica che la rateazione «non deve necessariamente riguardare l’intero debito ma può essere presentata anche per una singola o per specifiche cartelle», ferma restando la facoltà per l’agente di attivare, per il debito relativo a piani di rateazione decaduti, tutti gli strumenti a tutela del credito (dal fermo all’ipoteca, dal pignoramento alla vendita forzata).

 Fonte “Il sole 24 ore”

Finanziamenti, oneri presunti solo per i soci

di Luca Benigni e Ferruccio Bogetti

Illegittimo l’avviso che presume la fruttuosità dei finanziamenti erogati a favore di società commerciali da coloro che non rivestono la qualifica di soci. Così afferma la Ctp Varese 126/2/2018 (presidente Petrucci, relatore Ferrari).

La guardia di Finanza contesta movimentazioni di capitali verso l’estero a favore di un istituto di credito bulgaro, rispettivamente per 3 milioni di euro nel 2010 e per altri 3 milioni di euro nel 2011. Il contribuente si giustifica, sottolineando che le operazioni si riferiscono alla costruzione di un immobile strumentale, così come emerge dal preliminare siglato nel 2010 con una società di costruzioni bulgara a cui è stato effettuato il primo bonifico a titolo di caparra. Le successive difficoltà finanziarie del costruttore estero hanno imposto, per completare l’intervento, la successiva erogazione nel 2011 del secondo bonifico, questa volta a titolo di finanziamento, in realtà mai restituito. I chiarimenti forniti nella fase istruttoria non sono ritenuti convincenti e per il 2011 l’ufficio notifica al contribuente un maggior reddito di capitale di 7.500 euro, conteggiato in base alla consistenza finanziaria media di 500mila euro al tasso legale dell’1,5 per cento.

Il contribuente sottolinea che l’onerosità del mutuo (articolo 1815 del Codice civile), in assenza di diversa volontà delle parti, rappresenta una presunzione semplice superabile, anche ai fini fiscali, con qualsiasi mezzo di prova; e ricorda che non emerge alcun riferimento alla fruttuosità delle somme trasferite nelle causali dei bonifici effettuati alla società bulgara.

Secondo l’ufficio, però, la finalità realizzata in concreto è stata quella di riconoscere alla società estera la titolarità di denaro con obbligo alla restituzione insieme agli interessi pattuiti.

La Ctp accoglie il ricorso del contribuente, ricordando che la presunzione legale del Tuir, secondo cui le somme versate alle società commerciali dai loro soci si considerano date a mutuo se dai bilanci non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo, vale soltanto per coloro che rivestono tale qualifica. E comunque, se l’ufficio intende accertare i maggiori redditi di capitale, deve provarne la pretesa fruttuosità e il contribuente può replicare attraverso la prova contraria dei bilanci della società finanziata da cui emerge il mancato pagamento degli interessi accertati.

Fonte “Il sole 24 ore”

Dagli studi di settore all’eredità, tante liti senza speranza per l’Erario

di Salvina Morina e Tonino Morina

Sono frequenti le condanne a carico degli uffici che proseguono il contenzioso perdente, subendo una doppia beffa. L’erario non incassa nulla e l’ufficio è condannato a pagare le spese di giudizio. Sono diversi i casi in cui gli ufficipotrebbero evitare la prosecuzione del contenzioso. Ecco, di seguito, quelli più frequenti.

La rinuncia all’eredità «salva» dal Fisco
Per la Cassazione, ordinanza 13639/18, depositata il 30 maggio 2018, chi rinuncia all’eredità non ha alcuna responsabilità per i debiti del contribuente deceduto. Sbaglia perciò l’ufficio che insiste nella richiesta di pagamento agli eredi rinunciatari, e, quindi, deve essere accolto il ricorso dei contribuenti con condanna alle spese a carico dell’agenzia delle Entrate per 15mila euro, oltre rimborso forfetario ed accessori di legge.

L’ufficio deve provare che le operazioni sono inesistenti
Per la Cassazione, l’ufficio che nega la detrazione dell’Iva per presunte operazioni soggettivamente inesistenti, deve fornire la “prova” che le operazioni non sono mai state poste in essere. In mancanza di questa prova, l’accertamento del Fisco deve essere annullato, l’ufficio non incassa nulla ed è condannato a pagare le spese di giudizio, a favore del contribuente, per oltre 6mila euro.

Stop alle sanzioni sugli errori formali
Per i giudici di legittimità, ordinanza 14933 del giorno 8 giugno 2018, non è punibile il contribuente che presenta in ritardo le scritture contabili, a condizione che la violazione «sia priva di incidenza sulla determinazione della base imponibile dell’imposta e sul versamento del tributo e sia inidonea ad arrecare pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo». Il “guaio” è che, dopo quasi 13 anni di contenzioso, l’erario, dopo avere subìto una triplice bocciatura, primo grado, in secondo grado e in Cassazione, non incassa nulla e deve anche pagare le spese di giudizio per circa 5mila euro.

La media semplice non è ponderata
Per la Cassazione, è illegittimo il ricorso alla media semplice, anziché alla media ponderata, quando tra i vari tipi di merci esiste una notevole differenza di valore ed i tipi più venduti presentano una percentuale di ricarico inferiore a quella risultante dal ricarico medio (Cassazione, n. 13319 del 2011; n. 4312 del 2015). Sono diversi i contenziosi in materia di applicazione sbagliata della media aritmetica semplice, “scambiata” per media ponderata. Per giurisprudenza consolidata in materia, è costante l’accoglimento del ricorso dei contribuenti, con conseguente bocciatura dell’operato della Finanza e degli uffici delle Entrate che non applicano correttamente il ricarico medio ponderato.

Il rimborso Iva è soggetto alla prescrizione decennale
Per la Cassazione, sentenza n. 19510 del 19 dicembre 2003, il credito del contribuente per il rimborso dell’Iva si consolida decorsi due anni dal termine per la presentazione della dichiarazione annuale senza che l’amministrazione finanziaria abbia notificato alcun avviso di rettifica o di accertamento ed è esigibile alla scadenza dei successivi tre mesi. Pertanto, il termine di prescrizione decennale del diritto al rimborso decorre a partire da due anni e tre mesi dalla data di presentazione della dichiarazione annuale, non essendo il diritto medesimo esigibile prima del decorso di detto termine.

L’Inps chiede i contributi in base agli accertamenti
L’Inps non ha alcun titolo per chiedere i contributi che scaturiscono dagli accertamenti del Fisco definiti con la chiusura delle liti pendenti. È perciò priva di effetti la richiesta fatta dall’istituto previdenziale, con un avviso di addebito, sulla base dell’accertamento emesso dall’agenzia delle Entrate, direzione provinciale di Siracusa. Per il Tribunale di Siracusa, deve essere perciò accolto il ricorso del contribuente, e, per l’effetto, deve essere annullato l’avviso di addebito emesso dall’Inps (sentenza n. 108/2018, pubblicata il 5 febbraio 2018).

Stop agli studi di settore automatizzati
Proseguono le bocciature della Cassazione nei confronti degli uffici che emettono accertamenti standardizzati da studi di settore. Un esempio è nella sentenza 9755/17, depositata il 18 aprile 2017. Per la Cassazione, sbagliano gli uffici che considerano gli studi di settore uno strumento di accertamento.

Dopo 5 anni di silenzio il Fisco perde i soldi
Le richieste di pagamento, così come i fermi amministrativi notificati dopo i 5 anni dalla notifica della cartella di pagamento, sono prive di effetto. Per la Cassazione, sezioni unite civili, sentenza 23397/16, depositata il 17 novembre 2016, le pretese della Pubblica Amministrazione, agenzia delle Entrate, Inps, Inail, Comuni, Regioni, e altri enti impositori, si prescrivono nel termine “breve” di cinque anni, con l’eccezione dei casi in cui la sussistenza del credito non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato o a mezzo di decreto ingiuntivo.

I conti fittizi devono essere provati
Per la Cassazione, deve essere annullato l’accertamento dell’ufficio, relativo all’anno 2002, che non ha “provato” in alcun modo che i versamenti rilevati sui conti personali del socio e della figlia fossero effettivamente riferibili alla società (ordinanza 9212/2018, depositata il 13 aprile 2018). Dopo tre bocciature, primo grado, secondo grado e Cassazione, e dopo oltre 10 anni, il Fisco rimane con un pugno di mosche in mano e con una condanna al pagamento delle spese che la Cassazione liquida in 6mila euro per compensi, più 200 euro per esborsi e il 15% a titolo di spese forfettarie.

Contraddittorio preventivo obbligatorio
Gli atti emessi dal Fisco senza alcun confronto con il contribuente devono essere annullati. Per la Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sentenza 48/02/2018, depositata il 17 gennaio 2018, «la violazione del diritto del contribuente al contraddittorio preventivo, ossia antecedente all’emanazione dell’atto di accertamento, determina pertanto l’illegittimità dell’atto, e di conseguenza, il suo annullamento».

Fonte “Il sole 24 ore”

Nullo l’avviso con firma digitale notificato per raccomandata

di Rosanna Acierno

È nullo l’avviso di accertamento, sottoscritto digitalmente mediante l’indicazione a stampa del nominativo del capo ufficio (o del funzionario delegato), inviato a mezzo posta raccomandata e non tramite Pec. È questa la conclusione cui è giunta la sezione 1 della Ctp di Pescara, con la sentenza 926/01/2017 (presidente Albano, relatore Papa).

La pronuncia trae origine da un avviso di accertamento notificato tramite posta raccomandata a un libero professionista con cui la Direzione provinciale di Pescara-Ufficio controlli rettificava l’omessa fatturazione di alcune pratiche Docfa e Pregeo e, conseguentemente, maggiori compensi per l’anno di imposta 2011.

Impugnato l’atto, il contribuente ne eccepiva in via preliminare l’illegittimità per violazione dell’articolo 42 del Dpr 600/73, perché non solo sottoscritto digitalmente e non mediante firma autografa, ma anche perché inviato in formato cartaceo a mezzo raccomandata e non tramite Pec.

Costituitosi in giudizio, l’ufficio insisteva per l’infondatezza della eccezione preliminare, depositando a tal fine un’autorizzazione conferita al sottoscrittore dell’atto impugnato valido anche per gli atti digitali.

Accogliendo l’eccezione preliminare di nullità dell’avviso di accertamento per mancata sottoscrizione, la Ctp di Pescara ha innanzitutto precisato che «l’invalidità di un atto tributario, essendo quest’ultimo a formazione procedimentale progressiva, può derivare non solo da questioni sostanziali, ma anche da aspetti procedurali la cui mancanza o indeterminabilità può determinare l’illegittimità del provvedimento amministrativo».

Lo stesso collegio ha poi richiamato l’articolo 15, comma 7, Dl 78/2009 secondo cui la firma autografa prevista sugli atti di liquidazione, accertamento e riscossione può essere sostituita dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile dell’adozione dell’atto, in tutte le ipotesi in cui gli atti medesimi siano prodotti da sistemi informativi automatizzati, individuati dal provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate approvato il 2 novembre 2010, tra i quali gli atti di accertamento di violazione e irrogazione di sanzioni in materia di tasse automobilistiche.

Pertanto, a parere della Ctp di Pescara, per gli accertamenti ordinari, quale quello sotteso alla odierna controversia, la sottoscrizione necessaria ai fini della validità può essere solo autografa o dal 1° luglio 2017 anche digitale, in vigenza della possibilità per l’ufficio di inviare gli atti via Pec, sempre a condizione che il contribuente riceva documenti informatici a mezzo posta certificata e non cartacei.

Ne consegue che, nel caso di specie, recando soltanto la stampa del nominativo del responsabile e non la firma autografa ed essendo stato notificato in modalità cartacea tramite posta ordinaria, l’atto impugnato è di fatto privo di sottoscrizione e, dunque, nullo, atteso il chiaro tenore della norma di cui all’articolo 42, comma 3 del Dpr 600/73 secondo cui l’accertamento è nullo qualora l’avviso sia privo di firma.

Fonte “Il sole 24 ore”

Rimanenze, l’elenco blocca i ricavi induttivi

Accertamento e contenzioso
di Fabio Mazzoleni

Non è legittima la ricostruzione induttiva pura del reddito di una società di persone che, non avendo tenuto la contabilità di magazzino (in quanto esonerata), aveva regolarmente predisposto il prospetto di dettaglio delle rimanenze. È quanto affermato dalla Ctp di Vicenza con la sentenza 678/2/2017 (presidente Block, relatore Spadaro).

L’agenzia delle Entrate, sulla scorta di una segnalazione della Guardia di finanza che evidenziava una serie di irregolarità contabili, procede alla ricostruzione induttiva dei ricavi dichiarati dalla società per l’anno 2012. In particolare, l’ufficio ritiene che il presupposto per l’accertamento condotto con il metodo induttivo puro (articolo 39, comma 2 del Dpr 600/1973) sia da individuarsi nell’assenza della tenuta della contabilità di magazzino.

Il contribuente – presumibilmente in contabilità semplificata – impugna l’avviso di accertamento lamentando che non aveva alcun obbligo di tenere le scritture di magazzino ex articolo 18 del Dpr 600/1973. Inoltre, precisa il contribuente, l’ufficio non ha tenuto conto della documentazione prodotta in sede di verifica, dalla quale risultava il dettaglio delle rimanenze.

I giudici vicentini hanno in primo luogo ribadito il principio di diritto secondo il quale il discrimine tra l’accertamento condotto con il metodo analitico-induttivo (articolo 39, comma 1 lettera d) e l’accertamento induttivo puro (articolo 39, comma 2) risiede, rispettivamente, nella “parziale o assoluta” inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili. Nel primo caso, poiché le violazioni non sono tali da sconfessare la contabilità nel suo complesso, l’ufficio può soltanto colmare le lacune riscontrate accertando specifici ricavi non dichiarati o costi non deducibili; nel secondo caso, invece, poiché le omissioni sono talmente gravi da rendere inattendibile la contabilità, l’ufficio procede alla quantificazione del reddito in base a dati e notizie comunque raccolti.

In secondo luogo, nel comportamento della società, si legge nella sentenza, non si ravvisa alcuno degli elementi che giustificano il legittimo ricorso alla ricostruzione induttiva del reddito. Ed infatti, affermano i giudici, la società – che non aveva alcun obbligo di tenuta della contabilità – ha regolarmente redatto l’inventario e fornito le schede contabili e il dettaglio delle rimanenze di magazzino (rispettando dunque il disposto normativo di cui all’articolo 9, Dl 69/1989 e articolo 2, Dm 2 maggio 1989).

La pronuncia si inserisce nel consolidato solco della giurisprudenza di legittimità che ritiene applicabile il metodo induttivo nei confronti delle imprese in contabilità semplificata – esonerate dalle registrazioni di magazzino – solamente allorquando tali soggetti non siano in grado di fornire prospetti di dettaglio delle rimanenze tali da consentire all’amministrazione finanziaria di effettuare i dovuti controlli (Cassazione 15863/2001, 9912/1996, 7763/1990).

Rimane da chiarire se nel nuovo regime di contabilità semplificata improntato al criterio di cassa – con irrilevanza delle rimanenze ai fini della determinazione del reddito – il prospetto di dettaglio delle rimanenze richiesto dal citato articolo 9 (peraltro non espressamente abrogato) sia ancora obbligatorio anche alla luce della compilazione degli indici sintetici di affidabilità fiscale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Induttivo, va provato che la contabilità non è attendibile

Illegittima l’applicazione del metodo induttivo se l’ufficio non prova l’inattendibilità della contabilità e la correttezza dei dati utilizzati per la ricostruzione dei ricavi. Questi i principi contenuti nella sentenza 36/2/2018 della Ctp Reggio Emilia (presidente e relatore Montanari), depositata lo scorso 3 aprile.

La vicenda trae origine dall’impugnazione da parte di una società di un avviso di accertamento con il quale l’ufficio rideterminava induttivamente i ricavi della contribuente. Tale modalità era stata utilizzata in quanto i verificatori contestavano la non coerenza agli studi di settore e una bassa redditività dell’impresa.

La società e i soci, tassati per trasparenza, presentavano distinti ricorsi, poi riuniti, eccependo fondamentalmente l’irrazionalità ed erroneità della metodologia ricostruttiva seguita dall’ufficio.

I giudici hanno ritenuto fondate le doglianze dei contribuenti. Innanzitutto è stato evidenziato come più volte la Cassazione ha confermato la possibilità di procedere ad accertamento induttivo anche in presenza di contabilità formalmente corretta ma complessivamente inattendibile, potendosi, in tale ipotesi, evincere l’esistenza di maggiori ricavi o minori costi in base a presunzioni semplici, purchè qualificate.

Nella specie l’ufficio aveva però completamente eluso l’onere probatorio su di esso gravante, non avendo dato dimostrazione dell’inattendibilità della contabilità della società, elemento ritenuto essenziale per l’applicabilità della metodologia induttiva. L’unico presupposto che si rinveniva in proposito nell’accertamento riguardava infatti la non coerenza rispetto a un indice (coefficiente di ricarico medio) dello studio di settore di riferimento: si trattava però di un unico elemento, che peraltro faceva riferimento ad uno scostamento minimo tra il dato dichiarato e quello prospettato dagli studi di settore. Secondo il collegio, era troppo poco per poter ritenere sostanzialmente inattendibile la contabilità della contribuente.

In ogni caso, ha proseguito la Ctp, anche ritenendo legittima l’applicazione della metodologia induttiva, la pretesa erariale risultava non provata.

La ricostruzione che aveva portato all’individuazione di maggiori ricavi non dichiarati era infatti basata su due elementi in particolare: la percentuale di sfrido e quella di invenduto. L’ufficio assumeva di averle determinate utilizzato una logica equitativa e facendo riferimento a riscontri di altri esercizi similari operanti nella medesima provincia.

Tale comportamento non ha però convinto i giudici, i quali hanno ritenuto che non potessero essere considerate sufficienti delle mere enunciazioni, senza che vi fosse la prova delle stesse né un riscontro sulla loro fonte. In sintesi l’ufficio avrebbe dovuto dimostrare che le percentuali applicate fossero realmente corrette e comunque attendibili, al fine di poter adeguatamente contrastare i valori dichiarati dalla contribuente.

In proposito anche recentemente la Cassazione (7003 del 21 marzo 2018) ha ribadito che, in tema di presupposti per l’accertamento induttivo, la prova presuntiva può essere fondata anche su un solo elemento, purché fornito degli requisiti di gravità, precisione e concordanza: spetta poi al giudice di merito la valutazione dell’effettiva sussistenza di tali presupposti.

Fonte “Il sole 24 ore”

Bocciato il «pdf» allegato alla Pec

Sono sempre più numerose le pronunce di merito che censurano le modalità digitali utilizzate dal Fisco per la formazione e la notificazione degli atti impositivi. Così, la Ctr Liguria (sentenza 1745/3/2017, presidente Canepa e relatore D’Avanzo) e la Ctp Treviso (sentenza 93/1/2018, presidente Chiarelli e relatore Fadel) ribadiscono ancora una volta che è inesistente la notifica di un atto impositivo se avviene tramite messaggio Pec contenente in allegato il file dell’atto non firmato digitalmente. E ancora, per la stessa Ctp Treviso (sentenza 55/1/2018, presidente Bazzotti, relatore Fadel) è inesistente l’avviso di accertamento notificato al contribuente in formato cartaceo, ma che non reca alcuna sottoscrizione autografa del dirigente dell’ufficio (o di un suo delegato) ma la sola dicitura «firmato digitalmente».

La notifica tramite Pec

Le prime due sentenze riguardano il caso di cartelle di pagamento notificate al contribuente in formato “pdf” allegato a un messaggio Pec. I contribuenti impugnano le cartelle di pagamento sotto svariati profili, evidenziando tra l’altro che il formato “pdf” del file allegato alla Pec non garantisce l’immodificabilità e l’integrità del documento informatico.

I giudici condividono questa tesi difensiva, in particolare richiamando l’articolo 21, comma 1-bis, del Dlgs 82/2005 (Codice dell’amministrazione digitale, Cad), secondo cui «l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità».

Da questa disposizione i giudici traggono il convincimento che, in base al Cad, solamente il documento informatico su cui è apposta la firma digitale, formato secondo le specifiche tecniche di cui al Dpcm 13 novembre 2014 (recante «Regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici» in attuazione del Cad), è munito delle oggettive caratteristiche di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità, oltre a consentire l’identificazione della paternità dell’atto, tali da renderne valida la notifica a Pec.

In mancanza di tali requisiti, non c’è nessuna certezza legale che l’atto inviato telematicamente sia identico al provvedimento in originale e che esso sia giunto integro al suo destinatario. Pertanto, l’atto non è idoneo a manifestare la volontà dell’amministrazione di incidere nella sfera del destinatario (come anticipato, questa linea è stata sposata da molte altre pronunce di merito; solo per citarne alcune: Ctr Campania 9464/11/2017, Ctp Milano 1023/1/2017, Ctp La Spezia 420/1/2017, Ctp Vicenza 615/2/2017).

Atto cartaceo e firma digitale

La terza sentenza citata riguarda il caso di un avviso di accertamento notificato al contribuente in forma cartacea, ma recante la sola stampigliatura del nominativo del funzionario dell’ufficio seguita dalla dicitura «firmato digitalmente».

Anche in questo caso, a fronte di una specifica doglianza avanzata dal contribuente, i giudici hanno annullato l’atto, sottolineando che la normativa rilevante (articolo 15, comma 7, Dl 78/2010 e provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate del 2 novembre 2010) consente di sostituire la firma autografa con l’indicazione a stampa del nominativo del responsabile nei soli casi in cui l’atto:

sia prodotto da sistemi informativi automatizzati;

e sia il risultato di attività a carattere seriale effettuate con modalità di lavorazione accentrata (è il caso degli accertamenti delle tasse automobilistiche, delle concessioni governative, dell’imposta di registro annuale sui canoni di locazione pluriennali).

Ne consegue che per gli accertamenti ordinari notificati in formato cartaceo, la firma deve essere autografa. Anche in questo caso, in difetto di tale elemento, non può ritenersi formata alcuna volontà del Fisco idonea ad incidere nella sfera del contribuente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Responsabilità solidale

Il prestito amicale non giustifica le movimentazioni sul conto corrente
È legittima la ripresa dell’Amministrazione, fondata sulle movimentazioni risultanti dal conto corrente bancario del contribuente, se questi si limita ad indicare che tali somme si riferiscono a prestiti amicali tramite dichiarazioni rese dai beneficiari, ma di fatto non dimostra in maniera analitica che le somme versate si riferiscono ad operazione. Infatti possono essere poste a base dell’accertamento i singoli dati ed elementi risultanti dal conto corrente, come previsto dal comma 7 dell’articolo 32 del Dpr 600 del 1973. Viceversa, non bastano le dichiarazione prodotte dal contribuente per dimostrare le restituzioni di prestiti amicali, perché sono:
a) giustificazioni delle movimentazioni generiche e non analitiche;
b) dichiarazioni sono prive di autenticità, da trattare come qualsiasi scrittura privata poiché non è certa né la data in esse apposta né l’identità del sottoscrittore.
Nel caso esaminato, l’Amministrazione accerta un contribuente sulla scorta delle movimentazioni risultanti dal conto corrente relative al 2006 ed al 2007. Il contribuente si oppone e sostiene che le somme si riferiscono a prestiti effettuati da propri amici.
Ctr Lazio, sentenza 569/3/2018

Il contante accumulato in cassaforte e poi versato giustifica l’importi superiori agli incassi
Stop all’accertamento bancario emanato dall’Amministrazione nei confronti del professionista fondato sulla circostanza che in determinati periodi dell’anno gli importi versati sono superiori alle ricevute emesse se il contribuente giustifica la provenienza di tali somme. È infondata la tesi del fisco secondo cui tali somme afferiscono a somme sottratte a tassazione siccome in determinati periodi dell’anno i versamenti sono superiori agli importi risultanti dalle parcelle emesse. Per contro, è valida la tesi del contribuente che dimostra la provenienza di tali somme, ed in particolare che le stesse:
a) afferiscono a prestazioni relative a periodi pregressi e conservate in cassaforte, somme che poi solo in seguito il contribuente ha deciso di versare sul conto;
b) nel complesso, la ripresa erariale non trova fondamento dato che, su base annua, gli ammontari versati risultano comunque inferiori ai compensi dichiarati.
Nel caso esaminato, l’Amministrazione notifica nel 2006 ad un medico-legale un accertamento fondato sulle movimentazioni di conto corrente inerente gli anni 2003 e 2004 tramite cui accerta maggiori compensi rispettivamente pari a euro 917 e oltre 7mila euro per il 2004. Secondo l’Amministrazione, nei periodi compresi dall’ottobre 2003 al 22 dicembre 2003 le somme versate superano le prestazioni fatturate di oltre 8mila euro. Mentre nel periodo compreso tra il 23 dicembre 2003 e 19 marzo 2004, la differenza è oltre 11mila euro. Il contribuente si oppone e sostiene che trattasi di somme relative a prestazioni professionali già fatturate ma relative a periodi pregressi conservate in cassaforte e solo in seguito versate.
Ctr Sardegna, sentenza 56/5/2018

Fonte “Il sole 24 ore”

Responsabilità solidale

Stop all’appello notificato all’indirizzo corretto del procuratore ma fuori termine
Nel processo tributario, la denuncia di variazione del domicilio eletto opera esclusivamente nei confronti della parte, e non nei confronti del suo difensore, che non è tenuto a comunicare alla parte resistente la variazione dell’indirizzo. Questo perché la parte elegge domicilio presso il proprio procuratore e non presso il suo indirizzo. Pertanto è inammissibile l’appello dell’amministrazione qualora questa abbia tentato invano la notifica al vecchio indirizzo, e successivamente abbia si notificato l’atto di gravame presso l’indirizzo (nuovo) corretto del procuratore, ma oltre il termine lungo per promuovere l’azione. Dal punto di vista prettamente processuale:
a) il difensore del contribuente non è gravato dal comunicare alla controparte del giudizio la variazione di indirizzo del proprio studio;
b) per contro, è l’Amministrazione che, utilizzando l’ordinaria diligenza, deve individuare, tramite consultazione online dell’Albo professionale, l’indirizzo esatto presso cui notificare l’atto di gravame, essendo l’Albo fonte legale di conoscenza del domicilio degli iscritti, ed è solo a tale ente che il procuratore deve comunicare i mutamenti della sede.
Nel caso esaminato, l’Amministrazione perde il contenzioso nel giudizio, con sentenza depositata in data 11 gennaio 2016. Essa notifica il ricorso in appello all’indirizzo del difensore del contribuente risultante dagli atti processuali, notifica che però non va a buon fine e, a seguito di istanza rinnovazione della notifica, ri-notifica il gravame presso l’indirizzo nuovo del difensore il 19 luglio 2016.
Ctr Lombardia, sentenza 970/1/2018

Fonte “il sole 24 ore”

Responsabilità solidale

L’errata indicazione del Paese d’origine rende il dichiarante responsabile dei maggiori dazi accertati
In caso di accertamento di maggiori dazi doganali per errata indicazione del paese di origine della merce resa in sede doganale, il soggetto responsabile è il dichiarante, anche se questi agisce per conto dell’importatore effettivo titolare della merce, che ne risponde in solido, in base alle norme stabilite dal regolamento Cee. È infatti infondata la tesi del dichiarante che eccepisce il proprio difetto di legittimazione passiva siccome la merce – di provenienza da un paese di origine difforme da quello indicato in sede doganale – è di proprietà dell’importatore che ha dato mandato al dichiarante di espletare le formalità in dogana. È invece valida la tesi dell’agenzia delle Dogane che individua nel dichiarante il soggetto tenuto al pagamento dei maggiori dazi accertati dato che:
a) a mente dell’articolo 4 del regolamento Cee il dichiarante è colui il quale rilascia, e quindi sottoscrive, la dichiarazione in dogana;
b) in base all’articolo 201 del regolamento Cee soggetto passivo dei dazi è il dichiarante, anche se questi agisce per conto dell’importatore, e quindi non rileva la circostanza che il dichiarante non coincida con il soggetto acquirente della merce.
Nel caso esaminato, una Srl esercente attività di commercio di all’ingrosso di materiale elettrico, importa nel 2014 pannelli solari formalmente provenienti dal Taiwan e conferisce mandato ad altra Srl per l’espletamento delle formalità doganali. Quest’ultima, in sede doganale, conferma il paese di provenienza della merce. Successivamente l’agenzia delle Dogane scopre che la merce in realtà proviene dalla Cina e notifica avviso nel 2016 all’importatore ed al dichiarante tramite cui ricupera maggiori dazi per oltre 34mila euro comprensivo di sanzioni ed interessi.
Ctp Treviso, sentenza 88/04/2018

Fonte “Il sole 24 ore”

Responsabilità solidale

Nessuna responsabilità solidale con il sostituto d’imposta
Il contribuente, sostituito d’imposta, che percepisce un reddito al netto della ritenuta a titolo d’acconto, non è responsabile in solido col sostituto del mancato pagamento dell’imposta da questi trattenuta ma non versata. A livello normativo, il sostituito non è coobbligato solidale col sostituto, perché il soggetto, tenuto al pagamento, è il solo sostituto, obbligato al versamento per conto di altri a titolo di acconto in base al primo comma dell’articolo 64 del Dpr 600 del 1973. Inoltre in caso di mancato versamento da parte del sostituto di somme a titolo d’acconto, il debito non può essere iscritto a ruolo anche nei confronti del sostituito, in quanto la norma (articolo 35 del Dpr 602 del 1973) si applica solo a redditi sui quali il sostituto non ha effettuato alcuna ritenuta. A livello sostanziale, non si può considerare il sostituito soggetto coobbligato col sostituto per somme da questi trattenute e non versate. Diversamente questi si troverebbe nella paradossale situazione di versare somme che non gli sono state nemmeno erogate siccome trattenute dal sostituto, in violazione del principio di capacità contributiva, cioè in pratica il sostituito verrebbe di fatto assoggettato a tassazione due volte.
Nel caso esaminato, un contribuente impugna un’iscrizione a ruolo scaturente dal controllo sul modello Unico 2013, relativo all’anno 2012, e notificato nel 2016 tramite cui l’ufficio ricupera maggiore Irpef per oltre 17mila euro, ripresa fondata sulla circostanza che il sostituto non aveva versato le ritenute applicate.
Ctp Sondrio, sentenza 18/02/2018

Fonte “Il sole 24 ore”

Responsabilità solidale, notifiche

L’omessa compilazione di Rw ostacola il rimborso dell’euroritenuta. Nessuna responsabilità solidale con il sostituto d’imposta. L’errata indicazione del Paese d’origine rende il dichiarante responsabile dei maggiori dazi accertati. Per i soggetti residenti all’estero le notifiche non vanno più eseguite in Italia. Stop all’appello notificato all’indirizzo corretto del procuratore ma fuori termine. Il prestito amicale non giustifica le movimentazioni sul conto corrente. Il contante accumulato in cassaforte e poi versato giustifica l’importi superiori agli incassi. Sono questi gli argomenti trattati dalla rassegna di questa settimana delle principali pronunce delle Commissioni tributarie di primo e secondo grado.

L’omessa compilazione di Rw ostacola il rimborso dell’euroritenuta
Il contribuente, che detiene attività finanziarie estere non dichiarate, non ha diritto al rimborso della ritenuta eurounitaria effettuata dall’istituto di credito presso il quale transitano tali somme. A maggior ragione se il contribuente ha definito, tramite la voluntary disclosure, gli inviti notificati dall’Amministrazione per l’omessa dichiarazione di tali attività, ove tra l’altro non veniva riconosciuta la ritenuta operata dall’istituto di credito. In primo luogo, dal punto di vista processuale, il ricorso introduttivo avverso il diniego di rimborso è inammissibile per aver il contribuente riconosciuto, tramite adesione volontaria, la correttezza dell’operato dell’ufficio, e quindi la richiesta di rimborso dell’euroritenuta non può più essere oggetto di contestazione, come disposto dall’articolo 2 del Dlgs 218 del 1997. In secondo luogo, dal punto di vista normativo, l’omessa compilazione del Quadro Rw non consente alla contribuente di detrarre l’imposta estera trattenuta dall’istituto di credito, come previsto dall’articolo 165, comma 8 del Tuir, norma avente finalità sanzionatoria.
Nel caso esaminato, l’Amministrazione notifica degli inviti inerenti gli anni dal 2010 al 2013 tramite cui accerta attività estere non dichiarate e disconosce la ritenuta eurounitaria operata dall’istituto di credito pari ad oltre 24mila euro. La contribuente si avvale della voluntary disclosure. Successivamente, nel gennaio 2017 la contribuente presenta richiesta di rimborso dell’euroritenuta, richiesta respinta dall’Amministrazione nel giugno 2017 e impugnata dalla contribuente nel settembre 2017.
Ctp Mantova, sentenza 12/1/2018

Fonte “Il sole 24 ore”

Abuso del diritto, gli uffici non arretrano

Non è abuso del diritto scegliere fra la cessione delle quote di partecipazione e la cessione dei beni posseduti dalla società. Sul punto si stanno talvolta creando, in seno all’amministrazione finanziaria, dei fraintendimenti anche di fronte alle scelte che il contribuente può effettuare per conseguire un legittimo risparmio d’imposta.

Il comma 4 dell’articolo 10-bis dello Statuto del contribuente stabilisce che «resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale». La norma, in sostanza, disciplina il principio del legittimo risparmio d’imposta.

Proprio in relazione a tale principio, consideriamo il caso di una società che possiede dei beni immobili plusvalenti.

Anziché procedere con la cessione di tali beni, i soci possono optare legittimamente per la cessione delle partecipazioni, anche previa rideterminazione del valore tramite il pagamento di un’imposta sostitutiva e la redazione – da parte di un professionista – di una relazione di stima, come permesso dalle norme fiscali. Sempreché, ben inteso, il cessionario accetti l’acquisto di beni di secondo grado anziché beni di primo grado.

È un’operazione che certamente comporta un diverso e favorevole carico fiscale in capo al singolo socio, ma che è liberamente utilizzabile quale alternativa alla cessione diretta dei beni, comportando, peraltro, dei differenti effetti giuridici.

Invece alcuni uffici periferici delle Entrate, di fronte a simili operazioni, tendono ancora oggi a rincorrere il tentativo di riclassificarle come elusive puntando il dito sulla mancanza di sostanza economica con la presenza, invece, di un vantaggio fiscale indebito quale unico effetto essenziale dell’operazione.

Si tratta però di un’impostazione che non tiene conto del principio – ora codificato nel comma 4 citato in precedenza – secondo cui il contribuente può legittimamente perseguire un risparmio di imposta esercitando la propria libertà di iniziativa economica e scegliendo tra gli atti, i fatti e i contratti quelli meno onerosi sotto il profilo impositivo. Così che il contribuente, al di là della sostanza economica o meno o delle ragioni extrafiscali, può scegliere una condotta semplicemente perché la stessa determina un vantaggio fiscale lecito. Questo perché quando è il sistema stesso che offre “l’alternativa” fiscalmente più vantaggiosa, la scelta del contribuente non può essere censurata. Questi principi, peraltro, ora sono stati recepiti pienamente a livello centrale dall’Agenzia. Paradigmatica risulta la risoluzione 93/E/2016 nella quale, in tema di assegnazione agevolata, è stato affermato che non si realizza ipotesi di abuso del diritto (ma di legittimo risparmio d’imposta) se una società, di fronte a dei promissari acquirenti di un immobile di proprietà della società stessa, anziché vendere il bene, conseguendo delle rilevanti plusvalenze, lo assegna prima ai soci, fruendo della tassazione agevolata sostitutiva dell’8%, e poi gli stessi soci provvedono alla cessione ai precedenti promissari acquirenti della società al valore “di carico” conseguente all’assegnazione. Questo in quanto i soggetti in questione utilizzano i percorsi giuridici e i conseguenti vantaggi fiscali (legittimi) previsti dall’ordinamento tributario.

Altrettanto significativa è la risoluzione 97/E/2017, in tema di scissione parziale proporzionale e successivo trasferimento (previo affrancamento agevolato) delle azioni della società scissa, in cui l’Agenzia ha ribadito che, se il sistema fiscale offre più percorsi giuridici, il contribuente può scegliere quello fiscalmente meno oneroso. In sostanza, gli stessi documenti delle Entrate implicano che se il contribuente, attraverso operazioni legittime, si pone nelle condizioni di fruire di un vantaggio fiscale previsto dalla legge, si configura ipotesi di legittimo risparmio d’imposta. E questo anche quando la scelta risulta motivata da esclusive ragioni fiscali.

Fonte “Il sole 24 ore”

L’iscrizione all’Aire non basta a provare la residenza fuori dall’Italia

È legittimo l’avviso di accertamento che attrae a tassazione in Italia i redditi accertati in capo al contribuente che, nonostante il trasferimento della residenza all’estero, mantiene in Italia i propri interessi familiari, sociali ed economici. La sola iscrizione all’Aire non esclude, pertanto, che il contribuente sia fiscalmente non residente in Italia. È questo il principio pronunciato dalla Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia, con la sentenza 28/03/2018 .

La vicenda, da cui trae origine la pronuncia, fa seguito alla notifica di un avviso di accertamento con cui venivano accertati maggiori imponibili in capo ad un contribuente ritenuto fiscalmente residente in Italia. A seguito del rigetto del ricorso il contribuente presentava appello censurando la sentenza impugnata nella parte in cui i Giudici avevano ritenuto insufficiente la mera iscrizione all’Aire per non essere considerato fiscalmente non residente.

I giudici della Ctr hanno respinto l’appello precisando che l’iscrizione del cittadino nell’anagrafe dei residenti all’estero non è elemento risolutivo per escludere la residenza fiscale in Italia quando è incontrovertibile che il contribuente ha mantenuto nel territorio dello Stato i propri interessi affettivi, sociali ed economici.

Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta (183 giorni) sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente. Sono considerati fiscalmente residenti anche tutti coloro i quali abbiano nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.

I giudici convergono quindi che è sufficiente, affinché un soggetto sia considerato fiscalmente residente in Italia, che si verifichi uno solo di essi essendo il requisito temporale e quello della sede principale dei suoi affari o interessi (domicilio) ovvero quello della dimora abituale (residenza), alternativi e non concorrenti.

I giudici hanno ritenuto determinanti, ai fini della configurabilità della soggettività passiva del contribuente, gli elementi offerti dall’Ufficio consistenti nella presenza, nel territorio italiano, dei familiari, di un’abitazione, della detenzione di quote di partecipazioni e la titolarità di rapporti di conto corrente con istituti nazionali. Oltretutto la Commissione sottolinea come nella fattispecie era onere del contribuente dimostrare la sua presenza all’estero per la maggior parte del periodo d’imposta al fine di soddisfare il requisito temporale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Sede in Lussemburgo, l’assenza di addetti non la rende fittizia

Ogni imprenditore è libero di scegliere il luogo di collocazione della propria sede, a prescindere che ciò dipenda da vantaggi fiscali. Tale comportamento è illegittimo, infatti solo se costituisce una costruzione fittizia e non effettiva, ma tale circostanza va provata dall’amministrazione in modo adeguato. A fornire questa interpretazione è la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza 2/2/2018 depositata il 20 gennaio scorso (presidente e relatore Montanari).

Una società con sede in Lussemburgo ricorreva dinanzi al giudice tributario contro degli avvisi di accertamento emessi dall’agenzia delle Entrate. Secondo l’ufficio, la società, che gestiva semplicemente partecipazioni, era “esterovestita” e aveva collocato la sede in Lussemburgo solo per i vantaggi fiscali determinati dalla tassazione locale.

Per di più, l’Agenzia contestava la veridicità degli amministratori di diritto, ritenendo fosse in realtà amministrata da soggetti residenti in Italia e in ogni caso, presso la sede non esisteva personale dipendente.

Tra i diversi motivi di ricorso, la società eccepiva la violazione della libertà di stabilimento della sede, previsto dal Trattato Ue. La scelta di un Paese per porre la sede, anche se finalizzata ad ottenere un minor carico fiscale, non integra un abuso del principio della libertà di stabilimento, fatta salva l’ipotesi in cui si tratti di una costituzione di puro artificio, ma che nella specie non risultava provata.

La Ctp di Reggio Emilia ha ritenuto fondata l’eccezione. Innanzitutto, ha richiamato i principi stabiliti dalla Cassazione (sentenza 43809/2015) secondo i quali l’imprenditore può decidere di collocare le proprie strutture dove meglio ritiene e dotarle secondo le proprie insindacabili valutazioni. L’eventuale vantaggio fiscale non è indebito solo perché vengono sfruttate le opportunità offerte dal mercato o da una più conveniente legislazione fiscale, contributiva e/o previdenziale, ma lo diventa se è ottenuto attraverso situazioni non corrispondenti alla realtà, ossia di puro artificio.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha costantemente affermato che è irrilevante se la scelta della sede dipende solo da ragioni di convenienza fiscale, poiché occorre accertare se il trasferimento è stato realmente effettuato, e che non è stata creata una posizione meramente giuridica e non effettiva. A tal fine, il domicilio fiscale va individuato nel centro effettivo di direzione e di svolgimento dell’attività, ossia dove risiedono gli amministratori e vengono convocate le assemblee.

Nel caso in esame, la Ctp ha rilevato che gli elementi indiziari indicati nell’accertamento dall’Agenzia erano privi di forza probatoria. La gestione di partecipazioni è un’attività di per sé esercitabile in qualunque Stato e non è necessaria la presenza di personale dipendente. Quanto poi al disconoscimento degli amministratori di diritto rispetto a quelli di fatto residenti in Italia, la Ctp ha ritenuto che non ci fossero prove a sostegno di tale tesi. Anzi, a ben vedere, in atti emergeva che il soggetto ritenuto presidente del consiglio di amministrazione, aveva partecipato ad una assemblea presso la sede in Lussemburgo, così smentendo la tesi erariale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Stop all’appello che non critica la sentenza di primo grado

Il mancato svolgimento di tutte le fasi previste dalla procedura per presentare il ricorso in appello può rivelarsi pericoloso per il contribuente che può vedersi dichiarare inammissibile l’azione proposta.

In caso di consegna diretta alla parte appellata, occorre farsi consegnare una ricevuta recante un numero di protocollo e la sottoscrizione e/o una sigla in grado di riferire la consegna al soggetto incaricato. Entro 30 giorni dalla sua proposizione, è necessario inoltre depositare in segreteria della commissione tributaria adita l’originale dell’appello notificato o copia dello stesso insieme alla ricevuta di consegna. Il gravame non può infine limitarsi a riportare il ricorso iniziale senza opporre critiche alla sentenza di primo grado e neppure in caso di accoglimento parziale ci si può dolere del fatto che la Ctp, pur essendo stato richiesto in primo grado l’integrale annullamento dell’atto impugnato, non si sia conformemente pronunciata in tal senso. Lo ricorda la Ctr Sardegna con la sentenza 204/5/2017 (presidente e relatore Corradini).

Il caso riguardava una contribuente che, dopo avere ricevuto un accertamento Ici per il 2004 relativo a un’area fabbricabile, ricorre in Ctp contestandone l’illegittimità. A suo giudizio, il valore determinato con la delibera adottata dal Comune deve essere ridotto alla metà in quanto solo il 50% dell’area è edificabile mentre il restante, essendo destinato ad edilizia pubblica ed economica/popolare, ha valore pressoché nullo.

Il Comune non si costituisce in giudizio e il giudice di primo grado il 26 gennaio 2011 accoglie parzialmente il ricorso della ricorrente dichiarando non dovute le sole sanzioni.

La contribuente non demorde e propone appello. Ma dopo averlo consegnato il 18 novembre 2011 al Comune non deposita il relativo fascicolo in Ctr. Il Comune non si costituisce, ma la Ctr dichiara inammissibile il ricorso sulla base delle seguenti considerazioni:

• l’appellante, in caso di consegna diretta dell’appello all’ente appellato, a pena di inammissibilità deve sempre farsi consegnare una ricevuta idonea a provare l’avvenuta notifica recante un numero di protocollo e la sottoscrizione e/o una sigla in grado di riferire la consegna al soggetto incaricato;

• l’appellante, entro 30 giorni dalla proposizione dell’appello, a pena di inammissibilità, deve depositare nella segreteria della commissione tributaria adita, l’originale dell’appello notificato o copia dello stesso insieme alla ricevuta di consegna e fatte salve le notifiche avvenute a mezzo di ufficiale giudiziario o messo notificatore, se avvenute prima del 13 dicembre 2014, era altresì tenuto al deposito della copia presso la segreteria della Ctp, obbligo poi eliminato dall’articolo 36 del Dlgs 175/2014 con efficacia non retroattiva;

• l’appellante, a pena di inammissibilità, non può limitarsi a trascrivere il ricorso iniziale senza opporre alcuna critica alla sentenza di primo grado e neppure può dolersi, in caso di accoglimento parziale, del fatto che la Ctp, pur essendo stato chiesto l’annullamento dell’atto impositivo, sarebbe stata obbligata a pronunciarsi in tal senso, in quanto il giudice tributario non può limitarsi ad annullare la pretesa ma deve sempre decidere nel merito.

Fonte “Il sole 24 ore”

Salvi gli errori sui crediti non usati

di Marco Ligrani

In assenza di danno erariale, è illegittima l’iscrizione a ruolo del maggior credito erroneamente riportato in dichiarazione, se non utilizzato in compensazione, né chiesto a rimborso; tanto più se il contribuente lo ha emendato, anche in sede giudiziale, dimostrando la propria perfetta buona fede.

Con questa motivazione, la Ctr di Napoli (sentenza 7753/25/2017 – presidente Marenghi, relatore Spena), in linea con l’orientamento più recente della Cassazione, ha confermato l’annullamento integrale di una cartella di pagamento emessa a seguito del controllo formale di una dichiarazione Iva, con cui una curatela fallimentare aveva, erroneamente, esposto un credito maggiore di quello effettivo.

La vicenda muove dalla liquidazione delle imposte relative all’anno del fallimento, la cui dichiarazione presentava, come detto, un importo maggiore del dovuto. Il controllo automatizzato aveva, dunque, iscritto a ruolo la differenza (pari a circa 500mila euro), maggiorata di sanzioni e interessi, cui aveva fatto seguito la notifica della cartella di pagamento da parte dell’agente della Riscossione.

La curatela aveva, così, proposto ricorso, rilevando, tra l’altro, l’assenza di danno erariale, dovuto al fatto che il maggior credito non era stato, comunque, utilizzato, né in compensazione né, tantomeno, a rimborso.

Peraltro, preso atto dell’errore, la procedura lo aveva, comunque, corretto, successivamente alla notifica della cartella, nella prima dichiarazione utile, dimostrando, in tal modo, la propria buona fede.

Nella sua difesa, l’ufficio aveva chiesto la conferma del proprio operato, ma la Ctp lo aveva censurato, accogliendo le ragioni del fallimento.

Proposto appello, l’Agenzia aveva contestato che, indipendentemente dalla correzione postuma, la mancata presentazione della dichiarazione dell’anno successivo alla sentenza di fallimento impediva di provare la mancata utilizzazione del credito; per questa ragione, a suo dire l’iscrizione a ruolo andava confermata.

La Ctr, tuttavia, ha rigettato l’opposizione del Fisco, non solo perché innovativa rispetto al primo grado, ma anche nel merito.

In particolare, i giudici campani, ricordato il divieto di ius novorum in appello, hanno ribadito che l’eccedenza di credito, erroneamente esposta in dichiarazione, non aveva, comunque, causato alcun ammanco di liquidità nelle casse erariali.

Per altro verso, sotto il profilo soggettivo non vi era stato nessun utilizzo da parte della procedura, che, anzi, presentava un saldo Iva a credito nei confronti dell’erario.

Risultava, per questo, indubbia la buona fede della contribuente, tanto più evidente in quanto, nella prima dichiarazione utile, l’errore che aveva causato il recupero era stato, come detto, definitivamente corretto. È stato, così, confermato l’orientamento oramai consolidato in Cassazione, secondo il quale la correzione della dichiarazione dei redditi può avvenire senza alcuna limitazione e, pertanto, anche in sede contenziosa.

Quanto al merito della vicenda, i giudici hanno richiamato la recente pronuncia della Corte, che ha precisato come l’errore materiale, risultante dalla dichiarazione, non legittima alcun recupero in assenza di danno erariale, che sussiste solo a seguito e per effetto dell’utilizzo del credito non spettante (sentenza 2882/2017).

Fonte “Il sole 24 ore”

Termine biennale per l’istanza di rimborso senza compilazione del quadro

Termine biennale per l’istanza di rimborso senza compilazione del quadro
La richiesta di rimborso del credito di imposta si ritiene formalmente corretta ai fini della prescrizione ordinaria decennale solo se è compilato l’apposito quadro in dichiarazione contenente l’importo di cui si richiede il rimborso mentre in assenza non si configura formale esercizio del diritto al rimborso e si rende applicabile l’articolo 21 del Dlgs 546/92. In questo caso l’istanza deve essere presentata entro due anni dalla data di presentazione della dichiarazione e in caso di contestazione dell’Amministrazione circa la sussistenza del credito di imposta il contribuente è onerato della dimostrazione dei presupposti della spettanza.
Ctp Roma, sentenza 26478/01/2017

Nel concordato preventivo con cessione di beni il liquidatore non resiste in giudizio

ACCERTAMENTO E CONTENZIOSO
Nel concordato preventivo con cessione di beni il liquidatore non resiste in giudizio
Nell’operazione di concordato preventivo la legittimazione del commissario liquidatore è riconoscibile solo nei limiti in cui la pretesa e l’obbligo siano sorti nel corso ed in funzione delle operazioni di liquidazione. In tutti i giudizi, compresi quelli tributari il liquidatore non è legittimato ad agire o a resistere in qualità di rappresentante del debitore, che pure rimane soggetto passivo di imposta in relazione agli obblighi di natura tributaria maturati dopo l’ammissione alla procedura concordataria. Questo in quanto l’imprenditore soggetto al concordato preventivo prosegue l’esercizio dell’impresa durante lo svolgimento della procedura anche se questa prevede la cessione dei beni ai creditori.
Ctp Roma, sentenza 26477/01/2017

Investimenti esteri nel quadro RW solo se fruttiferi

L’obbligo di compilazione del quadro RW non concerne qualsiasi investimento ed attività estera di natura finanziaria, ma solo quelli potenzialmente idonei a produrre redditi di fonte estera imponibili in Italia. A queste conclusioni è giunta la Ctr Veneto con la sentenza 70/2/2018 (presidente Russo, relatore Lapiccirella).

L’agenzia delle Entrate aveva contestato a due coniugi di non aver dichiarato nelle rispettive dichiarazioni una somma depositata in un conto corrente cointestato acceso presso una banca francese. A parere dell’Ufficio, la normativa sul monitoraggio fiscale (Dl 167/90) avrebbe richiesto ai contribuenti l’obbligo di dichiarare le consistenze finanziarie estere, in quanto la sola disponibilità delle medesime costituirebbe una presunzione legale di redditività. I contribuenti, invece, avevano provato che le somma giacente presso la banca transalpina fosse infruttifera ed improduttiva di interessi, sostenendo quindi che queste attività non fossero suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia.

Richiamando il disposto letterale dell’articolo 4 del citato Dl 167/90, i giudici veneti hanno confermato la sentenza di primo grado, accogliendo nel merito l’eccezione del contribuente che, nel giudizio di prime cure, era stata invece assorbita dal difetto di sottoscrizione dell’atto impugnato.

Per il Collegio lagunare, «la lettera della legge è chiara – debbono esistere redditi prodotti all’estero, che nel caso che occupa sono assenti – ma anche lo spirito della norma depone a favore di un obbligo dovuto almeno alla potenzialità reddituale – anche questa assente».

Quindi, un conto corrente infruttifero non può attribuire al contribuente alcuna potenzialità reddituale, poiché se il legislatore avesse voluto prevedere l’obbligo di dichiarazione per qualunque allocazione di risorse finanziarie estere avrebbe in tal senso formulato il disposto del citato 4. Tale circostanza, invece, non è avvenuta nemmeno con la riformulazione operata dalla legge 97/2013.

Il tenore letterale della norma, quindi, esclude l’obbligo di monitoraggio di ogni asset oltreconfine, prevedendone la necessità solo per quelli suscettibili di produrre un reddito imponibile in Italia. In sede interpretativa, invece, l’agenzia delle Entrate ritiene produttive di reddito da monitorare anche le citate attività finanziarie estere (circolari 38/2013 e 45/2010) e tra le rarissime sentenze che si sono occupate in passato della questione in argomento va segnalato un pronunciamento della Commissione tributaria di II grado di Bolzano (n. 48/2/14) che, anche in quel caso e poiché “in claris non fit interpretatio”, aveva statuito la non necessità di monitorare nel quadro RW un finanziamento infruttifero, confermando come il principio di legalità sancito in ambito tributario dall’articolo 3 Dlgs 472/97 ed il suo corollario principio di tassatività impongano una lettura molto rigorosa del chiaro disposto normativo.

Va infine segnalato che, per la novità della materia del contendere, i giudici veneziani hanno individuato un’idonea motivazione per derogare al principio di soccombenza e compensare tra le parti le spese di giudizio.

Fonte “Il sole 24 ore”

La consegna non salva dalla frode Iva

Nelle frodi “carosello” la prova della non consapevolezza dell’acquirente, che salva la detrazione dell’Iva, non ruota attorno alla regolarità delle scritture contabili o al fatto che la merce sia stata effettivamente consegnata e pagata, ma alla impossibilità di conoscere, con la normale diligenza imprenditoriale, il carattere fraudolento dell’operazione. È questo il principio stabilito dalla Ctr Lazio nella sentenza 3404/19/2017 del 13 giugno scorso (presidente Lentini, relatore Terrinoni).

Il caso
L’agenzia delle Entrate contestava ad una Srl l’indebita detrazione dell’Iva derivante da operazioni ritenute soggettivamente inesistenti (operazioni reali ma tra soggetti diversi da quelli indicati in fattura) perché intervenute con società “filtro” coinvolte in un sistema di frodi.

La società proponeva ricorso contestando l’assenza della prova circa la propria consapevolezza dell’attività fraudolenta realizzata dai cedenti. Il ricorso veniva accolto in primo grado.

La decisione
L’Agenzia proponeva appello. La Ctr Lazio, ribaltando la decisione di primo grado, ha ritenuto fondato l’avviso di rettifica valorizzando la presenza di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti addotti dall’ufficio. In particolare, l’assenza di attività commerciale e struttura organizzativa dei fornitori, testimoniata dalla mancanza di una sede societaria e di beni strumentali, l’omissione della dichiarazione dei redditi e dei versamenti Iva comproverebbero la soggettiva inesistenza delle operazioni.

Di contro, secondo la Ctr, la dimostrazione da parte del contribuente del transito delle merci e del pagamento delle relative fatture non sarebbe rilevante, né può ritenersi decisiva la regolarità delle scritture contabili poiché tali circostanze non escludono la possibile ricorrenza di un meccanismo di frode Iva (si veda Cassazione, sentenza 8011/2013 e ordinanza 10252/2013). La prova della buona fede della società accertata non può far leva quindi su tali elementi e sulla generica affermazione della non partecipazione alla frode, occorrendo dimostrare la propria estraneità e il non avere avuto conoscenza o conoscibilità dell’intera operazione.

L’onere della prova
La tematica del diritto alla detrazione dell’Iva in presenza di fatture per operazioni inesistenti, su cui pende anche un giudizio davanti alla Corte di giustizia Ue a seguito dell’ordinanza di rinvio della Ctr Lombardia 1714/1/2017 dello scorso 10 novembre, è sempre attuale. Se ne è occupata anche la circolare 1/2018 della Gdf che, richiamando il prevalente orientamento giurisprudenziale (Cassazione 5406/2016), sottolinea come la sussistenza di una frode Iva debba essere adeguatamente dimostrata in primis dagli organi di controllo.

Le regole sulla distribuzione dell’onere della prova (Cassazione 25538/2017 e 25545/2017) in tema di fatture soggettivamente inesistenti prevedono che sia l’ufficio a dare dimostrazione dell’accordo fraudolento posto in essere tra interposto e interponente, nonché della consapevole partecipazione alla frode dei vari soggetti coinvolti (ovvero il fatto che questi «sapevano o avrebbero dovuto sapere») attraverso elementi anche presuntivi (articolo 2727 del Codice civile). Spetta invece al contribuente provare la corrispondenza anche soggettiva tra l’operazione di cui alla fattura e quella in concreto realizzata, ovvero l’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale ingenerato dalla condotta del cedente.

Su queste basi, sarà poi il giudice di merito a valutare, caso per caso, se la condotta del cessionario (al quale non si possono comunque chiedere prove diaboliche) risponda alla diligenza ragionevolmente esigibile e faccia salvo, a differenza di quanto ritenuto dalla Ctr Lazio, il diritto alla detrazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

I tributi sono periodici: scatta la prescrizione quinquennale

Nei casi in cui venga eccepita la prescrizione del credito tributario , sotteso all’adozione di una misura cautelare a garanzia dello stesso, essa soggiace al termine più breve (quinquennale) piuttosto che a quello ordinario (decennale) , trattandosi di tributi periodici ai sensi dell’articolo 2948 del codice civile.
Questo il principio che emerge dalla sentenza della Ctp Milano n. 6797 del 6 dicembre 2017 (presidente e relatore DI ROSA).

Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici ambrosiani riguardava l’impugnazione da parte di un contribuente di un preavviso di fermo amministrativo adottato dall’ufficio sulla base di un credito derivate da alcune cartelle di pagamento per debiti Irepf, Iva e Irap.
Il ricorrente, fra i vari motivi di ricorso, eccepiva l’illegittimità del preavviso di fermo a causa della mancata notifica degli atti prodromici nonché la prescrizione del credito azionato.
L’ Ufficio, dal canto suo, difendeva l’atto cautelare emesso versando in giudizio la prova della notifica degli atti prodromici che legittimavano il preavviso di fermo impugnato.

I giudici milanesi preliminarmente confermano la validità degli atti prodromici alla misura cautelare opposta dal contribuente verificando la relativa documentazione versata in atti dall’ Ufficio; tuttavia è proprio da questo esame che giungono a dirimere la controversia a favore della parte privata in quanto gli atti prodromici erano stati notificati oltre il quinquennio rispetto all’adozione del fermo e non risultavano documentate ulteriori attività idonee ad interrompere il decorso del termine prescrizionale, che il Collegio identifica nell’articolo 2948 comma 4 del codice civile in considerazione della periodicità del tributo.

Il Collegio lombardo sembra implicitamente allinearsi alla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, n. 23397, che sembrava aver ormai definitivamente chiuso la questione stabilendo che le pretese tributarie si prescrivono nel termine “breve” di cinque anni, fatti salvi i casi in cui la sussistenza del credito non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato o tramite decreto ingiuntivo.
Un recente emendamento alla legge di Bilancio 2018 introdurrebbe nell’ordinamento una norma di interpretazione autentica ( ergo retroattiva) che, indipendentemente dal tipo di tributo, porterebbe la prescrizione da quinquennale a decennale, equiparandola all’ actio iudicati ex art. 2953 c.c.
La partita, quindi, come dimostra la sentenza in commento, sembra essere ancora aperta.

Fonte “Il sole 24 ore”

Cedolare secca e uso abitativo: dai tribunali un’apertura verso i soggetti «non privati»

Quando si discute in merito all’applicazione del regime sostitutivo della cedolare secca, si fa essenzialmente riferimento agli immobili abitativi. L’articolo 3 del Dlgs 23/2011, rubricato «Cedolare secca sugli affitti», statuisce infatti che, in alternativa al regime ordinario vigente per la tassazione del reddito fondiario ai fini Irpef, il proprietario o il titolare di diritto reale di godimento di unità immobiliari abitative, locate a uso abitativo, può optare per il regime della cedolare secca.

Pertanto, dalla lettura della disciplina, emerge come siano soggettivamente legittimati all’applicazione del regime della cedolare secca, esclusivamente le persone fisiche che detengono gli immobili nella cosiddetta “sfera privata” e lochino i medesimi, senza che ciò rientri nell’esercizio di un’impresa o di una libera professione.

In altri termini, deve trattarsi di soggetti passivi Irpef che, in relazione alla locazione posta in essere, conseguano un reddito fondiario. Sulla base di tali considerazioni, la cedolare secca è stata, fino a oggi, preclusa ai locatori di immobili abitativi, che risultino soggetti passivi Ires, come individuati dall’articolo 73 del Tuir (Spa, Srl, società cooperative, enti commerciali, enti non commerciali, società ed enti di ogni tipo, compresi i trust, non residenti in Italia).

L’Agenzia ha confermato quanto già indicato dal legislatore, ma nella Cm 26/E/2011 è andata “oltre” il dettato normativo chiarendo che, per l’applicazione della cedolare secca, è necessario porre rilievo anche all’attività del conduttore, restando esclusi dal regime i contratti conclusi con locatari che agiscono nell’esercizio di attività d’impresa o di lavoro autonomo, nonostante detti immobili vengano di fatto utilizzati dall’affittuario per soddisfare le esigenze abitative dei propri collaboratori/dipendenti. Soggettivamente risulta essere condizione indispensabile la natura sia del locatore e sia del conduttore i quali, come indicato nel sopra citato documento di prassi e confermato nella Cm 8/E/2017, devono essere due persone fisiche le quali, rispettivamente, detengono e utilizzano l’immobile residenziale per finalità abitative. Di conseguenza, l’opzione per la cedolare secca non è esercitabile qualora la veste di locatore venga assunta da un soggetto diverso dal proprietario dell’immobile. In tale ambito, infatti, il reddito conseguito dal locatore non costituisce un reddito fondiario, ma bensì un reddito diverso.

Se è vero che l’amministrazione finanziaria ha assunto una tale posizione restrittiva, è altrettanto vero che la norma in sé non è poi così categorica. Tant’è che alcune pronunce sulla vicenda si sono rivelate favorevoli a una interpretazione più accomodante. La recente Ctr Lombardia, sezione 19, sentenza 754, del 27 febbraio 2017 , stabilisce che il locatore di immobili a uso abitativo, se persona fisica che agisce come privato, può optare per il regime fiscale agevolato della cosiddetta “cedolare secca”, a prescindere dal fatto che il conduttore sia persona fisica o società, nulla prescrivendo la citata norma sulla natura giuridica di quest’ultimo. Della stessa opinione, la Ctp Umbria-Terni, sezione II, 20 gennaio 2016, la Ctp Milano, sezione XXV, 17 aprile 2015 e la Ctp Reggio Emilia attraverso la pronuncia 470/03/2014. Quest’ultima ha, infatti, disposto il riconoscimento della cedolare secca anche a quella tipologia di contratti nei quali, il conduttore dell’immobile è un’impresa che lo loca per concederlo in uso a un proprio dipendente quale benefit.
L’interpretazione assunta dall’Ufficio nella Cm 26/E/2011 non trova alcun riscontro nella lettera della legge, ma deve essere considerata piuttosto “creativa” o contra legem, in violazione dell’articolo 12 delle preleggi al Codice civile e in abuso del vincolo costituzionale della potestà normativa in materia tributaria sancito dall’articolo 23 della Costituzione. Pertanto, pare giunto il momento per i contribuenti di far valere il peso delle norme nelle sedi competenti, forti dei primi riscontri da parte della giurisprudenza di merito.

Fonte “Il sole 24 ore”

Sentenza corretta: due termini per contestare il ruolo definitivo

Il contrasto tra motivazione e parte dispositiva della sentenza può essere oggetto di istanza di correzione materiale, che va presentata entro il termine previsto per l’impugnazione. In tal caso il giudice deve pronunciarsi con ordinanza collegiale e la stessa può essere a sua volta appellata sempre nello stesso termine, con impugnazione che può riguardare la sentenza originaria corretta e/o l’ordinanza. In quest’ultimo caso, il Fisco non può iscrivere a ruolo a titolo definitivo le somme recate dall’accertamento finché non si è resa definitiva l’ordinanza collegiale anche in caso di mancata impugnazione della sentenza ante correzione. Questa la Ctr Sicilia, con la sentenza 3814/7/2017 (presidente Gennaro, relatore Sanfilippo).
Un contribuente ricorre contro l’Erario per un atto del 2002. Con sentenza depositata il 15 luglio 2010 la Ctp, da un lato, rigetta il ricorso nella parte motiva e, dall’altro, lo accoglie nella parte dispositiva.
Il Fisco notifica la sentenza il 28 gennaio 2011 all’indirizzo del ricorrente (anziché al domicilio eletto). Il contribuente non reagisce e poi chiede la correzione della sentenza per errore materiale e il dispositivo viene sostituito con ordinanza collegiale del 17 febbraio 2011.
Il 15 febbraio 2012, vigente il vecchio rito per l’impugnazione, il contribuente ricorre al comma 4 dell’articolo 288 del Codice di rito e appella l’ordinanza collegiale (le sentenze relativamente alle parti corrette, possono essere impugnate nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata depositata l’ordinanza di correzione).
In seguito alla mancata impugnazione della sentenza notificata al contribuente, il Fisco il 27 settembre 2011 iscrive a titolo definitivo le somme accertate e notifica il ruolo tramite concessionario il 20 gennaio 2012 a cui segue un secondo ricorso.
Per il contribuente non ci sono le condizioni per l’iscrizione a titolo definitivo. Infatti, non vale né il termine “corto” ( in base al quale la sentenza si sarebbe resa definitiva il 29 marzo 2011 perché non notificata al domicilio eletto), né il termine “lungo” (secondo cui la sentenza si sarebbe resa definitiva il 14 novembre 2011 perché l’ordinanza collegiale ha dato tempo sino al 28 marzo 2012 per appellare la sola parte della sentenza “corretta”, cosa che il contribuente ha fatto nel termine).
Al contrario, il Fisco sostiene la legittimità dell’iscrizione definitiva a ruolo, dato che la sentenza originaria non è stata appellata nè entro il 29 marzo 2011 (termine “corto”) né entro il 14 novembre 2011 (termine “lungo”).
I giudici di primo e secondo grado danno ragione al contribuente. La sentenza può essere temporalmente scomposta nella sentenza ante correzione e quella post correzione. Da qui due conseguenze pratiche:
una volta presentata l’istanza di correzione materiale, l’iscrizione a ruolo avviene solo dopo la correzione favorevole del dispositivo della sentenza tramite ordinanza collegiale;
una volta che sia stata impugnata la sentenza post correzione nella sola ordinanza collegiale, allora per l’iscrizione a ruolo definitiva bisogna aspettare il passaggio in giudicato della seconda parte, indipendentemente dall’impugnazione della sentenza originaria ante correzione.
Fonte “Il sole 24 ore”

Possibile il ravvedimento con pagamento frazionato

Il versamento delle somme dovute per il ravvedimento operoso può anche avvenire in via frazionata cumulando così i vantaggi del ravvedimento “breve” con quelli del ravvedimento “lungo” perché il ravvedimento operoso (totale) può avvenire sia con un pagamento unico sia con un pagamento frazionato. È il principio che l’ufficio ha tentato di negare e che la Ctr Sardegna ha ribadito (sentenza 223/5/17, presidente e relatore La Rocca) , condannando l’amministrazione al pagamento delle spese processuali.
La vicenda
Una Srl omette il versamento dell’Iva del 2005, si avvale poi della proroga normativa intervenuta il 26 luglio 2005 e rimedia effettuando distinti versamenti frazionati per imposta, sanzioni e interessi.
La prima tranche viene pagata entro il termine breve di 30 giorni con corresponsione della sanzione ridotta al 3,75%; la seconda e ultima tranche viene versata oltre i 30 giorni ma entro la data di presentazione della dichiarazione Iva corrispondendo la sanzione ridotta al 6 per cento.
L’amministrazione, tuttavia, considera tardivi entrambi i versamenti e iscrive a ruolo la differenza tra quanto dovuto in base alle sanzioni ordinarie del 30% cento e quanto pagato nei due casi (3,75 e 6%), vale dire il 26,25 e il 24 per cento.
Il contribuente, invece, si difende sostenendo che l’illegittimità del recupero operato dallìufficio, in quanto il ravvedimento operoso può anche essere effettuato in maniera frazionata.
Di parere diverso il Fisco, secondo cui il ravvedimento operoso non consentirebbe il pagamento scaglionato, in quanto il versamento dell’imposta dovrebbe avvenire interamente entro lo stesso limite temporale di quello delle sanzioni ridotte sulla base dell’articolo 13, comma 2, del Dlgs 472/1997 .
La tesi dell’amministrazione viene bocciata sia in primo che in secondo grado.
Le motivazioni
Secondo la Ctr, il contribuente ha correttamente operato nel rispetto della risoluzione 67/E del 23 giugno 2011 effettuando, in assenza di controlli, il versamento integrale del dovuto in forma frazionata nel termine massimo consentito conteggiando congruamente per ciascuna rata – o meglio per ciascuna frazione di tributo – oltre all’imposta originariamente non versata, anche sanzioni ed interessi (ridotti in base al momento in cui è avvenuto il pagamento).
Sotto questo profilo, il comportamento del contribuente risulta coerente con quanto previsto dalla stessa risoluzione 67/E, che ha escluso la possibilità di considerare perfezionato il ravvedimento, quando il contribuente versa solo la “prima rata”, pretendendo poi di avere sanzioni e interessi ridotti anche per gli importi versati oltre il termine ultimo.
Fonte “Il fisco”

Residenza fiscale

Non sono sufficienti a integrare il requisito del domicilio in Italia ex art. 43 Codice civile richiamato dall’articolo 2 Tuir la sussistenza di interessi personali e familiari, in assenza della prova della conservazione nel nostro paese di interessi patrimoniali ed economici.
Questo è il principio ricavabile dalla lettura della sentenza della Ctp di Varese n. 402 depositata lo scorso 14 settembre 2017 che ha accolto il ricorso di un cittadino italiano emigrato dal 1974 in Venezuela, che aveva man mano ivi spostato (e in altri Paesi) i propri interessi di natura imprenditoriale e il cui collegamento con lo Stato Italiano era costituito principalmente da elementi (titolarità di un complesso immobiliare, di utenze, di un conto corrente, di un’autovettura) che trovavano giustificazione nel mantenimento del coniuge (asseritamente separato di fatto), residente in Italia.
Secondo l’amministrazione finanziaria il soggetto era da intendersi fiscalmente residente in Italia con tutte le conseguenti riprese a tassazione, atteso che per “domicilio” deve intendersi il luogo in cui il soggetto ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi non solo di natura economica ma anche personali, affettivi, sociali e familiari.
La Ctp di Varese rigetta la tesi dell’ufficio interpretando rigidamente, in un’ottica puramente economica, la locuzione «sede principale dei suoi affari ed interessi» contenuta nella definizione di “domicilio”, affermando l’assoluta irrilevanza degli indizi relativi alla conservazione in Italia di interessi personali o familiari, in assenza della prova per l’appunto del mantenimento nel nostro Paese di interessi patrimoniali ed economici.
Si tratta di una decisione dal carattere senz’altro innovativo, portatrice di una tesi che, pur trovando un forte supporto in dottrina, è però costantemente rigettata dalla Suprema Corte di Cassazione che da sempre accoglie, ai fini fiscali, una nozione molto ampia di domicilio, in linea con la prassi dell’amministrazione finanziaria, e ove semmai il punto ancora oggetto di dibattito, in assenza di un appiglio normativo, riguarda il criterio di prevalenza tra gli interessi economici-patrimoniali e quelli personali-affettivi.
Sotto questo profilo va ricordato che, nonostante l’orientamento maggioritario della Cassazione dava prevalenza ai rapporti personali affettivi, con la sentenza n. 6501 del 31 marzo 2015, i giudici di legittimità hanno invece inteso enfatizzare il centro degli interessi economici quale criterio per individuare la residenza fiscale dell’individuo. Con la successiva sentenza n. 12311 del 15 giugno 2016, la Corte di Cassazione è però tornata all’impostazione precedente, quindi ad oggi non vi è ancora un cristallino orientamento sul tema, restando imprescindibile una valutazione caso per caso.

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Alla Consulta il contraddittorio «a macchia di leopardo»

Con la sentenza n. 24823 del dicembre scorso, le Sezioni Unite hanno sancito che non esiste, nell’ordinamento nazionale, un principio generale che impone all’Amministrazione finanziaria un obbligo circa l’instaurazione del preventivo contraddittorio con il contribuente.

Sottoscrizione ruolo. Risponde il concessionario se non chiama in causa l’ente impositore

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il contribuente può rivolgere l’impugnazione contro il solo concessionario

Nel caso in cui sia impugnato un atto proprio dell’agente della riscossione facendo valere anche vizi afferenti all’attività dell’ente impositore cui l’atto impugnato si collega, ricade sull’agente della riscossione, non sul ricorrente, l’onere di chiamare in giudizio l’ente impositore.

È il principio di diritto tratto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che la Commissione Tributaria Provinciale di Enna ha posto a fondamento dell’accoglimento di un ricorso avverso una cartella di pagamento emessa a seguito di iscrizione a ruolo dell’Agenzia delle Entrate.

Nella sentenza n. 1318/01/15 la CTP di Enna cita l’insegnamento delle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 16412/2007) secondo cui, nelle ipotesi in cui venga impugnato un atto proprio dell’agente della riscossione facendo valere anche vizi afferenti all’attività dell’ente impositore, la “legittimazione passiva resta in capo all’ente titolare del diritto di credito e non al concessionario il quale, se fatto destinatario dell’impugnazione, dovrà chiamare in giudizio il predetto ente, se non vuole rispondere dell’esito della lite, non trattandosi nella specie di vizi che riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi: l’enunciato principio di responsabilità esclude, come già detto, che il giudice debba ordinare ex officio l’integrazione del contraddittorio, in quanto non sussiste tra ente creditore e concessionario una fattispecie di litisconsorzio necessario”.

Inoltre, secondo Cass. (Sez. VI-T) 21220/12: “nel processo tributario, il fatto che il contribuente abbia individuato nel concessionario, piuttosto che nel titolare del credito tributario, il legittimato passivo, nei cui confronti dirigere l’impugnazione, non determina l’inammissibilità della domanda, ma può comportare la chiamata in causa dell’ente creditore, onere che, tuttavia, grava sul convenuto, senza che il giudice adito debba ordinare l’integrazione del contraddittorio”.

E allora la CTP di Enna è giunta alla conclusione che, nel caso di specie, spettava all’Agente della riscossione chiamare in causa l’Agenzia delle Entrate “al fine di consentire a quest’ultima di dimostrare, in replica all’eccezione dl ricorrente, che il ruolo dal quale scaturisce la cartella impugnata era stato reso esecutivo giusta sottoscrizione da parte del titolare dell’ufficio ovvero di un suo delegato, con la conseguenza che dell’esito della lite non può che rispondere solo l’Agente della Riscossione” e che la stessa (lite) “non può che essere sfavorevole all’agente, poiché in assenza di dimostrazione della corretta sottoscrizione de ruolo, l’impugnata cartella di pagamento deve ritenersi nulla”.

In buona sostanza, quindi, Equitalia avrebbe dovuto chiamare in causa l’Agenzia o, in alternativa, dimostrare la correttezza della sottoscrizione del ruolo: ma nel caso esaminato il concessionario non ha fatto né l’uno né l’altro. Dal che la declaratoria di nullità della cartella impugnata.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Cartelle di pagamento con raccomandata informativa

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

In ipotesi di irreperibilità momentanea del destinatario, la notifica della cartella esattoriale può dirsi validamente eseguita soltanto se sono stati curati tutti gli adempimenti previsti dall’articolo 140 del codice di procedura civile. In particolare, deve essere inviata la raccomandata informativa dell’avvenuto deposito del plico presso la casa comunale e, in caso di contestazione circa il ricevimento della cartella, il concessionario deve provare il ricevimento della stessa da parte dell’interessato, perché altrimenti la notifica deve considerarsi nulla.

È quanto emerge dalla sentenza n. 51/09/15 della Commissione Tributaria Regionale di Roma.

La controversia è scaturita da un preavviso di fermo veicolo in ragione dell’omesso pagamento di alcune cartelle che il contribuente ha negato di aver ricevuto.

La CTR capitolina, contrariamente alla CTP, ha ritenuto non provata, da parte della resistente Equitalia, la notifica delle cartelle sottese al fermo impugnato, e quindi ha accolto il motivo d’appello involgente la violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c., non risultando nella documentazione prodotta dal concessionario la prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata di avviso di deposito presso la casa comunale del plico da notificare.

La CTR ha ricordato che, nei casi previsti dall’articolo 140 c.p.c., il contribuente deve essere informato, mediante l’invio di raccomandata A/r, che la cartella esattoriale è stata depositata presso la casa comunale (v. C. cost. n. 258 del 2012).

L’art. 140 si applica nel caso d’irreperibilità relativa del notificatario e laddove il domicilio del medesimo sia conosciuto.

La norma prevede una serie di adempimenti:

  • l’affissione dell’avviso alla casa comunale (che però non costituisce formalità essenziale non essendo idonea, di per sé, a porre l’atto nella sfera di conoscibilità del destinatario);
  • l’affissione, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, a opera del notificatore, di un avviso dell’avvenuto deposito (ma anche questo secondo adempimento non è considerato dalla legge sufficiente, stante la sua precarietà che può tradursi nella sottrazione o, comunque, nella dispersione dell’avviso);
  • la notizia dell’avvenuto deposito che il notificatore deve dare al destinatario mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

Ebbene, poiché “il dettato della norma porta a ritenere che con il compimento del terzo adempimento, ovvero la spedizione della raccomandata, la notificazione deve considerarsi perfezionata nei confronti del soggetto che effettua la notifica (…), viceversa non perfeziona gli effetti della notifica nei confronti del soggetto destinatario della stessa”, il concessionario per la riscossione deve produrre una copia della ricevuta della raccomandata regolarmente sottoscritta dal soggetto notificando o da altro soggetto legittimato ai sensi del codice civile, ovvero copia del plico da cui risulti la compiuta giacenza presso l’ufficio postale a seguito di regolare avviso. Questa interpretazione “è corroborata dalla sentenza 3/10 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 140 c.p.c. nella parte in cui prevede che la notifica si perfezioni per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa anziché con il ricevimento o, comunque, decorso il periodo di compiuta giacenza”.

Ma nel caso esaminato, scrive la CTR capitolina, “non è stata mai prodotta alcuna ricevuta della raccomandata o altrimenti provato che l’interessato non abbia curato il ritiro della stessa nel normale termine di giacenza presso l’ufficio postale. La notifica delle cartelle pregresse al fermo oggetto di questo giudizio deve ritenersi del tutto irrituale con la conseguenza che il fermo, in accoglimento dell’appello, dev’essere dichiarato illegittimo”.

Le spese del giudizio sono state compensate.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

CARTELLE DI PAGAMENTO CON RACCOMANDATA INFORMATIVA

In ipotesi di irreperibilità momentanea del destinatario, la notifica della cartella esattoriale può dirsi validamente eseguita soltanto se sono stati curati tutti gli adempimenti previsti dall’articolo 140 del codice di procedura civile. In particolare, deve essere inviata la raccomandata informativa dell’avvenuto deposito del plico presso la casa comunale e, in caso di contestazione circa il ricevimento della cartella, il concessionario deve provare il ricevimento della stessa da parte dell’interessato, perché altrimenti la notifica deve considerarsi nulla.

È quanto emerge dalla sentenza n. 51/09/15 della Commissione Tributaria Regionale di Roma.

La controversia è scaturita da un preavviso di fermo veicolo in ragione dell’omesso pagamento di alcune cartelle che il contribuente ha negato di aver ricevuto.

La CTR capitolina, contrariamente alla CTP, ha ritenuto non provata, da parte della resistente Equitalia, la notifica delle cartelle sottese al fermo impugnato, e quindi ha accolto il motivo d’appello involgente la violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c., non risultando nella documentazione prodotta dal concessionario la prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata di avviso di deposito presso la casa comunale del plico da notificare.

La CTR ha ricordato che, nei casi previsti dall’articolo 140 c.p.c., il contribuente deve essere informato, mediante l’invio di raccomandata A/r, che la cartella esattoriale è stata depositata presso la casa comunale (v. C. cost. n. 258 del 2012).

L’art. 140 si applica nel caso d’irreperibilità relativa del notificatario e laddove il domicilio del medesimo sia conosciuto.

La norma prevede una serie di adempimenti:

  • l’affissione dell’avviso alla casa comunale (che però non costituisce formalità essenziale non essendo idonea, di per sé, a porre l’atto nella sfera di conoscibilità del destinatario);
  • l’affissione, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, a opera del notificatore, di un avviso dell’avvenuto deposito (ma anche questo secondo adempimento non è considerato dalla legge sufficiente, stante la sua precarietà che può tradursi nella sottrazione o, comunque, nella dispersione dell’avviso);
  • la notizia dell’avvenuto deposito che il notificatore deve dare al destinatario mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

Ebbene, poiché “il dettato della norma porta a ritenere che con il compimento del terzo adempimento, ovvero la spedizione della raccomandata, la notificazione deve considerarsi perfezionata nei confronti del soggetto che effettua la notifica (…), viceversa non perfeziona gli effetti della notifica nei confronti del soggetto destinatario della stessa”, il concessionario per la riscossione deve produrre una copia della ricevuta della raccomandata regolarmente sottoscritta dal soggetto notificando o da altro soggetto legittimato ai sensi del codice civile, ovvero copia del plico da cui risulti la compiuta giacenza presso l’ufficio postale a seguito di regolare avviso. Questa interpretazione “è corroborata dalla sentenza 3/10 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 140 c.p.c. nella parte in cui prevede che la notifica si perfezioni per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa anziché con il ricevimento o, comunque, decorso il periodo di compiuta giacenza”.

Ma nel caso esaminato, scrive la CTR capitolina, “non è stata mai prodotta alcuna ricevuta della raccomandata o altrimenti provato che l’interessato non abbia curato il ritiro della stessa nel normale termine di giacenza presso l’ufficio postale. La notifica delle cartelle pregresse al fermo oggetto di questo giudizio deve ritenersi del tutto irrituale con la conseguenza che il fermo, in accoglimento dell’appello, dev’essere dichiarato illegittimo”.

Le spese del giudizio sono state compensate.

AUTORE: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Giurisprudenza Studi settore. Occorre adattare l’accertamento alla specifica realtà aziendale

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

È illegittimo l’avviso di accertamento basato unicamente sulle risultanze dello studio di settore anche laddove l’Amministrazione abbia utilizzato lo strumento più recente. È questo emerge dalla sentenza n. 1307/10/15 della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna.

La CTR dell’Emilia Romagna ha ritenuto illegittimo – così come la CTP – un avviso di accertamento basato sugli studi di settore, atto con cui l’Ufficio finanziario aveva rideterminato induttivamente i ricavi di una società operante nel settore dell’informatica e dedita all’attività di “sviluppo di sistemi informatici integrati di gestione della fabbrica, adattati per ogni specifico cliente”.

La ricorrente (che aveva aderito al preventivo invito al contraddittorio) ha eccepito con successo l’inadeguatezza dello studio di settore a rappresentare la propria specifica realtà aziendale; tant’è vero che era stata la stessa Amministrazione finanziaria a riconoscere, in sede di contraddittorio endoprocedimentale, l’imprecisione dello studio TG66U il quale, pertanto, era stato sostituito col più evoluto UG66U, con conseguente riduzione dei maggiori ricavi inizialmente contestati.

L’Ufficio resistente, dal canto suo, ha inutilmente sostenuto la legittimità dell’accertamento in questione, posto che esso non poteva dirsi il prodotto di una presunzione semplice di maggior reddito ma il frutto dell’adeguamento dell’elaborazione statistica alla concreta realtà economica della contribuente e, quindi, portatore di quel quid pluris richiesto dalla giurisprudenza (su tutte: Cass.,S.U., n. 26635/2009).

Ebbene, secondo i giudici di primo grado, gli accertamenti basati sull’incongruenza fra ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore, così come disposto dall’art. 62-sexies del D.L. 331/93, costituiscono di per sé una presunzione grave, precisa e concordante a favore dell’Amministrazione finanziaria ma solo “se risulta applicata correttamente la procedura di rilevazione degli studi di settore, come le relazioni esistenti tra le variabili contabili e quelle strutturali, andamento della domanda, livello dei prezzi in relazione ai vari periodi temporali, concorrenza, ecc. ferma restando la facoltà del contribuente di fornire prova contraria”. Nella fattispecie, l’Ufficio – secondo la CTP – non ha fornito una convincente dimostrazione del fatto che lo studio di settore utilizzato potesse rappresentare con sufficiente attendibilità un’azienda, come la contribuente, “altamente specializzata in una materia, quella dell’informatica, oggi in continua evoluzione. Nonostante gli sforzi effettuati dall’ufficio nella ricerca di uno studio più aderente alla realtà aziendale, le rilevazioni effettuate, la prima con lo studio TG66U e la seconda con lo studio UG66U ritenuto più attendibile, non appaiono convincenti per dimostrare la legittimità dell’atto impositivo”.

Queste argomentazioni del Collegio di prime cure hanno trovato concordi i giudici regionali, secondo i quali, nel caso di specie, “mentre dagli atti risulta che la parte abbia profuso dati ed argomenti, l’Ufficio ha identificato nella mera applicazione dello studio di settore più evoluto GU66U l’operazione di concreto adattamento alla specifica realtà aziendale”. Inoltre, una volta instauratasi la controversia, l’Ufficio ha replicato che “se è vero, infatti, che l’Ufficio deve valutare ulteriori elementi rispetto alle risultanze degli studi di settore, per rapportare il calcolo alla realtà del singolo contribuente, è anche vero che tale analisi potrà essere fatta se e solo se il contribuente stesso fornisce tali elementi, supportati da idonei mezzi di prova e dovrà essere basata proprio su quanto da questi esposto”; ma per la CTR un simile assuntocostituisce una curiosa inversione dell’onere della prova: se il ripetuto insegnamento della Cassazione pretende che le risultanze dell’applicazione di uno studio di settore pertinente siano corroborate da altre prove con onere a carico dell’Ufficio, questo non può cavarsela sostenendo ‘non ho potuto addurre le prove ulteriori perché il contribuente non ha fornito gli elementi, supportati dalle prove, che mi avrebbero consentito di arricchire le risultanze dello studio di settore applicato’”.

La CTR conclude dicendo: “non si ritiene ricorrano gravità e persistenza del disallineamento per rafforzare la presunzione derivante dalla mera applicazione dello studio di settore (pure contestato). Per converso si ritiene carente l’indagine dell’Ufficio circa la concreta applicazione delle risultanze dello studio di settore alla realtà gestionale ed organizzativa della società accertata, nonché al particolare mercato in cui essa opera”.

L’Ufficio finanziario paga le spese processuali.

Autore: redazione fiscal focus