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Esenti dall’Iva i professionisti anche non regolamentati

Valutabile sulla base di altri parametri l’attività medica o paramedica

L’esenzione dall’Iva non è limitata solo a chi esercita una professione medica o paramedica regolamentata dalla legislazione nazionale. L’aliquota ridotta per le cessioni di medicinali e dispositivi medici riguarda solo i casi in cui essi sono forniti nell’ambito di interventi o trattamenti di natura terapeutica; lo stesso non vale per le cessioni effettuate nell’ambito degli interventi o trattamenti aventi natura esclusivamente estetica. A queste ultime si applica l’aliquota ordinaria.

La Corte di giustizia europea (causa C-597/17) fa luce su alcuni aspetti delle prestazioni sanitarie che non sono stati sempre del tutto pacifici. La professione del chiropratico e dell’osteopata, oggi ufficialmente riconosciute come sanitarie (legge 3/2018), fino a qualche anno fa aveva generato dubbi quanto all’applicazione del regime Iva di esenzione, escluso sia dalla prassi nazionale che dalla giurisprudenza di legittimità. La sentenza della Corte conferma la bontà della modifica legislativa, anzi sembra fare un passo in più. Secondo i giudici Ue, affinché possa rientrare tra «le prestazioni mediche effettuate nell’esercizio delle professioni mediche e paramediche quali sono definite dagli Stati membri interessati» (articolo 132, paragrafo 1, lettera c della direttiva Iva), è necessario che la prestazione sanitaria sia diretta alla persona e fornita da soggetti che possiedono le necessarie qualifiche professionali. Non occorre, però, che quest’ultimi esercitino una professione medica o paramedica disciplinata dalla normativa dello Stato membro. Ciò in quanto possono considerarsi rilevanti altri parametri per valutare le loro qualifiche professionali (ad esempio, formazione presso istituti di insegnamento riconosciuti dalla Stato).

Il secondo principio espresso dalla Corte nella sentenza di ieri è importante in quanto crea uno stretto legame tra il trattamento Iva da applicare alla cessione di un bene e l’uso che esso mira a soddisfare. L’applicazione dell’aliquota ridotta o dell’ordinaria alla cessione del medesimo bene (medicinali e dispositivi medici) è giustificato dall’utilizzo concreto al quale tali cessioni sono destinate (trattamento di natura terapeutica in un caso, di natura estetica nell’altro). In contesti chiaramente distinti lo stesso bene soddisfa esigenze diverse dal punto di vista del consumatore medio, per cui non viola il principio di neutralità fiscale il differente trattamento a fini Iva, se la normativa nazionale non prevede diversamente.

L’ultimo appunto della sentenza è sull’efficacia delle sentenze della Corte: il giudice nazionale non può mantenere gli effetti di un atto annullato per conservare in via provvisoria – finché il legislatore non intervenga a sanare l’incompatibilità – la disposizione interna incompatibile col diritto dell’Ue.

Fonte “Il sole 24 ore”

Operazioni inesistenti, sanzione ridotta se non c’è danno all’Erario

Non è conforme ai principi di proporzionalità e neutralità la sanzione equivalente all’importo dell’Iva indebitamente detratta a seguito di operazioni inesistenti, qualora la corrispondente Imposta sul valore aggiunto, riguardante la medesima operazione, sia stata assolta dal cedente e non vi sia alcun danno all’Erario.

Tuttavia, è in linea con la direttiva Iva la norma italiana che, a fronte del riconoscimento del debito d’imposta per la mancanza di una valida operazione sottostante, prevede anche l’indetraibilità dell’Iva. L’ordinamento interno, però, deve anche ammettere la possibilità di rettificare il debito d’imposta, a prescindere dalla buona fede del contribuente, qualora venga escluso interamente il rischio di perdite di gettito fiscale. Questi i principi affermati dalla Corte Ue, nella causa C 712/17 depositata ieri.

La problematica, che ha imposto la chiamata in causa della Corte, era stata sollevata dalla Ctr Lombardia con l’ordinanza 1714/1/2017. In sintesi, era accaduto che l’agenzia delle Entrate aveva contestato l’indetraibilità dell’Iva in relazione ad operazioni meramente cartolari effettuate allo scopo di aumentare i valori contabili e, quindi, accedere a finanziamenti bancari. Inoltre, i passaggi fra le varie società si sarebbero conclusi con il “riacquisto” da parte dello stesso soggetto dell’energia apparentemente ceduta.

In sostanza, l’Iva indicata nelle fatture emesse veniva versata dal cedente e portata in detrazione dal cessionario. Da qui la necessità dei giudici lombardi di sapere se la normativa italiana, che prevede che il cedente versi l’Iva senza la possibilità di chiederne il rimborso e il cessionario non detragga l’imposta con l’irrogazione di una sanzione equivalente all’imposta contestata, sia compatibile, anche per effetto della “circolarità” delle cessioni e nessun danno erariale, con la neutralità dell’imposta e con i principi comunitari.

Nel tentativo di sciogliere il nodo interpretativo gli eurogiudici avallano la normativa domestica che, nel prevedere in capo al soggetto che emette una fattura per un’operazione fittizia l’obbligo di assolvere l’imposta, preclude, al soggetto destinatario della fattura, di detrarre quest’ultima.

Allo stesso tempo la Corte si è preoccupata anche, al fine di non eccedere quanto necessario per garantire l’esatta riscossione dell’imposta, di evitare l’evasione e di assicurare il rispetto del principio di neutralità, che al contribuente sia concessa la possibilità di rettificare l’imposta indebitamente fatturata eliminando tempestivamente qualsiasi rischio di perdite di entrate.

Quanto all’aspetto sanzionatorio, infine, i giudici chiariscono, richiamando i principi di proporzionalità e di neutralità dell’Iva, che in assenza di danni all’erario, per effetto della rettifica del debito erariale e tenendo conto che la sanzione non è calcolata sulla base debito d’imposta, ma è pari all’importo dell’imposta detratta, la sanzione del 100% è contraria alla direttiva comunitaria.

Fonte “Il sole 24 ore”

Promosse le soglie di rilevanza penale per le omissioni Iva

di Giovanni Negri

La Corte di giustizia europea promuove le soglie di rilevanza penale per l’omesso versamento dell’Iva. Anche dopo la riforma che le ha sensibilmente elevate da 50mila a 250mila euro.

Con la sentenza depositata ieri nella causa 574 C-574/15, i giudici europei sottolineano innanzitutto che, sebbene le sanzioni che gli Stati membri approvano per contrastare le violazioni in materia di Iva rientrino nella loro autonomia procedurale e istituzionale, quest’ultima è tuttavia limitata, oltre che dal principio di proporzionalità, da un lato, dal principio di equivalenza, che implica che tali sanzioni siano analoghe a quelle applicabili alle violazioni del diritto nazionale simili per natura e importanza e lesive degli interessi finanziari nazionali e, dall’altro, dal principio di effettività, il quale impone che dette sanzioni siano effettive e dissuasive.

Così, la sentenza precisa che la legislazione italiana prevede, per l’omesso versamento dell’Iva (sotto i 250mila euro), una sanzione amministrativa pari al 30 % dell’imposta dovuta, che sono previsti degli interessi di mora da versare all’amministrazione fiscale, che il contribuente può beneficiare di una riduzione della sanzione in funzione del momento in cui regolarizza la propria situazione: tutti elementi che portano a ritenere che il principio di effettività appare rispettato. Conclusione valida anche se le sanzioni sono inflitte soltanto alla persona giuridica (società) e non ai suoi amministratori o dirigenti.

Quanto al principio di equivalenza, la Corte osserva che il reato di omesso versamento Iva (reato lesivo degli interessi dell’Unione) non è paragonabile all’omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d’imposta (reato lesivo degli interessi dell’Italia). Infatti, il sostituto d’imposta può rilasciare a favore del contribuente una certificazione di avvenuto pagamento dell’imposta alla fonte, consentendogli di farla valere davanti all’amministrazione fiscale. Il contribuente è liberato dall’obbligo di pagamento anche se la certificazione non risponde al vero (e cioè persino se il sostituto d’imposta non ha in realtà versato le ritenute all’Erario).

In queste condizioni, è evidente ai giudici che l’omesso versamento dell’imposta sui redditi, reato commesso dal sostituto d’imposta è più difficile da accertare rispetto all’omesso versamento dell’Iva, reato commesso direttamente dal contribuente. Pertanto, il principio di equivalenza non è di ostacolo a una normativa, come quella italiana, che fissa soglie di punibilità diverse per l’omesso versamento Iva (250mila euro) e per l’omesso versamento delle ritenute (150mila euro).

I giudici hanno considerato superata l’altra questione posta, a sua volta centrata sulla legittimità dell’estinzione del procedimento penale in caso di pagamento tardivo, sanzioni comprese.

Fonte “Il sole 24 ore”

Le regole formali non frenano il diritto alla detrazione Iva

Il diritto alla detrazione non può essere scalfito da eventuali formalismi. In quanto cardine del sistema comune dell’Iva, il rispetto delle norme che disciplinano gli aspetti formali del suo esercizio non può minare al suo riconoscimento in capo al contribuente, sussistendo i requisiti sostanziali.

La Corte di Giustizia Ue ha ancora una volta l’occasione di ribadire la centralità del diritto alla detrazione dell’Iva, che sul piano fattuale potrebbe essere compromesso laddove al contribuente sia negata la possibilità di rettificare le proprie dichiarazioni relative all’Iva per i periodi d’imposta che sono già stati sottoposti a verifica dagli organi fiscali (si veda la sentenza C-81/2017 depositata ieri). Una siffatta limitazione, che troverebbe giustificazione nella necessità di tutelare l’unicità della verifica fiscale, darebbe luogo a ben altre, e più gravi, conseguenze in termini di lesioni dei principi che sono alla base della disciplina dell’imposta sul piano unionale.

Ad essere compromesso sarebbe innanzitutto il principio di effettività: un ordinamento (come quello rumeno) che preveda in caso di verifica fiscale un termine di decadenza dall’esercizio del diritto più breve (fino a negarlo del tutto) rispetto a quello ordinario (in Romania è di cinque anni) priva di fatto il contribuente della possibilità di rettificare le sue dichiarazioni relative al periodo d’imposta interessato dall’eventuale verifica, anche se il termine di decadenza previsto non è ancora decorso.

Risulterebbe, inoltre, violata la neutralità dell’Iva, principio che esige, invece, che la detrazione a monte dell’imposta sia concessa qualora i requisiti sostanziali siano soddisfatti, anche se alcuni requisiti formali sono disattesi.

Ed infine sarebbe pure violato il principio di proporzionalità. In questo senso, i giudici unionali legittimano sì gli interventi del legislatore domestico diretti ad introdurre delle sanzioni nel caso in cui non siano rispettati gli obblighi formali connessi al sistema dell’Iva, ma la sanzione non può tradursi nel diniego assoluto del diritto a detrarre (cosa che invece può verificarsi nelle ipotesi di rischio di frode o di danno all’Erario).

A questo punto non si può fare a meno di evidenziare che, in tal caso, la norma italiana sembra essere perfettamente allineata con la pronuncia dei giudici europei. Considerando la facoltà, concessa ai fini Iva dall’articolo 8, commi da 6-bis a 6-quinquies del Dpr 322/1998 al contribuente, di ritrattare sia a suo favore che sfavore il contenuto della dichiarazione entro i termini di decadenza dell’azione di accertamento, è chiaro che né un’eventuale verifica fiscale prima che sia decorso in termine né addirittura un contenzioso potrebbe ostacolare l’esercizio del diritto a detrarre, in quanto «resta ferma in ogni caso per il contribuente la possibilità di far valere, anche in sede di accertamento e i giudizio, gli eventuali errori, di fatto e di diritto, che abbiano inciso sulla sua obbligazione tributaria».

Fonte “Il sole 24 ore”

Omessi versamenti: per l’Ue possibile il cumulo di sanzioni amministrative e penali

La Corte di Giustizia con la sentenza di ieri nella causa C- 524/15 (si veda anche la pagina precedente) ipotizza la possibilità del cumulo delle sanzioni amministrative e penali nel caso di omesso versamento di imposte, ma condiziona tale cumulo alla verifica che gli effetti che si determinano non risultino eccessivi rispetto alla gravità del reato commesso e che, perseguendo un interesse generale, non violi il principio di proporzionalità. La domanda che ci dobbiamo porre (ovvero a cui devono rispondere i giudici nazionali) è se le fattispecie di omesso versamento e le relative sanzioni amministrative e penali previste rispondono effettivamente alle condizioni richieste.

Le norme unionali che informano le scelte del legislatore nazionale sono l’articolo 2 della direttiva 2006/112/CE, che prevede tutte le operazioni che sono soggette ad Iva, e l’articolo 273, che consente agli Stati membri di introdurre degli obblighi supplementari necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’Iva e ad evitare le evasioni.

Sul piano delle violazioni concorrenti bisogna far riferimento, da una parte, all’articolo 13 del Dlgs 471/97 e, dall’altra, all’articolo 10 ter del Dlgs 74/2000. La prima fattispecie prevede, in caso di ritardati o omessi versamenti, una sanzione amministrativa (definita dalla corte di natura penale) pari al 30% dell’importo non versato o versato in ritardo. In caso di versamento in ritardo la norma prevede, in presenza di un ritardo non superiore a 90 giorni, che la sanzione edittale sia ridotta alla metà (15%). Inoltre, nel caso di ritardo nel versamento non superiore a 15 giorni, tale sanzione è ulteriormente ridotta a un importo pari a un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo.

La fattispecie di reato di cui all’articolo 10 ter del Dlgs 74/2000, invece, prevede la reclusione da 6 mesi a 2 anni per chi, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, nn versa l’imposta dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a 250.000 euro per ciascun periodo d’imposta. Tale sanzione penale in base all’articolo 13 dello stesso Dlgs non si applica (rectius: il reato non è punibile) se prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti.

Le sanzioni considerate perseguono, come chiede la Corte, l’interesse generale di assicurare la riscossione integrale dell’Iva. Questo interesse però, seppure importante, non è di per sé sufficiente a consentire la cumulabilità delle sanzioni. In effetti, come specificato al punto 44 della sentenza, le sanzioni concorrenti devono riguardare scopi complementari vertenti su aspetti differenti della medesima condotta di reato interessata. Circostanza questa che nel caso di specie sembra non essere presente poiché entrambe le fattispecie sono dirette a sanzionare l’omesso versamento Iva, anche se con tempistiche differenziate. Al contrario, sul piano della proporzionalità delle sanzioni e dell’esistenza di norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni sia adeguato, è la stessa Corte che sembra individuare nelle norme e nei meccanismi attenuanti elementi sufficienti perché le condizioni siano soddisfatte. Ciononostante, la Corte evidenzia che i giudici sono chiamati a verificare se, in concreto, il cumulo sanzionatorio sia in linea con la gravità del reato commesso. E su questo punto, l’indagine è molto più complessa e solleva in concreto più di un dubbio.

Fonte “Il sole 24 ore”