Archivi categoria: Giurispudenza

La delega “in bianco” blocca l’accertamento

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Sentenza della CTP di Caserta che fa proprio il più recente orientamento della SC in materia di sottoscrizione degli atti di accertamento

La Sezione Tributaria della Cassazione con le sentenze n. 22810 e 22803 del 9 novembre 2015 ha enunciato importanti principi in tema di sottoscrizione degli avvisi di accertamento. Per la Suprema Corte, se da un lato sono validi gli atti sottoscritti dai funzionari delle Agenzie fiscali decaduti dall’incarico dirigenziale per effetto della sentenza n. 37/2015 della Corte costituzionale, dall’altro deve ritenersi affetto da nullità l’avviso di accertamento firmato sulla base di una delega “in bianco”, cioè priva del nominativo del soggetto delegato dal capo dell’ufficio.

In Cass. n. 22810/2015 si legge che l’art. 42 del D.P.R. 600/73 impone sotto pena di nullità che l’atto sia sottoscritto dal “capo dell’ufficio” o “da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato e che la norma quindi non richiede che il capo dell’ufficio o il funzionario delegato abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale. E allora, essendo la materia tributaria governata dal principio di tassatività delle cause di nullità degli atti fiscali e non occorrendo, ai meri fini della validità di tali atti, che i funzionari (delegati o deleganti) possiedano qualifiche dirigenziali, ne consegue che la sorte degli atti impositivi formati anteriormente alla sentenza della Corte costituzionale n. 37/2015, sottoscritti da soggetti al momento rivestenti funzioni di capo dell’ufficio, ovvero da funzionari della carriera direttiva appositamente delegati, e dunque da soggetti idonei ai sensi dell’art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973, non è condizionata dalla validità o meno della qualifica dirigenziale attribuita per effetto della censurata disposizione di cui art. 8, 24° comma, del D.L. n. 16/2012.

In Cass. 22803/15, invece, si precisa che non è decisiva la modalità di attribuzione della delega di firma – che può essere conferita o con atto proprio o con ordine di servizio – purché vengano indicate:

  • le ragioni della delega (ad esempio carenza di personale, assenza, vacanza o malattia)
  • il termine di validità
  • il nominativo del soggetto delegato.

Conseguentemente deve essere considerata nulla la cosiddetta delega in bianco (priva del nominativo soggetto delegato)non essendo possibile verificare agevolmente da parte del contribuente se il delegatario avesse il potere di sottoscrivere l’atto impugnato e non essendo ragionevole attribuire al contribuente una tale indagine amministrativa al fine di verificare la legittimità dell’atto”.

Ebbene, questi principi hanno trovato immediata applicazione presso i giudici di merito. È il caso della CTP di Caserta che, con la sentenza n. 7443/14/15 (pubblicata l’11 novembre), ha annullato alcuni avvisi di accertamento per imposte (Irpef, Iva, Irap per il 2008) avendo rilevato il difetto di sottoscrizione lamentato in ricorso dal contribuente.

Nel caso di specie è risultato che gli atti impugnati non erano stati sottoscritti dal Capo dall’Ufficio ma un funzionario che, per effetto della sentenza n. 37/15 della Consulta, era decaduto dalla posizione di dirigente. Alla luce dell’interpretazione secondo la quale l’art. 42 del D.P.R. 600 non richiede la qualifica di dirigente in capo al soggetto che ha apposto la firma, per la CTP di Caserta si è trattato di indagare se il soggetto sottoscrittore fosse o meno in possesso di una valida delega di firma. Profilo che ha portato all’accoglimento del ricorso del contribuente, posto che l’Amministrazione non ha provato, com’era suo onere, che il soggetto sottoscrittore fosse munito di una delega “non in bianco”, bensì con la precisa indicazione del funzionario legittimato a firmare l’atto.

La CTP osserva, per un verso, che “per la sottoscrizione degli atti impositivi non è richiesto da alcuna norma, tanto più a pena di nullità, che il soggetto apponente la firma sia un dirigente, essendo sufficiente che costui sia il capo dell’ufficio o un funzionario, delegato da questi, appartenente alla terza area”, e per l’altro che, “in buona sostanza, ai fini di un valido conferimento, la delega deve contenere le ragioni e le cause che l’hanno resa necessaria, il termine di validità, il nominativo del delegato. Orbene, nessuna prova, in questa fase di giudizio, viene offerta da parte resistente, per cui l’atto tributario deve ritenersi nullo per difetto di sottoscrizione”.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Avviso all’amministratore di fatto. No all’impugnazione

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Una decisione della CTP di Frosinone

Il presunto amministratore “di fatto” non è legittimato a impugnare l’avviso d’accertamento per maggiori imposte emesso a carico della società. È quanto emerge dalla sentenza n. 764/03/15 della Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone.

La controversia è originata da un avviso di accertamento per maggiori imposte rivolto a una SRL. Poiché l’atto è stato notificato anche al soggetto ritenuto dall’Ufficio finanziario amministratore “di fatto”, questi ha proposto impugnazione davanti alla competente CTP di Frosinone che, però, l’ha respinta richiamando i principi enunciati dalla Cassazione con riguardo a un caso similare.

Per il collegio frusinate, la notifica degli avvisi di accertamento oggetto di controversia è stata eseguita non già per estendere al presunto amministratore di fatto la pretesa tributaria – atteso che soggetto accertato era solo la società -, ma solo in considerazione del ruolo pregnante che, a giudizio degli accertatori, egli continuava ad avere anche dopo la formale uscita dalla compagine sociale e dalla carica di amministratore; dunque a maggior tutela del contribuente.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 26491/14, così si è espressa: “Preliminarmente va rilevato che soggetto passivo dell’avviso di accertamento è la società, e che l’atto impositivo è stato soltanto notificato allo […] nella qualità di amministratore di fatto. L’originario ricorso innanzi alla Ctp è stato proposto da […] in proprio e non quale legale rappresentante della società, con motivi di censura inerenti peraltro non l’atto impositivo, ma la qualità, a lui attribuita in sede di notifica dell’atto, di amministratore di fatto della medesima. Il ricorrente era quindi privo della legittimazione a proporre in proprio l’impugnazione dell’atto impositivo, indirizzato, come si è visto, alla società e non a lui personalmente. Il conseguente difetto di ‘legitimatio ad causam’ è rilevabile di ufficio anche in sede di legittimità, essendo la Corte di cassazione dotata di poteri officiosi in tutte le ipotesi in cui il processo non poteva essere iniziato o proseguito e dovendo escludersi la formazione del giudicato implicito, per la decisione nel merito della controversia, nei casi in cui vi sia carenza assoluta di ‘potestas iudicandi’ da parte di qualunque giudice (Cass. 4 aprile 2012, n. 5375; 9 febbraio 2012, n. 1912). Alla luce di tutto quanto sopra esposto, decidendo sul ricorso, va dichiarata l’inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio e la sentenza impugnata (sulla quale soltanto può pronunciare questo giudice) va cassata senza rinvio a norma dell’ultima parte dell’art. 382 c.p.c., restando in tal modo travolta anche la sentenza di primo grado”.

E allora la CTP di Frosinone ha concluso per l’inammissibile dell’atto introduttivo del giudizio, con compensazione delle spese processuali.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Raddoppio. Denuncia in tempi stretti

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Una sentenza dei giudici tributari di Napoli

Il raddoppio dei termini per l’accertamento opera solamente ove la denuncia di reato sia trasmessa alla competente Procura della Repubblica entro la scadenza dei termini ordinari previsti in materia d’imposte dirette e IVA, rispettivamente, dagli articoli 43 D.P.R. 600/73 e 57 del D.P.R. 633/72, e ciò è vero anche per gli atti emessi prima dell’entrata in vigore della disposizioni del D.Lgs. n. 128/2015.
È quanto emerge dalla sentenza n. 22591/14/15 della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli.
Il Collegio giudicante ha accolto il ricorso di una SRL in relazione a un accertamento a fini IRES, IVA e IRAP per il 2006. L’Ufficio ha spiccato i relativi avvisi usufruendo dell’allungamento dei termini per l’accertamento avendo ipotizzato, in capo alla contribuente, il reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000; ma proprio sotto tale profilo l’operato dell’Ufficio è stato delegittimato dai giudici: la denuncia inoltrata all’autorità giudiziaria, come evidenziato dalla società ricorrente, recava la data del 6 dicembre 2012, “data nella quale era già intervenuto il termine di decadenza per l’accertamento d’imposta anno 2006”.
Sul raddoppio dei termini per l’accertamento, la società contribuente ha evidenziato che, anche in presenza di modifiche introdotte dall’art. 2 del D.Lgs. n. 128, l’Ufficio non aveva dato alcuna prova del deposito e/o della trasmissione della ipotesi di reato ex art. 331 c.p.p. alla Procura e che, comunque, era intervenuta la decadenza dal potere impositivo “stante sulla presunta denuncia la data del 7.12.2012 oltre i termini (31.12.2011)”. Ebbene, a riguardo i giudici partenopei scrivono: “[…] la società lamenta una violazione della disciplina del raddoppio dei termini, sotto il duplice profilo: a) della mancata allegazione della denuncia penale (così da comportare anche una violazione dell’articolo 7 dello Statuto del contribuente); b) del mancato inoltro della denuncia penale entro i termini di decadenza dei termini ordinari di accertamento. L’argomento del raddoppio dei termini è stato recentemente oggetto di riforma da parte del legislatore che ha dapprima impartito ordine al governo con la legge delega 11 marzo, n. 23, poi recepita con l’emanazione del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128 che, all’articolo 2, introduce la disposizione per cui il raddoppio non opera qualora la denuncia da parte dell’amministrazione finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di finanza, sia presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria dei termini di cui ai commi precedenti.Sebbene la disposizione normativa non contempli un effetto retroattivo, facendo invece salvi gli effetti degli atti già notificati alla data di entrata in vigore, un filone consistente della giurisprudenza tributaria ha inteso che tale adempimento, l’invio della denuncia entro la scadenza degli ordinari termini d’accertamento, rappresenti un elemento imprescindibile per l’applicazione del raddoppio indipendentemente da una sua esplicitazione normativa. Ciò perché, diversamente opinando, l’utilizzo del raddoppio dei termini si porrebbe come una condizione strumentale, volta unicamente alla riapertura di periodi d’imposta già definiti. In altre parole, il mancato tempestivo inoltro della denuncia penale da parte del pubblico operatore, si dovrebbe leggere come sintomo di un utilizzo strumentale e pretestuoso della disciplina, in contrasto con la ratio perseguita dal legislatore quando ha introdotto il raddoppio termini. In senso conforme si è espressa la CTR di Roma nella richiamata sentenza n. 3571 nei confronti della ricorrente, ma anche CTP di Milano (sentenza n. 4670/26/15), CTP di Bergamo (sentenza n. 266/02/15), CTP di Novara (sentenza n. 24/03/15), solo per citarne alcune. Da ciò consegue che, nel caso di specie, l’accertamento risulta emesso oltre il periodo di decadenza del potere impositivo, in violazione dell’articolo 43 del DPR n. 600/73”.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Accertamento. Quando il fisco sbaglia con il “ricarico”

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Sentenza della Cassazione in tema di accertamento induttivo dei ricavi

Quanto le scritture contabili non presentano irregolarità, l’Ufficio non può contestare maggiori ricavi sol perché il contribuente ha applicato una percentuale di ricarico molto bassa per il settore di appartenenza.

È quanto emerge dalla sentenza n. 22464/15 della Corte di Cassazione – Sezione Tributaria.

Un contribuente, esercente attività di installazione di impianti idraulici e sanitari e di commercio dei relativi articoli, ha ottenuto dalla Cassazione il definitivo annullamento dell’atto impositivo con cui l’Agenzia delle Entrate gli aveva contestato maggiori ricavi, quindi maggiori imposte, in virtù della rettifica con metodo induttivo della dichiarazione dei redditi.

La rettifica, nella specie, è scaturita dall’applicazione di una percentuale di ricarico diversa da quella dichiarata poiché quest’ultima è risultata di oltre 20 volte inferiore a quella di settore.

Nel giudizio dinanzi alla Suprema Corte la difesa erariale ha lamentato la violazione dell’art. 39 del D.P.R. 600/73 e degli artt. 2727 e 2697 C.c., in quanto la CTR, alla luce di un ricarico dichiarato molto basso rispetto al settore di appartenenza, avrebbe dovuto ravvisare una legittima presunzione di maggiori ricavi e quindi non dichiarare l’illegittimità della ripresa.

Ebbene, la Suprema Corte ha respinto la doglianza del fisco avendo ritenuto corretto il ragionamento decisionale del giudice di secondo grado.

In tema di accertamento delle imposte dirette, hanno ricordato i supremi giudici, “per presumere l’esistenza di ricavi superiori a quelli contabilizzati e assoggettati ad imposta, non bastano semplici indizi, ma occorrono circostanze gravi, precise e concordanti. Ne consegue che non è legittima la presunzione di ricavi, maggiori di quelli denunciati, fondata sul raffronto tra prezzi di acquisto e di rivendita operato su alcuni articoli anziché su un inventario generale delle merci da porre a base dell’accertamento, né si rende legittimo il ricorso al sistema della media semplice, anziché a quello della media ponderale, quando tra i vari tipi di merce esiste una notevole differenza di valore ed i tipi più venduti presentano una percentuale di ricarico inferiore a quella risultante dal ricarico medio”.

L’Ufficio ha sostenuto di aver proceduto alla determinazione del ricarico in base alla “media ponderata”, ma la CTR ha messo in luce le numerose falle di questo procedimento.

Il giudice d’appello ha rilevato che la determinazione del ricarico è stata “tutt’altro che puntuale e precisa” per avere l’Ufficio “erroneamente attinto i prezzi di vendita da confrontare con i prezzi di acquisto dalle fatture emesse a carico di enti pubblici; per aver, talvolta, rapportato il prezzo di vendita con Iva al prezzo di acquisto senza l’imposta; per essere ‘troppo disomogenei’ i beni raggruppati per categorie omogenee, in realtà non coerenti, con conseguente troppo elevato scarto fra prezzo minimo e prezzo massimo”; per essere stato falsato, inoltre, il rapporto tra prezzo d’acquisto di oltre 7000 articoli e i prezzi di vendita oltre 2000 articoli; per aver l’Ufficio considerato nei prezzi d’acquisto sconti e abbuoni di competenza dell’anno precedente, e per non aver tenuto conto che nei prezzi di vendita era compresa la posa in opera degli articoli acquistati, con evidente incidenza del costo della mano d’opera sul prezzo di vendita praticato.

A fronte di questi rilievi, la CTR ha giustamente ritenuto inficiato il risultato ottenuto, poi posto a base dell’accertamento impugnato, anche perché, con riguardo all’oggetto dell’attività del contribuente, attività di fatto rappresentata da merci molto disomogenee, non può dirsi legittimo un accertamento che non sia basato sul rigoroso calcolo della media ponderata. Pertanto la CTR ha affermato, trovando l’avallo dei Supremi Giudici, che “in presenza di scritture contabili corrette e quindi non contestate dall’ufficio, il solo rilievo che il contribuente abbia applicato una percentuale di ricarico diversa dal settore di appartenenza non è sufficiente a legittimare una presunzione di maggior reddito, come nel caso di specie”.

L’Agenzia delle entrate è stata condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Autore: redazione fiscal focus

Sequestro in caso di pegno regolare

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

La Cassazione si è pronunciata sul ricorso di una Banca

In tema di reati fiscali, il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, può investire anche i beni costituiti dall’indagato in pegno regolare in favore della Banca, ma in tale ipotesi al giudice è richiesto di operare un bilanciamento fra l’interesse pubblico alla non dispersione definitiva dei beni nella disponibilità dell’indagato e la tutela delle ragioni del terzo creditore estraneo al reato.

È quanto emerge dalla sentenza n. 44010/15 della Terza Sezione Penale della Suprema Corte.

Gli ermellini hanno esaminato il ricorso prodotto da una Banca, nell’ambito di un procedimento a carico di un cliente della stessa, accusato del reato di omesso versamento di IVA ex art. 10-ter D.Lgs. 74/2000.

Precisamente, il ricorso ha avuto a oggetto il provvedimento di sequestro preventivo delle quote di un Fondo per oltre 2milioni e mezzo di euro, quote costituite in pegno regolare dall’indagato.

La gravata decisione del giudice della cautela è stata cassata con rinvio poiché, a giudizio dei supremi giudici, non conforme all’orientamento prevalente in tema di misure cautelari su titoli costituiti dall’indagato in pegno a favore di un istituto di credito.

Le Sezioni Unite Penali della Suprema Corte, con la sentenza n. 9 del 1994 – poi ripresa da pronunce successive (Cass. nn. 47400/2003 e 45400/2008) – hanno chiarito che il sequestro preventivo può avere ad oggetto anche i beni che siano stati costituiti dall’indagato in pegno regolare, e ciò in quanto la disponibilità di questi, da parte del creditore, pur penetrante, non può essere considerata assoluta né esaustiva di tutte le facoltà spettanti al debitore garante, il quale, oltre all’eventuale recupero dell’eccedenza di pegno, può sempre alienare il bene o attivarsi per l’estinzione dell’obbligazione e ottenere la restituzione della eadem res fornita in garanzia. Le S.U. hanno però precisato che “il giudice di merito che dispone la misura può limitare l’estensione del vincolo alle facoltà spettanti al debitore indagato o imputato, lasciando impregiudicate le facoltà di esclusiva pertinenza del creditore pignoratizio estraneo all’illecito penale; ed anzi tale scissione delle rispettive sfere di disponibilità, ai fini di una diversa diversificazione dell’ambito di efficacia del vincolo, è da considerarsi doverosa quando le esigenze cautelari che fondano la misura consistono nel pericolo di commissione di nuovi reati, o di aggravamento di quelli già commessi, derivante soltanto dal comportamento del debitore indagato”.

Pertanto, compete al giudice che sequestra o, in caso di ricorso, al giudice del riesame, valutare se sia il caso di limitare il vincolo per scindere la posizione del creditore rispetto a quella dell’indagato ai fini dell’efficacia della cautela; ragion per cui, nel caso esaminato, non corrisponde all’insegnamento nomofilattico “l’asserto del Tribunale di Trieste per cui comunque è sempre necessario dare prevalenza all’interesse pubblico anche se il terzo ne patisce conseguenze pregiudizievoli. Quello che il giudice deve operare, invero, non è un automatico e totale assoggettamento del terzo all’interesse pubblico, bensì un bilanciamento, per quanto possibile ovvero nella misura ottimale, tra quest’ultimo e l’interesse privato” (si veda Cass. n. 36293/2011).

Autore: redazione fiscal focus

Agenzie fiscali. La Cassazione “salva” gli atti dei dirigenti illegittimi

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 9 novembre 2015

Sono validi ed efficaci gli atti riferibili ai funzionari delle Agenzia delle Entrate ai quali è stato conferito l’incarico dirigenziale senza concorso pubblico. È quanto emerge dalla sentenza n. 22810/15 della Sezione Tributaria della Cassazione che ha affrontato la questione degli effetti della pronuncia della Corte Costituzionale n. 37 del 2015 la quale ha sancito l’illegittimità della norma che ha consentito i ripetuti conferimenti di incarichi dirigenziali ai funzionari delle Agenzia fiscali senza l’indizione di concorsi pubblici.

Nel caso di specie, una società di persone ha invocato la ben nota sentenza della Corte costituzionale nella speranza di ottenere l’annullamento di tre avvisi di accertamento per imposte. Tali atti, infatti, erano stati firmati da un funzionario delegato dal direttore provinciale delle Entrate il quale aveva assunto la posizione dirigenziale senza il superamento delle procedure di accesso alla dirigenza necessarie per legge.

Ebbene, tale doglianza inerente alla “carenza di potere” del soggetto delegante non ha sortito l’effetto sperato. Innanzitutto, il suo esame è rimasto precluso nel giudizio di legittimità trattandosi di eccezione nuova. A tal proposito gli ermellini hanno sostenuto che le forme di invalidità dell’atto tributario, ove anche dal legislatore indicate sotto il nome di nullità, non sono rilevabili d’ufficio, né possono essere fatte valere per la prima volta nel giudizio di cassazione (tra le altre, Cass. n. 18448/2015).

La conversione delle ipotesi di nullità in mezzi di gravame avverso l’atto fiscale è una conseguenza, ha spiegato la S.C., della struttura impugnatoria del processo tributario, che vede la contestazione della pretesa fiscale suscettibile di essere prospettata solo attraverso specifici motivi di impugnazione dell’atto che la esprime. Il giudizio tributario, difatti, è caratterizzato da un meccanismo d’instaurazione di tipo impugnatorio circoscritto alla verifica della legittimità della pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati, e avente un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo di primo grado (Cass. n. 25756/2014).

Dopo questo chiarimento gli ermellini hanno espresso, ai sensi dell’art. 363 cod. proc. civ., i seguenti principi di diritto:

  • In ordine agli avvisi di accertamento in rettifica e agli accertamenti d’ufficio, il d.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, impone sotto pena di nullità che l’atto sia sottoscritto dal “capo dell’ufficio” o “da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”, senza richiedere che il capo dell’ufficio o il funzionario delegato abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale; ciò ancorché una simile qualifica sia eventualmente richiesta da altre disposizioni.
  • In esito alla evoluzione legislativa e ordinamentale, sono impiegati della carriera direttiva, ai sensi della norma appena evocata, i “funzionari di area terza” di cui al contratto del comparto Agenzie fiscali fissato per il quadriennio 2002-2005. In questo senso la norma sopra citata, individua l’agente capace di manifestare la volontà della Amministrazione finanziaria negli atti a rilevanza esterna, identificando quale debba essere la professionalità per legge idonea a emettere quegli atti.
  • Essendo la materia tributaria governata dal principio di tassatività delle cause di nullità degli atti fiscali e non occorrendo, ai meri fini della validità di tali atti, che i funzionari (delegati o deleganti) possiedano qualifiche dirigenziali, ne consegue che la sorte degli atti impositivi formati anteriormente alla sentenza n. 37 del 2015 della Corte costituzionale, sottoscritti da soggetti al momento rivestenti funzioni di capo dell’ufficio, ovvero da funzionari della carriera direttiva appositamente delegati, e dunque da soggetti idonei ai sensi dell’art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973, non è condizionata dalla validità o meno della qualifica dirigenziale attribuita per effetto della censurata disposizione di cui art. 8, 24° comma, del d.l. n. 16 del 2012.
Autore: redazione fiscal focus

Sull’applicabilità del “nuovo” redditometro per il passato

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, ordinanza depositata il 6 novembre 2015

Con disposizione di diritto transitorio, l’art. 22, comma 1, del D.L. n. 78 del 2010 statuisce che le modifiche apportate all’art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 producono effetti “per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto“, ossia per l’accertamento del reddito relativo a periodi d’imposta successivi al 2009.

È quanto ha evidenziato la Sesta Sezione Civile – T della Suprema Corte nell’ordinanza n. 22744/15 con cui è stata rimessa davanti al giudice di secondo grado, in accoglimento del ricorso prodotto dall’Agenzia delle entrate, la causa concernente un avviso di accertamento conseguente alla rettifica, ex art. 38 comma 4 del D.P.R. 600/73, della dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente per l’anno d’imposta 2008.

La Commissione Tributaria Regionale del Veneto aveva parzialmente accolto l’impugnazione del contribuente avendo ritenuto applicabile alla fattispecie, in luogo dei parametri previsti dal D.M. 10 settembre 1992 quelli del D.M. del 24 dicembre 2012 (intervenuto in corso di causa), e ciò in ragione della natura procedimentale delle norme regolamentari e della necessità di applicare la disciplina più favorevole al contribuente.

Ebbene, il ragionamento decisionale della CTR è stato censurato dalla Suprema Corte che ha dato ragione alla difesa erariale in punto di applicabilità del “nuovo redditometro” di cui al D.M. 24/12/2012.

La giurisprudenza di legittimità ha evidenziato “che il richiamo alla retroattività è inconferente, giacché la giurisprudenza della Corte, nell’affermare l’applicabilità degli indici previsti dai decreti ministeriali del 10 settembre e 19 novembre 1992 ai periodi d’imposta precedenti alla loro adozione, non sulla retroattività ha fatto leva, bensì sulla natura procedimentale delle norme dei decreti, che ne comporta l’applicabilità in rapporto al momento dell’accertamento (vedi, fra varie, Cass. 19 aprile 2013, n. 9539)”.

Del pari inconferente è l’invocazione del principio del favor rei, “perché l’applicazione di tale principio è predicabile unicamente al cospetto di norme sanzionatorie, non già allorquando si tratti dei poteri di accertamento oppure della formazione della prova, che sono appunto i piani coinvolti dal redditometro. Ed ancor prima, ad ogni modo, va rilevato che la questione su quale sia la norma applicabile è questione di diritto intertemporale che, appunto, va a identificare, nella successione fra più norme, quella da dover applicare; ma il diritto intertemporale necessariamente recede a fronte di esplicita previsione di diritto transitorio, che esso stesso identifica la norma applicabile. E nel nostro caso, con disposizione di diritto transitorio, il D.L. n. 78 del 2010, art. 22, comma 1, statuisce che le modifiche apportate al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, producono effetti ‘per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto’, ossia per l’accertamento del reddito relativo a periodi d’imposta successivi al 2009 (Cass. n. 21041 del 06/10/2014)”.

Di questi rilievi dovrà ora tenere conto il giudice del rinvio.

Autore: redazione fiscal focus

Cartella dopo controllo formale: la motivazione dev’essere chiara

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

In tema di controllo formale della dichiarazione dei redditi, è nulla la cartella di pagamento dalla quale non si evincono le ragioni logico-giuridiche che hanno portato l’Ufficio accertatore a iscrivere a ruolo gli importi asseritamente dovuti dal contribuente.

È quanto emerge dalla sentenza n. 22489/15 della Corte di Cassazione – Sezione Tributaria.

La controversia ha riguardato una cartella di pagamento emessa nei confronti di un contribuente, a seguito del controllo formale, ex art. 36 ter D.P.R. 600/73, della dichiarazione dei redditi per l’anno d’imposta 2002.

L’Ufficio finanziario ha avuto da ridire sulle somme portate in deduzione/detrazione relativamente all’assegno divorzile e al figlio a carico.

La CTR della Lombardia ha annullato la ripresa avendo ritenuto, da un lato, il vizio di motivazione, dall’altro lato, che l’indagine interpretativa compiuta dall’Ufficio erariale non rientrasse nell’attività propria del controllo formale ex art. 36 ter del D.P.R. 600, poiché esso attiene alla correzione di errori materiali e di calcolo, cosicché si sarebbe dovuto procedere con l’emissione di un avviso di accertamento.

Il giudizio di cassazione intrapreso dal fisco è terminato con la conferma della statuizione pro-contribuente pronunciata dalla CTR meneghina.

Quanto al vizio di motivazione, l’Ufficio ha difeso il proprio operato evidenziando come al contribuente fosse stata inviata, prima della cartella di pagamento, la comunicazione ai sensi del comma 4 dell’art. 36 ter. Pertanto, dalla considerazione congiunta dei due atti si sarebbero potuti tranquillamente evincere i motivi della ripresa.

Ebbene, la Suprema Corte non si è potuta pronunciare circa la fondatezza o meno della tesi erariale perché nel ricorso di legittimità è stato trascritto solo il contenuto della comunicazione riguardante l’esito del controllo e non anche quello della cartella esattoriale.

Gli ermellini scrivono: “non essendo stato descritto il contenuto della cartella, al fine di verificare, quanto meno, la presenza di un rinvio alla ragioni espresse dall’Ufficio nella previa comunicazione ex art. 36 comma 4, questa Corte non è messa in grado di vagliare la fondatezza del motivo. Peraltro la CTR ha affermato che, dall’esame della cartella, non emerge quale sia stato l’iter logico-giuridico che ha determinato l’Ufficio accertatore ad iscrivere a ruolo gli importi asseritamente dovuti dal contribuente”. Pertanto il gravame dell’Ufficio è stato rigettato, con addebito delle spese del grado.

Nell’occasione, la Sezione Tributaria del Palazzaccio ha ribadito che la cartella di pagamento deve essere preceduta dalla comunicazione dell’esito del controllo ex art. 36-ter del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, a pena di nullità, poiché tale comunicazione assolve a una funzione di garanzia e realizza la necessaria interlocuzione tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente prima dell’iscrizione al ruolo. Al comma 4 del citato articolo è previsto che l’esito del controllo formale è comunicato al contribuente o al sostituto d’imposta con l’indicazione dei motivi che hanno dato luogo alla rettifica degli imponibili e delle ritenute alla fonte, e ciò per consentire anche la segnalazione di eventuali dati ed elementi non considerati o valutati in sede di controllo formale. La procedura prevista dall’art. 36 ter del D.P.R. n. 600/73, infatti, diversamente da quella delineata nell’art. 36 bis, si connota per l’effettuazione di controlli su dati e documenti esterni rispetto al mero contenuto cartolare della dichiarazione, che si risolvono sovente nell’accertare la veridicità di quanto in essa riportato e non la mera sussistenza di errori di calcolo o di omissioni. La previa comunicazione d’irregolarità rappresenta, quindi, un atto amministrativo istruttorio e relativo a somme non ancora iscritte a ruolo.

Autore: redazione fiscal focus

Niente IRAP per il promotore con collaboratore familiare

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

In tema imposta regionale sulle attività produttive, l’ausilio di un collaboratore familiare non è elemento di per sé idoneo a configurare l’autonoma organizzazione, quindi non determina l’assoggettabilità a IRAP dei redditi di un lavoratore autonomo.

È quanto emerge dalla sentenza n. 8008/04/15 della Commissione Tributaria Provinciale di Catania.

Il collegio etneoha accolto il ricorso di un promotore finanziario avverso il silenzio/rifiuto formatosi sulla sua istanza di rimborso di quanto versato a titolo di IRAP per quattro annualità d’imposta. Il contribuente, forte della giurisprudenza in materia (su tutte C. Cost. n. 156/2001), ha evidenziato di avere svolto, negli anni considerati, l’attività in assenza di un’organizzazione di capitale o lavoro altrui.

Ebbene, l’adita CTP di Catania ha ritenuto illegittimo il diniego dell’Agenzia delle Entrate.

La pretesa del promotore finanziario si è fondata sulla sentenza n. 156/2001 della Corte costituzionale secondo cui, a differenza di quanto avviene per l’attività imprenditoriale, l’IRAP non di applica indistintamente a tutti i professionisti e lavoratori autonomi, ma solo a quelli che operano con un’organizzazione di capitale o lavoro altrui.

Il concetto enunciato dalla Consulta è stato ribadito e chiarito dalla Corte di Cassazione; per esempio, dalla sentenza n. 22592 del 2012 che afferma: “È infatti principio consolidato che, in tema di Irap, l’esistenza di un’autonoma organizzazione, che costituisce il presupposto per l’assoggettamento a imposizione dei soggetti esercenti arti e professioni, postula che l’attività abituale e autonoma del professionista si avvalga di un’organizzazione dotata di un minimo di autonomia che potenzi e accresca l’attività produttiva”.

Nella fattispecie in esame, secondo i giudici tributari catanesi, a fronte delle affermazioni del contribuente, l’Ufficio non ha fornito alcuna prova del fatto che lo studio professionale fosse dotato di un’organizzazione autonoma, né sono stati indicati gli elementi in cui si sarebbe articolata tale organizzazione. “Al contrario” – si legge in sentenza – “il ricorrente ha prodotto due comunicazioni dell’Agenzia delle entrate da cui risulta che: 1) per gli anni d’imposta 2008 e 2009, l’ufficio ha riconosciuto la mancanza di un’autonoma organizzazione, e quindi l’esonero dall’Irap; 2) per gli anni 2006 e 2007 ha negato tale esonero, basandolo però sull’esistenza di un collaboratore familiare. Francamente l’ausilio di un solo collaboratore familiare appare troppo poco perché possa configurarsi quell’organizzazione dotata di un minimo di autonomia potenzi e accresca l’attività produttiva […]”.

Quanto all’argomento del fisco fondato sull’esistenza di elementi negativi, da 40mila a 60mila euro all’anno, la CTP ha rilevato che nelle dichiarazioni dei redditi relative agli anni in contestazione, il ricorrente ha precisato che si trattava di spese prevalentemente afferenti alle trasferte che lui effettuava di continuo sul territorio nazionale al fine di promuovere la sua attività.

In conclusione, la Commissione catanese di primo grado ha accolto il ricorso del promotore finanziario, cui spetta il rimborso di quanto richiesto (con gli interessi).

Autore: redazione fiscal focus

IRAP. Quando all’ingegnere spetta il rimborso

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 4 novembre 2015

Svolgere l’attività senza il controllo e il coordinamento di terzi non legittima, di per sé, l’assoggettabilità all’IRAP dei redditi professionali. È quanto emerge dalla sentenza n. 22468/15 della Corte di Cassazione – Sezione Tributaria.

In Cassazione è approdato il caso di un ingegnere che ha chiesto all’Agenzia delle Entrate – ma senza fortuna – il rimborso di quanto versato a titolo di IRAP per gli anni dal 2000-2003.

Il silenzio-rifiuto dell’amministrazione è divenuto oggetto d’impugnazione davanti ai giudici tributari pugliesi, i quali si sono espressi per ben due volte a favore dell’Agenzia. Di qui il ricorso di legittimità nel quale l’ingegnere ha ribadito di aver svolto, negli anni considerati, la propria attività privo dell’ausilio di dipendenti e senza beni strumentali consistenti (come risultante dal quadro RE e dal registro dei beni ammortizzabili), quindi in assenza del presupposto impositivo consistente nella presenza di un’autonoma organizzazione.

Ebbene, la Suprema Corte ha disposto l’annullamento del verdetto pro-fisco pronunciato dalla CTR della Puglia, avendo questo Giudice fatto discendere la sussistenza dell’automa organizzazione dal mero svolgimento dell’attività professionale in questione “senza il controllo e il coordinamento di terzi”.

La Commissione pugliese ha ravvisato il requisito dell’autonoma organizzazione in virtù della capacità del ricorrente di “porre in essere scelte autonome di organizzazione di lavoro rispetto al mondo esterno”. Per la suprema Corte, però, si tratta di una conclusione che non soddisfa il principio per cui l’IRAPcoinvolge una capacità produttiva impersonale e aggiuntiva rispetto a quella propria del professionista e colpisce un reddito che contenga una parte aggiuntiva di profitto, derivante da una struttura organizzativa ‘esterna’, cioè da un complesso di fattori che, per numero, importanza e valore economico, sono suscettibili di creare un valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al know-how del professionista (dal lavoro di collaboratori e dipendenti, dal numero e grado di sofisticazione dei supporti tecnici e logistici, dalle prestazioni di terzi, da forme di finanziamento diretto e indiretto etc.), cosicché è il surplus di attività agevolata dalla struttura organizzativa che coadiuva ed integra il professionista a essere interessato all’imposizione che colpisce l’incremento potenziale, o quid pluris, realizzabile rispetto alla produttività auto organizzata del solo lavoro personale”.

Ebbene, ad avviso dei giudici del Palazzaccio la CTR ha erroneamente rinvenutola sussistenza della autonoma organizzazione nella attività svolta “in totale discrezionalità, senza soggiacere a limitazioni, condizionamenti e controlli formalmente e legittimamente imposti da altri soggetti che ne deteriorino l’intrinseca natura”, ritenendo soggetto d’imposta il ricorrente, “in quanto non emergente dagli atti la presenza degli indicati limiti e condizionamenti, affermando altresì, senza alcun concreto riferimento agli atti del giudizio, ‘che l’attività di ingegnere viene esercitata dal ricorrente con apprezzabile ed autonoma struttura organizzativa’”.

E allora la CTR dovrà riesaminare il caso tenendo bene a mente i rilievi della Suprema Corte.

Autore: redazione fiscal focus

Dichiarazione emendabile in giudizio

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, ordinanza depositata il 3 novembre 2015

La dichiarazione dei redditi è emendabile anche in sede contenziosa. Lo ha ribadito la Corte Cassazione (Sez. 6-T) nell’ordinanza 22443/15, pubblicata ieri.

A giudizio della Suprema Corte, la dichiarazione è ritrattabile anche in sede contenziosa, “quando dalla medesima possa derivare l’assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della legge, devono restare a suo carico”.

Il contribuente ha quindi la possibilità di emendare la dichiarazione dei redditi anche oltre il termine previsto per l’integrazione della stessa – fissato in quello prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo dal D.P.R. 322/98 (articolo 2, comma 8 bis) – anche se “solo nell’ipotesi in cui si tratti di correzione di errori o omissioni di carattere meramente formale, che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito, o comunque di un maggior debito d’imposta”.

Di questi principi, secondo la Sesta Sezione del Palazzaccio, non ha fatto buongoverno l’impugnata sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania.

È stato pertanto accolto il ricorso del contribuente che aveva lamentato il vizio di violazione di legge per avere il giudice di secondo grado confermato la legittimità della cartella di pagamento oggetto di controversia.

A detta della CTR, la dichiarazione integrativa (ex art. 8-bis, D.P.R. n. 322/98) finalizzata alla correzione di alcuni errori commessi nella compilazione, doveva intervenire entro il termine di presentazione della dichiarazione per il periodo d’imposta successivo. Gli ermellini, però, non hanno condiviso tale assunto, poiché il termine annuale per la dichiarazione integrativa non esplica alcun effetto sul procedimento contenzioso instaurato dal contribuente per contestare la pretesa tributaria – quand’anche fondata su elementi o dichiarazioni forniti dal contribuente medesimo.

Il diverso piano sul quale operano le norme in materia di accertamento e riscossione, rispetto a quelle che governano il processo tributario, nonché il principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.) comportano l’inapplicabilità, in sede processuale, di decadenze relative alla sola fase amministrativa (v. Cass. n. 10775/2015).

La parola, concludendo, è tornata al giudice di secondo grado.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Iscrizione d’ipoteca. Asseverazione della comunicazione da parte di Equitalia

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Sono validi agli effetti della procedura di riscossione dei tributi i certificati, le visure e qualsiasi atto e documento amministrativo rilasciati, tramite sistemi informatici o telematici, al concessionario del servizio della riscossione dei tributi qualora contengano apposita asseverazione del predetto concessionario della loro provenienza.

È quanto ha ricordato la Commissione Tributaria Regionale della Calabria nella sentenza n. 1379/01/15.
La Commissione di primo grado ha respinto il ricorso del contribuente confermando, per l’effetto, l’impugnato provvedimento d’iscrizione d’ipotecaria. Nel successivo giudizio d’appello il contribuente ha lamentato l’erroneità della decisione di prime cure perché l’impugnazione era stata dichiarata inammissibile senza considerare che la documentazione attestante la notifica della comunicazione di avvenuta iscrizione d’ipoteca era stata prodotta da Equitalia in copia semplice, non avente alcun valore probatorio.
Ebbene, anche il giudizio d’appello si è chiuso in senso favorevole al concessionario, alla stregua delle seguenti osservazioni.
La CTR catanzarese ha ritenuto la regolarità della comunicazione di avvenuta iscrizione ipotecaria perché questo documento è stato prodotto da Equitalia nel giudizio di primo grado “in copia conforme all’originale, siccome contenente apposita asseverazione del predetto concessionario della sua provenienza (v. attestazione di conformità all’originale – sottoscritta dall’agente di riscossione – sulla comunicazione di avvenuta iscrizione ipotecaria, sull’allegato dettaglio degli addebiti e sull’avviso di ricevimento in data [omissis], prodotta da Equitalia con allegazione al fascicolo di primo grado)”.
L’attestazione di conformità, apposta dall’agente della riscossione sulla copia dei documenti prodotti, attribuisce agli stessi la stessa efficacia degli originali, atteso che tale potere è espressamente previsto dall’art. 5, comma 5, D.Lgs. n. 669/96, che recita: “Sono validi agli effetti della procedura di riscossione dei tributi i certificati, le visure e qualsiasi atto e documento amministrativo rilasciati, tramite sistemi informatici o telematici, al concessionario del servizio della riscossione dei tributi qualora contengano apposita asseverazione del predetto concessionario della loro provenienza”.
E allora la CTR ha ritenuto l’appello del contribuente meritevole di rigetto “in quanto il ricorso di primo grado proposto dal contribuente porta la data del 13/04/2011, dalla regolare notifica della comunicazione di avvenuta iscrizione ipotecaria”.
Il soccombente paga le spese del giudizio.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Omesso versamento di IVA. La crisi economica non salva dal reato

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 29 ottobre 2015

Non risponde del reato di omessa IVA il legale rappresentante di società che, in presenza di una crisi di liquidità dell’impresa, ha fatto tutto quanto era in suo potere per reperire le risorse necessarie a far fronte all’obbligazione tributaria non essendovi tuttavia riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e comunque a lui non imputabili.

È quanto si ricava dalla sentenza n. 43599/15 della Corte di Cassazione – Terza Sezione Penale.

Gli ermellini, nel confermare il verdetto di condanna per il reato di cui all’art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000 pronunciato dalla Corte d’appello nei confronti del legale rappresentante di una società cooperativa, ha sostenuto che l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a “forza maggiore” solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio.

Nel caso in esame, l’imputato ha ammesso che i mancati accontamenti dell’IVA erano risalenti a un’epoca precedente alla data di assunzione della carica societaria e ha pure rivendicato di aver optato per il mancato versamento dell’imposta per una sua scelta imprenditoriale. Ebbene, tanto è bastato agli ermellini per ritenere sussistente la responsabilità del ricorrente.

Nella sentenza 43599/15 si legge: “la consapevolezza dell’attuale stato di dissesto dell’impresa comporta l’accettazione delle relative conseguenze quando, come nel caso in esame, esse siano responsabilmente valutate da chi, subentrando nella carica, dimostra in tal modo di poterne avere il dominio finalistico, anche se si tratta di dissesto imputabile alla precedente gestione. È lo stesso imputato ad affermare di aver chiesto rassicurazioni alla società controllante, unico debitore della cooperativa, affinchè provvedesse a saldare il conto, ma non ha mai dedotto di essersi attivato, pur avendo a disposizione il lungo periodo che lo separava dalla scadenza del termine per il versamento annuale, per cercare di onorare l’impegno alla scadenza; aldilà delle generiche indicazioni sulla crisi finanziaria dell’impresa e della spiegazione delle relative cause, non risultano allegazioni circa richieste di finanziamenti, avvio di ingiunzioni giudiziarie nei confronti del debitore o altre iniziative per cercare di tamponare la mancanza di liquidità. La pura e semplice indicazione di dati macroeconomici dell’impresa non costituisce prova rigorosa dell’assoluta impossibilità di adempiere derivante da causa a lui non imputabile, essendo peraltro principio incontroverso, nella dottrina e nella giurisprudenza civilistica, che la crisi di liquidità salvo casi eccezionali non manda esente da colpa il debitore pecuniario inadempiente”.

Nulla da fare, quindi, per il legale rappresentante della cooperativa, che dovrà pagare le spese processuali e la somma di mille euro in favore della Cassa delle ammende.

Inquilino moroso. Niente fattura per i canoni

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 23 ottobre 2015

Per le locazioni, ai fini IVA, rileva l’incasso del corrispettivo e, pertanto, in caso di morosità del conduttore, la società locatrice non è tenuta a emettere fattura. Diversamente, ai fini dell’imposizione diretta, i canoni vanno dichiarati anche quando non percepiti ed essi non concorrono più alla formazione del reddito d’impresa solamente dopo la risoluzione del contratto e/o convalida di sfratto. Per quanto concerne i canoni maturati per competenza, possono essere dedotti come perdite su crediti se sia dimostrata la certezza della perdita, non essendo a tal fine sufficiente il semplice sfratto o l’accertamento giudiziale della morosità del conduttore.

È quanto ha chiarito, in tema di reddito d’impresa, la Sezione Tributaria della Cassazione con la sentenza 23 ottobre 2015, n. 21621.

Gli ermellini hanno parzialmente accolto il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate nell’ambito di una controversia instaurata da una società che non ha percepito i canoni relativi a un locale commerciale.

La CTR, non facendo distinzione tra imposizione diretta e indiretta, ha ritenuto che la società dovesse dichiarare i canoni solamente al momento del pagamento, mentre per l’Ufficio la società avrebbe dovuto fatturare i canoni maturati a carico dell’inquilino, perché, nelle locazioni commerciali, i locatori sono soggetti a imposizione fiscale secondo il sistema normale del reddito ordinario medio, con conseguente obbligo di dichiarazione e fatturazione.

Ebbene, con riguardo alla dedotta violazione di legge (artt. 109 e 23 – ora 26 – del TUIR e 6 del D.P.R. 633/72), la Suprema Corte ha osservato che “per le locazioni, vere e proprie prestazioni di servizi nell’imposizione indiretta e armonizzata sul valore aggiunto, il momento impositivo coincide con l’incasso del corrispettivo. Perciò, in caso di morosità del conduttore, il locatore non è tenuto a emettere fattura”.

Ai fini dell’imposizione diretta, invece, per le locazioni d’immobili non abitativi, il legislatore tributario ha previsto la regola generale di cui all’art. 23 [ora 26] del TUIR secondo cui i redditi fondiari sono imputati al possessore indipendentemente dalla loro percezione. Sicché anche per il reddito da locazione non è richiesta, ai fini dell’imponibilità del canone, la materiale percezione del provento. Dunque, il relativo canone va dichiarato, anche se non percepito, nella misura in cui risulta dal contratto di locazione fino a quando non intervenga una causa di risoluzione del contratto medesimo. Fra l’altro, la Corte costituzionale, pronunziando sull’art. 23 (ora 26) citato ha ritenuto che il sistema di tassazione delle locazioni non abitative non è irragionevole dato che il locatore può avvalersi di tutti i rimedi apprestati dall’ordinamento per conseguire la risoluzione della locazione in modo da riportare sollecitamente la tassazione dell’imponibile sotto la normale regola del reddito fondiario secondo rendita catastale. Con la risoluzione del contratto e/o la convalida di sfratto, la locazione cessa e i canoni non possono più concorrere alla formazione del reddito d’impresa.

Inoltre, con riferimento ai redditi di società, i canoni maturati per competenza possono essere dedotti come perdite su crediti se sia dimostrata la certezza della perdita, non essendo a tal fine sufficiente il semplice sfratto o l’accertamento giudiziale della morosità del conduttore (v. Cass. nn. 651/12 e 11158/13).

In conclusione la Suprema Corte ha cassato la sentenza della CTR limitatamente alle imposte dirette. Sul punto il giudice del rinvio dovrà applicare i principi enunciati dagli ermellini.

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Dirigenti decaduti. Eccezione proponibile solo col ricorso introduttivo

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 23 ottobre 2015

Nel processo tributario, la nullità dell’avviso di accertamento per il vizio di sottoscrizione non è rilevabile d’ufficio e la relativa questione, se non prospettata nel giudizio di primo grado – o più esattamente nel ricorso introduttivo – non può essere introdotta successivamente. Ciò si deve alle preclusioni che derivano del peculiare regime di carattere impugnatorio del processo tributario.

È quanto ha sostenuto la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione nella sentenza n. 21616/2015.

Gli ermellini hanno deciso il caso di un professionista che ha impugnato un accertamento bancario e che, alla luce della sentenza n. 37/15 della Corte costituzionale, ha dedotto – per la prima volta – nel giudizio di legittimità la mancanza del requisito dirigenziale in capo al funzionario firmatario dell’atto impugnato.

Ebbene, trattandosi di un’eccezione nuova, la Suprema Corte l’ha dichiarata inammissibile.

La questione della nullità dell’impugnato avviso di accertamento per vizio di sottoscrizione, si legge in sentenza, “è stata avanzata dal contribuente, per la prima volta, nel corso dell’odierna discussione orale. Egli invoca gli effetti invalidanti, a suo dire rilevabili anche d’ufficio, della recente declaratoria d’illegittimità costituzionale di taluni strumenti normativi d’inquadramento dirigenziale del personale dell’Agenzia delle entrate. Si ritiene, sul piano processuale, che la pretesa nullità dell’avviso di accertamento per l’asserita carenza dei requisiti (soggettivi) indicati nell’art. 42 d.p.r. 600/1973 e nell’art. 56 d.p.r. 633/1972 non è rilevabile d’ufficio e la relativa questione, se non prospettata nel giudizio di primo grado – o più esattamente nel ricorso introduttivo col passaggio dal d.p.r. 636/1972 al d.lgs. 546/1992 – non può essere introdotta successivamente. Restano, dunque, ferme le preclusioni che derivano del peculiare regime di carattere impugnatorio del processo tributario” (v. Cass. n. 8114/02, n. 13087/03, n. 10802/10).

Nel caso di specie, dunque, la Suprema Corte ha ritenuto il ricorrente decaduto dalla possibilità di eccepire, nel giudizio di cassazione, l’invalidità dell’atto impugnato sotto il nuovo profilo della pretesa carenza dei requisiti dirigenziali in capo al funzionario firmatario.

È già stato chiarito (in Cass. n. 18448/15) che, diversamente da quanto accade nel diritto amministrativo, in materia fiscale opera un regime unitario del vizio dell’atto che deve essere fatto valere nella forma e nel termine di decadenza prevista dall’art. 21 del D.Lgs. n. 546/92. In difetto, il provvedimento diventa incensurabile sul punto.

Il legislatore fiscale, hanno evidenziato i supremi giudici, usa la sanzione della “nullità” in senso a-tecnico, nel senso che la sua reale natura giuridica va intesa come “annullabilità”; e il regime dei vizi degli atti amministrativi (art. 21-septies L. 241/90) non può essere automaticamente esteso in ambito tributario, essendo applicabile solo laddove non sia incompatibile con le norme di diritto che disciplinano il procedimento impositivo.

– Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

TITOLO II – IL PROCESSO
CAPO I – Il procedimento dinanzi alla Commissione Tributaria provinciale
Sezione I – Introduzione del giudizio

Articolo 21 – Termine per la proposizione del ricorso

1. Il ricorso deve essere proposto a pena d’inammissibilità entro sessanta giorni dalla data di notificazione dell’atto impugnato. La notificazione della cartella di pagamento vale anche come notificazione del ruolo.

2. Il ricorso avverso il rifiuto tacito della restituzione di cui all’articolo 19, comma 1, lettera g), può essere proposto dopo il novantesimo giorno dalla domanda di restituzione presentata entro i termini previsti da ciascuna legge d’imposta e fino a quando il diritto alla restituzione non è prescritto. La domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione.

Il computo del termine. Questo articolo fissa al primo comma il termine di decadenza per la proponibilità del ricorso; esso è il tradizionale termine di sessanta giorni dalla notificazione dell’atto impugnato. Tale termine, da computarsi – a norma dell’articolo 2963 C.c. – non tenendo conto del giorno in cui si è ricevuta la notifica ma computando il sessantesimo sino alla mezzanotte, è prorogato al primo giorno feriale successivo se cade in un giorno festivo. Allo stesso modo risulta applicabile la disciplina della sospensione dei termini processuali, fissata dalla L. n. 742/69, che va dal 1° agosto al 15 settembre.

La rimessione in termini. Il generale rinvio alle norme del codice di procedura civile lascia poi ritenere applicabile la disciplina della rimessione in termini di cui all’articolo 184 C.p.c.E’ infatti prevista la possibilità che il giudice possa, appunto, rimettere in termini la parte che dimostri di non aver rispettato gli stessi per causa ad essa non imputabile. A riguardo, comunque, è da ritenersi che un simile strumento troverà modesta e difficoltosa attuazione nell’ambito del processo tributario a causa delle limitazioni probatorie di cui si è detto a commento dell’articolo 7. Uno dei casi che certamente potrebbero costituire valida giustificazione del ritardo è l’ipotesi in cui l’ufficio abbia indicato un termine d’impugnazione errato nell’atto impositivo.

Sempre al primo comma viene, inoltre, specificato che la notificazione della cartella di pagamento vale anche come notificazione del relativo ruolo. Come abbiamo visto in merito all’articolo precedente, infatti, le sorti di questi due atti sono strettamente connesse.

Il comma 2 fissa, invece, il termine d’impugnazione avverso il rifiuto tacito. Trattandosi di un atto che non ha una sua reale esistenza e tanto meno, quindi, una data di notificazione da utilizzare come giorno da cui computare i termini per la proposizione del ricorso, il Legislatore si è preoccupato di fissare anzitutto il dies a quo.

Dies a quo. La norma dice, infatti, che il ricorso può essere presentato dopo il novantesimo giorno dalla data di presentazione dell’istanza di restituzione che, a sua volta, deve essere presentata entro i termini previsti da ciascuna legge d’imposta ovvero, in mancanza di esplicita previsione normativa, entro due anni dal pagamento. Il comma 2 si chiude con la previsione di un ulteriore termine di presentazione della domanda di restituzione. Qualora, infatti, il presupposto per la restituzione si verifichi (ad esempio a seguito di una decisione giurisdizionale, come è avvenuto per il caso delle tasse di concessione governativa sulle società) dopo il trascorrere dei due anni dal pagamento, il termine comincia a decorrere da quest’ultimo momento.

Dies ad quem. Il dies ad quem, il termine ultimo cioè entro il quale proporre il ricorso, corrisponde, invece, al termine prescrizionale del diritto alla restituzione che, in assenza di specifiche disposizioni, è quello di dieci anni.

Inammissibilità ed inefficacia. L’inosservanza di questo ultimo termine comporta inequivocabilmente la inammissibilità del ricorso. Invece, la eventuale proposizione dello stesso prima dello scadere del novantesimo giorno (dies a quo per il ricorso avverso il rifiuto tacito), quando cioè il silenzio rifiuto non si è ancora formato quale atto impugnabile, è causa di dibattito tra i commentatori. Alcuni ritengono, infatti, che in tale ipotesi il ricorso sia inammissibile (cfr. CTC 25.7.87, n. 5901); altri, come chi scrive, lo ritengono, invece, ammissibile ma semplicemente inefficace sino allo scadere del novantesimo giorno (cfr.CTC 29.3.85, n. 3128, CTC 5.5.92, n. 3284).

Reati fiscali. La banca può chiedere il dissequestro del saldo attivo del C/c

Cassazione Penale, sentenza depositata il 22 ottobre 2015

Il pegno irregolare attribuisce il diritto di proprietà sul saldo attivo del conto corrente bancario e quindi l’istituto di credito, nel procedimento a carico del presunto evasore fiscale, è legittimato a chiedere il dissequestro delle somme. 
È quanto emerge dall’interessantissima sentenza n. 42464/15 della Terza Sezione Penale della Suprema Corte.

Gli ermellini hanno ribadito che il pegno irregolare, in tema di anticipazione bancaria, risponde a uno schema negoziale di portata generale ed è accomunabile al pegno c.d. regolare (artt. 2784 C.c. e ss.) sia per il profilo strutturale della natura reale del contratto sia per il profilo funzionale della condivisa causa di garanzia. Il pegno irregolare, però, è connotato da una sua specificità di contenuto e di effetti. L’effetto reale, che nel pegno regolare si esaurisce nella creazione di un diritto su cosa altrui opponibile “erga omnes”, assume, invece, nel pegno irregolare la più ampia valenza di un vero e proprio trasferimento di proprietà delle cose attribuite in garanzia. Inoltre, l’obbligazione restitutoria gravante sul creditore, concerne l’equivalente di quanto ricevuto in garanzia, mentre nel pegno regolare ha a oggetto la medesima cosa di cui egli ha avuto temporaneamente la detenzione.

In sintesi, il pegno irregolare può essere definito come il contratto con cui il garante consegna e attribuisce in proprietà al creditore denaro o beni aventi un prezzo corrente di mercato, e perciò reputati fungibili con il denaro, dei quali colui che riceve deve restituire l’equivalente solo se e quando interviene l’adempimento dell’obbligazione garantita; altrimenti, l’obbligazione restitutoria attiene all’eventuale eccedenza del valore dei beni trasferiti in proprietà rispetto al valore della prestazione garantita rimasta inadempiuta.
Il contratto di pegno irregolare, di conseguenza, non elimina il diritto della Banca a pretendere l’adempimento, quanto piuttosto esaurisce “in limine” l’interesse del creditore a percorrere la via dell’esecuzione forzata, essendo anticipato con lo strumento negoziale l’effetto finale della tutela processuale.

Da quanto sopra esposto deriva, per gli ermellini, che il sequestro penale presso il creditore di beni costituiti dall’indagato-debitore in pegno irregolare, vincolerebbe a garanzia degli interessi perseguiti con la misura cautelare reale beni non più di proprietà del costituente, non potendo d’altra parte il sequestro presso terzi avere a oggetto crediti puramente eventuali. Pertanto sussiste la legittimazione della Banca a impugnare il sequestro, quale persona giuridica alla quale le cose sono state sequestrate.

Nel caso di specie, il Tribunale dovrà riesaminare l’istanza di dissequestro avanzata dalla Banca riguardo al conto corrente del presunto evasore.

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cartelle. Prescrizione breve

Si applica la prescrizione quinquennale – e non quella decennale – ai crediti portati dalle cartelle di pagamento che non sono state precedute da un atto d’accertamento divenuto definitivo. È quanto emerge dall’ordinanza n. 20213/15 della Corte di Cassazione – Sesta Sezione (T) -, pubblicata l’8 ottobre.

In una controversia per cartelle di pagamento TIA/TARSU, i giudici tributari della Calabria hanno accolto l’impugnazione del contribuente (avverso gli avvisi di mora) sul presupposto che fosse intervenuta la prescrizione quinquennale del potere esattivo dell’imposta, posto che i ruoli risultavano consegnati tardivamente all’esattore, per quanto poi fossero state regolarmente notificate le cartelle.

Dunque la CTP e la CTR hanno ritenuto applicabile al caso di specie il termine di prescrizione di cui all’art. 2948 del Codice civile e non quello stabilito dall’art. 2946, come invece sostenuto dal concessionario della riscossione.

Ebbene, la controversia è approdata in Cassazione dove Equitalia ha subito una definitiva battuta d’arresto.

In motivazione si legge: “premesso che la parte ricorrente ha dato generico conto della sequenza temporale delle intervenute notificazioni delle cartelle di pagamento (sicché, quand’anche volesse considerarsi ciò che si assume in ricorso a proposito di rispetto del termine breve di prescrizione, o meglio del termine decadenziale previsto per la notifica degli atti esattivi, il motivo sarebbe difettoso in punto di autosufficienza), resta comunque che la giurisprudenza che la parte ricorrente ha valorizzato in ricorso a proposito della applicabilità del termine di prescrizione ordinaria è tutta riferibile a titoli di accertamento-condanna (amministrativi o giudiziari) divenuti definitivi, non già invece a cartelle esattive che – se adottate in virtù di procedure che consentono di prescindere dal previo accertamento dell’irretrattabilità e definitività dell’esistenza del titolo – non possono per questo considerarsi rette dall’irretrattabilità e definitività del titolo di accertamento e ripetono la loro legittimità (sotto il profilo della tempestività della procedura di notifica alla parte destinataria) dalla legge che le regola”.

E allora la Suprema Corte conclude dicendo che, “per poter postulare l’applicabilità alla specie di causa del termine di prescrizione decennale”, Equitalia avrebbe dovuto “indicare l’esistenza di un titolo definitivo a pretendere, antecedente all’emissione delle cartelle, di cui non è stata fatta menzione alcune”.

In conseguenza del rigetto del ricorso, il concessionario è stato condannato a pagare un ulteriore somma a titolo di contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, TUSG. Nulla sulle spese.

A cura di Antonio Gigliotti
Autore: Redazione Fiscal Focus

Vizio di sottoscrizione. Non può essere fatto valere in Cassazione

 Cassazione Tributaria, ordinanza del 20 ottobre 2015

Nel giudizio di cassazione non può trovare ingresso l’eccezione riguardante la sottoscrizione dell’avviso d’accertamento: se si tratta di un motivo nuovo, gli ermellini non se ne possono occupare.

È quanto emerge dall’ordinanza 20 ottobre 2015 n. 21307 della Sesta Sezione Civile – T della Suprema Corte.

Gli ermellini hanno esaminato il ricorso di un contribuente romano che ha impugnato un avviso di accertamento sintetico basato sul possesso di più autovetture e di plurime abitazioni principali e secondarie.

Mentre la Commissione di prima istanza ha annullato la ripresa, la Commissione regionale ha ritenuto che il contribuente non avesse assolto all’onere probatorio imposto dall’art. 38 del D.P.R. n. 600/73; il che ha comportato la riforma del verdetto di prime cure. Di poi il ricorso di legittimità del contribuente, cha ha avuto esito felice.

I giudici tributari del Palazzaccio hanno ritenuto viziata la sentenza di seconde cure e pertanto l’hanno cassata, con rinvio alla CTR Lazio (in diversa composizione) per nuovo giudizio.

I supremi giudici, però, hanno dichiarato inammissibili i motivi nuovi formulati dal contribuente con una memoria illustrativa.

Precisamente, con la memoria illustrativa, il ricorrente ha dedotto motivi nuovi a sostegno dell’assunto di invalidità dell’atto impugnato; motivi certamente innovativi, secondo la Suprema Corte, rispetto al contenuto del ricorso per cassazione e dello stesso ricorso introduttivo di primo grado.

Il contribuente cioè ha lamentato, ma solo nell’ultimo grado di giudizio, la carenza del “potere di firma” in capo al sottoscrittore dell’atto oggetto di lite, “siccome incaricato di funzioni dirigenziali e non dirigente a seguito di concorso pubblico”.

Ebbene, i giudici con l’ermellino hanno ritenuto questa nuova contestazione inammissibile e “quand’anche si trattasse, invero, di argomenti deducibili, indipendentemente dalle preclusioni che regolano il rito tributario (artt. 18 e 24; 57 del D.Lgs. n. 546/1992), essi sarebbero stati comunque introdotti in violazione dei principi che regolano il rito in Cassazione, non potendo in nessun caso la Corte apprezzare le circostanze di fatto che costituiscono il presupposto sostanziale degli assunti del contribuente, il cui onere di allegazione e prova in ordine a detti fatti appare comunque manifesto e imprescindibile”.

A cura di Antonio Gigliotti
Autore: Redazione Fiscal Focus

Distruzione scritture. Il furto dell’auto non salva dalla condanna

Distruzione scritture. Il furto dell’auto non salva dalla condanna – Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 19 ottobre 2015

Il reato di occultamento o distruzione delle scritture contabili si configura anche nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria abbia potuto ricostruire induttivamente il reddito d’impresa. La ricostruzione per via presuntiva non è certamente equiparabile a quella realizzabile sulla base della documentazione contabile. 
Inutile, poi, sostenere il furto dell’autovettura, se dalla denuncia all’autorità giudiziaria emerge chiaramente che nel mezzo non erano custodite le scritture obbligatorie ma solo alcune fatture e dei foglietti inerenti all’attività d’impresa.

È quanto emerge dalla sentenza n. 41830/2015 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Gli ermellini hanno rigettato il ricorso proposto da un soggetto accusato di vari reati tra cui quello fiscale previsto dall’art. 10 del D.Lgs. n. 74/2000.

L’uomo non aveva ottemperato alla richiesta dei verificatori di esibire la documentazione contabile dell’azienda, assumendo che fosse stata rubata unitamente all’autovettura di sua proprietà in cui detta documentazione si trovava custodita. Giustificazione questa che in giudizio non ha retto.

Per il giudice dell’appello, che ha ritenuto configurato il reato fiscale in contestazione, i documenti contenuti nel veicolo rubato non erano le scritture contabile obbligatorie, ma semplicemente “varie fatture e foglietti” come affermato dallo stesso imputato nella denuncia presentata all’A.G.

In ogni caso era irrilevante che fosse stato possibile ricostruire il reddito d’impresa, posto che la ricostruzione in via presuntiva non è equiparabile a quella realizzabile sulla base della documentazione contabile non esibita.

Ebbene, la Suprema Corte ha reso definitivo il verdetto di responsabilità pronunciato dal giudice di secondo grado.

La Corte territoriale, con motivazione adeguata secondo gli ermellini, ha ritenuto certa la distruzione o, comunque, l’occultamento delle scritture obbligatorie a opera dell’imputato.

A proposito del furto dell’auto, in particolare, il collegio territoriale ha smontato la tesi difensiva facendo riferimento alla denuncia di furto dalla quale è emerso che all’interno dell’autovettura c’erano solamente – per come dichiarato dall’imprenditore – “varie fatture e fogliettini relativi alla mia attività lavorativa”; quindi documenti che non potevano certo identificarsi con le scritture contabili obbligatorie. A ciò si è aggiunta la constatazione che dopo l’asserita sottrazione da parte di terzi, “non erano state ripristinate” le scritture in questione.

Ma la sentenza di seconde cure, secondo gli ermellini, è pure conforme alla giurisprudenza di legittimità formatasi con riguardo al reato contemplato dall’art. 10 del D.Lgs. n.74/2000: proprio perché la norma intende assicurare la trasparenza fiscale del contribuente, è irrilevante che la ricostruzione delle operazioni non documentate sia effettuata ab externo, attraverso riscontri incrociati, presso i soggetti economici cui si riferiscono quelle operazioni. La norma, infatti, si legge in sentenza, “sarebbe sostanzialmente inutiliter data ove si attribuisse alla solerzia degli accertatori ed alla loro capacità di reperire aliunde elementi di prova una sorta di efficacia sanante dell’illecita condotta dell’imprenditore. Ben difficilmente infatti questa condotta sarebbe sanzionata dal momento che in materia, di regola, in un modo o nell’altro, prima o poi, eventualmente procedendo a controlli incrociati, l’evasione fiscale viene scoperta. Essa per contro, acquista una precisa ragion d’essere anche perché responsabilizza l’imprenditore allorché si interpreta nel senso che la ricostruzione dei redditi e del volume di affari dell’impresa deve poter avvenire con i documenti che il titolare è tenuto a conservare – escluso pertanto qualsiasi riferimento a un impossibilità assoluta di procedere a tale ricostruzione“.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Appello tributario. Fondamentale l’avviso di ricevimento

Bisogna agire con tempestività per ottenere il duplicato della ricevuta postale

L’appello è inammissibile senza la dimostrazione dell’avvenuta notifica alla controparte che ne eccepisce il mancato ricevimento e in assenza di una tempestiva richiesta di un duplicato della cartolina di ritorno all’amministrazione postale. È quanto emerge dalla sentenza n. 19623/2015 della Corte di Cassazione. 
La controversia ha riguardato una società che ha impugnato un avviso di accertamento vincendo la causa in entrambi i giudizi di merito.
Nel giudizio d’appello, in particolare, prima della fissazione dell’udienza di trattazione, la società inviava una lettera sia alla Commissione regionale sia all’Agenzia delle Entrate per far loro presente di non aver mai ricevuto la notificazione dell’atto di appello. Pertanto l’amministrazione chiedeva alla CTR un rinvio per produrre la cartolina di ritorno regolarmente richiesta all’ufficio postale o, in subordine, di essere rimessa in termini per poter rinotificare l’atto.

Poiché il Giudice di seconde cure ha dichiarato inammissibile l’appello, la difesa erariale ha proposto ricorso per cassazione eccependo la violazione di legge per non avere la CTR accolto la richiesta di differimento in attesa del rilascio del duplicato dell’avviso di ricevimento da parte dell’amministrazione postale. Duplicato che poi fu trasmesso all’Agenzia appena dieci giorni dopo l’udienza.
Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto che il fisco si sia mosso troppo tardi perché la richiesta all’ufficio postale del duplicato dell’avviso di ricevimento è avvenuta solamente dopo la segnalazione del contribuente; “dunque”, scrivono gli ermellini, “l’agire del fisco è stato evidentemente intempestivo avendo atteso ben diciotto mesi, dalla spedizione del 22 giugno 2007, prima di verificare la sorte del plico postale e di sincerarsi dell’effettivo perfezionamento della notificazione”.

Il ricorso per cassazione del fisco, pertanto, è stato rigettato alla luce del seguente principio: nell’ipotesi di omessa produzione dell’avviso di ricevimento idoneo a comprovare il perfezionamento della notificazione eseguita a mezzo del servizio postale, non può essere accolta l’istanza di mero rinvio, formulata dalla parte impugnante al fine di provvedere a tale deposito, poiché il differimento d’udienza si porrebbe in manifesta contraddizione con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo stabilito dall’art. 111 Cost. Infatti, l’omessa produzione determina in modo istantaneo e irretrattabile l’effetto dell’inammissibilità dell’impugnazione nonché il consolidamento del diritto della controparte a tale declaratoria. Il tutto è emendabile unicamente offrendo la prova documentale di essersi tempestivamente attivato nel richiedere all’amministrazione postale un duplicato dell’avviso stesso.
L’Agenzia delle Entrate è stata condannata dalla Sezione Tributaria della Corte al pagamento delle spese del giudizio.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Accessi e verifiche. Accettare il pvc senza riserve salva l’accertamento

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 16 ottobre 2015

L’accertamento di maggiori imposte può basarsi unicamente sulle dichiarazioni rese alla Guardia di finanza dall’amministratore unico della società. Se l’amministratore ha sottoscritto il processo verbale di constatazione senza riserve, le sue dichiarazioni valgono come confessione stragiudiziale. 
È quanto emerge dalla sentenza n. 20979/15 della Corte di Cassazione – Sezione Tributaria.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate, secondo cui male aveva fatto la Commissione Tributaria Regionale della Campania ad annullare la ripresa a carico della contribuente – una Srl -, posto che il volume d’affari era stato determinato considerando quale percentuale di ricarico il 20 per cento così come concordato in contraddittorio con l’amministratore unico. L’amministratore aveva pure sottoscritto senza riserve il processo verbale di constatazione.

Ebbene, secondo la Suprema Corte, vale “il principio logico giuridico che l’accettazione da parte del contribuente, in contraddittorio con i verbalizzanti, di una data percentuale di ricarico può essere apprezzata come confessione stragiudiziale risultante proprio dal processo verbale sottoscritto e, quindi, tale da legittimare l’accertamento dell’ufficio (Cass. 5628/1990 e 1286/2004). Così come ogni dichiarazione del legale rappresentante può costituire prova non già indiziaria, ma diretta del maggior imponibile eventualmente accertato nei confronti della società, non bisognevole, come tale, di ulteriori riscontri (Cass. n. 28316/2005, 9320/2003, 7964/1999)”.

Nel caso in esame è stato proprio l’amministratore della società a concordare con i verbalizzati la percentuale di ricarico del 20 per cento e tale dato è stato inserito nel pvc, poi sottoscritto senza riserve; e il pvc costituisce atto fidefacente fino a querela di falso riguardo all’effettività delle operazioni dei verbalizzanti e di quanto accaduto e/o dichiarato alla loro presenza.

E allora per gli ermellini è evidente l’errore del giudice dell’appello: le dichiarazioni rese dall’amministratore unico avrebbero potuto avere carattere decisivo per escludere l’inesistenza di elementi fondativi del ricarico e quindi per ritenere infondata l’impugnazione della contribuente.

La causa, pertanto, è stata rimessa davanti alla CTR della Campania per nuovo giudizio.

Autore: Redazione Fiscal Focus