La società estinte prova a dribblare le pretese a titolo di sanzione

Estendere alle società le soluzioni elaborate con riferimento alla successione delle persone fisiche è utile ma vanno evitate distorsioni applicative.

A partire dal 2010, le sezioni unite della corte di Cassazione hanno a più riprese chiarito che il principio espresso dall’articolo 2495 del codice civile, nella sua formulazione vigente ancora oggi, trova applicazione sia per le società di capitali che per quelle di persone.

Pertanto, al momento della cancellazione di una società dal registro delle imprese, la medesima si estingue, a prescindere dal fatto che residuino rapporti giuridici non esauriti.

I debiti sociali, in particolare, non vengono meno, ma si trasferiscono in capo agli ex soci – sulla scorta di un fenomeno che la giurisprudenza di legittimità ha ricondotto a una successione, seppure sui generis – e, a determinate condizioni stabilite per legge, ai liquidatori, i quali rispondono dei debiti che, per loro colpa, non siano stati soddisfatti prima della chiusura della liquidazione.

Quanto alla posizione degli ex soci, peraltro, occorre distinguere il caso delle società di persone, di quelle di capitali e, per queste ultime, l’evenienza che si tratti di pendenze correlate all’assolvimento delle imposte dirette:
•gli ex soci delle società di persone (illimitatamente responsabili, durante societate) rispondono per intero e in solido tra loro delle pendenze sociali insoddisfatte;
•gli ex soci delle società di capitali, invece, sono ordinariamente tenuti al pagamento dei debiti sociali soltanto entro i limiti di valore di quanto ricevuto in forza del bilancio finale di liquidazione, mentre se i debiti insoddisfatti pertengono alle imposte dirette, i limiti della responsabilità si estendono al valore delle attribuzioni risalenti ai due periodi d’imposta precedenti l’apertura della fase liquidatoria.

Neppure i processi vanno incontro a estinzione per il venire meno della società che vi abbia assunto il ruolo di parte, ma proseguono previa riassunzione a opera o nei confronti degli ex soci; anche in questo caso, la dinamica è del tutto analoga a quella che si pone nei casi di successione a titolo universale nel diritto controverso.

Peraltro, occorre precisare che, per quanto riguarda i giudizi vertenti in materia tributaria, l’estinzione della società contribuente ha effetto soltanto decorsi cinque anni dalla cancellazione della stessa dal Registro delle imprese e il medesimo effetto concerne anche la soggettività dell’ente ai fini dell’eventuale soggezione all’accertamento e alla riscossione; pertanto, l’Amministrazione finanziaria potrà, entro i cinque anni dalla cancellazione, notificare atti impositivi e processuali alla società (sia essa di capitali o di persone) come se la stessa fosse ancora validamente costituita.

Infine, occorre soffermarsi sul destino delle pretese promananti dall’esercizio di poteri sanzionatori; per simili ipotesi, la giurisprudenza della corte di Cassazione è attualmente orientata nel ritenere che le stesse si estinguano con il venir meno dell’ente al quale sono state irrogate, in applicazione del principio, espresso nella materia tributaria dall’articolo 8 del Dlgs 472/1997, per cui le sanzioni non si trasmettono agli eredi di chi abbia commesso l’illecito.

Sennonché, si tratta di una soluzione che potrebbe meritare un ripensamento; ciò, per due distinti ordini di ragioni:
•da un lato, perché, seppure con riferimento a fattispecie diverse, la stessa giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’articolo 8 citato non è suscettibile di applicazione in via analogica;
•dall’altro lato, perché si finirebbe per agevolare ingiustificatamente i partecipanti all’impresa associata, in quanto gli stessi, mediante un procedimento riconducibile alla loro volontà (qual è la messa in liquidazione) potrebbero beneficiare dell’effetto di «purgazione» dalle pretese sanzionatorie di un patrimonio a loro, in ultima analisi, riferibile.

Fonte “Il sole 24 ore”