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Sospensione della riscossione e transazione

L’art. 6, D.Lgs. 24.9.2015, n. 159 ha modificato l’art. 1, L. 11.10.1995, n. 423, prevedendo che la sospensione sia disposta dall’Agenzia delle Entrate territorialmente competente in base al domicilio fiscale del contribuente o del sostituto d’imposta. A tal fine non è più necessario, come richiesto nella previgente disposizione, che il contribuente paghi l’imposta dovuta, essendo sufficiente che dimostri di aver provvisto il professionista delle somme necessarie al versamento omesso, ritardato o insufficiente. Il decreto prevede, altresì, che i termini di prescrizione e decadenza per l’irrogazione delle sanzioni e per la loro riscossione siano sospesi sino al 31.12 dell’anno successivo alla data in cui è divenuto definitivo il provvedimento che conclude il procedimento penale a carico del professionista o il giudizio civile promosso nei suoi confronti. Nel caso in cui il procedimento nei confronti del professionista si concluda con un’assoluzione, l’Ufficio revoca la sospensione e procede alla riscossione delle sanzioni a carico del contribuente (non è più prevista, come nella previgente disposizione, la maggiorazione del 50% delle sanzioni).

Il calo del fatturato di novembre fa slittare anche l’acconto Iva

L’acconto Iva in scadenza il 28 dicembre è prorogato al 16 marzo 2021 per i contribuenti che, nel mese di novembre 2020, hanno subito una diminuzione del fatturato o dei corrispettivi di almeno il 33% rispetto a quelli di novembre 2019. La proroga scatta anche in assenza del calo di fatturato per alcune delle categorie più danneggiate dall’emergenza.
L’articolo 2 del Dl 157/2020 (decreto Ristori-quater) ha previsto la sospensione dei versamenti fiscali che scadono nel mese di dicembre 2020 relativi alle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e assimilato e alle trattenute relative all’addizionale regionale e comunale, all’Iva e ai versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali.
La sospensione riguarda i soggetti esercenti attività di impresa, arte o professione chenel mese di novembre 2020 hanno subito una riduzione del fatturato e dei corrispettivi almeno pari al 33% rispetto al fatturato ed ai corrispettivi del mese di novembre 2019. Anche i contribuenti trimestrali si ritiene debbano eseguire la verifica con riferimento al mese di novembre; il caso, infatti, era stato già affrontato dall’agenzia delle Entrate nella circolare 9/E/2020 con riferimento alla proroga della scadenza del 16 aprile e 16maggio. In quella circostanza, il confronto del fatturato dei mesi di marzo e aprile2020 rispetto agli analoghi mesi del 2019, secondo l’Agenzia andava fatto sulla base dei mesi anche per i trimestrali.
Considerato che la norma reca ora la stessa formulazione, si può giungere alla stessa conclusione.
Per il calcolo del fatturato, è possibile rifarsi alle indicazioni già fornite con la circolare 9/E secondo cui il calcolo del fatturato e dei corrispettivi va eseguito prendendo in riferimento le operazioni effettuate nel periodo (il mese di novembre, in questo caso) che hanno partecipato alla liquidazione periodica, cui vanno sommati i corrispettivi relativi alle operazioni effettuate nello stesso mese non rilevanti ai fini Iva.
Possono invece fruire della proroga anche in assenza di calo di fatturato tre categorie di soggetti:
coloro che esercitano una delle attività sospese dal Dpcm del 3 novembre 2020 (musei, teatri, palestre, eccetera);
soggetti che esercitano le attività di ristorazione e che hanno domicilio fiscale, sede legale o sede operativa in zona arancione e in zona rossa, alla data del 26 novembre2020;
ai soggetti che operano nei settori indicati nell’allegato 2 del Dl 149/2020 (principalmente commercio al dettaglio), alberghi, tour operator e agenzie di viaggio che avevano domicilio fiscale, sede legale e sede operativa in zona rossa alla data del 26 novembre 2020.
Il riferimento alle scadenze del mese di dicembre (e non, invece, del 16 dicembre) ha come conseguenza che risulta sospeso anche il termine per il versamento dell’acconto Iva, la cui scadenza è prevista per il 28 dicembre (essendo il 27 domenica).
L’obbligo di versamento riguarda, in generale, tutti i contribuenti Iva, con eccezione di coloro i quali non sono tenuti a effettuare le liquidazioni periodiche, mensili o trimestrali, e di coloro che non dispongono dei dati su cui si basa il calcolo (ad esempio, chi si trova nel primo anno di attività). Inoltre, l’acconto non è dovuto se l’ammontare non è superiore a 103,29 euro. Imprese e professionisti determinano l’acconto sospeso secondo gli ordinari criteri.
Ai fini del calcolo è possibile scegliere tra tre possibili metodi:
metodo analitico, che prevede il versamento di un acconto pari al 100% dell’imposta dovuta per le operazioni effettuate dal 1° al 20 di dicembre (1°ottobre – 20 dicembre per i trimestrali);
metodo storico, che prevede il versamento di un acconto pari all’88% dell’imposta relativa all’analogo periodo dell’anno precedente;
metodo previsionale, ovvero sulla base delle dell’imposta che sarà dovuta per l’ultimo periodo del 2020.
I versamenti sospesi dovranno essere effettuati entro il 16 marzo 2021, senza applicazione di sanzioni e interessi, in un’unica soluzione o in massimo 4 rate mensili di pari importo.

Niente forfait per l’unico fornitore della partecipata

Il controllo di fatto sulla società non consente di sfruttare la flat tax

L’imprenditore individuale o il professionista, che siano l’unico o il principale fornitore di una società partecipata dai medesimi, possono conseguire il controllo di fatto, con la conseguente inapplicabilità del regime forfettario.

Il caso è stato analizzato dalla risposta a interpello 398/2019 di ieri a un interpello e riguardava un ingegnere, esercente una attività compresa nel codice Ateco 71.12.10 che, al contempo, deteneva una partecipazione pari al 40% in una società di ingegneria esercente attività riconducibile al medesimo codice Ateco. L’istante precisava, inoltre, che il restante 60% era posseduto da un soggetto a lui non legato.

Considerato che la partecipazione del 40% non consentiva al possessore di esercitare alcun tipo di controllo nella società, l’istante riteneva di poter applicare il regime forfettario. Infatti, a norma del comma 57 della legge 190/2014, la partecipazione in una srl ostacola l’applicazione del regime forfettario solo se, congiuntamente, si verificano due requisiti:

il controllo diretto o indiretto della società

e l’esercizio di una attività direttamente o indirettamente riconducibile a quella del contribuente forfettario.

Per verificare il requisito del controllo, si deve far riferimento a quanto disposto dall’articolo 2359 del Codice civile secondo cui sono considerate “controllate” le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria, le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria e le società che sono sotto influenza dominante di un’altra in virtù di particolari vincoli contrattuali.

Nel caso descritto dall’istante non era verificata alcuna di queste condizioni. Tuttavia, l’Agenzia, nella risposta, afferma che, tenuto conto che il soggetto forfettario era probabilmente il principale fornitore della società, tale circostanza integrava il controllo di fatto e, quindi, l’inapplicabilità del regime forfettario.

Nella giornata di ieri l’Agenzia ha poi pubblicato altre due risposte in materia. Con la risposta 399, viene confermato che, nel caso di svolgimento dell’attività prevalentemente nei confronti del datore di lavoro o di colui che lo è stato nei due anni precedenti, la decadenza dal regime forfettario avviene dall’anno successivo.

Nella fattispecie, il contribuente ipotizzava di chiudere la partita Iva entro la fine dell’anno 2019. Ne consegue che il regime forfettario è applicabile nel corrente periodo di imposta poiché la causa ostativa deve essere verificata alla fine del medesimo. Il caso riguardava un perito industriale che, a partire da novembre 2018 aveva iniziato una collaborazione professionale con una società emettendo parcelle verso quest’ultima e che 2019 aveva poi intensificato tale collaborazione per poi essere assunto con contratto di lavoro dipendente, chiudendo così la partita Iva. Si tratta, in effetti, di un percorso virtuoso in cui il forfettario è divenuto un dipendente.

Infine, con la risposta 397 si analizza un caso simile a quello già visto con la risposta 392 (si veda il Sole 24 Ore di ieri).

Imposte da versare anche con il bilancio in bozza

Un tema delicato attiene al rapporto tra versamento delle imposte e approvazione del bilancio: aspetto che va risolto alla luce del combinato disposto delle norme civilistiche e tributarie.
Sotto il primo profilo, il Codice civile dispone che l’assemblea ordinaria per le società di capitali debba essere convocata almeno una volta l’anno, per l’approvazione del bilancio di esercizio, entro il termine stabilito dallo statuto e comunque non superiore a 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale. È peraltro, ammessa la possibilità che – in presenza di determinate circostanze – il bilancio sia approvato entro 180 giorni (cosiddetto temine lungo).
In merito alle situazioni che consentono il ricorso al termine “lungo”, oltre alla necessità di predisporre il bilancio consolidato, la norma fa riferimento a particolari esigenze relative alla struttura e all’oggetto della società: la casistica ha fatto registrare una molteplicità di ipotesi, dalla presenza di sedi secondarie al compimento di operazioni straordinarie, dalla costituzione di patrimoni destinati a specifici affari (articoli 2447-bis e 2447-septies del Codice civile) alla necessità di adeguarsi a nuovi principi contabili (tale conclusione appare confermata da un documento del Cndcec del 16 gennaio 2017).
Come insegna la Cassazione (sentenza 11452/2014), anche ai fini tributari – cioè per verificare se la dichiarazione dei redditi è stata presentata tempestivamente – l’agenzia è chiamata a valutare la ricorrenza nel caso concreto dei motivi che hanno suggerito il differimento del termine di approvazione del bilancio.
Tralasciando gli aspetti meramente civilistici connessi alle vicende descritte, è opportuno descrivere invece gli effetti dei citati termini sugli obblighi tributari, in primis sulla liquidazione delle imposte. Al riguardo rileva innanzitutto l’articolo 17 del Dpr n. 435/2001, in base al quale (nel testo modificato dall’articolo 7-quater, comma 19, del Dl n. 193/2016, con effetto dal 1° gennaio 2017) le società di capitali sono tenute a effettuare il versamento dell’Ires dovuta a saldo in base alla dichiarazione dei redditi, anche nel caso in cui il bilancio non sia stato approvato nei termini previsti dalla legge civilistica. In particolare, qualora il bilancio non sia approvato nel termine stabilito, il versamento dei tributi dev’essere comunque effettuato entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello di scadenza del termine stesso (salvo le rateizzazioni di rito).
Ciò significa che l’omessa approvazione del bilancio non esenta né dall’obbligo di versamento delle imposte, né dalla presentazione della dichiarazione dei redditi. A prescindere dalle cause che hanno condotto alla mancata approvazione, gli amministratori delle società devono comunque adoperarsi per la predisposizione e presentazione della dichiarazione dei redditi sulla base del progetto di bilancio da loro predisposto. Perciò, in assenza di approvazione del bilancio (per le società di capitali) e del rendiconto (per le società di persone), scatta comunque l’obbligo di versamento delle imposte.
In caso contrario, si applicano le sanzioni di cui all’articolo 1, comma 1, del Dlgs n. 471/97. A ciò si aggiungano i riflessi da un lato sotto il profilo della responsabilità individuale degli amministratori, e dall’altro per quanto attiene agli adempimenti inerenti al deposito degli atti presso il Registro delle imprese. Infatti alcuni uffici del Registro ammettono il deposito anche di bilanci non approvati. Ad ogni buon conto, è indispensabile che nel libro delle decisioni dell’organo amministrativo nonché negli atti societari sia “certificato” il contenuto della bozza di bilancio in modo tale da avere un “solido” riferimento oggettivo del contenuto della bozza di bilancio.

Fonte “Il sole 24 ore”

Affitti concordati, la proroga è biennale

Chiarito finalmente il dubbio ventennale: le proroghe dei contratti a canone concordato sono biennali e non triennali. Lo afferma l’articolo 19 bis del Dl 34/2019 (inserito dalla legge di conversione 58/2019).

La legge 431/1998 (articolo 2, comma 3) consente infatti la stipula del contratto cosiddetto a “canone concordato”, tra cui spicca la fattispecie del 3+2.

Tale tipo di contratto consente alle parti di stabilire l’entità del canone entro dati termini, con un massimo e un minimo. Le soglie vengono fissate, a livello locale, dalle organizzazioni della proprietà edilizia con quelle maggiormente rappresentative degli inquilini. In mancanza di accordo locale.

Notevoli e interessanti sono i vantaggi fiscali che discendono per chi opta per tale forma contrattuale, rispetto a quella “di mercato” (il cosidddetto “4+4”). Per il “concordato”, in regime di cedolare secca, l’aliquota è del 10% invece che del 21 per cento. Inoltre, ai fini Imu e Tasi, è possibile beneficiare di una riduzione del 25% della base imponibile.

Il principale problema legato a tale fattispecie contrattuale era, tuttavia, la portata del rinnovo tacito al termine del quinto anno (cioè dopo la prima proroga biennale), a seconda se possa intendersi biennale o triennale.

L’incertezza sulla durata del rinnovo era dovuta all’ambiguità della norma di riferimento che, al comma 5, recita: «Alla scadenza del periodo di proroga biennale ciascuna delle parti ha diritto di attivare la procedura per il rinnovo a nuove condizioni o per la rinuncia al rinnovo del contratto comunicando la propria intenzione con lettera raccomandata da inviare all’altra parte almeno sei mesi prima della scadenza. In mancanza della comunicazione il contratto si rinnova alle medesime condizioni». La stessa giurisprudenza è rimasta sempre spaccata sul tema.

Proprio per di dirimere la querelle è recentemente intervenuto il legislatore: il quale, in sede di conversione del Dl 34/2019 (legge 58/2019), ha inserito l’articolo 19 bis, qualificandolo come «norma di interpretazione autentica in materia di rinnovo dei contratti di locazione a canone agevolato». In forza di essa è stato così stabilito che il quarto periodo del comma 5 dell’articolo 2 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, si interpreta nel senso che, in mancanza della comunicazione ivi prevista, il contratto è rinnovato tacitamente, a ciascuna scadenza, per un ulteriore biennio.

Fonte “Il sole 24 ore”

Start-up innovative, per l’iscrizione al registro basta il controllo formale

Con riguardo all’iscrizione di una società start-up innovativa all’apposita sezione speciale del Registro delle imprese, l’ufficio può esercitare solo un potere di controllo in relazione alla «regolarità formale e completezza della domanda e della documentazione allegata» alla domanda di iscrizione e non può svolgere alcun controllo di merito, a meno che risulti evidente la «carenza nell’oggetto sociale dei caratteri di innovatività ad alto valore tecnologico dei prodotti e/o servizi offerti dall’impresa», che sono i requisiti richiesti dall’articolo 25, comma 2, lettera f), Dl n. 179/2012 affinchè una società possa qualificarsi come start-up innovativa.
È quanto deciso dal giudice del Registro delle imprese presso il Tribunale di Roma con decreto del 5 aprile 2019.
Il caso oggetto di giudizio concerneva un provvedimento di cancellazione d’ufficio dalla sezione speciale delle start-up innovative disposta (ai sensi dell’articolo 2191 del Codice civile) dall’ufficio del Registro delle Imprese in quanto la società in questione aveva deliberato un aumento di capitale da eseguirsi mediante conferimento di crediti (vantati dai soci nei confronti della società stessa), i quali derivavano da un contratto di appalto stipulato dalla start-up innovativa nella qualità di committente e poi ceduti dall’appaltatore ai soci della start-up innovativa.
È pertanto sorto il dubbio che «la peculiarità innovativa e tecnologica dichiarata dalla società», non trovasse un riscontro operativo nella tipologia e descrizione dei lavori che la società, in qualità di appaltatore, avrebbe dovuto realizzare, dal momento che dal «business plan relativo al suddetto contratto di affidamento» non risultava «l’ammontare delle spese in ricerca e sviluppo» che «la start up innovativa avrebbe dichiarato di sostenere».
Il giudice romano, negando la sussistenza dei presupposti per procedere alla cancellazione d’ufficio dell’iscrizione della società in questione nella sezione speciale del Registro delle imprese per le start-up innovative, ha argomentato la sua decisione in base al disposto dell’articolo 25, comma 12, Dl 179/2012, il quale prescrive che la «start-up innovativa è automaticamente iscritta alla sezione speciale del registro delle imprese … a seguito della compilazione e presentazione della domanda». In sostanza, l’automatismo dell’iscrizione conseguente, per legge, alla presentazione della domanda dimostra che «la procedura di iscrizione, ove siano stati rispettati tutti gli adempimenti per la stessa previsti, non implica una valutazione di merito, da parte della camera di commercio, circa le dichiarazioni rese», né implica un’ampia attività istruttoria (come già ricordato dal Mise nel parere n. 169135 del 29 settembre 2014 n. 169135).
In altre parole, il giudice ha osservato che non è rimessa alla competenza dell’ufficio del registro delle imprese, la valutazione del merito delle dichiarazioni presentate dalle aspiranti start-up innovative, «ma solo la verifica della regolarità formale della documentazione presentata: se, cioè, la stessa sia stata sottoscritta dal soggetto legittimato, se la modulistica sia stata compilata correttamente e se siano state rese tutte le dichiarazioni previste.

Fonte “Il sole 24 ore”

Attivazione preventiva dei registratori telematici solo se fatta in tutti i punti vendita

Attivazione preventiva dei registratori telematici (RT) possibile ma contestuale per tutti i punti vendita appartenenti ad un unico soggetto passivo Iva. È questo il chiarimento, non del tutto condivisibile, contenuto nella risposta n. 201 ad interpello  dall’agenzia delle Entrate all’istante, soggetto operante nel settore della grande distribuzione (Gdo), che svolge attività caratteristica di vendita al dettaglio in diversi punti vendita e per il quale l’obbligo di memorizzazione e trasmissione telematica dei corrispettivi decorre dal 1° luglio 2019 (volume d’affari superiore a 400mila euro annui). Sul punto si ricorda che, a pochi mesi dal debutto della fattura elettronica, il nuovo obbligo coinvolgerà tutti i soggetti, con eccezione per i soli casi di esonero, che effettuano le operazioni di cui all’articolo 22 del Dpr 633/1972 e che oggi sono abituati a certificare la propria attività con scontrini e ricevute fiscali.
Entrando nel dettaglio, l’istanza di interpello trae la sua origine dalla peculiare realtà commerciale in cui si trova ad operare il contribuente, basata su un articolato apparato di sistemi informatici e di punti vendita diversamente dislocati sul territorio italiano nonché su una fitta rete di vendita costituita da molteplici punti cassa. Per tale ragione, l’entrata in funzione graduale di tutti i punti vendita, meditata dal contribuente, avrebbe consentito un effettivo collaudo del corretto funzionamento dei sistemi informatici.
Tuttavia, a fronte della situazione prospettata, l’Agenzia ha chiarito che se da un lato è possibile sostituire gradualmente i registratori di cassa con i registratori telematici, dall’altro è necessario che questi ultimi vengano attivati anche prima del 1° luglio 2019 ma contemporaneamente per i diversi punti vendita esistenti.
A dire il vero la soluzione fornita sembrerebbe porsi in contrasto con la precedente, tra l’altro richiamata, risposta n. 139 del 14 maggio 2019 , con la quale l’Agenzia decretava la sola messa in servizio contestuale di registri telematici (RT), ammettendo al tempo stesso un’attivazione preventiva – e di conseguenza graduale – degli stessi. È dunque evidente che, a pochi giorni dal debutto del nuovo obbligo di trasmissione telematica dei corrispettivi giornalieri, l’indicazione operativa impartita non va di certo a semplificare né tantomeno ad agevolare tutti quei contribuenti di grandi dimensioni, probabilmente già tempestivamente attivati, che dispongono di una quantità copiosa di RT e che presto si troveranno a fare i conti con una nuova digitalizzata forzata.

Fonte “Il sole 24 ore”

Eco e sismabonus in cinque anni, ora si può anche cedere a terzi

Corretto dal parlamento il Dl Crescita su ecobonus e sismabonus a detrazione rapida: i cinque anni, invece dei soliti dieci, venivano resi possibili con la versione iniziale del Dl 34/2019, che prevedeva però che il cessionario potesse utilizzare il credito solo in compensazione. L’effetto, segnalato da molti, sarebbe stato un vantaggio solo per le imprese grandi, che a fronte di un acquisto del credito a prezzo pieno (non scontato) avrebbero potuto però elaborare offerte più interessanti per i condomìni, che le imprese medio-piccole, non disponendo di una tale capienza d’imposta, non avrebbero potuto contrastare.

Nella nuova versione della norma è stato ora aggiunto, all’articolo 14, comma 3.1 del Dl 63/2013, il periodo che dice: «Il fornitore che ha effettuato gli interventi ha a sua volta facoltà di cedere il credito d’imposta ai propri fornitori di beni e servizi, con esclusione della possibilità di ulteriori cessioni da parte di questi ultimi. Rimane in ogni caso esclusa la cessione ad istituti di credito e ad intermediari finanziari». Stessa modifica è stata fatta all’articolo 16, comma 1-octies, del Dl 63/2013, che riguarda il sismabonus.

In concreto, quindi, chi ha diritto alle detrazioni (cioè il contribuente) può optare per uno sconto sulla fattura «di pari ammontare» da parte del «fornitore che ha effettuato gli interventi». Quest’ultimo, a sua volta, ottiene un credito d’imposta da utilizzare in compensazione, in cinque quote annue uguali (secondo il meccanismo di cui al Dlgs 241/97) e senza l’applicazione dei limiti previsti dalle leggi 388/2000 e 244/2007. È quindi una possibilità in più rispetto a quella (con detrazione in dieci anni) prevista prima del Dl 34/2019, che comunque rimane in vigore.

Il “prezzo” della cessione è predefinito: lo sconto deve essere pari alla detrazione, quindi, per un lavoro di 100mila euro con detrazione del 65%, il committente-contribuente avrà subito uno sconto di 65mila euro e il «fornitore» potrà compensare le imposte a suo carico con un credito d’imposta di 13mila euro all’anno per cinque anni. Non si contratta, quindi, l’importo dello sconto sulla fattura, come invece si può contrattare il prezzo di acquisto del credito fiscale se si sceglie l’altra possibilità (quella dei dieci anni) rimasta in vigore. Il «fornitore» (termine che andrà definito) potrà anche scegliere, anziché compensare il credito con le imposte a suo carico, di cederlo ai «propri fornitori» (ma non a banche e intermediari finanziari) che però non potranno più cederlo. Entro 30 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione le Entrate emaneranno un provvedimento di attuazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Vendita titoli di sosta da certificare sempre con la ricevuta

Cessioni agli utenti finali dei titoli di sosta da certificare in ogni caso con ricevuta a prescindere dalla natura privata o istituzionale del gestore; tuttavia solamente in caso di gestori privati di autoparcheggio, il rivenditore può emettere, in nome e per conto del gestore stesso, fattura elettronica quando richiesta dall’utilizzatore finale ed entro novanta giorni dalla richiesta. Con la risposta a interpello n. 135/E pubblicata ieri, l’agenzia delle Entrate, chiamata ad individuare le modalità di certificazione dei corrispettivi per la vendita dei titoli di sosta, conferma il trattamento fiscale delle operazioni di rivendita nei confronti degli utenti ricordando come nel caso di gestori istituzionali l’operazione è fuori campo Iva mentre, nel caso di privati, trova applicazione il regime monofase. In entrambi i casi la certificazione fiscale della vendita va effettuata con una ricevuta, in nome proprio del rivenditore, ma in caso di gestori privati se l’utilizzatore finale, soggetto passivo di imposta, richiede fattura, la stessa deve essere emessa in formato elettronico dal rivenditore in nome e per conto del gestore privato esponendo l’importo dell’Iva e inserendo nel campo «altri dati gestionali» il riferimento al regime monofase dell’articolo 74 del Dpr 633/1972. La fattura va emessa entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta.

Gestori istituzionali

Le cessioni di titoli di sosta di gestori istituzionali sono operazioni fuori campo Iva (articolo 4, comma4 , del Dpr 633/1972). In questo senso si era già espressa l’amministrazione, che richiama infatti le risoluzioni n. 210 del 14 dicembre 2001 e n. 174 del 6 giugno 2002). Tali cessioni sono certificate mediante ricevuta emessa, in nome proprio, dalla società che rivende i titoli. Per tali operazioni non c’è quindi obbligo di emissione di fattura, ma è sufficiente rilasciare, da parte del rivenditore, ricevute con numerazione univoca, in nome e per conto del gestore istituzionale, il quale opera fuori campo Iva per carenza del requisito soggettivo.

Gestori privati

Le cessioni di titoli di sosta di gestori privati rientrano invece nel regime monofase di cui all’articolo 74 del Dpr 633/1972, mediante il quale l’Iva viene assolta una sola volta alla fonte dal gestore, mentre tutti i successivi passaggi sono esclusi dal campo di applicazione dell’imposta. Secondo quanto previsto dall’articolo 1, comma 2, del Dm 30 luglio 2009, tali vendite vanno certificate mediante ricevuta emessa in nome proprio dal rivenditore senza indicazione separata dell’imposta e indicando che si tratta di una operazione non soggetta ex articolo 74 del Dpr 633/1972.

Inoltre, se l’utilizzatore finale, soggetto passivo Iva, richiede la fattura, il rivenditore dovrà emettere fattura elettronica, in nome e per conto del gestore privato del parcheggio che va indicato come «soggetto emittente», ed esponendo l’importo dell’Iva con inserimento nel campo «altri dati gestionali» del riferimento al regime monofase. In ogni caso, il termine di emissione della fattura in questo caso è quello stabilito dal decreto del 30 luglio 2009, e quindi la fattura viene emessa entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Mancato incasso Iva, la nota di variazione solo sul tributo

Principio di neutralità: la rettifica non riguarda il reddito imponibile
La nota di variazione Iva in diminuzione, emessa a causa del mancato incasso dell’imposta addebitata – a norma dell’articolo 60, comma 7, del Dpr 633/1972, dal cedente al cessionario – a seguito del pagamento dell’imposta dovuta in base a un atto di accertamento o rettifica, può avere a oggetto il solo tributo e non, in proporzione, tributo e imponibile. Lo ha affermato la Direzione Regionale delle Entrate della Toscana, con la risposta a interpello 911-67/2019, con riferimento al caso di seguito descritto.
Un’impresa ha per lungo tempo ceduto dei beni a un proprio cliente, escludendo di comprendere nell’imponibile indicato nelle fatture emesse l’importo di un contributo ambientale dovuto in relazione a tali vendite a un ente pubblico, in quanto addebitato da quest’ultimo direttamente all’acquirente e da questi regolarmente pagato a detto ente. Il Fisco ha contestato al cedente la mancata applicazione dell’Iva all’importo corrispondente al predetto contributo, sul presupposto che, in base alla legge che lo disciplinava, esso gravava sul cedente, indipendentemente dal fatto che fosse materialmente pagato dall’acquirente, ricorrendo in tal caso la fattispecie prevista dall’articolo 13, comma 1, del Dpr 633, secondo cui la base imponibile Iva è costituita anche dai «debiti, dagli oneri e dalle spese verso terzi accollati al cessionario o committente». L’impresa cedente, ritenendo fondato il rilievo, ha prestato acquiescenza all’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti, provvedendo al pagamento delle imposte delle sanzioni e degli interessi da esso recati e, conseguentemente, a norma dell’articolo 60, comma 7, ha addebitato in via di rivalsa al cessionario l’imposta assolta. Poiché quest’ultimo non ha pagato il tributo addebitatogli nemmeno a seguito di un’azione esecutiva, si sono realizzati i presupposti per l’emissione, da parte dell’impresa cedente di una nota di variazione Iva in diminuzione, a norma dell’articolo 26, comma 2, del Dpr 633. Ciò posto, si è trattato di stabilire se tale nota potesse avere a oggetto solo l’imposta non percepita dal cedente, che avrebbe così potuto recuperare integralmente l’importo versato al Fisco a tale titolo, ovvero dovesse riguardare, in proporzione, non solo l’imposta ma anche il relativo imponibile, dovendosi riconsiderare l’intera cessione nel suo complesso. Assumendo che il contributo ambientale ammontasse a 100, essendo applicabile l’aliquota del 22% si trattava di stabilire se la nota di variazione, emessa a causa del mancato incasso di un importo pari a 22, riguardasse solo l’Iva ovvero dovesse avere a oggetto l’imponibile per 18,0328 e l’imposta per 3,9672, pari al 22% di 18,0328.
L’agenzia delle Entrate, ritenendo che in caso contrario verrebbe violato il principio di “neutralità” cui è informata la disciplina dell’Iva, e manifestando un indirizzo opposto a quello espresso dall’Aidc con la norma di comportamento 195, ha chiarito che la variazione può riguardare il solo tributo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Giulio Andreani

Il controllo interno «doc» prepara la trasmissione dei corrispettivi

I contribuenti con più punti cassa devono avere una dichiarazione di conformità
Per gli operatori maggiori l’obbligo scatta dal 1° luglio 2019
Processi amministrativi e contabili interni e sistemi informatici da far certificare come conformi prima o contestualmente all’entrata in funzione dei registratori o server telematici; i termini per la conformità sono in ogni caso stabiliti al 1° gennaio 2020 per tutti gli esercenti e al 1° luglio 2019 per i contribuenti con volume d’affari oltre i 400mila euro, compresi gli operatori che avevano optato per la trasmissione opzionale dei corrispettivi prevista per la Gdo dalla legge 311 del 2004. Queste le principali indicazioni rese dall’agenzia delle Entrate con la risposta a consulenza giuridica 13 pubblicata ieri, 20 marzo 2019: in assenza di puntuali indicazioni contenute nelle specifiche tecniche versione 6.0 di agosto 2018, sono stati in questo modo individuati i termini entro cui gli esercenti con più punti cassa per singolo punto vendita devono ottenere la dichiarazione di conformità di processi e sistemi informatici aziendali coinvolti nella memorizzazione e trasmissione telematica dei corrispettivi. Gli operatori interessati infatti, oltre alla certificazione con cadenza annuale del proprio bilancio di esercizio, devono dotarsi non solo di un processo di controllo interno, conforme al modello 231/2001, ma richiedere e ottenere il rilascio, da parte di una società di revisione o degli enti (istituti universitari o Cnr) abilitati, di tale dichiarazione di conformità prima dell’avvio della trasmissione telematica e, successivamente, con cadenza triennale. Ai fini della certificazione, occorre garantire che il processo di controllo interno rispetti una serie di requisiti minimi tra cui, essenzialmente, la verifica che a ogni documento di vendita (corrispettivo) corrisponda un incasso in contanti o con strumenti tracciabili. Il controllo di processo interno, secondo le specifiche tecniche, deve essere effettuato a livello di singola cassa, cassiere e forme di pagamento. Eventuali differenze e eccezioni devono essere riconciliate con idonea documentazione da conservare elettronicamente, in base al Dm 17 giugno 2014, per dieci anni. Allo stesso modo occorre predisporre e conservare elettronicamente la documentazione amministrativa che descrive tale processo interno, da strutturare in una serie di fasi.
Per far fronte all’obbligo dei corrispettivi telematici non è sufficiente una attenta valutazione del fornitore delle apparecchiature che permettono la memorizzazione e la trasmissione, ma occorre al contrario partire dall’analisi delle necessità aziendali, verificare canali, modalità e struttura di vendita, considerando l’interfacciamento con Erp e applicativi aziendali già utilizzati e gestire le problematiche per la corretta documentazione di resi, abbuoni, sconti o acquisti con utilizzo di gift card. Il tutto in un quadro regolamentare che deve essere completato quanto prima, con il rilascio degli ulteriori decreti ministeriali attuativi che definiranno con precisione soggetti e operazioni interessate i quali, non necessariamente, coincideranno con quanto finora stabilito per scontrini e ricevute fiscali dal Dpr 696 del 1996.
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Alessandro Mastromatteo
Benedetto Santacroce

Detrazioni Iva a rischio dopo la procedura esecutiva

L’effetto della mancata emissione della nota di accredito nei termini
La posizione delle Entrate riguarda anche le procedure concorsuali
La mancata emissione della nota d’accredito “nei termini” mette a rischio il recupero dell’Iva anche in caso di procedura concorsuale o esecutiva. Queste sono le conseguenze desumibili dalla risposta 55/2019, allineata alle conclusioni della precedente risposta n. 113 del 2018 in materia di note di variazione nel concordato preventivo “in continuità”. Per evitare tali effetti, occorre dunque conoscere la data che, secondo il Fisco, attesta l’infruttuosità della procedura. È a partire da tale data, infatti, che si può operare la variazione in diminuzione, tenendo presente che, in base al vigente articolo 19, comma 1, Dpr 633/72, l’imposta è recuperabile, al più tardi, con la dichiarazione relativa all’anno in cui il diritto è sorto e alle condizioni del momento in cui è sorto. Solo per le rettifiche i cui presupposti si sono manifestati ante 1° gennaio 2017, il termine per il recupero del tributo è quello della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello di nascita del diritto, come previsto dalla precedente versione dell’articolo 19 (circolare n. 1/E/2018).
Per il fallimento è necessario che sia decorso il termine per le osservazioni al piano di riparto (circolare 77/E/2000) o, se non c’è riparto, quello per il reclamo al decreto di chiusura della procedura (risoluzione 195/E/2008). In caso di concordato preventivo, oltre alla sentenza che omologa la procedura, si deve considerare anche il momento in cui il debitore adempie gli obblighi assunti (circolare 8/E/2017 e risposta 113/2018). In vista della scadenza del 30 aprile, pertanto, occorre monitorare le procedure chiuse (nel senso precisato) nel 2018 e, se non si è già provveduto, è bene affrettarsi. L’emissione entro aprile della nota di variazione (elettronica) permette, infatti, previa registrazione in apposito sezionale, di esercitare la detrazione nella dichiarazione. Se questa è già stata presentata, pare possibile ricorrere alla dichiarazione correttiva nei termini, facendovi confluire il credito portato dalla nota in diminuzione nel frattempo emessa. Secondo le Entrate, invece, il recupero non sarà possibile dopo il 30 aprile, ricorrendo alla dichiarazione integrativa a favore.
Stante la regola “transitoria” per i casi in cui il presupposto della rettifica è maturato ante 1° gennaio 2017, sono recuperabili con il modello Iva 2019 anche i crediti d’imposta verso procedure concluse nel 2016, a condizione che la variazione (per la quale non opera il limite annuale dell’articolo 26, comma 3, Dpr 633/72) sia eseguita entro il prossimo 30 aprile. Soluzione che, invece, non pare ammessa per una procedura chiusa nel 2017, ove non sia stata emessa nota di credito entro aprile dell’anno scorso.
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Pagina a cura di
Matteo Balzanelli
Massimo Sirri

La società estinte prova a dribblare le pretese a titolo di sanzione

Estendere alle società le soluzioni elaborate con riferimento alla successione delle persone fisiche è utile ma vanno evitate distorsioni applicative.

A partire dal 2010, le sezioni unite della corte di Cassazione hanno a più riprese chiarito che il principio espresso dall’articolo 2495 del codice civile, nella sua formulazione vigente ancora oggi, trova applicazione sia per le società di capitali che per quelle di persone.

Pertanto, al momento della cancellazione di una società dal registro delle imprese, la medesima si estingue, a prescindere dal fatto che residuino rapporti giuridici non esauriti.

I debiti sociali, in particolare, non vengono meno, ma si trasferiscono in capo agli ex soci – sulla scorta di un fenomeno che la giurisprudenza di legittimità ha ricondotto a una successione, seppure sui generis – e, a determinate condizioni stabilite per legge, ai liquidatori, i quali rispondono dei debiti che, per loro colpa, non siano stati soddisfatti prima della chiusura della liquidazione.

Quanto alla posizione degli ex soci, peraltro, occorre distinguere il caso delle società di persone, di quelle di capitali e, per queste ultime, l’evenienza che si tratti di pendenze correlate all’assolvimento delle imposte dirette:
•gli ex soci delle società di persone (illimitatamente responsabili, durante societate) rispondono per intero e in solido tra loro delle pendenze sociali insoddisfatte;
•gli ex soci delle società di capitali, invece, sono ordinariamente tenuti al pagamento dei debiti sociali soltanto entro i limiti di valore di quanto ricevuto in forza del bilancio finale di liquidazione, mentre se i debiti insoddisfatti pertengono alle imposte dirette, i limiti della responsabilità si estendono al valore delle attribuzioni risalenti ai due periodi d’imposta precedenti l’apertura della fase liquidatoria.

Neppure i processi vanno incontro a estinzione per il venire meno della società che vi abbia assunto il ruolo di parte, ma proseguono previa riassunzione a opera o nei confronti degli ex soci; anche in questo caso, la dinamica è del tutto analoga a quella che si pone nei casi di successione a titolo universale nel diritto controverso.

Peraltro, occorre precisare che, per quanto riguarda i giudizi vertenti in materia tributaria, l’estinzione della società contribuente ha effetto soltanto decorsi cinque anni dalla cancellazione della stessa dal Registro delle imprese e il medesimo effetto concerne anche la soggettività dell’ente ai fini dell’eventuale soggezione all’accertamento e alla riscossione; pertanto, l’Amministrazione finanziaria potrà, entro i cinque anni dalla cancellazione, notificare atti impositivi e processuali alla società (sia essa di capitali o di persone) come se la stessa fosse ancora validamente costituita.

Infine, occorre soffermarsi sul destino delle pretese promananti dall’esercizio di poteri sanzionatori; per simili ipotesi, la giurisprudenza della corte di Cassazione è attualmente orientata nel ritenere che le stesse si estinguano con il venir meno dell’ente al quale sono state irrogate, in applicazione del principio, espresso nella materia tributaria dall’articolo 8 del Dlgs 472/1997, per cui le sanzioni non si trasmettono agli eredi di chi abbia commesso l’illecito.

Sennonché, si tratta di una soluzione che potrebbe meritare un ripensamento; ciò, per due distinti ordini di ragioni:
•da un lato, perché, seppure con riferimento a fattispecie diverse, la stessa giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’articolo 8 citato non è suscettibile di applicazione in via analogica;
•dall’altro lato, perché si finirebbe per agevolare ingiustificatamente i partecipanti all’impresa associata, in quanto gli stessi, mediante un procedimento riconducibile alla loro volontà (qual è la messa in liquidazione) potrebbero beneficiare dell’effetto di «purgazione» dalle pretese sanzionatorie di un patrimonio a loro, in ultima analisi, riferibile.

Fonte “Il sole 24 ore”

Riporto delle perdite anche in mancanza di lavoro subordinato

L’assenza di costi di personale dipendente non comporta automaticamente che la società venga qualificata come “bara” fiscale, impedendo il riporto delle posizioni fiscali soggettive, perché si configura come una libera scelta aziendale. È questa la conclusione della risposta 52 di ieri dell’agenzia delle Entrate.

A seguito di una fusione per incorporazione, l’incorporante ha presentato istanza di interpello ex articolo 11, comma 2 della legge 212/00 per ottenere la disapplicazione delle limitazioni al riporto delle eccedenze Ace dell’incorporata in base all’articolo 172, comma 7 del Tuir (che si applica anche alle perdite fiscali e agli interessi passivi indeducibili). La pronuncia si fa particolarmente apprezzare perché, abrogata l’Ace, essa è comunque valida nelle operazioni di fusione e scissione che presentino la tematica del riporto delle perdite e degli interessi passivi. L’incorporata svolgeva l’attività di gestione immobiliare, locando prevalentemente alla controllante incorporante immobili di proprietà o condotti in locazione finanziaria. La stessa, sia nel periodo antecedente la fusione sia in quello in cui l’operazione ha avuto efficacia (pur essendo retrodatata contabilmente e fiscalmente all’inizio del periodo d’imposta), ha superato il test di vitalità economica in relazione ai ricavi e il limite patrimoniale, ma non il test di vitalità con riferimento ai costi del personale. Il superamento di tale test, ricordiamo, si ha quando sia l’ammontare dei ricavi e proventi dell’attività caratteristica, sia quello delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, risulti superiore al 40% di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori.

Nella risposta l’Agenzia ha ribadito che la finalità della norma è quella di salvaguardare la permanenza delle condizioni di vitalità economica, onde evitare la compensazione intersoggettiva delle perdite fiscali, degli interessi passivi indeducibili e delle eccedenze Ace (circolare 9/E/10).

Circa l’assenza dei costi del personale, la pronuncia richiama le precedenti risoluzioni 143/E/08 e 337/E/02. Quest’ultima, in particolare, aveva chiarito che per una holding la mancanza assoluta di costi di personale dipendente in bilancio non è, da solo, sintomo di scarsa vitalità aziendale, visto che tale voce non è così frequente nei bilanci di questa tipologia di società. L’elemento di spicco della risposta sta nel fatto che la scelta aziendale (cosiddetta di “buy” e non di “make”) di non ricorrere al costo di lavoro dipendente, preferendo optare per un contratto di service amministrativo (voce B7 del conto economico), è da considerarsi in sostanza una libera scelta aziendale.

Pertanto non può essere valutata come sintomatica di un comportamento patologico volto a sfruttare indebitamente le posizioni soggettive tipiche delle operazioni di fusione e di scissione.

Tanto più considerato che nel caso di specie vi sono ricavi di locazione tali da consentire il superamento del test relativo a quella specifica componente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Medici di base, esonero dall’e-fattura ma obbligo di spesometro

Medici di base convenzionati con il servizio sanitario nazionale esonerati dall’emissione della fattura elettronica per i relativi pagamenti. In base all’articolo 2 del Dm 31 ottobre 1974, infatti, nei rapporti tra i professionisti sanitari e gli enti mutualistici per prestazioni medico-sanitarie il foglio di liquidazione dei corrispettivi compilato da tali enti tiene luogo della fattura. La risoluzione 98/E/2015 aveva escluso, in base a tale disposizione, che i medici convenzionati fossero tenuti ad emettere la fattura Pa (elettronica). La risposta a interpello 54/2019 pubblicata ieri dalle Entrate  conferma che l’esclusione vale anche nel nuovo regime.

Il nuovo obbligo generalizzato di e-fattura, che dal 1° gennaio 2019 è esteso a tutti i contribuenti, subisce delle eccezioni, che l’Agenzia puntualmente riepiloga:
1)eccezioni di ordine soggettivo: per chi rientra nel cosiddetto “regime di vantaggio” (articolo 27, commi 1 e 2, Dl 98/2011) e per chi applica il regime forfettario di cui all’articolo 1, commi da 54 a 89, della legge 23 dicembre 2014, n. 190;
2)eccezioni di ordine oggettivo, per le cessioni/prestazioni di servizi per cui non vi è l’obbligo di documentazione tramite fattura (ad esempio, le operazioni verso consumatori finali dei commercianti al minuto: articolo 22 Dpr n. 633 /72);
3)eccezioni di natura “mista”, che riguardano specifiche categorie di contribuenti e solo «in peculiari situazioni», che l’Agenzia identifica in coloro che: a) «hanno esercitato l’opzione di cui agli articoli 1 e 2 della legge 16 dicembre 1991, n. 398, e che nel periodo d’imposta precedente hanno conseguito dall’esercizio di attività commerciali proventi per un importo non superiore a euro 65.000 […]» (così l’articolo 1, comma 3, ultimo periodo del d.lgs. n. 127 del 2015) e b) sono «tenuti all’invio dei dati al Sistema tessera sanitaria», i quali, in riferimento al solo periodo d’imposta 2019, «non possono emettere fatture elettroniche ai sensi delle disposizioni di cui all’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 127, con riferimento alle fatture i cui dati sono da inviare al Sistema tessera sanitaria» (cfr. l’articolo 10-bis del Dl 119 del 2018).

L’Agenzia infine ricorda un principio che dovrebbe essere ovvio: l’obbligo di e-fattura non si applica nei casi in cui l’operatore in base alle disposizioni previgenti non fosse tenuto ad emettere fattura; la risoluzione 54/E/2019 sottolinea infatti che un obbligo che non esisteva prima non viene certo creato dalle nuove regole. Se questo è il principio generale, deve valere anche per tutti gli altri casi in cui in passato la fattura non era stata ritenuta obbligatoria: è il caso, ad esempio, delle farmacie che documentano le forniture di medicinali con distinta contabile riepilogativa (prevista dalla convenzione al Dpr 371/1998) e scontrino, secondo le procedure disciplinate dalle circolari n. 72 e n. 74 del 1983 e più volte confermate negli anni successivi).

La risoluzione qui commentata affronta anche l’argomento dello “spesometro”, per confermare che il relativo obbligo dal 1° gennaio 2019 è soppresso, ma il relativo obbligo resta in vigore per le operazioni relative al 2018. I medici di base dovranno quindi inviare comunque lo spesometro dell’ultimo periodo del 2018 entro il 28 febbraio, comprendendovi anche le fatture emesse nel corso del 2018 (seppure ricevute dal cessionario/committente nel 2019), anche se inerenti a dati già inviati al Sistema tessera sanitaria. Nello spesometro non devono invece essere incluse le fatture (passive) legittimamente ricevute e registrate a decorrere dal 1° gennaio 2019 (anche se riferite al 2018).

Fonte “Il sole 24 ore”

Pensionati in fuga, tasse light anche sul secondo assegno

Un pensionato italiano trasferitosi in Portogallo pagherà le tasse nello Stato di residenza, anche per le pensioni percepite a fronte di attività diverse da quelle di lavoro dipendente. Dice questo la risposta a interpello n. 35, pubblicata ieri dall’agenzia delle Entrate: è la più rilevante di un ampio pacchetto dedicato al tema della fuga di cervelli e pensionati e della concorrenza fiscale tra Stati.
Le risposte fornite dall’amministrazione finanziaria su questi temi sono state, infatti, ben cinque: tre per il regime dei «rimpatriati» (articolo 16, commi 1 e 2 Dlgs n. 147/2015) e due per regimi previsti dai trattati a favore dei pensionati. Tra le prime, la risposta 32 ha vietato l’applicabilità del regime per il rimpatrio dei cervelli (comma 2) ad un lavoratore che, nel periodo precedente al rimpatrio in Italia, aveva sì trascorso all’estero un periodo complessivamente superiore a due anni, ma alternando un periodo di studio ad un altro di lavoro, senza dunque integrare – per nessuno di essi considerato singolarmente– il requisito della continuità biennale.
Sullo stesso regime è incentrata la risposta n. 36, che è invece positiva, in quanto chiarisce il principio secondo cui i requisiti della residenza estera e della continuità almeno biennale dell’attività, non devono necessariamente coincidere sul piano temporale. Nello specifico, prima di tornare in Italia nel 2019, la lavoratrice aveva svolto attività di lavoro all’estero dal 2013 al 3 ottobre 2017, ma risultava fiscalmente residente all’estero solo dal 2016.
La risposta n. 34 (positiva) riguarda il regime dei lavoratori rimpatriati (comma 1) e affronta il caso di un lavoratore rimpatriato in data 20 luglio 2018, per il quale è confermata la fruibilità dal regime, ma solo a partire dal primo anno di residenza fiscale in Italia, vale a dire dal 2019, e non anche per i mesi di lavoro da luglio a dicembre 2018.
Le altre due risposte riguardano la fiscalità dei pensionati residenti fiscalmente in uno Stato ma percettori di pensione di fonte estera. La prima (n. 35), riguarda il caso del pensionato italiano trasferito in Portogallo, ormai frequente, ma è interessante perché chiarisce che le pensioni percepite a fronte di attività diverse da quelle di lavoro dipendente (nel caso specifico, Inps ed Enasarco percepite da un agente di commercio) sono sempre tassate nello Stato di residenza, qualunque sia la provenienza. Ai fini del trattato, si qualificano infatti come «altri redditi» ex articolo 21, e non come «redditi di pensione» ex articolo 18, limitato ai solo dipendenti.
Invece, l’indennità di fine rapporto percepita dall’agente si qualifica ai fini italiani come reddito di lavoro autonomo e come tale rientra nell’ambito dell’articolo 14 del trattato: pertanto, la stessa va in ogni caso tassata in Italia, per la quota maturata negli anni in cui il lavoratore era ivi residente, mentre la quota residua può essere tassata in Italia solo se attribuibile ad una base fissa ivi situata. La risposta n. 40, infine, si occupa della «New State Pension», percepita nel Regno Unito da un residente in Italia: secondo l’Agenzia va trattata come una «pensione di Stato» e non è assimilabile ad una forma di previdenza complementare, anche se in parte alimentata da versamenti di natura volontaria. Come tale, va integralmente tassata in Italia, a prescindere dalla mancata deduzione dei contributi a suo tempo versati.
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Fabrizio Cancelliere
Gabriele Ferlito

Niente esterometro né spesometro per il tax free shopping

Niente esterometro né spesometro per le operazioni tax free shopping i cui dati sono trasmessi attraverso il sistema Otello. Con la risposta a consulenza giuridica 8/2019 (clicca qui per consultarla ), pubblicata ieri 7 febbraio 2019, richiamando il principio dello once only, secondo cui dati ed informazioni già comunicati a una pubblica amministrazione non possono essere nuovamente richiesti al cittadino, l’agenzia delle Entrate ha escluso espressamente l’obbligo di comunicare, entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello di emissione, i dati delle fatture elettroniche “estere” quando inviate ai fini dell’applicazione del “visto uscire” e del rimborso dell’Iva assolta all’acquisto. Andranno comunque trasmessi con l’esterometro non solo i dati delle fatture passive estere ma anche quelli di fatture attive, Ue ed extra-Ue, non inviati con Otello né trasmessi con il codice convenzionale a sette «X» al Sistema di interscambio (Sdi).

La corretta emissione in modalità elettronica attraverso Otello esclude anche l’obbligo di trasmettere i dati di tali fatture con lo spesometro che, abrogato a partire dal 1 gennaio 2019, dovrà comunque essere inviato entro il 28 febbraio 2019 per le operazioni effettuate nel corso del 2018. Al sistema Otello, gestito dall’agenzia delle Dogane, devono essere infatti trasmessi telematicamente i dati delle fatture emesse per le cessioni di beni effettuate nei confronti di soggetti non passivi d’imposta domiciliati o residenti extra-Ue. Tale adempimento è sufficiente ad assolvere perciò a tutti gli obblighi comunicativi anche nei confronti dell’agenzia delle Entrate grazie alla sempre maggiore integrazione tra dati e servizi delle diverse amministrazioni.

L’invio tramite Otello esonera quindi gli esercenti che emettono fatture tax free dal reinviare i medesimi dati con l’esterometro, la cui prima scadenza è fissata al 28 febbraio prossimo, ma anche con lo spesometro in vista dell’ultima trasmissione anch’essa fissata a fine Febbraio. Si ritiene comunque che nessuna contestazione dovrebbe essere rilevata nei confronti degli esercenti laddove trasmettano i medesimi dati per assolvere i diversi adempimenti ad oggi previsti, e cioè Otello, esterometro e spesometro.

Fonte “Il sole 24 ore”

Definizione causa a costo zero sulla sanzione legata al tributo

Definizione delle liti a costo zero se la controversia riguarda la sanzione collegata al tributo nel caso in cui quest’ultimo sia stato definito anche con modalità differenti dalla sanatoria. In tale contesto, diviene fondamentale comprendere quando la sanzione oggetto di lite sia, o meno, collegata al tributo. La distinzione non dipende né dalla impugnazione autonoma (o meno) del solo tributo, né dalla tipologia di atto utilizzato per l’irrogazione della sanzione (avviso di accertamento insieme alla richiesta dell’imposta ovvero atto separato).
Nel corso del Telefisco 2019, è stato richiesto se rientrino tra le sanzioni collegate al tributo (con gli effetti che ne conseguono ai fini della definizione della lite pendente) quelle irrogate a un terzo (amministratore di fatto, professionista ecc.) in concorso con una società e calcolate sulla base dell’imposta evasa da quest’ultima ove detta imposta sia stata successivamente versata in acquiescenza, attraverso istituti deflattivi o pace fiscale. L’Agenzia ha precisato che le sanzioni irrogate a un terzo in concorso con la società rientrano tra le sanzioni collegate al tributo e, pertanto, se il rapporto relativo al tributo sia stato definito con il pagamento del tributo stesso, la lite instaurata dal terzo può definirsi senza versare nulla.
In proposito, l’agenzia delle Entrate ha richiamato il contenuto della precedente circolare 23/2017. Tuttavia il quesito faceva riferimento sia agli amministratori di fatto, sia ai professionisti e il documento di prassi richiamato in merito al professionista precisava al tempo che la sanzione dovesse considerarsi autonoma e non collegata al tributo. Ciò, nonostante essa fosse corrispondente a quella irrogata al contribuente al quale era richiesta l’imposta.
Così l’agenzia delle Entrate, nella medesima circolare, concludeva che il consulente non poteva definire la lite a zero.
Dal tenore della nuova risposta sembra ora superata tale precedente interpretazione contenuta nella circolare 23/2017, ritenendo estensibile anche al professionista la definizione a zero.
Del resto, dovrebbe escludersi che nella stesura della risposta sia stato ignorato il contenuto del precedente documento di prassi, in quanto esso viene espressamente richiamato dall’agenzia delle Entrate nella risposta stessa proprio per affermare la natura di sanzione collegata al tributo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Laura Ambrosi

Niente cartelle a Natale, congelate 255mila notifiche

Dati Mef di fine settembre: scende dell’8% il numero di liti tributarie pendenti
Anche le cartelle si preparano ad andare in ferie. Durante le festività natalizie l’attività di notifica di quasi tutti gli atti di agenzia delle Entrate-Riscossione sarà congelata: per la precisione, la sospensione andrà dal 23 dicembre fino al 6 gennaio 2019, con l’obiettivo di evitare disagi ai contribuenti.
La contabilità dell’operazione rende l’idea dell’impatto della sospensione: in queste due settimane, infatti, era previsto l’invio di quasi 268mila atti. L’unica eccezione è prevista per quelli inderogabili (meno di 13 mila), che dovranno essere comunque notificati, in buona parte tramite Pec.
Nel dettaglio, allora, sarà bloccata la notifica di 207.968 atti, che sarebbero altrimenti arrivati per posta, a cui aggiungere 46.851 documenti da notificare attraverso la posta elettronica certificata, per un totale di 254.819 cartelle e avvisi. Dopo il periodo di sospensione, comunque, la notifica ripartirà.
Le regioni più interessate da questo blocco sono tre: il Lazio in cui saranno congelati 35.739 atti, seguito dalla Campania (34.971) e dalla Lombardia (29.902). A seguire ci sono Veneto con 28.481 atti in stand by, Toscana (18.516), Puglia (17.561), Emilia Romagna (17.486), Calabria (13.787), Piemonte (12.449), Umbria (9.058), Sardegna (8.988), Liguria (7.554), Abruzzo (5.836), Marche (4.933), Basilicata (3.739), Friuli Venezia Giulia (3.478), Trentino Alto Adige (1.186), Molise (689) e infine la Valle d’Aosta con 464 atti. Tra le grandi città, al primo posto troviamo Roma con 27.012 atti in stand by, seguita da Napoli (22.384) e Milano, dove è sospesa la notifica di 9.802 cartelle e avvisi.
Intanto, secondo quanto comunica il ministero dell’Economia, cala il numero delle controversie tributarie pendenti: secondo i dati aggiornati al 30 settembre, scendono al di sotto delle 400mila unità (399.058), mostrando una riduzione di circa l’8% rispetto all’anno precedente, a conferma di un trend positivo iniziato già dal 2012. Nel terzo trimestre le controversie instaurate in entrambi i gradi di giudizio, pari a 38.867, registrano un incremento del 2% rispetto allo stesso periodo del 2017. Le controversie definite sono state 46.883, con un aumento di circa il 5,3% su base annua.
Fonte “Il sole 24 ore”

La dilazione straordinaria non può essere riattivata

La rateazione può essere riaperta con la Riscossione, non con le Entrate
Non può essere riattivato il piano di dilazione straordinario delle somme dovute all’agenzia delle Entrate, ex articolo 1, commi da 134 a 138 della legge 208/2015, una volta che questo è decaduto e che il contribuente ha abbandonato la procedura di rottamazione dei carichi di cui all’articolo 6 del decreto 193/2016. La precisazione, pienamente condivisibile, giunge dalla risposta 116 dell’agenzia delle Entrate, resa in sede di procedura da interpello e pubblicata ieri.
Un contribuente, che aveva perfezionato gli accertamenti con adesione con l’agenzia delle Entrate, con il versamento della prima rata, era successivamente decaduto dal piano di pagamento rateale degli stessi. L’interessato si era tuttavia avvalso della procedura straordinaria di riammissione alla dilazione, recata nell’articolo 1, commi da 134 a 138, della legge 208/2015. Dopo aver versato le rate dovute fino a novembre 2016, il contribuente interrompeva i pagamenti.
Il carico in oggetto veniva pertanto affidato all’agente della riscossione. Con riferimento alle medesime partite, il debitore procedeva alla trasmissione dell’istanza di definizione agevolata,in base all’articolo 6 del Dl 193/2016, senza però pagare neppure la prima rata, in scadenza al luglio 2017. Stando così le cose, viene richiesto all’agenzia delle Entrate se, una volta decaduti dalla rottamazione, fosse possibile riprendere la dilazione iniziale, in forza dell’articolo 6, comma 8, lettera c), del Dl 193/2016. In virtù di tale articolo, con il pagamento della prima rata sono revocate ope legisle rateazioni pregresse, di tal che, sostiene il soggetto passivo, omettendo il versamento della rata in scadenza a luglio dello scorso anno dovrebbe essere possibile riprendere la dilazione degli accertamenti con adesione.
La risposta delle Entrate è stata negativa. Le rateazioni potenzialmente riattivabili sono infatti solo quelle pendenti nei riguardi dell’agente della riscossione, non quelle afferenti l’agenzia delle Entrate. Queste ultime, nel caso di specie, sono irrimediabilmente decadute. Per completezza, vale peraltro osservare al riguardo che nulla vieterebbe all’interessato di proporre domanda di rottamazione ter per i medesimi carichi, non sussistendo alcuna causa ostativa.
Fonte “Il sole 24 ore”

Il regime semplificato non esclude passaggi al forfettario

di Salvina Morina e Tonino Morina

L’omessa indicazione dell’opzione nella dichiarazione annuale Iva, per l’applicazione del regime semplificato, anche se non è vincolante per l’efficacia del regime scelto, è comunque una violazione sanzionabile. Il contribuente può, però, avvalersi del ravvedimento operoso, riducendo la sanzione. Vale il comportamento concludente del contribuente, che però non è vincolato alla permanenza triennale nel regime, con la conseguenza che la scelta per la contabilità semplificata non preclude il passaggio al regime forfettario, se in possesso dei requisiti di legge. È questa la risposta fornita dall’agenzia delle Entrate, con la risoluzione 64/E di ieri, a seguito di un’istanza di interpello.

Nell’istanza, il contribuente ha specificato che, pur essendo in possesso dei requisiti per accedere al regime forfettario di cui all’articolo 1, commi da 54 a 89, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, fin dall’anno 2015 ha sempre svolto l’attività di parrucchiera in regime di contabilità semplificata, di cui all’articolo 18 del Dpr 600/1973, determinando l’Iva nei modi ordinari, cosiddetto regime normale Iva da Iva, adottando semplicemente un «comportamento concludente».

Nel 2017, il contribuente ha optato per il nuovo regime semplificato, cosiddetto di cassa, di cui al comma 5 dell’articolo 18 Dpr 600/1973 secondo il quale «previa opzione, vincolante per almeno un triennio, i contribuenti possono tenere i registri ai fini dell’imposta sul valore aggiunto senza operare annotazioni relative a incassi e pagamenti (…). In tal caso, per finalità di semplificazione si presume che la data di registrazione dei documenti coincida con quella in cui è intervenuto il relativo incasso o pagamento».

Per l’agenzia delle Entrate, la scelta per comportamento concludente, effettuata a partire dal 2015, di avvalersi del regime semplificato, invece di quello forfettario, non vincola il contribuente alla permanenza triennale nel regime semplificato in quanto si tratta di regime «naturale» per i contribuenti minori. Non rileva nemmeno il fatto che, dal 2017, il contribuente determina il reddito secondo il «criterio di cassa» poiché si tratta, anche stavolta, del regime «naturale» dei contribuenti in contabilità semplificata in presenza dell’opzione di cui all’articolo 18 comma 5 del Dpr 600/1973.

Per l’agenzia delle Entrate, il vincolo triennale rileva solo per i contribuenti che scelgono di rimanere nel regime semplificato di cui all’articolo 18, comma 5, e non anche per quelli che, in possesso dei requisiti di legge, scelgono di accedere al regime forfettario. Ne consegue che il contribuente, in possesso dei requisiti di legge, può transitare dal regime semplificato al regime forfettario senza vincolo triennale di permanenza nel semplificato e, di conseguenza, avvalersi già per l’anno 2018 del regime forfettario. In definitiva, il nuovo regime di contabilità semplificata si rivela sempre più complicato.

Fonte “Il sole 24 ore”

Locazioni brevi, entro il 20 agosto l’invio della comunicazione

Il 20 agosto sarà il primo appuntamento per l’invio della comunicazione relativa ai contratti di locazione breve stipulati a partire del 1° giugno 2017. Inizialmente, infatti, l’adempimento doveva concludersi entro lo scorso 30 giugno; tuttavia, le specifiche tecniche per effettuare l’invio sono state pubblicate solo il 12 giugno 2018; pertanto, al fine di consentire agli operatori di recepire la novità, il termine è stato prorogato di 60 giorni dalla pubblicazione delle suddette specifiche (provvedimento del 20 giugno 2018 ), ma cadendo nel periodo di sospensione feriale, la scadenza è slittata, solo per quest’anno, al 20 agosto.
I soggetti tenuti all’adempimento sono gli esercenti l’attività di intermediazione immobiliare e coloro che gestiscono portali telematici che favoriscono l’incontro tra domanda e offerta. Attenzione, però, che non tutti questi soggetti sono obbligati all’invio in quanto, come chiarito dalla circolare 24/E/2017 , la comunicazione deve essere effettuata solo quando «il conduttore ha accettato la proposta di locazione tramite l’intermediario stesso o aderendo alla offerta di locazione tramite la piattaforma on line. Diversamente, nel caso in cui il locatore si avvalga dell’intermediario solo per proporre l’immobile in locazione ma il conduttore comunichi direttamente al locatore l’accettazione della proposta, l’intermediario non è tenuto a comunicare i dati del contratto in quanto ha solo contribuito a mettere in contatto le parti rimanendo estraneo alla fase di conclusione dell’accordo». Di conseguenza, solo nell’ipotesi in cui gli intermediari siano intervenuti direttamente nella conclusione del contratto dovranno effettuare l’invio. Un’altra ipotesi di esclusione si realizza quando gli intermediari abbiano:

• operato, al momento dell’incasso, la ritenuta del 21%, e
• inviato la certificazione unica, attestante l’effettuazione della ritenuta stessa.

Se, invece, il soggetto deve trasmettere la comunicazione, è tenuto ad indicare, per ogni contratto, le seguenti informazioni:
• il nome, cognome e codice fiscale del locatore,
• la durata del contratto,
• l’importo del corrispettivo lordo,
• l’indirizzo dell’immobile.

Qualora, poi, l’intermediario abbia concluso per lo stesso locatore e in riferimento allo stesso immobile più contratti, la comunicazione dei dati può essere effettuata anche in forma aggregata, non dovendo riportare le suddette informazioni per ciascun accordo concluso. Inoltre, va specificata l’ipotesi in cui una delle due parti recede dal contratto, in quanto occorre distinguere a seconda che la comunicazione non sia o sia già stata inviata, poiché nel primo caso, non è necessario trasmettere la dichiarazione, mentre nel secondo caso si deve effettuare un invio rettificativo.
Infine, si fa presente che per effettuare la trasmissione occorre utilizzare i servizi telematici messi a disposizione dell’agenzia delle Entrate, ricordandosi che in caso di omessa, infedele o incompleta comunicazione si applica la sanzione da 250 ad 2.000 euro (articolo 11, comma 1, del Dlgs 471/1997), ridotta alla metà se la trasmissione è effettuata entro i quindici giorni successivi alla scadenza. Se, invece, la comunicazione si riveli errata a causa dal locatore, non si dovrebbero applicare le sanzioni (circolare 24/E/2017 ).

Fonte “Il sole 24 ore”

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Terzo settore, piccoli rimborsi ai volontari con autocertificazione

di Gabriele Sepio

Rimborsi documentati per i volontari con autocertificazione solo per le spese di minore entità previamente individuate dagli organi sociali. Il Codice del Terzo settore (Cts) riprende e rafforza, dunque, le previsioni della legge 266 del 1991, riferendo le nuove disposizioni a tutti gli enti che sceglieranno di iscriversi nell’istituendo Registro unico nazionale del Terzo settore (articolo 17 del Dlgs 117/2017).

Il Codice distingue in maniera netta la figura del volontario da quella del lavoratore. Il primo presta la propria opera a favore della collettività a titolo personale, spontaneo e gratuito, con diritto al rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate e a un’apposita copertura assicurativa. Il secondo, invece, è legato all’ente da un rapporto di lavoro (dipendente o autonomo), percependo quindi la relativa retribuzione. Non è consentito, pertanto, rivestire entrambe le qualità all’interno del medesimo ente (articolo 17, comma 5, del Cts).

Per evitare che dietro alle prestazioni di volontariato possano mascherarsi veri e propri rapporti lavorativi, l’articolo 17 del Codice del Terzo settore vieta la corresponsione ai volontari di rimborsi spese di tipo forfetario. La certificazione del rimborso, pertanto, dovrà essere accompagnata dai documenti idonei a dimostrare l’effettivo sostenimento delle spese da parte del volontario e l’inerenza delle stesse all’attività svolta dall’organizzazione. I limiti massimi e le condizioni del rimborso, inoltre, dovranno essere individuati preventivamente da parte degli dell’ente del Terzo settore. Particolare attenzione andrà prestata al rispetto di queste condizioni: in caso di controlli dell’Amministrazione finanziaria, i rimborsi non documentati o eccedenti i limiti preventivamente stabiliti potrebbero essere qualificati come compensi, con conseguente ripresa a tassazione (si veda, sul punto, l’ordinanza della Cassazione n. 23890 del 2015).

Il Codice del Terzo settore introduce, tuttavia, una semplificazione per le spese di minore entità: se l’importo non supera i 10 euro giornalieri e i 150 euro mensili, è prevista la possibilità di erogare il rimborso a fronte di un’autocertificazione resa dal volontario. In tal caso, l’organo sociale competente (assemblea e/o consiglio di amministrazione) dovrà comunque deliberare in merito all’individuazione delle tipologie di spese e le attività di volontariato per i quali è ammessa questa semplificazione. Il rimborso a fronte di autocertificazione non è consentito, in ogni caso, per le attività di volontariato che hanno ad oggetto la donazione di sangue o di organi (articolo 17, comma 4 del Cts).
L’intento è quello di snellire gli adempimenti per gli acquisti di valore contenuto. Se il volontario spende, ad esempio, per comprare il pranzo, un caffè, o il biglietto del trasporto pubblico, può, in questo modo, evitare di conservare e allegare i relativi scontrini. Resta ferma, in ogni caso, la necessità di indicare nell’autocertificazione il dettaglio delle spese, che dovranno rientrare tra quelle per cui l’ente ha specificamente e preventivamente autorizzato questa tipologia di rimborso.

Fonte “Il sole 24 ore”

Formazione 4.0 agevolata solo se i costi sono certificati

di Giuseppe Carucci e Barbara Zanardi

Le imprese che intendono usufruire del credito d’imposta per la formazione 4.0 dei propri dipendenti devono organizzarsi in fretta per soddisfare entro il 31 dicembre 2018 i requisiti previsti dal decreto attuativo pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 22 giugno.

L’agevolazione

La legge di Bilancio 2018 attribuisce infatti a tutte le imprese, indipendentemente dalla forma giuridica, dal settore economico nonché dal regime contabile adottato, un credito d’imposta nella misura del 40% del costo aziendale del personale dipendente per il periodo in cui si è occupato di attività di formazione nell’ambito delle tecnologie previste dal piano nazionale Industria 4.0 (ad esempio, big data e cyber security), a condizione che siano applicate negli ambiti vendita, marketing, informatica, tecniche e tecnologie di produzione.

Il credito d’imposta è riconosciuto, fino ad un importo massimo annuale di 300mila euro in modo “automatico”. L’impresa, dunque, matura il beneficio con il sostenimento delle spese ammesse all’agevolazione senza che sia necessario presentare un’istanza di accesso all’incentivo. Vediamo, quindi, quali sono le azioni da porre in essere per poter usufruire di questa agevolazione in scadenza al 31 dicembre 2018, con riferimento alla quale sono state messe in campo risorse per 250 milioni di euro.

Cosa fare per garantirsi il credito

La prima azione riguarda l’individuazione di un piano di formazione compatibile con l’ambito oggettivo previsto dalla norma, dei soggetti interni od esterni da incaricare, dei dipendenti con contratto di lavoro subordinato – anche a tempo determinato – destinatari delle attività, del loro costo azienda nonché della possibile durata di queste attività formative. Con queste informazioni le imprese dovrebbero essere in grado di stimare il possibile beneficio: un’attività di formazione, ad esempio, in tema di robotica avanzata utilizzata nell’ambito delle tecniche di produzione, da erogare a 50 dipendenti per dieci giorni lavorativi con un costo azienda medio giornaliero di 200 euro, genererebbe un credito di 40mila euro.

Terminata la prima analisi di fattibilità, è necessario avviare le trattative con le organizzazioni sindacali. La legge di Bilancio, infatti, prevede come condizione che le attività di formazione negli ambiti richiamati debbano essere pattuite attraverso contratti collettivi aziendali o territoriali mentre il decreto Mise/Mef ricorda che tali contratti devono essere depositati in via telematica presso l’Ispettorato territoriale del lavoro competente. Inoltre deve essere rilasciata a ciascun dipendente una dichiarazione del rappresentante legale dell’impresa nella quale sia attestata l’effettiva partecipazione alle attività formative agevolabili, con indicazione degli ambiti aziendali nei quali sono applicate le conoscenze e le competenze acquisite o consolidate.

Un altro passo necessario è ottenere la certificazione dei costi di formazione dal soggetto incaricato della revisione legale, o da un professionista iscritto nel Registro dei revisori legali per le imprese non soggette a revisione. Tale certificazione va allegata al bilancio e deve attestare l’effettivo sostenimento delle spese ammissibili nonché la corrispondenza delle stesse alla documentazione contabile predisposta dall’impresa.

Completa il quadro delle azioni da compiere per garantirsi l’agevolazione la redazione di una relazione, prevista dal decreto attuativo, che illustri le modalità organizzative e i contenuti delle attività di formazione svolte. Tale relazione va predisposta a cura del dipendente partecipante alle attività in veste di docente o tutor nel caso di formazione organizzata internamente oppure dal soggetto formatore nel caso in cui l’attività sia stata esternalizzata (a soggetti accreditati o ad Università). Sempre dal punto di vista documentale, l’impresa deve conservare anche i registri nominativi di svolgimento delle attività formative sottoscritti congiuntamente dal personale discente e docente o dal soggetto formatore esterno all’impresa.

Altri adempimenti attengono inoltre la compilazione della dichiarazione dei redditi relativi al periodo d’imposta 2018.

Fonte “Il sole 24 ore”

Acconti e fatture Iva: detrazioni al riparo anche se la data della vendita è incerta

di Matteo Balzanelli, Massimo Sirri e Riccardo Zavatta

È salva la detrazione dell’Iva riguardante il versamento di un acconto eseguito dal potenziale acquirente dei beni se, al momento del versamento, tutti gli elementi relativi alla futura vendita risultano certi, anche se la data della cessione è ancora incerta. È questo in estrema sintesi il principio che emerge dalla recente giurisprudenza, europea e italiana, intervenuta sul tema. Ma vediamo, con ordine, quali sono le indicazioni normative relative all’esigibilità dell’imposta sul valore aggiunto.

La disciplina
La possibilità di riscuotere l’Iva e il correlato diritto di detrazione sono ancorati al momento in cui è effettuata la cessione dei beni o la prestazione del servizio (fatto generatore). Nel caso del pagamento di un acconto opera una deroga rispetto a questa regola generale e l’imposta diviene esigibile (e detraibile) al momento del pagamento, come prevede in linea generale l’articolo 6, comma 4 del Dpr 633/1972 . Affinché operi la deroga, tuttavia, è necessario che tutti gli elementi che qualificano la futura cessione o prestazione siano già noti all’atto del versamento e, in particolare, che i beni e i servizi oggetto dell’operazione siano già specificamente individuati.

La pronuncia europea
Questo principio, già fatto proprio dalla giurisprudenza comunitaria (sentenza C-419/02 ), si arricchisce ora di qualche elemento di dettaglio, grazie a ulteriori indicazioni della stessa Corte di giustizia Ue espresse con la sentenza dello scorso 31 maggio (cause C-660/16 e C-661/16 ).

Secondo la pronuncia europea, occorre porsi nella prospettiva dell’operatore al momento in cui è pagato l’acconto. Se a tale data sono già definite le caratteristiche e il prezzo dei beni, ancorché non sia nota con precisione la data della futura vendita, il diritto di detrazione è salvo, a meno che il cessionario (o committente, per i servizi) sapesse o non potesse ragionevolmente ignorare che l’operazione era incerta.

L’esigenza di provare che, nel momento del pagamento dell’acconto (ma lo stesso potrebbe dirsi in caso di emissione anticipata della fattura), l’operazione è già individuata nei suoi elementi costitutivi e che, pertanto, non sussistono ragionevoli dubbi sulla sua esecuzione nei termini concordati, assume una valenza generale nel meccanismo applicativo del tributo. Non soltanto, quindi, agli effetti dell’esigibilità dell’imposta e del diritto di detrazione, ma anche sulla stessa qualificazione dell’operazione in termini d’imponibilità, non imponibilità, esenzione, eccetera.

L’esempio
Si pensi al caso di un acconto percepito in vista di una successiva cessione all’esportazione. Per emettere fattura non imponibile ai sensi dell’articolo 8 del decreto Iva, è necessario provare non solo che il bene oggetto della vendita è specificamente individuato, ma altresì che è destinato all’esportazione (Cassazione 10606/2015 ).

In assenza di precise indicazioni di fonte ufficiale, si ritiene che l’effettiva destinazione del bene sia comprovabile sulla base di idonea documentazione di corredo e, quindi, innanzitutto, esibendo il contratto di fornitura contenente le indicazioni su termini e modalità di consegna.

In aggiunta, potrebbero essere di aiuto gli accordi con lo spedizioniere incaricato e le pattuizioni relative all’esecuzione delle formalità doganali, così come lo scambio di corrispondenza commerciale fra le parti e, in generale, tutta la documentazione che illustri in modo coerente lo svolgimento dell’operazione.

Le operazioni con l’estero
Analoghe considerazioni valgono in caso di cessioni intracomunitarie, laddove rileva il trasferimento dei beni in altro Stato Ue (fermo restando che l’emissione della fattura su acconto ricevuto rappresenta ora una mera facoltà per il cedente). Nel caso di operazioni con l’estero, del resto, la cautela è più che giustificata, considerato che l’acquisizione dello status di esportatore abituale e il diritto di utilizzare il plafond per eseguire acquisti senza applicazione dell’imposta, si collegano alla registrazione delle fatture, comprese quelle d’acconto (nella prospettiva che l’operazione sia destinata a perfezionarsi), e non più alla materiale esecuzione dell’operazione (circolare 145/1998).

Gli obblighi formali
Infine, è bene fare attenzione anche alla redazione della fattura d’acconto. Innanzitutto va ricordato, come ribadito recentemente dalla Cassazione (ordinanza 13882/2018) allineata alla giurisprudenza Ue (sentenza C-516/14 ), che l’inosservanza di taluni obblighi formali nella compilazione delle fatture non comporta l’automatica indetraibilità dell’imposta (o il diniego del regime di non imponibilità), dovendosi tenere conto anche delle informazioni e degli elementi integrativi e succedanei rispetto alla fattura. Tuttavia, non v’è dubbio che una puntuale descrizione dei beni/servizi sia assai opportuna per far ulteriormente constare la volontà di eseguire la prospettata operazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Quello spiraglio per il ravvedimento sulle operazioni soggettivamente inesistenti

di Antonio Zappi

Se un cessionario/committente assume consapevolezza che un’operazione economica è stata posta in essere da una controparte diversa da quella indicata in fattura come fornitore, ma se ne accorge solo dopo aver presentato la dichiarazione, incappa in una operazione accertabile come soggettivamente inesistente e rischia di vedersi contestare la falsità documentale.

Molto spesso, allora, il contribuente, nella difficoltà di provare con elementi oggettivi la propria buona fede, preferirebbe rinunciare a difendere la detrazione del tributo ed a ravvedere un’indebita detrazione dell’Iva, ante-accertamento, per evitare ogni contaminazione da illecito altrui e non subire conseguenze penali, nonché anche per evitare il rischio della sanzione per infedele dichiarazione (aumentabile anche della metà per violazioni da falsa fatturazione, ex articolo 5, comma 4-bis, del Dlgs 471/1997, ovvero dal 135% al 270% dell’imposta). Detta sanzione, peraltro, assorbe anche quella per l’utilizzo in compensazione del credito illecito, giusto quanto chiarito con la risoluzione 36/E/2018, con la quale le Entrate hanno illustrato il trattamento sanzionatorio da adottare nei casi di detrazione e/o di utilizzo di crediti Iva derivanti da falsa fatturazione, ma nella quale, per ovvie ragioni, non hanno fatto alcun cenno all’ipotesi di poter anche ravvedere infrazioni alla normativa tributaria suscettibili di fraudolenza, in quanto è ben nota la netta chiusura espressa sul tema nel corso del Telefisco 2018, sia dalle Entrate che dalla Guardia di finanza.

Tuttavia, se già l’impossibilità di ravvedere gli effetti delle fatture false inserite in dichiarazione è alquanto controversa, poiché la posizione del Fisco (circolare 180/E/98) non per tutti coincide né con la formulazione dell’articolo 13 del Dlgs 472/1997, né con quella dell’articolo 13-bis del Dlgs 74/2000 (Cassazione, sentenza 5448/2018), in un caso come quello prospettato, anche a voler aderire alla tesi erariale secondo cui il concetto di «errore od omissione» va escluso per le violazioni connotate dalla fraudolenza, un ravvedimento operoso sarebbe difficilmente sindacabile anche dal Fisco, perché l’erronea identificazione in buona fede della controparte di una operazione economica realmente avvenuta integra un errore qualificabile come colposo, ovvero, mutuando le stesse parole espresse dalle Entrate per giustificare le inibizioni dal ravvedimento, un’infrazione non considerabile come “caratterizzata da un grado di intrinseca antigiuridicità”, al punto che, in assenza di ravvedimento, per il contribuente estraneo alla frode la detrazione del tributo sarebbe anche ammessa.

Proponendo, quindi, una resipiscenza dall’errore originario con una dichiarazione a sfavore non appena si assume consapevolezza della diversità anagrafica del reale fornitore, un ravvedimento operoso per escludere fatture includenti un elemento antigiuridico, ma avente origine in un errore/omissione, appare perfezionabile, mentre risulterebbe illegittimo far derivare solo da una non adeguata verifica della controparte di un’operazione economica (oggettivamente esistita) un’ipotesi preclusiva del ravvedimento operoso di un’indebita detrazione ed infedele dichiarazione (sanzione base 90%): perché finché c’è inconsapevolezza non può esserci frode.

Fonte “Il sole 24 ore”

Tre strade differenti per gli affitti brevi in dichiarazione

di Mario Cerofolini, Lorenzo Pegorin e Gian Paolo Ranocchi

Le locazioni brevi entrano a pieno regime nei modelli dichiarativi 2018 con tutte le novità approvate nel 2017. Di fatto, i contribuenti si trovano di fronte a tre possibili percorsi dichiarativi:

le locazioni stipulate prima del 1° giugno 2017, che seguono le vecchie regole;

le locazioni brevi stipulate dal 1° giugno 2017 sottoposte a ritenuta da parte dell’intermediario;

le locazioni brevi non sottoposte a ritenuta.

La nuova disciplina è contenuta nell’articolo 4 del Dl 50/2017 , che ha ridisegnato l’intero regime fiscale delle locazioni brevi, con modifiche che interessano i proprietari, gli inquilini e anche le agenzie immobiliari. I chiarimenti dell’agenzia delle Entrate su questo tema sono stati forniti con la circolare 24/E/2017.

I contratti e la tassazione

A partire dal 1° giugno 2017 è stata introdotta una disciplina fiscale ad hoc che permette l’esercizio dell’opzione relativa alla cedolare secca (con aliquota al 21%) per i contratti, stipulati da persone fisiche, di locazione, sublocazione e le concessioni in godimento oneroso a terzi da parte del comodatario, che hanno a oggetto immobili a uso abitativo, situati in Italia. Si tratta dei contratti di durata complessiva non superiore a 30 giorni, il cui limite si determina computando tutti i rapporti di locazione – di durata inferiore a 30 giorni – intercorsi nell’anno con lo stesso conduttore (circolare 12/E/1998 ).

Peraltro, nel caso delle locazioni di durata non superiore a 30 giorni la cedolare era già applicabile fin dal 2011: l’innovazione del Dl 50 sta nella possibilità di applicarla anche quando, insieme alla messa a disposizione della casa, vengano rese altre prestazioni.

Resta inteso che, in caso di mancato esercizio dell’opzione per la cedolare secca, il contribuente dovrà assoggettare ordinariamente a Irpef i relativi redditi.

Le nuove regole si applicano sia nel caso in cui i contratti siano stipulati direttamente tra chi detiene l’immobile (proprietario o titolare di altro diritto reale, sublocatore o comodatario) e il conduttore, sia quando intervengono i soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare (anche attraverso portali online). In quest’ultimo caso, l’ulteriore novità (si veda l’altro articolo) è costituita dall’introduzione di una ritenuta del 21% da applicare a cura dell’intermediario.

Il contratto di locazione breve può avere a oggetto, unitamente alla messa a disposizione dell’immobile abitativo, anche la fornitura di biancheria e la pulizia dei locali e di altri servizi che corredano la messa a disposizione dell’immobile, come ad esempio, la fornitura di utenze, wi-fi, aria condizionata.

La disciplina delle locazioni brevi non è invece applicabile se insieme alla messa a disposizione dell’abitazione sono forniti servizi aggiuntivi che non presentano una necessaria connessione con la finalità residenziale dell’immobile, quali ad esempio, la fornitura della colazione, la somministrazione di pasti, la messa a disposizione di auto a noleggio o di guide turistiche o di interpreti.

La natura del canone

Il reddito conseguito dalle locazioni brevi può assumere una diversa natura, in relazione al soggetto titolare dello stesso.

Se l’immobile è concesso in locazione da parte del proprietario o dal titolare dell’usufrutto si dovrà compilare nel modello Redditi il quadro RB, tassando il corrispettivo pattuito per competenza (secondo le logiche che governano i redditi fondiari), anche se questo non è stato interamente percepito nell’anno.

Laddove il canone di locazione sia assoggettato a Irpef (in assenza di opzione per la cedolare), questo risulterà imponibile nella misura del 95%, ovvero con abbattimento del 35% per gli immobili di interesse storico, o del 25% per Venezia centro e isole limitrofe.

In caso di opzione per la cedolare secca sarà invece l’intero canone di locazione a essere assoggettato all’imposta sostitutiva nella misura del 21%, che andrà poi successivamente liquidata nel nuovo quadro LC. L’opzione per la tassazione piatta, non essendoci l’obbligo di registrare il contratto, va fatta direttamente in dichiarazione dei redditi e si esercita singolarmente per ciascuno dei contratti stipulati nell’anno. Per lo stesso immobile è, infatti possibile nei singoli periodi, con i diversi conduttori “brevi” optare o meno per la tassa piatta.

Nel caso in cui il contratto venga volontariamente registrato, la scelta viene fatta in sede di registrazione.

In caso, invece, di locazione breve dell’immobile da parte del comodatario (o sublocatore), il reddito sarà tassato in capo a quest’ultimo come reddito diverso e dovrà essere indicato obbligatoriamente nel quadro RL (rigo RL10).

In questa ipotesi il reddito da dichiarare sarà quello riferibile ai soli canoni incassati nell’anno (principio di cassa), senza tenere conto di quando effettivamente il soggiorno ha avuto luogo. Le istruzioni opportunamente segnalano che, laddove si sia optato per la tassazione in cedolare secca non sarà possibile compilare la colonna 5 «Spese» (rigo RL10) poiché dovrà essere tassato l’intero canone da contratto.

In questo caso, il proprietario dell’immobile dovrà indicare nel quadro RB solamente la rendita catastale dell’immobile concesso in comodato gratuito.

Fonte “Il sole 24 ore”

Il professionista deduce il leasing immobiliare

di Gian Paolo Tosoni

I professionisti possono dedurre i canoni di leasing immobiliare ma non l’ammortamento del fabbricato strumentale. La conferma da parte dell’Agenzia in occasione dello speciale L’esperto risponde era scontata, ma ha consentito di aprire il dibattito su una delle tante anomalie del nostro sistema tributario, sottolineata nell’occasione dal consigliere delegato alla fiscalità del Cndcec Gilberto Gelosa.

L’articolo 54, comma 2, del Tuir in tema di deducibilità del costo dei beni ammortizzabili prevede fra l’altro che la deduzione dei canoni di locazione finanziaria è ammessa per un periodo non inferiore alla metà del periodo di ammortamento corrispondente al coefficiente stabilito dall’apposito decreto; in caso di beni immobili la deduzione è ammessa per un periodo non inferiore a dodici anni. Tale modifica è stata introdotta dal dall’articolo 1, comma 162, della legge 147/2013 con effetto dai contratti di locazione finanziaria stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2014. In quella occasione il legislatore aveva fissato il limite minimo di deducibilità per i canoni di leasing immobiliare nella misura di dodici anni prevedendo la modifica anche per il reddito di lavoro autonomo, senza considerare che per tali soggetti la deducibilità non era ammessa. Però introducendo una norma che stabiliva il nuovo limite di deducibilità temporale, ha legittimato la rilevanza fiscale del costo anche per i professionisti.

Mentre la deducibilità dell’ammortamento dei fabbricati strumentali per l’esercizio di arti e professioni si è fermata agli acquisti effettuati fino al 31 dicembre 2009 relativamente agli immobili acquistati nel periodo dal 2007 al 2009.

Quindi durante il forum, l’Agenzia ha ricordato che in mancanza di una espressa previsione normativa, resta invece a tutt’oggi preclusa la possibilità di dedurre gli ammortamenti relativi ai beni immobili strumentali acquistati dal professionista a partire dal 1° gennaio 2010.

Per questi immobili si applica la disposizione contenuta nell’articolo 43 del Tuir la quale afferma che il fabbricato strumentale posseduto e utilizzato esclusivamente per l’esercizio della professione, non produce reddito fondiario e quindi non deve essere assolta l’Irpef sulla rendita catastale.

Inoltre la risposta dell’Agenzia ricorda che la indeducibilità del costo sostenuto dal professionista per l’acquisto diretto dell’immobile strumentale è contemperata dalla irrilevanza delle eventuali plusvalenze prodotte dal medesimo bene (risoluzione 13/E/2010) le quali sono imponibili solamente per gli immobili acquistati nel periodo 2007/2009 per i quali sono state dedotte le quote di ammortamento. Nella fattispecie la vendita non genera plusvalenza, anche se il fabbricato viene ceduto entro cinque anni in quanto l’articolo 67 del Tuir, in materia di redditi diversi colpisce le plusvalenze realizzate al di fuori dell’esercizio di arti e professioni e di impresa.

Per gli immobili acquisiti mediante contratti di leasing, con canoni dedotti, si porrà il problema della plusvalenza quando saranno ceduti tenuto conto che l’articolo 54 del Tuir contempla anche per i professionisti la tassazione delle plusvalenze e deduzione delle minusvalenze dei beni strumentali. Verosimilmente il fabbricato strumentale riscattato dal professionista e poi ceduto o destinato all’uso personale, rientrerà in questa fattispecie.

Invece l’articolo 54 del Tuir per i professionisti non contempla la rilevanza fiscale della sopravvenienza attiva costituita dal valore normale del bene che si verifica in presenza di cessione del contratto (articolo 88 del Tuir). Non convince la tesi che la sopravvenienza venga inquadrata fra gli elementi immateriali riferibili alla attività professionale e quindi tassabili analogamente alla cessione della clientela (comma 1-quater, articolo 54 del Tuir).

Fonte “Il sole 24 ore”

Calcoli certi per il bonus ricerca & sviluppo nelle operazioni straordinarie

di Emanuele Reich e Franco Vernassa

Le attese istruzioni sull’applicazione del credito d’imposta sulla Ricerca e sviluppo in presenza di operazioni straordinarie sono arrivate con la circolare n. 10/E del 16 maggio 2018, elaborata congiuntamente dall’agenzia delle Entrate e dal ministero dello Sviluppo economico. Trasformazioni, fusioni, scissioni e conferimenti posseggono ora i criteri di applicazione per la determinazione del credito per le operazioni da realizzare o che trovano compimento d’ora in poi.

Nessuna preoccupazione per il pregresso, cioè gli esercizi 2015, 2016 e 2017, quando esistevano condizioni di incertezza della normativa di riferimento (articolo 3, del Dl 145/2013 e Dm 27 maggio 2015) che non tratta specificatamente le operazioni straordinarie. Infatti, come già avvenuto con la precedente circolare n. 13/2017, l’Agenzia tutelerà le imprese che – avendo applicato criteri interpretativi diversi da quelli ora indicati – hanno ottenuto un beneficio maggiore o minore di quello spettante alla luce della nuova circolare, in quanto:

nessuna sanzione sarà applicata nell’ipotesi in cui una parte del credito sia stato indebitamente utilizzato in compensazione, fatto salvo il versamento del credito e dei relativi interessi;

sarà invece possibile presentare una dichiarazione integrativa a favore per i periodi d’imposta 2015 e 2016, se il credito effettivamente spettante risulterà maggiore di quanto in precedenza calcolato, con conseguente utilizzo in compensazione.

La circolare individua tre principi di carattere generale alla base delle regole di calcolo: l’autonomia della disciplina agevolativa rispetto all’ordinaria disciplina di determinazione del reddito d’impresa (e dell’imposta); l’autonomia dei singoli periodi d’imposta; il ragguaglio alla durata dei periodi di imposta dei parametri rilevanti ai fini del calcolo del bonus (importo minimo degli investimenti; tetto massimo annuale; media storica di riferimento).

Sul primo principio la circolare 10/E distingue tre profili:

individuazione, determinazione ed imputazione temporale dei costi ammissibili, potendo accadere che in un determinato periodo d’imposta i costi ammissibili al credito Ricerca e sviluppo non coincidano con i costi rilevanti per la determinazione del reddito d’impresa, al fine di uniformare il trattamento dei soggetti beneficiari dell’incentivo a prescindere da regole contabili (costo o capitalizzazione), criteri di determinazione del reddito (Ias, Oic adopter, micro-imprese, forfetizzazione);

clausola di territorialità con riferimento al caso della ricerca contrattuale (extra-muros);

ricerca infragruppo con riqualificazione di fatto da ricerca extra-muros a ricerca intra-muros.

Il secondo e terzo principio generale rilevano se vengono a specificarsi periodi di imposta di durata diversa da quella ordinaria di 12 mesi, che è anche il caso tipico delle operazioni straordinarie.

In proposito, premesso che i sei periodi di imposta di durata dell’agevolazione (2015-2020) corrispondono a 72 mesi, si chiarisce che «è necessario adeguare la tempistica per la determinazione del credito spettante in modo da garantire la possibilità di accedere al beneficio per un arco temporale complessivamente non superiore e non inferiore a settantadue mesi». Di conseguenza nel caso di un periodo agevolato di durata inferiore o superiore a quello standard di 12 mesi diventa necessario operare il ragguaglio dei parametri rilevanti per il calcolo del credito (ammontare minimo di investimenti, importo massimo del credito d’imposta riconosciuto annualmente a ciascun beneficiario e media di riferimento).

Fonte “Il sole 24 ore”

Termini ridotti sui crediti inesistenti in dichiarazione

Per i crediti non spettanti e per quelli inesistenti indicati in dichiarazione termini ridotti per accertamento. È quanto sembra emergere dallarisoluzione 36/2018 dell’agenzia delle Entrate (si veda il Sole 24 Ore di ieri). Il documento, che individua la corretta sanzione applicabile per l’ipotesi di recupero di un credito considerato inesistente, ove sia già stato oggetto di specifico avviso di accertamento, fornisce chiarimenti anche sulla procedura che gli uffici devono osservare per tali contestazioni.

L’articolo 27 del Dl 185/2008, al fine di contrastare l’utilizzo di crediti inesistenti, ha introdotto un più ampio termine di decadenza del potere di accertamento (8 anni), inoltre il suddetto termine decorre non dalla data di presentazione della dichiarazione relativa all’anno in cui il credito inesistente è sorto, ma dalla data dell’illegittima compensazione.

Con la riforma del sistema sanzionatorio è stato poi previsto che il credito è inesistente qualora tale violazione non sia riscontrabile mediante controlli automatizzati e formali.

Nonostante il trattamento particolarmente gravoso riguardasse, fin dall’origine, solo i crediti inesistenti, gli Uffici hanno sempre utilizzato il maggior termine di 8 anni anche per indebite compensazioni di crediti non spettanti.

In proposito la risoluzione n. 36/2018 ha ora precisato che solo quando il credito fruito non può essere “intercettato” mediante controlli automatizzati, la violazione può essere sanzionata più gravemente. Ne consegue che in tutte le ipotesi di crediti non spettanti (e non inesistenti), gli Uffici non possono beneficiare del più ampio termine di decadenza dovendo notificare gli atti entro gli ordinari termini.

Nel documento sono inoltre individuate due tipologie di credito inesistente da cui scaturiscono differenti tempi di decadenza e di tipologia di atti impositivi:

• derivante da «eccedenze di imposta», che transitano in dichiarazione, per il quale è necessaria la notifica di un avviso di accertamento entro gli ordinari termini di decadenza;

• derivante da «agevolazioni», per il quale occorre l’atto di recupero, che può beneficiare degli 8 anni.

Il «credito derivante da eccedenza di imposta» transita in dichiarazione e pertanto è verosimile che si possa classificare inesistente se discendente da imponibili presumibilmente falsi (ad esempio, il credito Iva derivante dall’indicazione di operazioni passive contenenti fatture false o simili).

Il credito da “agevolazioni”, transita nel quadro RU della dichiarazione, ma rappresenta un valore indicato dal contribuente senza alcuna indicazione sulla sua formazione, con la conseguenza che l’Ufficio non potrebbe scoprirne la falsità attraverso un controllo automatizzato.

Secondo quanto emerge dalla risoluzione solo nel primo caso si applicherebbero gli ordinari termini di decadenza. Tuttavia sostenendo, come ad un certo punto evidenzia la risoluzione, che il termine ordinario si applica a tutti i crediti che transitano in dichiarazione, si potrebbe concludere che anche per i crediti da agevolazione non troverebbe applicazione la decadenza lunga proprio perché anch’essi transitano in dichiarazione (quadro RU). Attesa la delicatezza della questione, sarebbe auspicabile un intervento chiarificatore.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Sì a deduzione del costo e detrazione dell’Iva sugli acquisti di carburante effettuati dal 1° luglio 2018 dal lavoratore dipendente con la propria carta di credito e successivamente rimborsati dalla società, a condizione che il rimborso avvenga con i mezzi di pagamento tracciabili (provvedimento delle Entrate 4 aprile 2018). È quanto emerge dalla circolare 8/E/2018.

La precedente modifica
Ma facciamo un passo indietro. In occasione delle modifiche apportate dal Dl 70/2011 all’articolo 1, comma 3-bis, del Dpr 444/1997, che avevano permesso la deroga all’obbligo di tenuta della scheda carburante a quei soggetti Iva che garantivano i pagamenti delle spese per carburante esclusivamente mediante carte di credito, carte di debito o carte prepagate, la circolare 42/E/2012 aveva precisato che tali modifiche «non possono far venire meno, in toto, l’esigenza di disporre di una serie di elementi, necessari a consentire la verifica dell’esistenza del diritto alla detrazione Iva e della deducibilità del costo nella misura spettante, in capo al soggetto acquirente. Detti elementi, in particolare, sono indispensabili per ricollegare l’acquisto effettuato al soggetto, persona fisica o giuridica, che esercita un’attività d’impresa o un’arte o una professione. Si ritiene, pertanto, necessario che il mezzo di pagamento sia intestato al soggetto che esercita l’attività economica, l’arte o la professione e che dall’estratto conto rilasciato dall’emittente della carta emergano tutti gli elementi necessari per l’individuazione dell’acquisto, quali, ad esempio, la data ed il soggetto presso il quale è effettuato il rifornimento, nonché l’ammontare del relativo corrispettivo».

L’interpretazione di prassi si poteva considerare coerente proprio in virtù del fatto che l’utilizzo della moneta elettronica, permettendo una sorta di documentazione insita consistente nelle risultanze degli estratti conto, rendeva inutile le annotazioni mediante compilazione della scheda carburante.

Oggi, invece, la legge di Bilancio 2018 ha introdotto la fatturazione elettronica obbligatoria nel settore dei carburanti dal 1° luglio, eliminando la vecchia scheda carburante, mediante l’abrogazione in toto del Dpr 444/1997. La circolare 8/E/2018 rende validi i pagamenti effettuati dal soggetto passivo d’imposta in via mediata, come nel caso di rifornimento di benzina di un’autovettura aziendale che il dipendente effettua presso un distributore stradale durante una trasferta di lavoro. L’Agenzia spiega che se «il pagamento avviene con carta di credito/debito/prepagata del dipendente (o altro strumento individuato nel provvedimento direttoriale del 4 aprile 2018 allo stesso riconducibile) ed il relativo ammontare gli sia rimborsato, secondo la legislazione vigente, avvalendosi di una delle modalità individuate dalla legge di bilancio (ad esempio, tramite bonifico bancario unitamente alla retribuzione), non vi è dubbio che la riferibilità della spesa al datore di lavoro ne consentirà la deducibilità (nel rispetto, come ovvio, degli ulteriori criteri previsti dal Tuir)».

Il confronto tra le due interpretazioni
Il meccanismo del rimborso della spesa per carburante anticipata dal dipendente per l’azienda, di fatto, rischia di costringere il dipendente stesso a richiedere la fattura elettronica per documentare un acquisto fatto per conto di un soggetto Iva, la società, obbligato alla ricezione della fattura elettronica in base all’articolo 1, comma 920, della legge 205/2017.

Tale circostanza si sarebbe potuta evitare se fosse rimasta in piedi la “precedente” semplificazione che la moneta elettronica aveva permesso di raggiungere e che ora si perdebbe con l’abrogazione del regolamento. La circolare, richiamando implicitamente il comma 910 dell’articolo 1 della legge 205/2017, rende infatti indifferente l’utilizzo dell’assegno o del bonifico piuttosto che della carta di credito.

Fonte “il sole 24 ore”

E-fattura, la data di emissione coincide con la consegna

Dichiarazioni e adempimenti
di Benedetto Santacroce

 Con la pubblicazione del provvedimento di attuazione , delle specifiche tecniche e di una prima circolare l’operazione fattura elettronica entra nel vivo, dando appuntamento al 1° luglio. I documenti dell’Agenzia superano alcune criticità espresse anche nel forum della fattura elettronica del 5 marzo e introducono una serie di semplificazioni.

Indirizzamento

In primo luogo, le nuove regole agevolano il recapito della fattura, ampliando i casi in cui la semplice partita Iva guida la consegna del documento al destinatario.

In particolare, il problema che si pone per l’emittente è individuare in relazione a ciascun cessionario/committente la Pec o un altro indirizzo univoco di comunicazione. Per risolvere il problema il provvedimento introduce un sistema di preregistrazione del cessionario/committente che ricollega le fatture con la relativa partita Iva. Nel caso di preregistrazione la fattura emessa con Pec errata o con codice identificativo incompleto o mancante fa sì che la fattura venga recapitata al cessionario/committente seguendo la semplice partita Iva. In caso di mancata registrazione le opzioni offerte dal provvedimento si basano sempre su due obblighi: il primo per il cessionario/committente di fornire l’indirizzo al fornitore; il secondo è in capo all’emittente. Nel caso di problemi tecnici (si pensi all’indicazione di una Pec non attiva) il Sdi prova a recapitare la fattura; e non riuscendovi mette a disposizione dell’emittente e del destinatario un duplicato informatico in una apposita area del sito delle Entrate e notifica all’emittente il mancato recapito. Quest’ultimo ha l’obbligo di informare il cessionario/committente, anche con l’invio di una copia informatica o analogica, che la fattura è disponibile sul web.

Più semplice il recapito a destinatario consumatore finale ovvero operatore che non è obbligato all’emissione della fattura (soggetti a regimi agevolati o forfettari). In questo caso l’emittente si limiterà ad inserire il codice convenzionale “0000000”.

Data della fattura

Il provvedimento, ai soli fini fiscali, specifica che per l’emittente la data di emissione è quella apposta sulla fattura. Attenzione, però, che l’emissione vera e propria della fattura si ha solo con esito positivo da parte del Sdi con ricezione della ricevuta di consegna. Quindi in caso di scarto della fattura, la stessa si ha per non emessa e bisognerà provvedere con una nota di variazione interna con una nuova spedizione della fattura corretta al Sdi.

Per il destinatario la fattura si ha per ricevuta nello stesso momento in cui viene recapitata. Potrebbe capitare che la fattura non venga, per problemi tecnici, recapitata al cessionario/committente. In questo caso un duplicato viene a messo a disposizione sul sito dell’Agenzia. Il fornitore, per il quale la fattura si considera emessa, deve comunicare al destinatario la messa a disposizione. Per il destinatario, la data di ricezione si sposta, ai soli fini della detraibilità Iva, al momento in cui il cessionario/committente entra nell’area riservata e prende visione della fattura.

Conservazione delle fatture

L’emittente e il destinatario della fattura, aderendo a uno specifico accordo di servizio con l’agenzia delle Entrate, può delegare al Sdi la conservazione della fatture e di tutti i documenti elettronici allegati alla fattura. Come specificano le motivazioni del provvedimento, questa conservazione non ha solo efficacia fiscale, ma anche civilistica. Quindi con l’accordo si assolvono a tutti gli obblighi di conservazione in ossequio alle regole imposte dal Dm 17 giugno 2014 e delle regole tecniche imposte dal Dpcm 3 dicembre 2013.

Fonte “Il sole 24 ore”

Così il patent box incontra il credito R&S

di Luigi Ferrajoli

Il credito d’imposta per le attività di ricerca e sviluppo (R&S), come contenuto nel Piano Industria 4.0, e il patent box premiano le imprese che – in senso lato – investono nel settore dell’innovazione. Alla luce di questa finalità “comune”, tuttavia, è necessario analizzare i profili di convivenza, sovrapposizione ed eventuale conflitto delle due agevolazioni.

La circolare 5/E/2016 ha chiarito che il credito d’imposta R&S e il patent box rappresentano distinti strumenti sinergici: il primo opera attraverso il riconoscimento di un’agevolazione ancorata alla misura degli investimenti effettuati; il secondo garantisce la detassazione dei redditi prodotti in ragione dello sfruttamento di beni immateriali derivanti da attività di ricerca, sviluppo e accrescimento degli stessi, da perseguire e mantenere nel tempo.

Il ministero dello Sviluppo economico, con la circolare 59990 del 9 febbraio 2018 , ha fornito chiarimenti sulla disciplina del credito d’imposta R&S, proprio traendo le mosse dagli investimenti effettuati dalle imprese italiane nel settore hi-tech. Secondo il ministero, il software per la cui scoperta o implementazione viene chiesto il credito d’imposta deve essere portatore di un reale progresso scientifico e tecnologico; in particolare, deve essere funzionale alla risoluzione di una problematica su base sistematica. In altri termini, la circolare ministeriale ha escluso dall’agevolazione le attività di tipo ricorrente o di routine, quali ad esempio quelle che possono risolversi nel mero utilizzo di un software per una nuova applicazione o semplicemente per un nuovo scopo.

La locuzione «ricerca e sviluppo» contenuta nell’articolo 8 del Dm 28 novembre 2017 cita alla lettera d) «l’ideazione e la realizzazione del software protetto dal copyright». Il che pare rispondere a requisiti meno stringenti di quelli appena visti per il credito R&S. Di fatto, quando si tratta di stabilire se le innovazioni tecnologiche riferite all’evoluzione di un software possono beneficiare del patent box, il necessario elemento di novità sembra risolversi nelle procedure che portano al riconoscimento del copyright.

D’altra parte, l’Agenzia, con la risoluzione 28/E/2017 , aveva già preso posizione sull’applicazione del patent box in casi di utilizzo indiretto di un nuovo programma applicativo. Le Entrate erano state chiamate a rispondere a un’istanza di interpello presentata da una società che voleva applicare il patent box in un caso di software coperto da copyright concesso in uso in forma di licenza iniziale, con successivi canoni di assistenza e manutenzione. Partendo dal principio Ocse del nexus approach (quale necessario collegamento tra l’agevolazione e l’effettivo svolgimento di un’attività economica che si sostanzi nella ricerca e sviluppo), l’Agenzia ha escluso dal beneficio soltanto il novero delle attività che – profilandosi come mere operazioni di implementazione, aggiornamento e personalizzazione del programma – si risolvono in una forma puramente strumentale di utilizzo del software.

Fonte “Il sole 24 ore”

La precompilata aggiorna le modifiche

Novità in vista per la precompilata 2018: a partire da quest’anno viene infatti introdotta una nuova funzionalità per consentire al contribuente di rettificare i dati delle spese nell’ambito di un servizio per la compilazione agevolata del quadro relativo agli oneri deducibili e detraibili della dichiarazione dei redditi. A prevederlo il provvedimento n. 76048/2018 pubblicato ieri sul sito dell’agenzia delle Entrate che si occupa nello specifico delle modalità tecniche di utilizzo dei dati delle spese sanitarie e delle spese veterinarie.

Secondo quanto ricavabile dal contenuto del provvedimento, a partire dal giorno in cui sarà possibile accettare, modificare o integrare direttamente la dichiarazione (2 maggio), il contribuente potrà modificare, sul sito dell’Agenzia, nell’area autenticata, tramite i servizi in cooperazione applicativa (servizio web service puntuale) esposti dal Sistema tessera sanitaria:

le informazioni di dettaglio relative alle singole spese sanitarie e ai rimborsi, anche in relazione alle spese sostenute per i familiari a carico, a esclusione delle spese e dei rimborsi per i quali l’assistito abbia manifestato l’opposizione. In particolare, il contribuente può eliminare oppure aggiungere o modificare i singoli documenti di spesa;

le informazioni di dettaglio relative alle singole spese veterinarie (e ai rimborsi).

In entrambi i casi, a seguito alle modifiche apportate, il Sistema tessera sanitaria crea una copia dei dati aggiornati delle spese e dei rimborsi e fornisce all’Agenzia, per ogni contribuente, i nuovi totali, che vengono utilizzati, come già anticipato, nell’ambito di un servizio per la compilazione agevolata del quadro della dichiarazione dei redditi relativo agli oneri deducibili e detraibili.

Per il resto, il provvedimento ricalca le stesse disposizioni stabilite dai provvedimenti 29 luglio e 15 settembre 2016. Restano invariati i dati forniti dal Sistema tessera sanitaria e le modalità di accesso ai dati e di consultazione da parte del contribuente dei dati aggregati e di quelli di dettaglio, disponibili sul sito delle Entrate. Restano invariate anche le modalità per l’opposizione a rendere disponibili i dati relativi alle spese sanitarie. Nel caso di scontrino parlante, il diniego può essere esercitato non comunicando il codice fiscale; nelle altre ipotesi, chiedendo esplicitamente al medico o alla struttura sanitaria di annotare l’opposizione nella fattura.

Con un ulteriore provvedimento (numero 76047/2018) sempre di ieri l’Agenzia ha fatto anche il punto sulle regole per l’accesso “fai da te”, o tramite Caf e intermediari abilitati, alla propria dichiarazione dei redditi. Nel provvedimento si ricorda che nella precompilata di quest’anno i contribuenti troveranno anche le spese per la frequenza degli asili nido e le erogazioni liberali destinate a Onlus, associazioni di promozione sociale, fondazioni e associazioni riconosciute aventi come scopo statutario la tutela, la promozione e la valorizzazione dei beni di interesse artistico, storico e paesaggistico e lo svolgimento o la promozione di attività di ricerca scientifica. Nell’area riservata sarà possibile visualizzare dal 16 aprile l’elenco delle informazioni relative al loro 730, in cui sono indicati separatamente i dati inseriti e quelli non inseriti (e le relative fonti informative). Le modalità di accesso alla dichiarazione restano le due ormai note: accesso diretto da parte del contribuente (Fisco on line, Cns o credenziali dispositive rilasciate dall’Inps ecc.) ed accesso da parte del sostituto d’imposta che presta assistenza fiscale, del Caf o del professionista abilitato previa acquisizione da parte di questi ultimi della specifica delega. L’accesso “delegato” alla dichiarazione precompilata è consentito fino al 10 novembre 2018, dopo una specifica richiesta all’Agenzia tramite file ovvero via web. In particolare, nella richiesta tramite file, il provvedimento modifica il riferimento temporale dei dati dichiarativi da indicare per aprire la precompilata su delega del contribuente: da quest’anno, infatti, si fa riferimento ai dati dichiarativi dell’anno che precede quello per cui viene richiesta la dichiarazione precompilata, e non più il “secondo anno precedente”, come riportavano le istruzioni del 2017.

Fonte “Il sole 24 ore”

Spese universitarie non statali a detraibilità variabile

Spesa detraibile per la frequenza di università non statali, variabile a seconda dell’area disciplinare e della zona d’Italia in cui ha sede l’ateneo.

L’articolo 15, comma 1, lett. e), DPR 917/1986, come modificato dall’articolo 1, comma 954, lett. b), della legge di Stabilità per il 2016, n. 208/2015, stabilisce che spetta una detrazione d’imposta Irpef, con riferimento alle spese sostenute per la frequenza di corsi di istruzione universitaria.

Dispone più precisamente la norma, con riferimento al periodo d’imposta 2015, che danno diritto ad una detrazione d’imposta, pari al 19 per cento, le spese sostenute per la frequenza di «corsi di istruzione universitaria presso università statali e non statali». In quest’ultimo caso, però, ossia di università non statali, la spesa su cui viene riconosciuta la detrazione in parola deve essere non superiore «a quella stabilita annualmente per ciascuna facoltà universitaria con decreto del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca», che deve essere emanato entro il 31 dicembre. Nella determinazione di tali importi, il decreto, sempre per disposizione di legge, deve tenere conto degli importi medi delle tasse e contributi dovuti alle università statali.

Con decreto 28 dicembre 2017 , ma pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 64 del 17 marzo 2018, sono state individuate le predette spese per il periodo d’imposta 2017, i cui redditi sono oggetto di dichiarazione nel 2018, attraverso il modello 730 e il modello Redditi PF 2018.

Il decreto individua varie aree disciplinari, e più precisamente quella medica, sanitaria, scientifico-tecnologica e umanistico-sociale, a cui viene abbinato un diverso limite di spesa a seconda che la sede dell’ateneo si trovi al Nord Italia, al Centro ovvero al Sud e nelle Isole.

Allegata al decreto vi è una elencazione dettagliata e analitica dei corsi di laurea che sono collegati alle quattro macro aree disciplinari individuate dall’articolo 1, comma 1, del decreto, nonché l’individuazione delle Regioni che fano parte del Nord, del Centro e del Sud e Isole.

Stabilisce ancora il decreto in commento che la spesa in oggetto e riferita agli studenti iscritti «ai corsi di dottorato, di specializzazione e ai master universitari di primo e secondo livello», viene indicata nell’importo massimo di euro 3.700, per gli atenei con sede al Nord, euro 2.900 per gli atenei con sede al Centro Italia e infine euro 1.800 per quelli del Sud e delle Isole.

Nella dichiarazione Redditi PF 2018, relativa al periodo d’imposta 2017, la detrazione in commento trova posto all’intero della Sezione I, del quadro RP, nei righi da RP8 a RP13 indicando, in colonna 1, il codice “13”. La detrazione va poi naturalmente riportata nel quadro RN, e più precisamente RN13, quadro destinato alla determinazione dell’imposta dovuta o a credito del contribuente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Software integrati, bonus al 150%

di Luca Gaiani

I principi contabili guidano la qualificazione del software ai fini dell’iperammortamento. Se si tratta di programmi di base necessari al funzionamento del macchinario 4.0, il costo si cumula a quello della macchina su cui spetta la deduzione al 150%. In caso di software «stand alone», spetta invece l’ammortamento 40% purché si tratti di immobilizzazione immateriale secondo l’Oic 24. Per determinare il costo e gli oneri accessori, occhi puntati sull’Oic 16.

Nel calcolo dell’Ires del bilancio 2017, le società fanno i conti per la prima volta con l’iperammortamento. I princìpi contabili sono di ausilio per risolvere diverse questioni, ma restano dubbi su cui si attendono interventi.

Un primo aspetto riguarda il software rientrante nell’allegato B) alla legge 232/16 che, se si è realizzato almeno un investimento «iper», può usufruire della deduzione al 40 per cento. La circolare 4/E/17 ha affermato che l’incentivo riguarda i software «stand alone» anche se acquisiti in licenza d’uso, purché iscrivibili nelle immobilizzazioni immateriali.

L’Oic 24 stabilisce che il software applicativo acquistato a titolo di proprietà, nonché in licenza a tempo indeterminato o determinato si capitalizza quanto alle somme una tantum. Vanno invece a conto economico i canoni periodici o le royalties, che dunque non usufruiscono della agevolazione. Fiscalmente (e dunque anche per il 40%), il software in proprietà oppure in licenza a tempo indeterminato senza limitazioni si deduce in misura non superiore al 50% per ciascun esercizio, mentre la licenza a tempo determinato si ammortizza in base alla durata.

La circolare ha anche previsto che il software integrato acquistato unitamente al macchinario deve considerarsi agevolabile con l’iper del 150 per cento. Poiché il software di base va sempre capitalizzato sul valore del macchinario, il relativo costo si deve ritenere soggetto al 150% anche se acquisito presso un diverso fornitore (Assonime circolare 12/2017).

Rilevano per l’iperammortanento anche gli oneri accessori di diretta imputazione. Per individuarli correttamente sono di aiuto i principi contabili ed in particolare l’Oic 16. A titolo esemplificativo si tratta di: costi di progettazione, trasporti, dazi su importazione, costi di installazione, costi ed onorari di perizie e collaudi, costi di montaggio e posa in opera, costi di messa a punto. Le opere murarie ed edili (ad esempio il basamento di cemento di un macchinario), sono da sommare al costo iper (se sostenute dal 1° gennaio 2017), solo qualora non configurino una autonoma costruzione.

Una questione rilevante riguarda alcuni grandi impianti che, in quanto fissi al suolo, vengono accatastati alla stregua di immobili. La circolare 4/E (parlando di impianti fotovoltaici e eolici) ha chiarito che non sono agevolabili le componenti immobiliari oggetto di stima catastale, mentre rientrano nel bonus le componenti che assolvono a specifiche funzioni nell’ambito del processo produttivo e che non conferiscono all’immobile una utilità comunque apprezzabile (circolare 2/E/16).

È da ritenere che, anche nel caso di «macchinari-immobili», per quantificare il costo iperammortizzabile si debba adottare un criterio funzionale. Dovrebbe usufruire del 150% il costo delle strutture che sono necessarie e specifiche per il processo, come la gabbia metallica dei magazzini verticali, che è parte integrante e insostituibile del meccanismo automatizzato, pur costituendo anche involucro e struttura portante.

Fonte “Il sole 24 ore”

L’avviamento va dedotto per intero

di Primo Ceppellini e Roberto Lugano

 Il conferimento di azienda ha da tempo trovato una disciplina fiscale stabile nell’articolo 176 del Tuir. C’è però una fattispecie sulla quale le istruzioni dell’agenzia delle Entrate portano a conclusioni anomale: si tratta del caso in cui viene conferita una azienda acquistata in precedenza, per la quale è stato contabilizzato un avviamento.

La posizione ufficiale delle Entrate è stata espressa nella circolare 8/E del 4 marzo 2010; in modo abbastanza sorprendente, l’avviamento è stato considerato come un elemento scindibile dal complesso di beni aziendali che non può essere oggetto di conferimento: «Considerato che il valore dell’asset avviamento non è oggetto di trasferimento (ma viene stornato dalla contabilità del soggetto conferente in conseguenza della perdita di valore scaturente dalla dismissione del compendio aziendale di riferimento), si ritiene che tale posta contabile debba essere esclusa dal concetto di azienda conferita».

La dottrina ha ampiamente criticato questa posizione, propendendo per una ipotesi diametralmente opposta: la norma di comportamento Aidc n. 181 del 10 giugno 2011 ha infatti affermato che in caso «di conferimento d’azienda, in relazione alla quale sia già iscritta nella contabilità del conferente una posta a titolo di avviamento, il conferitario acquisisce l’avviamento unitamente agli elementi che compongono l’azienda e subentra nel valore fiscale che l’avviamento aveva in capo al conferente».

In ogni caso, secondo le Entrate, l’ammortamento dell’avviamento prosegue presso il soggetto conferente; trattandosi nel caso di specie di una società che continua a dichiarare reddito di impresa, non vi sono penalizzazioni derivanti da questa impostazione.

Diversa è la situazione in cui il soggetto conferente perde lo status di imprenditore, cosa che avviene nel caso di conferimento dell’impresa individuale. Sul tema è stata interpellata la Dre della Lombardia, che nella sua risposta (interpello n. 904-1573/2017) ha però ritenuto ancora applicabili, nonostante il caso diverso, le conclusioni della circolare 8/E/2010: «La deduzione del valore fiscale residuo dell’avviamento preesistente (che si ribadisce non viene trasferito alla conferitaria, ma resta presso il conferente), deve avvenire per intero, ai sensi dell’articolo 101, comma 5, del Tuir, nell’ultimo periodo d’imposta del conferente, quale ultimo evento fiscale che lo riguarda prima della perdita della qualifica di imprenditore».

L’effetto penalizzante in capo all’impresa, secondo la Dre, è comunque scongiurato grazie alla possibilità di riporto delle perdite: «L’eventuale risultato fiscale negativo (emergente dal quadro RF del modello redditi persone fisiche) cui concorre anche la deduzione del valore fiscale residuo non ammortizzato dell’avviamento, è utilizzabile, ai sensi dell’articolo 8 comma 3 del Tuir, da parte dell’ex imprenditore individuale (nel quadro RH dei successivi periodi d’imposta) in compensazione con altri redditi della stessa natura».

Il risultato sembra simile a quello raggiunto con la circolare del 2010, ma è solo un’apparenza: nel caso generale, le perdite fiscali nel mondo Irpef (articolo 8, comma 3, del Tuir) sono infatti riportabili solo nei cinque periodi di imposta successivi. Il risultato di questa impostazione, chiaramente non condivisibile, è che per cinque anni il reddito di partecipazione nella conferitaria viene abbattuto dal riporto delle perdite, mentre dal sesto anno in poi le perdite residue sono inutilizzabili e quindi perse.

La vicenda diviene paradossale, poi, nel caso di conferimento in società di capitali (non trasparenti): gli unici redditi futuri saranno dividendi, quindi una tipologia non compensabile con le perdite riportate.

Sarebbe auspicabile in futuro un ripensamento dell’amministrazione, volto soprattutto a tenere in considerazione l’aspetto economico-aziendale del tema, e cioè il fatto che l’avviamento non può mai essere scisso dall’azienda a cui si riferisce.

Bonus in R&S, check list in bilancio

di Emanuele Reich e Franco Vernassa

Il credito d’imposta per l’attività di ricerca e sviluppo, di cui all’articolo 3, Dl 145/2013, oggetto di attuazione con il Dm 27 maggio 2015, deve trovare opportuna collocazione contabile nel bilancio 2017, dopo che sono state individuate le attività agevolabili dell’esercizio e sono stati tracciati i relativi costi eleggibili, che consentono la fruizione del beneficio qualora siano eccedenti rispetto alla media (fissa) del triennio 2012-2014.

In sintesi, una volta conteggiato l’ammontare del credito 2017, la società dovrà imputarlo a conto economico e commentarlo nella nota integrativa, mentre nella relazione sulla gestione dovrà illustrare le attività di ricerca e sviluppo nel loro complesso (si veda la scheda in pagina).

Per quanto riguarda quest’ultimo punto, si consiglia alle società di spiegare in misura sufficientemente dettagliata i progetti di ricerca e sviluppo iniziati o continuati dagli esercizi precedenti, sia in misura qualitativa sia quantitativa, pur mantenendo la dovuta riservatezza.

In tale modo vi sarà coerenza informativa tra quanto indicato nella relazione sulla gestione e quanto inserito nell’apposito dossier di supporto al credito d’imposta.

In nota integrativa dovrà invece essere indicato e commentato sia l’importo iscritto nel conto economico quale contributo in conto esercizio (voceA5), come si verifica nella maggior parte dei casi, sia il credito verso l’erario quale contropartita patrimoniale CII5-bis «crediti tributari». Il credito sarà oggetto di utilizzo a partire dall’esercizio 2018, attraverso l’istituto della compensazione, che costituisce l’esclusiva modalità di utilizzo (anche nell’ambito del consolidato fiscale – quadro GN), tramite il modello F24 (codice tributo 6857). Il credito non è invece cedibile o rimborsabile.

Contabilmente, è invece necessario distinguere tra il trattamento dei costi di ricerca e sviluppo e la rilevazione del credito d’imposta. Per quanto riguarda il primo punto, l’agenzia delle Entrate ha chiarito che i costi sono agevolabili indipendentemente dal trattamento contabile e, quindi, dalla loro eventuale capitalizzazione, come previsto dall’Oic 24, paragrafo 49, secondo il quale i costi di sviluppo sono capitalizzabili solo in presenza di tre caratteristiche: essere relativi ad un prodotto o processo chiaramente definito, essere riferiti ad un progetto realizzabile ed essere recuperabili.

Oltre che tra i contributi in conto esercizio, il credito d’imposta può essere contabilizzato anche tra i contributi in conto capitale, se i costi sono stati contabilizzati tra le immobilizzazioni immateriali (dal 2016 in poi, come anticipato, ciò vale solo per i costi di sviluppo ed alle descritte condizioni).

Per quanto concerne la determinazione delle imposte Ires e Irap, si ricorda che il credito d’imposta non concorre a formare la base imponibile e quindi, se contabilizzato a conto economico, costituisce una variazione in diminuzione.

Gli obblighi documentali del credito per le attività di ricerca e sviluppo (articolo 7, Dm 27 maggio 2015 e prassi dell’agenzia delle Entrate) sono sostanzialmente i seguenti:

per le spese relative al personale, fogli di presenza nominativi, riportanti per ciascun giorno le ore impiegate nell’attività agevolabili, firmati dal legale rappresentante dell’impresa beneficiaria, ovvero dal responsabile dell’attività di ricerca e sviluppo, con possibilità di firma digitale;

per i costi per strumenti e attrezzature di laboratorio, una dichiarazione del legale rappresentante dell’impresa, ovvero del responsabile dell’attività di ricerca e sviluppo;

per i costi della ricerca extra-muros, i relativi contratti, con una relazione sottoscritta dai commissionari;

per le spese per privative industriali acquisite da terzi, i relativi contratti ed una relazione, firmata dal legale rappresentante dell’impresa beneficiaria ovvero dal responsabile dell’attività di ricerca e sviluppo, concernente le attività svolte nel periodo di imposta cui il costo sostenuto si riferisce.

Si ricorda anche che nell’ipotesi di produzione interna, nonché in relazione alle attività di sviluppo, mantenimento e accrescimento del bene immateriale, l’impresa avrà cura di predisporre un adeguato sistema di rilevazione dei costi sostenuti.

La documentazione sopra indicata, idonea a dimostrare in sede di controllo l’ammissibilità e l’effettività dei costi sulla base dei quali è stato determinato il credito d’imposta, deve essere conservata per il periodo previsto dall’articolo 43 del Dpr 29 settembre 1973, n. 600, e cioè fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione relativa al periodo di imposta nel corso del quale si conclude l’utilizzo del credito.

Fonte “Il sole 24 ore”

Rivalutazioni al 30 giugno

La legge di Bilancio 2018 ha previsto l’ennesima riapertura dei termini per la rideterminazione del valore delle partecipazioni e dei terreni.

Si tratta di una agevolazione prevista per la prima volta nella legge Finanziaria 2002 (la 448/2001, articoli 5 e 7) e poi riproposta, pressoché continuamente, con numerosi interventi legislativi, l’ultimo dei quali ai commi 997 e 998 della legge 205/2017.

Si tratta di una agevolazione che consente di rideterminare il costo fiscale dei beni che, in caso di cessione, possono generare plusvalenza ai sensi dell’articolo 67 del Dpr 917/1986. La rivalutazione consente, infatti, di assumere, in luogo del costo o valore iniziale del bene oggetto della rivalutazione, quello indicato nella perizia di stima con la conseguenza di far emergere, in caso di cessione, una minor plusvalenza e quindi di ridurre la tassazione.

Non ci sono novità rispetto alle precedenti versioni.

La rideterminazione riguarda il valore dei terreni a destinazione agricola ed edificatoria e il valore delle partecipazioni detenute in società non quotate posseduti dalle persone fisiche per operazioni estranee all’attività di impresa, società semplici, società ed enti ad esse equiparate di cui all’articolo 5 del Tuir, nonché enti non commerciali.

Il termine entro cui porre in essere gli adempimenti previsti dalla norma è il 30 giugno 2018; in particolare, entro questa data, è necessario:

redigere e giurare la perizia di stima a cura di un professionista abilitato ovvero iscritti all’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e gli iscritti nell’elenco dei revisori legali dei conti (per la redazione delle perizie di stima delle partecipazioni societarie), iscritti agli albi degli ingegneri, degli architetti, dei geometri, dei dottori agronomi, degli agrotecnici, dei periti agrari e dei periti industriali edili (per la redazione di perizia di stima dei terreni);

versare l’imposta sostitutiva dell’8% in un’unica soluzione o oppure rateizzare in un massimo di tre rate di pari importo. In caso di versamento rateale le altre rate devono essere versate entro il 30 giugno degli anni successivi maggiorate del 3% annuo a titolo di interessi.

Al fine di decidere se aderire o meno alla rideterminazione è necessario confrontare con gli importi che sarebbero dovuti in caso di tassazione ordinaria.

Con riferimento alle partecipazioni in società, si deve tener conto del fatto che le plusvalenze derivanti dalle cessioni di partecipazioni qualificate realizzate nel 2018 concorrono a formare il reddito per 58,14% (non più 49,72%) mentre quelle non qualificate sono soggette ad imposta sostitutiva del 26%. Inoltre, va tenuto conto che, a partire dal 1° gennaio 2019, in virtù di quanto previsto dai commi 999 e seguenti della legge di Bilancio, su tutte le plusvalenze da cessione quote, indipendentemente dalla percentuale di possesso (qualificate o meno) troverà applicazione la tassazione mediante imposta sostitutiva del 26 per cento.

Occorre quindi confrontare l’ammontare che deriverebbe dall’applicazione dell’imposta sostitutiva dell’8% sul valore di perizia con quello che deriverebbe dalla tassazione della plusvalenza con le regole ordinarie prima viste. Tenuto conto dell’aliquota di rideterminazione dell’imposta nella misura dell’8%, se la plusvalenza è di lieve entità conviene generalmente applicare la tassazione ordinaria pari al 26% della plusvalenza stessa.

Con riferimento ai terreni, si ricorda che la cessione di un terreno edificabile da parte di una persona fisica, società semplice o soggetti ad essi equiparati genera sempre plusvalenza tassata mentre la cessione di un terreno agricolo genera plusvalenza solo se posseduto da meno di cinque anni.

Fonte “Il sole 24 ore”

Nuove rottamazioni è possibile far precedere l’istanza da una richiesta di dilazione

Con le nuove rottamazioni stabilizzate dalla conversione del Dl 148/2017 è possibile far precedere l’istanza da una richiesta di dilazione, in modo da conservare una via d’uscita futura, nel caso in cui non si fosse in condizioni di pagare il costo della sanatoria. Ai sensi dell’articolo 6, comma 8, lettera c), del Dl 193/2016, se il debitore non paga la prima rata della definizione, può riprendere la rateazione pregressa. Tale disposizione non risulta incompatibile con le nuove procedure e deve quindi ritenersi ad esse pienamente applicabile.
L’articolo 1 del Dl 148/2017 prevede una disciplina unitaria sulla possibilità di riprendere eventuali rateazioni precedenti, applicabile sia alla definizione dei carichi 2017, sia a quella riferita ai carichi ante 2017. Si stabilisce con chiarezza, infatti, che se è pendente un piano di rientro alla data di presentazione della domanda di definizione, le rate in scadenza successivamente a tale data sono sospese sino al termine della prima rata della rottamazione. Il riferimento temporale dunque è la situazione esistente al momento della trasmissione della nuova istanza. Sul punto, vale ricordare come la formulazione originaria dell’articolo 6 del Dl 193/2016, avesse dato origine a interpretazioni contrastanti in ordine alla individuazione dei piani di rientro rilevanti ai fini della definizione agevolata. Secondo le Faq di Equitalia, la normativa in esame si rivolgeva alle rateazioni esistenti alla data di presentazione della domanda. Nell’opinione dell’agenzia delle Entrate invece (circolare n. 2 del 2017 ), le disposizioni avrebbero dovuto riferirsi alle dilazioni esistenti al 24 ottobre 2016. Le due tesi avevano dei riflessi inevitabili anche ai fini della facoltà, innanzi ricordata, di riattivare i piani di rientro, non pagando la prima rata. Secondo la posizione delle Entrate, infatti, detta facoltà sarebbe stata esercitabile limitatamente alle dilazioni esistenti per l’appunto al 24 ottobre dell’anno scorso.
Nella seconda edizione delle rottamazioni, invece, questo problema è risolto direttamente dalla legge. Questo significa, quindi, che il debitore può avere interesse a far precedere la domanda di definizione da una istanza di rateazione. Una volta ottenuto il piano di rientro, con la trasmissione del modulo all’Ader si ottiene innanzitutto la sospensione ope legis nel pagamento di tutte le rate in scadenza, a seconda dei casi, fino a luglio 2018 (rottamazione 2017) oppure a ottobre 2018 (rottamazione 2016). In questo modo, inoltre, si evita di pagare somme che, in tutto o in parte, non sono deducibili dal quantum della sanatoria. L’importo versato a titolo di sanzione, interessi di mora e interessi da dilazione non è infatti deducibile dalla definizione.
Al momento della scadenza della prima rata, il debitore sarà a un bivio: a) se paga, la dilazione precedente sarà revocata e il debito residuo, in linea di principio, non potrà essere ulteriormente rateizzato; b) se non paga, potrà riprendere il precedente piano di rientro. A quest’ultimo proposito, si ricorda che il manuale interno dell’Ader prevede che l’importo complessivo del debito debba essere “spalmato” d’ufficio su tutte le rate non pagate del piano originario.
Non tutti potranno tuttavia avvalersi della facoltà di chiedere preventivamente la dilazione del carico che si vuole rottamare. In presenza di vecchie rateazioni non onorate da tempo, per ottenere un nuovo piano è necessario pagare tutto lo scaduto. Ne deriva che in tal caso al debitore tale opportunità risulterà di fatto preclusa.
Fonte “Il sole 24 ore”

L’accollante non può utilizzare propri crediti per i debiti dell’accollato

Niente compensazione tra crediti dell’accollante e debiti dell’accollato, ma sono salvi i comportamenti difformi posti in essere fino al 15 novembre 2017.
L’agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 140/E del 15 novembre 2017 , entrando nel merito dell’accollo di debiti tributari altrui con utilizzo in compensazione di crediti tributari dell’accollante, fa innanzitutto presente che, in base a quanto disposto dall’articolo 8 della legge 212/2000, cosiddetto «Statuto dei diritti del contribuente», il debitore originario non è mai liberato dall’obbligazione e risponde, quindi, in solido con il terzo accollante, come anche evidenziato dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 28162 del 2008, ove è stato affermato che accollarsi un debito altrui non significa «assumere la posizione di contribuente o di soggetto passivo del rapporto tributario, ma la qualità di obbligato (o coobbligato) in forza di titolo negoziale».
Pertanto, fatte tali premesse in tema di compensazione, l’agenzia delle Entrate esprime parere negativo in merito, appunto, alla compensazione con crediti dell’accollante, di debiti tributari dell’accollato. Le compensazioni, infatti, possono avvenire solo tra crediti e debiti «in essere tra i medesimi soggetti e non tra soggetti diversi».
Tra le varie sentenze richiamate nella risoluzione in commento, è il caso di citare anche quelle nn. 14874 e 18788, entrambe del 2016, attraverso le quali la Suprema Corte ha chiarito che l’eventuale compensazione è possibile «in sede di versamenti unitari delle imposte (oltre che dei contributi dovuti all’INPS e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali) soltanto in ipotesi di crediti (a) dello stesso periodo, (b) nei confronti dei medesimi soggetti e (c) risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche presentate successivamente alla data» di entrata in vigore del Dlgs 241/1997.
Vista l’obbiettiva incertezza sull’argomento, dichiara l’agenzia delle Entrate, eventuali compensazioni tra crediti dell’accollante e debiti dell’accollato posti in essere prima dell’emanazione della risoluzione in commento, non sono punibili e sono da considerarsi validi. Nel caso in cui, però, il credito utilizzato in compensazione sia inesistente, resta in capo al soggetto accollato il debito tributario non assolto, con applicazione, in questo caso, delle relative sanzioni.
Per le situazioni di compensazioni tra crediti dell’accollante e debiti dell’accollato, sorte successivamente all’emanazione della risoluzione n. 140/E/2017, ancorché in virtù di patti contrattuali stipulati antecedentemente, le compensazioni in commento non sono ritenute valide e viene distinta la posizione dell’uno e dell’altro soggetto:
-l’accollato, ossia il debitore originario, resta debitore del tributo e nei suoi confronti viene recuperato il singolo tributo nonché le relative sanzioni per omesso versamento, oltre che gli interessi, con possibilità di adire all’istituto del ravvedimento operoso;
-l’accollante, che risulta aver utilizzato un credito in violazione delle norme vigenti, sarà destinatario della sanzione di cui all’articolo 13, comma 4, del Dlgs 471/1997, pari al 30 per cento del credito utilizzato, se esso è effettivamente esistente e il credito stesso ritornerà utilizzabile; ovvero della sanzione dal 100 al 200 per cento del credito utilizzato in compensazione, in base a quanto disposto dall’articolo 13, comma 5, sempre del Dlgs 471/1997, se il credito utilizzato risulta invece inesistente.
Fonte “Il sole 24 ore”

Credito d’imposta a sostegno degli investimenti pubblicitari incrementali

Con l’articolo 57-bis del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito con modificazioni dalla
legge 21 giugno 2017, n. 96, è stata introdotta una importante agevolazione di natura fiscale, nella
forma del credito d’imposta, sugli investimenti pubblicitari incrementali programmati ed effettuati
sulla stampa (giornali quotidiani e periodici, locali e nazionali) e sulle emittenti radio-televisive a diffusione locale.
Con l’articolo 4 del decreto-legge16 ottobre 2017, n. 148, è stato anche definito lo stanziamento
delle risorse finalizzate a questa misura: per il 2018 sono dedicati 62,5 milioni di euro, di cui:
– 50 milioni per gli investimenti sulla stampa (20 per gli investimenti effettuati nel secondo
semestre del 2017, più 30 per quelli da effettuare nel 2018);
– 12,5 milioni per gli investimenti da effettuare nel 2018 sulle emittenti radio-televisive.
La legge ha demandato ad un Regolamento di attuazione il compito di disciplinare tutti gli aspetti
della misura non direttamente regolati dalla legge, comprese le procedure operative che sono state
definite con l’Agenzia delle Entrate; il Regolamento è in corso di adozione.
Nella consapevolezza che le imprese destinatarie attendono di conoscere i contenuti caratterizzanti
di questo nuovo incentivo per pianificare i loro investimenti pubblicitari, il Dipartimento ha deciso
di pubblicare delle informazioni essenziali che seguono.
I chiarimenti che vengono illustrati qui di seguito anticipano, quindi, i contenuti principali del
Regolamento di prossima adozione.
1. Soggetti beneficiari
Possono beneficiare del credito d’imposta i soggetti titolari di reddito d’impresa o di lavoro autonomo che effettuano investimenti in campagne pubblicitarie, il cui valore superi di almeno l’1 per cento gli analoghi investimenti effettuati nell’anno precedente sugli stessi mezzi dl informazione.
2. Misura del beneficio

Il credito d’imposta è pari al 75 per cento del valore incrementale degli investimenti effettuati,
elevato al 90 per cento nel caso di microimprese, piccole e medie imprese e start-up innovative;
per microimprese, piccole e medie imprese si intendono quelle definite dalla raccomandazione
n.2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003, e dal decreto del Ministro delle attività
produttive 18 aprile 2005, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 238 del 12 ottobre 2005; per start-
up innovative si intendono quelle definite dall’articolo 25 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179,
convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221.

Il credito d’imposta liquidato potrà essere inferiore a quello richiesto nel caso in cui l’ammontare
complessivo dei crediti richiesti con le domande superi l’ammontare delle risorse stanziate. In tal
caso, si provvede ad una ripartizione percentuale delle risorse tra tutti i richiedenti aventi diritto.

Al riguardo, è importante ricordare che i limiti di spesa sono distinti per gli investimenti sulla
stampa e per quelli sulle emittenti radio-televisive, in coerenza con il fatto che gli stessi stanziamenti delle risorse sono stati distinti dalla legge per i due tipi di media. Questo significa che, in presenza di investimenti su entrambi i media, il soggetto richiedente può vedersi riconosciute due diversi di crediti d’imposta, in percentuali differenziate a seconda delle condizioni della ripartizione su ognuna delle due platee di beneficiari.
Nel caso in cui sia accertato che l’ammontare complessivo del credito richiesto non esaurisca le
risorse stanziate, tali risorse, secondo il generale funzionamento di tali incentivi, andranno ad
incrementare la dotazione finanziaria dell’anno successivo.

3. Investimenti ammissibili

Sono ammissibili al credito d’imposta gli investimenti riferiti all’acquisto di spazi pubblicitari e
inserzioni commerciali su giornali quotidiani e periodici, nazionali e locali, ovvero nell’ambito della programmazione di emittenti televisive e radiofoniche locali, analogiche o digitali.
In sede di prima attuazione, il beneficio è applicabile anche agli investimenti effettuati dal 24
giugno al 31 dicembre 2017 sempre con la stessa soglia incrementale riferita all’anno precedente.
ATTENZIONE: l’estensione al secondo semestre del 2017 riguarda tuttavia i soli investimenti effettuati sulla stampa, ed in questo caso sono ammessi anche gli investimenti effettuati sui giornali on-line.

In ogni caso, gli investimenti pubblicitari devono essere effettuati su giornali ed emittenti editi da imprese titolari di testata giornalistica iscritta presso il competente Tribunale, ai sensi dell’articolo 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, ovvero presso il Registro degli operatori di comunicazione di cui all’articolo 1, comma 6, lettera a), numero 5, della legge 31 luglio 1997, n. 249, e dotate in ogni caso della figura del direttore responsabile.
Sono escluse dal credito d’imposta le spese sostenute per l’acquisto di spazi destinati a servizi
particolari; ad esempio: televendite, servizi di pronostici, giochi o scommesse con vincite di denaro,
di messaggeria vocale o chat-line con servizi a sovraprezzo.
Le spese per l’acquisto di pubblicità sono ammissibili al netto delle spese accessorie, dei costi di
intermediazione e di ogni altra spesa diversa dall’acquisto dello spazio pubblicitario, anche se ad
esso funzionale o connesso.

4. Limiti e condizioni di ammissibilità

Le spese per gli investimenti si considerano sostenute secondo le regole generali in materia fiscale
previste dall’art. 109 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, recante
il Testo unico delle imposte sui redditi.

L’effettività del sostenimento delle spese deve poi risultare da apposita attestazione rilasciata dai
soggetti legittimati a rilasciare il visto di conformità dei dati esposti nelle dichiarazioni fiscali, ovvero dai soggetti che esercitano la revisione legale dei conti.

ATTENZIONE: qualora il credito d’imposta richiesto sia superiore alla soglia di 150.000 euro, e richieda, pertanto, ai fini della liquidazione, l’accertamento preventivo di regolarità presso la Banca Dati Nazionale Antimafia del Ministero dell’interno, il richiedente potrà beneficiare del credito richiesto a condizione che sia iscritto (o abbia inoltrato alla Prefettura competente la richiesta di iscrizione) agli elenchi dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa, di cui all’articolo 1, comma 52, della legge 6 novembre 2012, n. 190. A questo fine, le attività svolte dai soggetti richiedenti il beneficio si considerano comunque equiparate a quelle indicate dall’articolo 1, comma 53, della stessa legge n. 190.

La soluzione di ricorrere al meccanismo delle “white list” per la fruizione del beneficio, ove
superiore alla soglia dei 150.000 euro, consentirà un decisivo snellimento della procedura di liquidazione, che diversamente sarebbe sottoposta ad una complessa verifica, presso la Banca Dati, di tutti i soggetti coinvolti nella gestione ed amministrazione delle società richiedenti.
Naturalmente, l’Amministrazione effettuerà ogni dovuto controllo sull’esito delle richieste di iscrizione, come per tutti gli altri requisiti.
Il credito d’imposta è alternativo e non cumulabile, in relazione a medesime voci di spesa, con ogni
altra agevolazione prevista da normativa nazionale, regionale o comunitaria.
Il credito d’imposta è utilizzabile esclusivamente in compensazione, tramite il modello F24, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e successive modificazioni.

5. Domanda di ammissione al beneficio

I soggetti interessati presentano la domanda di fruizione del beneficio nella forma di una comunicazione telematica (una “prenotazione”) su apposita piattaforma dell’Agenzia delle Entrate,
secondo il modello che ha definito la medesima Agenzia, usufruendo di una “finestra temporale”
ampia (potrebbe essere dal 1° marzo al 31 marzo di ciascun anno).

La comunicazione dovrà contenere:
– i dati identificativi dell’azienda (o del lavoratore autonomo);
-il costo complessivo degli investimenti pubblicitari effettuati, o da effettuare, nel corso
dell’anno; ove gli investimenti riguardino sia la stampa che le emittenti radio-televisive, i
costi andranno esposti distintamente per le due tipologia di media;
– il costo complessivo degli investimenti effettuati sugli analoghi media nell’anno precedente;
(per “media analoghi” si intendono la stampa, da una parte, e le emittenti radio-televisive
dall’altra; non il singolo giornale o la singola emittente);
– l’indicazione dell’incremento degli investimenti su ognuno dei due media, in percentuale ed
in valore assoluto;
– l’ammontare del credito d’imposta richiesto per ognuno dei due media;
– dichiarazione sostitutiva di atto notorio, redatta ai sensi degli articoli 46 e 47 del decreto del
presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, concernente il possesso del requisito
consistente nell’assenza delle condizioni ostative ed interdittive previste dalle disposizioni
antimafia ai fini della fruizione di contributi e finanziamenti pubblici.

6. Controlli

L’Agenzia delle Entrate e l’Amministrazione effettueranno i controlli di rispettiva competenza, in
ordine all’effettivo possesso dei requisiti che condizionano l’ammissione al beneficio fiscale; ove
sia accertata la carenza di taluno dei requisiti, e quindi l’indebita fruizione, totale o parziale, del beneficio, l’Amministrazione provvederà al recupero delle somme con le procedure coattive di
legge.
In ogni caso il Dipartimento è a disposizione per fornire ogni ulteriore chiarimento, che potrà essere richiesto con una semplice mail invia al seguente indirizzo segreteriacapodie@governo.it
Naturalmente, le risposte a quesiti che abbiano un rilievo generale saranno comunque pubblicate a
vantaggio di tutti i possibili interessati.

Bonus pubblicità, escluse le televendite

Sul bonus pubblicità per le imprese e i lavoratori autonomi che investono in campagne
pubblicitarie su quotidiani, periodici, emittenti tv e radio locali, arriva la certezza delle
regole operative. Questo è il primo e più evidente risultato della pubblicazione, sul sito
della presidenza del Consiglio dei ministri, delle procedure per permettere ad aziende e
lavoratori autonomi di richiedere il credito d’imposta sulla pubblicità incrementale per
2017 e 2018.

Una misura, questa, molto attesa dal settore editoriale nel tentativo di dare nuovo slancio
alla raccolta pubblicitaria. L’agevolazione, introdotta dalla manovra correttiva 2017 e
fortemente richiesta dalla Fieg al Tavolo Editoria, è prevista per chi farà investimenti
superiori, nel periodo interessato, dell’1% al valore degli investimenti, di analoga natura,
effettuati nell’anno precedente.
I chiarimenti che sono stati pubblicati sulla pagina web del Dipartimento per l’infomazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio anticipano così i contenuti del Dpcm di prossima
adozione. Nelle more del parere del Consiglio di Stato, che dovrà precedere l’adozione del
Dpcm, la pubblicazione online di questi chiarimenti operativi dà copertura all’operazione.
Mettendo anche punti fermi. Il primo: i limiti di spesa andranno distinti fra stampa, da una
parte, e radio e tv locali dall’altra. E la domanda dovrà contenere l’ammontare del credito
d’imposta richiesto per ognuno dei due media. In questo senso tutti gli investimenti dal 24
giugno al 31 dicembre sono ammissibili al credito d’imposta solo se fatti sulla stampa
(edizioni cartacee o edizioni online per tutte le testate iscritte presso il Tribunale ai sensi
della legge 47 del 1948 o presso il Registro operatori di comunicazione). Per radio e tv
locali se ne parlerà nel 2018. Sono escluse le spese per televendite, servizi di pronostici,giochi o scommesse con vincite in denaro, di messaggeria vocale o chat-line con servizi a
sovrapprezzo.

Il credito d’imposta è pari al 75% del valore incrementale degli investimenti effettuati,
elevato al 90% nel caso di microimprese piccole e medie imprese e startup innovative.
Questo bonus andrà calcolato sulla parte eccedente l’1% di incremento delle spese avute
l’anno prima. La dote a disposizione è di 62,5 milioni. Si parla di 50 milioni per gli
investimenti sulla stampa (20 per quelli effettuati nel secondo semestre 2017 più 30 da
effettuare nel 2018) e 12,5 milioni per gli investimenti da effettuare sulle emittenti radio-
televisive nel 2018. Guardando agli importi, il credito d’imposta liquidato potrà essere
inferiore a quello richiesto qualora venisse superato l’ammontare delle risorse stanziate. In
tal caso gli aventi diritto avrebbero una ripartizione percentuale delle risorse. Nel caso in
cui, invece, la dotazione finanziaria dovesse essere superiore alle richieste, le risorse
andranno a valere sulla dote dell’anno successivo. Per la fruizione del beneficio, dove
fosse superiore alla soglia dei 150mila euro, è stata scelta la soluzione del meccanismo
delle “white list”.

Bonus pubblicità dal 2017

Come si preparano le imprese a usufruire del credito d’imposta per gli investimenti pubblicitari introdotto dal Dl 50/2017 ? Quali saranno i costi agevolabili? Solo quelli di pubblicazione su stampa quotidiana e/o di acquisto degli spazi televisivi oppure anche i costi di preparazione? Come si conteggerà l’incremento? Per massa oppure distinguendo tra i vari mezzi di comunicazione prescelti per gli investimenti pubblicitari?

Queste le principali domande che imprese e consulenti si pongono per dare concretezza alla norma contenuta nell’articolo 57-bis del Dl 50/2017, che non ha ancora avuto attuazione pratica a causa della mancanza del decreto attuativo (da pubblicare entro il 22 ottobre e ad oggi non ancora noto), e che già è oggetto di modifica tramite l’articolo 4 del Dl 148/2017 , in corso di conversione.

Con il comma 3-bis, il Dl 148/2017 ha infatti integrato la disciplina del credito d’imposta sugli investimenti pubblicitari, anticipandone in parte gli effetti, con estensione agli investimenti effettuati nel periodo dal 24 giugno 2017 e fino al 31 dicembre 2017, ma solo per la stampa quotidiana e periodica, anche online, escludendo quindi per tale periodo gli investimenti sulle emittenti televisive e radiofoniche locali, sia analogiche sia digitali. Il valore degli investimenti deve superare almeno dell’1% l’ammontare degli analoghi investimenti pubblicitari effettuati dai medesimi soggetti sugli stessi mezzi di informazione nel corrispondente periodo dell’anno 2016 (ossia dal 24 giugno 2016 al 31 dicembre 2016).

Soggetti interessati e coperture

Il credito è rivolto ad imprese e lavoratori autonomi e spetta nella misura:

  • del 75% del valore incrementale per imprese e lavoratori autonomi;
  • del 90% del valore incrementale per piccole e medie imprese, microimprese e startup innovative.

Per il 2017 e il 2018 il Dl 148/2017 fornisce già le coperture finanziarie del beneficio, al fine di dare un grado di certezza alle imprese che intendono pianificare gli investimenti in tali anni. Per gli anni seguenti il limite massimo di spesa sarà stabilito annualmente mediante decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.

L’applicazione

Il credito di imposta è utilizzabile esclusivamente in compensazione, ai sensi del Dlgs 241/1997, previa istanza diretta al Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri.

Poiché l’articolo 57-bis del Dl 50/217 prevede che la concessione del credito d’imposta sia sottoposta agli «eventuali adempimenti europei», il decreto di attuazione dovrà anche chiarire la compatibilità dell’agevolazione con la normativa europea degli aiuti di Stato.

Da un punto di vista contabile, se i costi di pubblicità sono spesati nella voce B7 del conto economico, il credito d’imposta costituisce un contributo in conto esercizio spettante a norma di legge, da imputare nella voce A5. I costi possono ancora essere capitalizzati, se non ricorrenti ed aventi beneficio futuro (paragrafi 41-43 dell’Oic 24). In tale caso il contributo dovrà essere portato a loro riduzione.

Superammortamento, per gli incapienti bonus riportabile

L’incapienza del reddito dell’impresa rispetto a super e iper ammortamento non comporta la perdita del beneficio, ma solamente il suo rinvio temporale. Le società che risultano incapienti rispetto agli incentivi per gli investimenti genereranno una perdita fiscale che potrà essere riportata a nuovo e compensata con futuri redditi nei limiti temporali o quantitativi previsti, rispettivamente, per i soggetti Irpef e per le società di capitali.

Il meccanismo agevolativo per gli investimenti che il Ddl di bilancio 2018 proroga al prossimo anno comporta una maggiorazione del costo ai fini del calcolo degli ammortamenti e dei canoni di leasing deducibili: 40% per super-ammortamento, ridotto al 30% nel 2018, e 150% per iper-ammortamento, misura confermata anche il prossimo anno.

La deduzione di queste maggiorazioni (che si cumulano gli ammortamenti iscritti in bilancio e quantificati sul 100% del costo) avviene mediante una rettifica in diminuzione al reddito di impresa (Irpef o Ires) nella dichiarazione.

Le imprese che chiudono l’esercizio in perdita fiscale o con un reddito inferiore alla deduzione maggiorata, non riescono immediatamente a fruire della agevolazione la quale non genera un immediato risparmio fiscale. Il super-ammortamento (e ancor più l’iper-ammortamento) si traducono cioè in una maggior perdita fiscale che, per le imprese in contabilità ordinaria, può essere riportata a nuovo. In questo modo, l’incentivo non viene perso ma semplicemente rinviato sotto forma di perdita o di maggior perdita compensabile. L’effettiva fruizione del super-ammortamento per gli incapienti è dunque condizionata, quanto a tempi e importi, dai vincoli previsti per la compensazione delle perdite. Per le imprese Irpef (ditte individuali e società di persone) la perdita, compresa quella generata dal super o iper-ammortamento, può essere utilizzata entro il quinquennio successivo senza alcun limite di importo. Per le società di capitali, invece, manca un limite temporale, ma il recupero non può mai superare l’80% del reddito di ciascun esercizio. Senza limiti temporali o quantitativi, è invece la compensazione delle perdite prodotte nei primi tre esercizi di vita dell’impresa.

La situazione di incapienza, causata dalla carenza di utili rispetto agli investimenti realizzati, non può essere evitata neppure rallentando lo stanziamento delle quote di ammortamento, dato che la misura delle deduzioni si rapporta sempre alle quote massime calcolate secondo i coefficienti tabellari a prescindere dalle percentuali (eventualmente ridotte) impiegate in bilancio. Lo stesso per i leasing: la super deduzione si spalma sulla metà del periodo di ammortamento a prescindere dalla durata effettiva del contratto che può essere anche più lunga. Una via di uscita, per le imprese che operano nei gruppi, può invece trarsi dalla attivazione del consolidato fiscale. La quota di super ammortamento non assorbita (perdita fiscale) viene trasferita al gruppo e compensata immediatamente con redditi di altre società.

Sì definitivo alla legge europea: indennizzo per la garanzia sui rimborsi Iva

La Legge europea, approvata definitivamente ieri alla Camera, porta con sé una serie di novità fiscali sia in materia di Iva che di imposte dirette, novità introdotte per evitare l’applicazione di specifiche infrazioni da parte della Ue.

Rimborsi Iva

L’articolo 7 della Legge europea riconosce una somma a titolo di ristoro per i costi sostenuti da quanti sono tenuti a prestare una garanzia all’Erario in relazione alle richieste di rimborso Iva. Tale somma è fissata nella misura dello 0,15% dell’importo garantito per ogni anno di durata della garanzia. Ciò significa che tutti quei soggetti che non rientrano tra i cosiddetti “contribuenti virtuosi” e continuano a essere tenuti a prestare una garanzia a tutela delle somme erogate, non sono rimborsati integralmente delle spese sostenute per il rilascio della garanzia, ma piuttosto ricevono una somma forfettaria che copre solo parzialmente gli oneri sopportati dal contribuente. Inoltre, tale somma spetta solo dal momento in cui è stato definitivamente accertato il diritto al rimborso, il che avviene alla scadenza del termine per l’emissione dell’avviso di accertamento/rettifica, se questo non sia stato emesso.

La nuova disciplina di favore non produce effetti per il passato. Nello specifico, si prevede che le disposizioni si applichino a partire dal nuovo anno, ovvero dalle richieste di rimborso fatte con la dichiarazione Iva annuale per 2017 e con l’istanza infrannuale relativa al primo trimestre 2018.

Restituzione Iva non dovuta

La seconda modifica riguarda la presentazione della domanda di restituzione dell’Iva non dovuta. La stessa, in via ordinaria e a pena di decadenza, deve essere presentata nel termine di 2 anni dal versamento dell’imposta o dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione.

Se da un lato tale termine permane, dall’altro, è ora disciplinata la possibilità del superamento dello stesso, qualora sia applicata un’Iva non dovuta a una cessione di beni/prestazione di servizi e ciò sia accertato in via definitiva dall’amministrazione finanziaria. In questi casi, i due anni per la presentazione della domanda di restituzione del cedente/prestatore decorrono dall’avvenuta restituzione al cessionario/committente dell’importo precedentemente pagato a titolo di rivalsa. La restituzione dell’imposta resta in ogni caso esclusa se il versamento sia avvenuto in un contesto di frode.

Iva esportazioni umanitarie

La terza novità introduce nel testo del Dpr 633/72 la disciplina circa la non imponibilità ai fini Iva delle cessioni di beni effettuate nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti della cooperazione allo sviluppo, destinati a essere trasportati o spediti fuori dal territorio Ue, in attuazione di scopi umanitari.

L’onere della prova dell’avvenuta esportazione è adempiuto dalla bolletta doganale e grava sul cedente, così come ricade su quest’ultimo la sanzione amministrativa nel caso in cui, in frode alla legge, il trasporto del beni fuori dal territorio Ue non avvenga entro il termine di 180 giorni. La sanzione, tuttavia, non si applica se nei 30 giorni successivi la fattura viene regolarizzata e l’Iva versata.

Agevolazioni fiscali marittime

La legge europea estende la portata di una serie di agevolazioni alle imprese marittime, attualmente limitate solo alle navi iscritte al registro internazionale italiano, anche alle navi iscritte nei registri di Paesi Ue o dello Spazio economico europeo. Si tratta in particolare: del credito d’imposta riconosciuto agli armatori in misura corrispondente all’imposta sul reddito delle persone fisiche dovuta sulle retribuzioni corrisposte al personale di bordo imbarcato a valere ai fini del versamento delle ritenute alla fonte relative a tali redditi (credito d’imposta Irpef marittimi); della irrilevanza dell’80% dei redditi, derivanti dall’utilizzazione delle navi iscritte nel Registro internazionale, nonché del relativo valore della produzione Irap e del regime della Tonnage tax.

Per effetto della modifica tali regimi risultano quindi applicabili ai soggetti residenti e soggetti non residenti aventi stabile organizzazione nel territorio dello Stato con riferimento alle navi iscritte nei registri Ue o See, adibite «esclusivamente» ai traffici internazionali, ovvero, più propriamente, che rispettino le limitazioni ai viaggi di cabotaggio previste dall’articolo 1, comma 5, del Dl 30 dicembre 1997 n. 457, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 1998, n. 30, espressamente richiamate dal provvedimento.

Split payment, sanatoria con doppio termine

L’incertezza normativa che ha caratterizzato dal 1° luglio scorso l’estensione dello split payment esclude che eventuali errori commessi dai fornitori possano essere sanzionati o modificati a condizione che l’imposta sia stata assolta, ancorchè in modo irregolare. Tale copertura opera in relazione ai comportamenti irregolari commessi fino a lunedì 6
novembre 2017, vale a dire fino al giorno precedente l’emanazione della circolare 27/E/2017 di ieri. Questo chiarimento è indicato proprio nel documento di prassi che
contiene tra l’altro una serie di precisazioni sia in relazione all’ambito soggettivo che all’ambito applicativo del particolare adempimento.

Il doppio termine

Tornando alla sanatoria si sottolinea che qualora dopo il 1° luglio 2017 ma entro il 6 novembre siano state emesse fatture in regime ordinario (invece che in regime di scissione dei pagamenti) nei confronti di soggetti inclusi negli elenchi pubblicati dal dipartimento delle Finanze , il fornitore non dovrà effettuare alcuna variazione. Allo stesso modo, non è sanzionabile il caso in cui il fornitore abbia emesso una fattura in scissione dei pagamenti nei confronti di un soggetto non incluso negli elenchi, prima, però, in questo caso, dell’emanazione degli elenchi definitivi, vale a dire entro il 31 ottobre 2017.

Il tutto fermo restando l’assolvimento sostanziale dell’Iva a favore dell’Erario da parte rispettivamente dell’emittente la fattura o del cessionario ancorché non realmente soggetto a split payment.

Se tali errori vengono commessi dopo le date indicate il fornitore dovrà procedere a regolarizzare il comportamento irregolare con l’emissione di una nota di variazione all’articolo 26 del Dpr 633/1972, con l’emissione corretta di un nuovo documento contabile. La circolare specifica che la regolarizzazione può avvenire anche attraverso l’emissione di un’unica nota di variazione che, facendo riferimento puntuale a tutte le fatture erroneamente emesse le integri, segnalando all’acquirente/committente il corretto trattamento da riservare all’imposta indicata in fattura.

Le note di variazione

A proposito delle note di variazione la circolare, richiamando e confermando la circolare 15/E/2015, ribadisce che in caso di emissione di una nota di variazione in aumento, anche facendo riferimento a una fattura emessa prima del 1° luglio 2017, torna sempre applicabile il meccanismo della scissione dei pagamenti e ragioni di semplificazione rendono utilizzabile la stessa modalità anche nel caso di note di variazione in diminuzione relative a fatture emesse, in regime ordinario, anteriormente al 1° luglio 2017. Inoltre, la circolare precisa che nel caso in cui il fornitore abbia emesso una nota di variazione in diminuzione la Pa e le società, soggetti allo split payment, che abbiano già eseguito il versamento diretto all’erario dell’Iva indicata nella fattura originaria, potranno scomputare il maggior versamento eseguito dai successivi versamenti da effettuare sempre in riferimento allo specifico adempimento.

La cessione in reverse charge

In materia di sanzioni una precisazione di particolare interesse riguarda la non sanzionabilità del fornitore nel caso in cui lo stesso abbia fatturato non correttamente una cessione di beni e una prestazioni di servizi soggetta a reverse charge, quando tale comportamento sia dovuto a una espressa comunicazione della Pa. In particolare, il problema si pone, nel caso in cui l’acquisto della Pa sia promiscuo, vale dire, in parte destinato all’attività commerciale, in parte all’attività istituzionale. In effetti, in caso di operazione soggetta a reverse charge – come sottolinea l’Agenzia – il fornitore sarebbe sempre obbligato ad acquisire dalla Pa una specifica informazione da cui possa desumere se la cessione del bene ovvero la prestazione di servizio è ricevuta nell’ambito istituzionale, commerciale o promiscuo.

730: DETRAZIONE SPESE PER RISTRUTTURAZIONE

La detrazione fiscale delle spese per interventi di ristrutturazione edilizia è disciplinata dall’art. 16 -bis del DPR 917/86 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi). Dal 1° gennaio 2012 l’agevolazione è stata resa permanente dal Decreto Legge n. 201/2011 e inserita tra gli oneri detraibili dall’IRPEF. La detrazione è pari al 36 % delle spese sostenute, fino ad un ammontare complessivo delle stesse non superiore a 48.000 euro per unità immobiliare. Il Decreto Legge n. 83/2012 ha elevato al 50 % la misura della detrazione e a 96.000 euro l’importo massimo di spesa ammessa al beneficio. Questi maggiori benefici sono poi stati prorogati più volte da provvedimenti successivi. La Legge di Stabilità 2016 (Legge n. 208 del 28 dicembre 2015) ha prorogato al 31 dicembre 2016 la possibilità di usufruire del beneficio in misura maggiore (50%), confermando il limite massimo di spesa di 96.000 euro per unità immobiliare. La detrazione viene ripartita in 10 rate annuali di pari importo.

Interventi agevolabili – Il beneficio spetta in relazione alle spese sostenute per i seguenti interventi di recupero del patrimonio edilizio:

  • interventi di manutenzione straordinaria sulle singole unità immobiliari residenziali di qualsiasi categoria catastale, anche rurali e sulle loro pertinenze;
  • interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle parti comuni di edifici residenziali;
  • interventi di restauro e risanamento conservativo;
  • interventi necessari alla ricostruzione o al ripristino dell’immobile danneggiato a seguito di eventi calamitosi, a condizione che sia stato dichiarato lo stato di emergenza;
  • interventi finalizzati alla cablatura degli edifici, al contenimento dell’inquinamento acustico, all’adozione di misure di sicurezza statica e antisismica degli edifici, all’esecuzione di opere interne;
  • interventi relativi alla realizzazione di autorimesse o posti auto pertinenziali, anche a proprietà comune;
  • ulteriori interventi quali, ad esempio, quelli di bonifica dall’amianto o quelli finalizzati alla prevenzione di atti illeciti da parte di terzi o all’eliminazione delle barriere architettoniche, oppure interventi di esecuzione di opere volte ad evitare gli infortuni domestici.

Altri interventi – La detrazione spetta anche in relazione alle spese sostenute per gli interventi finalizzati al conseguimento di risparmi energetici, compresa l’installazione d’ impianti basati sull’impiego delle fonti rinnovabili di energia, tra i quali rientrano gli impianti fotovoltaici per la produzione di energia elettrica. Può fruire della detrazione chi possiede o detiene l’immobile sul quale sono stati effettuati gli interventi di recupero edilizio sulla base di un titolo idoneo (ad esempio proprietà, altro diritto reale, concessione demaniale, locazione o comodato). Ha diritto alla detrazione anche il familiare convivente del possessore o detentore dell’immobile oggetto dell’intervento, purché abbia sostenuto le spese e le fatture e i bonifici siano a lui intestati. È ammessa la detrazione anche nei casi in cui le fatture e i bonifici non siano intestati al familiare convivente, purché la percentuale della spesa sostenuta dallo stesso sia indicata nella fattura (Circolare 11/E del 21 maggio 2014).

Ciascun contribuente ha diritto a detrarre annualmente la quota spettante nei limiti dell’IRPEF dovuta per l’anno in questione. Non è ammesso il rimborso di somme eccedenti l’imposta.
Documenti da conservare – Ai fini dell’ottenimento del beneficio è necessario che i pagamenti siano effettuati con bonifico bancario o postale dal quale devono risultare :

  • causale del versamento (per le spese sostenute dal 1° gennaio 2012 va indicato l’art. 16-bis del TUIR);
  • codice fiscale del soggetto che effettua il pagamento;
  • codice fiscale o numero di partita Iva del beneficiario del pagamento.

Il contribuente deve, inoltre, conservare ed esibire, a richiesta dell’Ufficio, i documenti individuati dal Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 2 novembre 2011quali ad esempio le fatture e le ricevute fiscali relative alle spese sostenute.

AUTORE: REDAZIONE FISCAL FOCUS

 

 

730: ONLINE SPECIFICHE E ISTRUZIONI PER SOSTITUTI, CAF E PROFESSIONISTI

In data 15 febbraio l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato sul proprio sito il provvedimento con cui sono comunicate le specifiche tecniche per la trasmissione in via telematica all’Agenzia dei dati contenuti nei modelli di dichiarazione 730/2016, da parte dei sostituti d’imposta, dei Caf, dei professionisti e degli intermediari abilitati che hanno assunto tale incarico, nonché le specifiche tecniche per la trasmissione dei modelli 730-4/2016 e 730-4/2016 integrativo. Sono presenti tre allegati al provvedimento di cui sopra:

allegato A- Nell’allegato A sono riportati i tracciati per la trasmissione telematica all’Amministrazione finanziaria – da parte dei sostituti d’imposta, dei Caf e dei professionisti e intermediari abilitati – dei dati contenuti nelle dichiarazioni dei redditi 2015, e quelli per l’invio – da parte di Caf e professionisti abilitati – dei modelli 730-4 e 730-4 integrativo, con i risultati contabili; Le modifiche normative apportate al D.M. n. 164 del 1999, prevedono che i soggetti che prestano l’assistenza fiscale trasmettano i risultati finali delle dichiarazioni relative al mod. 730 (mod. 730-4) non più direttamente ai sostituti d’imposta ma all’Agenzia delle Entrate la quale provvederà successivamente ad inviarli telematicamente al sostituto d’imposta. Pertanto, in sede di trasmissione telematica delle dichiarazioni relative al modello 730/2016, qualora l’assistenza fiscale sia prestata da un CAF, da un professionista abilitato o da una associazione i dati relativi al suddetto mod. 730-4 dovranno essere allegati ai dati della dichiarazione mod. 730/2016 da trasmettere in via telematica. In sede di accoglimento delle dichiarazioni trasmesse in via telematica, costituisce oggetto di controllo sia la presenza dei dati relativi al mod. 730-4 che la coerenza dei dati contenuti nel mod. 730-4 con quelli presenti nel modello 730/2016. Eventuali anomalie riscontrate determinano lo scarto della dichiarazione. Ai sostituti d’imposta i dati relativi al mod. 730-4 saranno resi disponibili presso la sede telematica comunicata con l’apposito modello di comunicazione trasmesso all’Agenzia delle Entrate; Nel caso in cui dalla liquidazione della dichiarazione (mod. 730 ordinario ovvero mod. 730 integrativo), risulti che non ci sia alcun importo da trattenere o da rimborsare a cura del sostituto d’imposta, i dati relativi al mod. 730-4 non devono essere riportati nel tracciato telematico della dichiarazione 730 2016 e deve essere impostato ad “1” l’apposito campo (Flag Assenza Dati730-4) previsto nelle presenti specifiche tecniche del modello 730/2016. La non corretta impostazione della suddetta casella determina lo scarto della dichiarazione 730/2016.

allegato B – Nell’allegato B sono riportate le istruzioni tecniche per la trasmissione telematica dei modelli 730-4 e 730-4 integrativo, da parte di Caf e professionisti abilitati che comunicano i dati all’Inps, in qualità di sostituto d’imposta, mediante supporti informatici.

allegato C – In tale allegato sono invece illustrate le istruzioni per lo svolgimento degli adempimenti previsti per l’assistenza fiscale da parte di sostituti d’imposta, professionisti abilitati e Caf.

Le specifiche tecniche per la trasmissione dei dati relativi alla scelta dell’otto, del cinque e del due per mille dell’Irpef da parte dei CAF e dei professionisti abilitati saranno approvate con successivo provvedimento.

AUTORE: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Affitti nuove regole per la registrazione contratti

L’articolo 1, comma 59, della Legge 28 dicembre 2015 n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato» (Legge di Stabilità 2016), entrato in vigore il 1° gennaio 2016, ha sostituito l’articolo 13 della Legge 9 dicembre 1998 n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili ad uso abitativo).

Il nuovo articolo 13 della Legge 431/1998, prevede per il locatore l’obbligo di registrare il contratto di locazione entro 30 giorni, a pena di nullità.

Il locatore deve, poi, dare “documentata comunicazione” della citata  registrazione,  nei  successivi  60  giorni, sia al conduttore che all’amministratore del condominio, anche ai fini degli obblighi di tenuta dell’anagrafe condominiale, prevista dall’articolo 1130, numero 6), Codice    civile.

 

Registrazione contratti di locazione

I contratti di locazione e di affitto di beni immobili (qualunque sia l’ammontare del canone pattuito) sono soggetti a registrazione secondo quanto disposto dal D.P.R. n. 131/1986, con modalità:

·telematica (modalità obbligatoria per gli agenti immobiliari e i possessori di almeno 10 immobili) direttamente o tramite un intermediario abilitato;

·“cartacea”, presso gli uffici dell’Agenzia delle Entrate.

L’unica eccezione a tale regola è rappresentata dai contratti di locazione di durata inferiore a 30 giorni nel corso dell’anno (tipicamente contratti turistici), per i quali non c’è obbligo di  registrazione.

 

 

 

 

 

 

Legge di Stabilità

2016

Fino al 2015, inoltre, la registrazione poteva essere effettuata, oltre che dal proprietario dell’immobile e dal mediatore del contratto, anche dall’inquilino stesso.

La Legge di Stabilità 2016 propone, sotto il profilo giuridico,  la  riscrittura  dell’art. 13 della Legge 9 dicembre 1998, n. 431, che contiene la disciplina dettata per le locazioni  abitative

In particolare la Legge di Stabilità 2016, dal 2016 prevede che:

· la registrazione del contratto di locazione deve essere effettuata dal locatore entro il termine perentorio di 30 giorni;

·  il locatore deve dare “documentata comunicazione” della citata registrazione, nei successivi 60 giorni, sia al conduttore che all’amministratore del condominio, anche ai fini  degli  obblighi  di tenuta dell’anagrafe condominiale, prevista dall’articolo 1130, numero 6),  Codice civile.

Si noti che dalla lettura del disposto normativo sembrerebbe che il conduttore non possa più provvedere anche se “parte interessata” alla registrazione del contratto di locazione.

Nullità del contratto

Il “nuovo” art. 13 dispone, inoltre, i seguenti principi:

·         sono da considerarsi nulli i patti tra locatore e conduttore  che prevedano un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato; in caso di nullità  il conduttore può, entro 6 mesi dalla riconsegna dell’immobile locato, chiedere la restituzione delle somme versate in misura superiore al canone risultante dal contratto scritto e  registrato;

·         sono altresì nulli i patti volti a derogare ai limiti di durata del contratto stabiliti  dalla legge.

Per quanto attiene alla nullità dei patti di contenuto contrario a norme imperative, pare non vi sia nulla di nuovo rispetto al testo precedentemente in vigore: si tratta, invero, di un principio che il Legislatore ha “cristallizzato” nella riforma del 1998, ma che trae le proprie origini nella normativa sull’equo  canone.

Già nella versione dell’art. 13 della Legge n. 431/1998 vigente fino al 31 dicembre 2015, infatti, si ritenevano nulli:

·         qualsiasi patto o clausola attraverso i quali veniva determinato un canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto, scritto    e registrato;

  • i patti o le clausole contenenti una deroga ai limiti di durata del contratto stabiliti  dall’art.  2  della  medesima  Legge  431/1998;
  • relativamente ai contratti rientranti nel canale “assistito” o “concordato”, i patti e le clausole con le quali viene attribuito al locatore un canone superiore a quello massimo previsto dagli accordi stabiliti in sede locale, per gli immobili aventi le stesse caratteristiche ed appartenenti alle medesime tipologie;

per i contratti rientranti nel canale “libero”, qualsiasi obbligo del conduttore ed ogni clausola o altro vantaggio, sia economico sia normativo, finalizzati ad attribuire al locatore un canone superiore a quello stabilito a livello contrattuale. Al riguardo, si pensi, ad esempio, alle clausole che impongono a carico del conduttore l’obbligo di sopportare gli oneri di manutenzione straordinaria   dell’immobile.

Azioni da parte del conduttore

La norma entrata in  vigore  il 1°  gennaio 2016 prevede  – come  anticipato –  che in caso di nullità dei patti diretti ad aumentare la misura  del  canone  rispetto a quella indicata nel contratto, il conduttore possa, entro 6 mesi dalla riconsegna dell’immobile locato, chiedere la restituzione delle somme versate in misura superiore. Anche sotto questo profilo, peraltro, non si ravvisano novità rispetto al regime  previgente.

Ne consegue che il giudice adito, accertata l’esistenza di un contratto di locazione, determinerà l’ammontare del canone dovuto, che non potrà mai superare quello definito ai sensi dell’art. 2, comma 3, della Legge n. 431/1998 oppure – qualora il conduttore abiti stabilmente l’immobile per motivi di    studio

– la misura fissata secondo le modalità di cui all’art. 5, commi 2 e 3, della medesima   Legge.

La precedente formulazione del comma 6 dell’art. 13 della Legge n. 431/1998 ammetteva la possibilità per il conduttore di chiedere al giudice  che  la  locazione venisse ricondotta entro i  limiti  previsti  dalla  legge  anche  nell’ipotesi in cui il locatore “ha preteso l’instaurazione di un rapporto di locazione di fatto”: tale possibilità, ora, è prevista indistintamente per  le  ipotesi in cui il locatore “non abbia provveduto alla prescritta registrazione del contratto” entro il prescritto termine di 30 giorni.

Canone dovuto

in caso di mancata registrazione

Come noto, il D.Lgs. n. 23/2011, all’articolo 3, commi 8 e 9 aveva introdotto  un particolare regime sanzionatorio applicabile ai contratti di locazione degli immobili ad uso  abitativo:

8. Ai contratti di locazione degli immobili ad uso abitativo,  comunque stipulati, che, ricorrendone i presupposti, non sono registrati entro il termine stabilito dalla legge, si applica la seguente disciplina:

  1. la durata della locazione è stabilita in quattro anni a decorrere dalla data della registrazione, volontaria o d’ufficio;
  2. al rinnovo si applica la disciplina di cui all’articolo 2, comma 1, della citata legge 431 del 1998;
  3. a decorrere dalla registrazione il canone annuo di locazione è fissato in misura pari al triplo della rendita catastale, oltre l’adeguamento, dal secondo anno, in base al 75 per cento dell’aumento degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli impiegati ed

Se il contratto prevede un canone inferiore, si applica comunque il canone stabilito dalle parti. 9. Le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 346, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, ed al comma 8 del presente articolo si applicano anche ai casi in cui:

  1. nel contratto di locazione registrato sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo;
  2. sia stato registrato un contratto di comodato fittizio”.

In pratica, era previsto che nel caso in cui fosse stata accertata l’omessa registrazione del contratto di locazione di un immobile ad uso abitativo, a decorrere dalla data di registrazione dello stesso, volontaria o d’ufficio:

  • la durata della locazione era stabilita in quattro anni;
  • per il rinnovo del contratto si applicava quanto disposto dall’art. 2, comma 1, Legge n. 431/1998 (rinnovo automatico per altri quattro anni in mancanza di espressa rinuncia entro 6 mesi dalla scadenza, ecc.);
  • il canone annuo era stabilito in misura pari al triplo della rendita catastale, oltre l’adeguamento, dal secondo anno, in base al 75% dell’aumento dell’indice ISTAT (salvo che il canone stabilito dal contratto fosse addirittura  inferiore).

La Corte Costituzionale, con Sentenza 14 marzo 2014, n. 50, accogliendo le richieste formulate da alcuni Tribunali, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del regime sanzionatorio sopra citato. Successivamente, tuttavia:

  • l’art. 5, comma 1-ter, L. n. 47/2014, ha disposto che le previsioni di cui all’art. 3, commi 8 e 9, D.Lgs. n. 23/2011 sono “fatte salve” fino al 31 dicembre 2015;
  • con Sentenza 16 luglio 2015, n. 169, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima anche tale disposizione, in quanto è fatto divieto al Legislatore di emanare un nuovo atto diretto soltanto a prolungare nel tempo, anche in via indiretta, l’efficacia di norme già dichiarate illegittime.

A seguito della conferma dell’illegittimità costituzionale del citato regime sanzionatorio, da più parti era stato evidenziato come i proprietari “denunciati” ora avessero la possibilità di richiedere agli inquilini il pagamento dei canoni dovuti dal 7 aprile 2011 in misura superiore a quella che era stata disposta  normativamente.

Per evitare l’insorgere di dette problematiche, la Legge di Stabilità 2016 interviene nuovamente sulla questione in esame stabilendo l’ammontare del canone dovuto dai conduttori in applicazione del regime sanzionatorio di cui all’articolo 3, commi 8 e 9, D.Lgs. n.   23/2011.

In particolare, è espressamente previsto che i conduttori che hanno versato, nel periodo compreso tra:

  • il 7 aprile 2011  (data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2011);

ed:

  • il 16 luglio 2015 (data del deposito della Sentenza 119/2015);

il canone annuo di locazione nella misura rideterminata normativamente (triplo della rendita catastale con adeguamento, dal secondo anno, in base al 75% dell’indice ISTAT), sono tenuti a corrispondere il citato canone (o l’indennità di occupazione maturata, su  base  annua)  con  riferimento  al periodo considerato, nella misura del triplo della rendita  catastale  dell’immobile.