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Stangata sulle auto aziendali: per gli utenti costi triplicati

Aumentano il fringe benefit per l’uso promiscuo e la trattenuta in busta paga
Nuove norme operative dal 2020. Esclusioni solo per gli agenti di commercio

Nella bozza della legge di Bilancio spunta una stangata sulle auto aziendali: il reddito in natura imputato ai dipendenti (fringe benefit) per la possibilità di utilizzarle anche nel tempo libero (il cosiddetto uso promiscuo) viene triplicato. Stesso aumento per la trattenuta sullo stipendio di chi non ha reddito in natura perché “restituisce” al datore di lavoro la quota corrispondente all’uso privato.

La prima versione del testo del disegno di legge di Bilancio che sta circolando tocca anche l’articolo 51 del Tuir. La norma, per com’è oggi in vigore, stabilisce che per le autovetture, gli autoveicoli per trasporto promiscuo (persone e cose) gli autocaravan, i motocicli e i ciclomotori, concessi «in uso promiscuo» ai dipendenti o agli amministratori, il valore del compenso in natura (per la parte dell’uso personale) da assoggettare, in capo agli utilizzatori, a tassazione (Irpef e addizionali) anche ai fini previdenziali, è pari al 30% «dell’importo corrispondente ad una percorrenza convenzionale di 15 mila chilometri calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle nazionali» Aci, «al netto degli ammontari eventualmente trattenuti al dipendente» (al lordo dell’Iva della fattura che va pagata nell’anno). La stretta che si sta preparando prevede l’eliminazione della percentuale del 30%. Dunque, i 15.000 chilometri di «percorrenza convenzionale» annuale verrebbero tassati tutti, mentre finora si è pagato solo su 4.500 chilometri.

Le conseguenze, che si sentirebbero già da gennaio 2020, sono pesanti: su un’auto media, si passerebbe da un prelievo di circa 600 euro a quasi 2mila (si veda l’esempio nelle schede a destra). Analogo sarebbe l’aumento della trattenuta per i lavoratori che invece rimborsano l’uso privato. Il tutto per la preoccupazione degli operatori del settore (si vedano ancora le schede destra).

Non solo: i calcoli non tengono conto del fatto che l’aumento del valore del fringe benefit comporterà ulteriori costi indiretti:

farà ridurre le detrazioni per lavoro dipendente e quelle per gli eventuali familiari a carico;

se il reddito complessivo supererà il limite di 24.600 euro, non si potrà più fruire pienamente degli 80 euro del bonus Renzi, se ancora applicabile nel 2020;

se il reddito complessivo supererà i 120.000 euro, il contribuente avrà una riduzione degli oneri detraibili.

Lo bozza esclude dalla stretta solo gli agenti di commercio. Che però normalmente non hanno mai avuto fringe benefit, non essendo quasi mai lavoratori dipendenti.

Dal lato dell’azienda, nulla cambia a livello normativo. Quindi, per i veicoli dati in uso promiscuo ai dipendenti, la deduzione dei relativi costi rimarrà del 70 per cento.

Ma la deduzione era del 90% fino al 2012 e del 100% (del solo fringe benefit) fino al 2006 . Già queste strette, assieme a quelle su deduzioni e detrazioni sui costi di acquisto e manutenzione o di leasing o noleggio del veicolo scattate sempre nel 2012, hanno messo in discussione la convenienza della mobilità aziendale con veicoli forniti dal datore: i rimborsi chilometrici ai dipendenti che usano mezzi propri non sono soggetti a limiti.

Se le aziende non hanno cambiato politica sinora, è stato anche per mantenere l’auto aziendale come leva retributiva nei confronti dei dipendenti, che la apprezzano da sempre. Ma potrebbero cambiare idea, di fronte all’aggravio fiscale che si prepara.

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Lotta alle false compensazioni, il governo punta a 1-2 miliardi

Secondo il presidente Inps Tridico si potrebbe arrivare anche a cinque

Dalla stretta sulle indebite compensazioni tra crediti fiscali e debiti contributivi il governo potrebbe recuperare uno o due miliardi a partire dal 2020, secondo quanto fatto filtrare ieri da fonti vicine al dossier. Ma dopo l’incontro tecnico in Ragioneria generale dello Stato cui hanno partecipato anche i vertici dell’Inps, il presidente dell’Istituto, Pasquale Tridico, s’è detto più ottimista. «Sono convinto che si possa arrivare almeno fino a 5 miliardi – ha spiegato Tridico al Sole24Ore – una stima che tiene conto della dinamica delle somme per compensazioni che l’Agenzia delle Entrate ha trasferito a Inps negli ultimi anni, del tutto anomala rispetto al contesto economico, e dell’effetto deterrenza che può generare un buon filtro preventivo sulle future richieste di compensazione». Tridico ha riferito di un clima molto costruttivo tra tutti i soggetti istituzionali coinvolti nel progetto, dall’Agenzia delle Entrate al Mef: «È stato riconosciuto il fatto che c’è un problema con i crediti fiscali e che può essere affrontato nell’ambito dell’azione che il governo intende mettere in campo sul fronte anti-evasione».

Tra il 2012 e il 2018 i trasferimenti dell’Agenzia all’Inps sulla base di crediti fiscali riconosciuti hanno in effetti registrato una crescita del 74%, arrivando oltre i 13 miliardi. Ma bisogna tener conto di alcune ragioni oggettive che hanno determinato quel salto: lo split payment, per esempio, ha prodotto dal 2015 un forte aumento dei crediti Iva. E lo stesso è avvenuto con le ultime novità normative sulla gestione dei crediti per le imposte dirette. «Non tutte le maggiori richieste di compensazioni sono truffaldine – ha affermato ancora Tridico – ma noi abbiamo riscontrato casi estremi, richieste di crediti impossibili come quelli di un’azienda con 5 addetti che ha presentato compensazioni per 80 milioni sul bonus Renzi».

Il giro di vite sulle richieste anomale avverrebbe con l’attivazione di una piattaforma informatica tramite la quale Agenzia delle Entrate possa leggere la congruità o meno delle richieste fatte da un sostituto d’imposta tramite il modulo F24 con indici condivisi con Inps e Inail. E in casi estremi scatterebbero “codici automatici di cifratura e blocco” che annullino il riconoscimento del credito. In caso di stop il soggetto interessato avrebbe comunque trenta giorni di tempo per dimostrare le sue ragioni e procedere con la richiesta, come del resto già oggi avviene per i soli crediti erariali: «In pratica invertiamo l’onere della prova consentendo alle aziende oneste tempi certi per perfezionare le domande» dice ancora Tridico, secondo il quale la piattaforma informatica potrebbe essere attivata entro gennaio, anche tenendo conto dei tempi necessari per i bandi.

Il presidente dell’Inps ha fatto riferimento alle idee dell’economia comportamentale per spiegare l’effetto deterrenza che le nuove misure potrebbero innescare: «Si tratta di una spinta gentile (nudge in inglese; ndr) per far sì che le aziende si presentino con domande di compensazione congrue sapendo di trovarsi di fronte a un sistema informatico capace di leggere i loro dati incrociando archivi diversi, il nostro, quello di Inail o di altri istituti, in pieno regime di interoperabilità».

L’Istituto assicurativo contro gli infortuni sul lavoro ha confermato il suo interesse per il progetto di una piattaforma digitale con codici di controllo (si è parlato anche della possibilità di utilizzare la tecnologia Blockchain) pur non nascondendo una certa cautela. Da qualche tempo Inail ha per esempio chiesto di poter accedere all’archivio dati UniEmens di Inps per costruire indici analitici sul profilo di rischio dei lavoratori e costruire i cosiddetti “cruscotti della prevenzione aziendali” ma, finora, il progetto è rimasto nei cassetti.

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Bike e car sharing da certificare anche se pagati con la carta

La risposta dell’Agenzia esclude la qualificazione di attività a distanza
Si tratta di locazione di beni mobili e non rientra tra i servizi elettronici
I servizi di bike e car sharing, i servizi collegati alla sharing economy e alla gig
economy, in quanto non rientrano tra i servizi a distanza, vanno certificati
operazione per operazione con scontrini e ricevute fiscali o dal 1° gennaio 2020 con
documento commerciale, salvo in ogni caso l’emissione di fatture elettroniche. Con
la risposta a interpello 396/2019, pubblicata ieri 8 ottobre, l’agenzia delle Entrate
nell’occuparsi del servizio di bike sharing introduce di fatto un principio
applicabile per tutti quei servizi gestiti tramite piattaforme elettroniche e pagati
tramite app su internet anche se il pagamento avviene in modo tracciabile. La
certificazione riguarda tutte le operazioni anche quando rese a committenti privati
che non operano nell’esercizio di imprese, arti o professioni. Non si tratta infatti di
operazioni riconducibili tra i servizi elettronici resi a committenti privati e, in
quanto tali, esonerate, al momento, dall’obbligo di certificazione secondo quanto
disposto dal decreto ministeriale del 10 maggio 2019. Il prestare il servizio in
maniera automatizzata e l’accettare esclusivamente pagamenti con strumenti
elettronici non sono infatti sufficienti a qualificare il servizio stesso come
elettronico e, per l’effetto, ad esonerare il prestatore dalla documentazione con
corrispettivo dell’operazione: si tratta invece di un servizio riconducibile alla
locazione onerosa di cose mobili non rientrante, per l’effetto, tra quelli prestati
tramite mezzi elettronici elencati nel regolamento Ue 282 del 2011.
Certamente le conclusioni dell’Agenzia dovrebbero spingere a far riflettere il
legislatore per introdurre, in caso di tracciabilità dell’operazione, una maggiore
flessibilità per favorire tutte queste economie in divenire. Così come avvenne nel
1996 quando si individuarono le operazioni per le quali potevano operare gli
esoneri dalla documentazione con scontrino e ricevuta.
Il caso esaminato
L’istanza di interpello è stata presentata da una società che, svolgendo attività di
bike sharing, ha fatto realizzare una “applicazione” per smartphone e tablet grazie
alla quale gli utenti possono usufruire del servizio, utilizzando la propria carta di
credito per il relativo pagamento. Una volta effettuata la scansione del QR-code presente sulla bicicletta, viene effettuato il pagamento mediante sistema paypal o
carta di credito e, contemporaneamente, si sblocca automaticamente il lucchetto
elettronico che blocca il veicolo. Il periodo di noleggio termina con la chiusura del
lucchetto alla riconsegna della bicicletta presso uno dei totem dedicati. Sul
presupposto che si trattasse di servizi resi con mezzi elettronici, l’istante ha
richiesto se, oltre all’effettuazione di un incasso tracciabile, in caso di prestazione
verso clienti privati fosse sufficiente l’annotazione nel registro dei corrispettivi,
senza rilascio di ricevuta, scontrino o dal 1° gennaio 2020 di un documento
commerciale, prevedendo altresì l’emissione di una fattura elettronica ove richiesta
oppure se il cliente fosse un soggetto Iva.
La risposta
Ad avviso dell’Agenzia, il servizio di bike sharing non rientra tra quei servizi
elettronici resi a committenti privati, come individuati dall’articolo 7, paragrafo 1 ,
del regolamento Ue 282 del 2011. Si tratta invece di un’operazione di locazione
onerosa di cose mobili come già chiarito dalla Entrate con la risoluzione
478/E/2008. Non si è infatti in presenza di un servizio fornito attraverso internet o
una rete elettronica e con una natura che rende la prestazione esclusivamente
automatizzata, corredata da un intervento umano minimo ed impossibile da
garantire in assenza della tecnologia dell’informazione. Tra i servizi elettronici
rientrano invece le forniture di siti web e web-hosting, di software, di immagini,
testi e informazioni o di basi dati, nonché di musica, film, giochi e prestazioni di
insegnamento a distanza. Il fornitore del servizio di bike sharing deve quindi
rilasciare uno scontrino o una ricevuta fiscale e dal 1° gennaio 2020 un documento
commerciale, che potrà essere inviato al cliente, previo accordo, anche in formato
elettronico.
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I lavori anti-barriere architettoniche con Iva al 4%

La particolare finalità delle opere giustifica l’aliquota super ridotta

Le opere finalizzate all’eliminazione delle barriere architettoniche sono inseribili nella manutenzione straordinaria per la quale si prevede, generalmente, l’Iva del 10%; tuttavia, la particolare finalità cui sono destinate determina l’applicazione dell’aliquota Iva ridotta del 4 per cento. Le Entrate, con la risposta alla consulenza giuridica 18 di ieri, hanno fornito chiarimenti in merito alla corretta aliquota Iva da applicare ad alcune operazioni con particolare riguardo a quelle finalizzate all’abbattimento delle barriere architettoniche. In particolare, l’istante chiedeva di conoscere l’Iva da applicare alle seguenti fattispecie:

1) installazione di ascensori in edifici esistenti a prevalente destinazione abitativa;

2) interventi di modifica degli impianti per il miglioramento dell’accessibilità da parte delle persone costrette nelle sedie a ruote;

3) esecuzione delle operazioni di verifica di sicurezza;

4) canoni contrattuali per la disponibilità dell’impresa di manutenzione, a garantire l’intervento anche nelle ore festive o notturne.

Con riferimento ai punti 1) e 2) l’istante sosteneva di poter applicare l’aliquota del 4% nel caso di interventi finalizzati all’abbattimento delle barriere architettoniche e al conseguimento della massima accessibilità possibile. È il caso, ad esempio, di un intervento di progettazione e installazione di un ascensore in un edificio che ne sia privo oppure quando si smantella un ascensore non accessibile o difficilmente accessibile alle persone con sedie a rotelle e se ne installa uno completamente accessibile alle persone con disabilità.

La risposta dell’Agenzia è conforme alla soluzione prospettata dal contribuente. Infatti, nel caso di eliminazione di barriere architettoniche, trova applicazione il numero 41-ter) della Tabella A, parte II, allegata al Dpr 633/1972, secondo cui sono soggette all’aliquota Iva del 4% le “prestazioni di servizi dipendenti da contratti di appalto aventi ad oggetto la realizzazione delle opere direttamente finalizzate al superamento o alla eliminazione delle barriere architettoniche”.

Nel caso, invece, di generico intervento di manutenzione straordinaria, trovano applicazione le regole secondo cui l’Iva si applica al 10%, anche sul valore dei beni significativi fino a concorrenza dell’importo della manodopera. In sostanza, la finalità dell’intervento (l’eliminazione delle barriere architettoniche) prevale sul resto. Confermata l’aliquota del 10%, suggerita dal contribuente, per i servizi accessori erogati in dipendenza di un contratto di manutenzione, finalizzati a integrare o mantenere in efficienza gli impianti di sollevamento e gli ascensori esistenti.

Fonte “Il sole 24 ore”

E-fattura, controlli non automatici se non si aderisce al cassetto Entrate

La rettifica: chi non dice sì al servizio non diventa in automatico a rischio
Per le Entrate la pericolosità deriva dalla combinazione con altri fattori

La mancata adesione al servizio di consultazione delle e-fatture non è di per sé rilevante come elemento di valutazione dell’analisi del rischio dei contribuenti: con una parziale ma assolutamente importante rettifica alla Faq 125 del 19 luglio 2019, l’agenzia delle Entrate è intervenuta nuovamente per precisare il rapporto tra adesione al servizio di consultazione, disponibile dal 1° luglio al 31 ottobre 2019, e attivazione e realizzazione di controlli incrociati sulla base dei dati delle fatture emesse e ricevute, e delle relative variazioni, acquisiti mediante il Sistema di interscambio ed intersecati con quanto presente in altre banche dati a disposizione del fisco, secondo le regole stabilite dal decreto ministeriale 4 agosto 2016.

Con la prima versione della Faq 125, l’amministrazione finanziaria aveva attribuito un particolare valore a fini accertativi alla mancata adesione da parte dei contribuenti al servizio gratuito di consultazione e acquisizione delle proprie fatture elettroniche.

La non adesione

Non aderire avrebbe costituito, secondo la prima versione pubblicata, un elemento valutabile nell’ambito dell’analisi del rischio di evasione dei contribuenti, i quali sarebbero risultati perciò potenzialmente selezionabili per effettuare le ordinarie attività di controllo. In caso di non adesione, i dati contenuti nei tracciati vengono infatti cancellati con memorizzazione esclusivamente di quelli a rilevanza fiscale.

La domanda, ufficializzata con la Faq 125 riguarda proprio la possibilità o meno per il fisco di effettuare comunque controlli incrociati, finalizzati a favorire l’emersione spontanea di basi imponibili, pur in mancanza dell’intero set informativo. Il Dm 4 agosto 2016 prevede infatti l’utilizzo dei dati di fatture e relative variazioni acquisiti mediante il sistema di interscambio. Come precisato dalle Entrate, e ribadito anche in sede di rettifica, i controlli incrociati saranno realizzati anche in caso di eliminazione del file completo della fattura elettronica.

L’adesione al servizio di consultazione permette infatti da un lato al contribuente di ritrovare in ogni momento le fatture emesse e ricevute ma, soprattutto, rende trasparenti e maggiormente collaborativi i rapporti con l’amministrazione finanziaria evitando l’attivazione delle procedure di analisi del rischio. La rettifica alla risposta 125 pubblicata ieri, precisa tuttavia come la mancata adesione al servizio di “Consultazione” non rappresenterà di per sé un elemento di valutazione nell’ambito dell’attività di analisi del rischio condotta dalle Entrate. Il dato testuale della risposta rettificata sembra in ogni caso riconoscere una valenza a fini accertativi, nell’ambito dell’attività di analisi del rischio, alla mancata adesione quando non si realizza da sola ma in costanza e in combinazione con altri elementi.

Fonte “Il sole 24 ore”

Imu sui fabbricati strumentali, deduzione extra subito operativa

Maggiore deducibilità, graduata nel tempo ma con “punto d’arrivo” al 100%, nuovo termine di presentazione della dichiarazione e una interpretazione autentica di favore per le società agricole. E, per la Tasi, esenzione per gli immobili merce (ma solo dal 2022). Il decreto crescita (Dl 34/2019 ), dopo la conversione da parte della legge 58 presenta aspetti di indubbio interesse per le imprese, sul fronte della fiscalità immobiliare. In alcuni casi con possibili effetti già sul versamento degli acconti.

Imu deducibile al 50% nel 2019

L’articolo 3 del decreto amplia la deducibilità dal reddito d’impresa e di lavoro autonomo dell’Imu versata sugli immobili strumentali. Dal 2014 al 2018, era prevista in misura pari al 20% dell’importo versato (prima era integralmente indeducibile, come a suo tempo accadeva per l’Ici). Già la legge di Bilancio 2019 (comma 12 della legge 145/2018) aveva previsto un incremento del beneficio al 40% per quest’anno. Ora, il testo finale del decreto crescita prevede la seguente deduzione graduata:

50% per il periodo d’imposta 2019;

60% per i periodi 2020 e 2021;

70% per il 2022;

100% dal 2023 (questa è la novità introdotta in sede di conversione).

Per le società con periodo d’imposta non coincidente con l’anno solare, occorre far riferimento al periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre dell’anno precedente a quello sopra indicato. L’incremento è forse legato anche alla volontà di “sminare” il giudizio di costituzionalità incardinato dalla Ctp di Parma (ordinanza n. 271 del 5 luglio 2018).

La norma interessa gli immobili strumentali (concetto definito dall’articolo 43, comma 2, Tuir ), esclusi:

quelli a uso promiscuo;

gli “immobili merce”;

gli immobili qualificati come “patrimonio” (articolo 90 del Tuir).

Poiché la disposizione si riferisce agli «immobili» e non semplicemente ai «fabbricati», dovrebbero rientrarvi anche le aree, ma solo a condizione che possano qualificarsi quali beni strumentali.

Per i professionisti, ai fini Irpef si considerano strumentali gli immobili utilizzati esclusivamente per l’esercizio dell’attività.

Il criterio di deduzione

La deduzione avviene secondo il criterio misto “cassa-competenza” di cui alla circolare 10/E/2014 (risposta 8.2; vi veda anche il grafico). Quindi l’Imu relativa al 2018 versata in ritardo quest’anno è deducibile ancora al 20 per cento. La circolare non è però chiara per i soggetti (come i professionisti e le imprese in contabilità semplificata) che operano in regime di “cassa pura”: si potrebbe comprendere che, premessa l’indeducibilità del tributo sino al 2013, dal 2014 vada applicata la quota di deducibilità dell’anno di versamento (e non quello di competenza), per quanto possa essere premiante per chi versa in ritardo.

L’incremento al 50% della deducibilità 2019 può essere già considerato per chi calcola gli acconti Ires/Irpef con il metodo previsionale, per quanto le imprese si accostino a tale metodo di calcolo soprattutto a novembre.

L’intervento del legislatore appare comunque parziale, perché mantiene l’integrale indeducibilità dell’imposta locale ai fini Irap, disposta dal comma 1 dell’articolo 14 del Dl 23/2011, mentre la Tasi si deduce integralmente sia ai fini delle imposte dirette che Irap (nel regime “del bilancio”).

Beni merce, dichiarazione Imu
e società agricole

Per la Tasi, l’articolo 7-bis del decreto convertito introduce (con decorrenza 2022) l’esenzione dal tributo per «i fabbricati costruiti e destinati dall’impresa costruttrice alla vendita, finché permanga tale destinazione e non siano in ogni caso locati». Oggi, per questi immobili (già esenti dall’Imu ed “identificati” dalle risoluzioni 11/2013 e 9/DF/2015) è prevista un’aliquota ridotta all’1 per mille, che i Comuni possono elevare sino al 2,5 per mille o ridurre fino all’azzeramento.

Riguarda entrambi i tributi locali, invece, lo slittamento (a norma dell’articolo 3-ter del decreto) del termine di presentazione della dichiarazione, dal 30 giugno al 31 dicembre. Dichiarazione necessaria, tra l’altro, per i beni merce, gli alloggi sociali e gli immobili destinati alla ricerca scientifica.

Infine, ponendo fine a un contrasto giurisprudenziale, l’articolo 16 ter prevede, in via interpretativa, che le agevolazioni Imu riservate al mondo agricolo si applichino anche alle società di persone e di capitali laddove in possesso della qualifica di coltivatore diretto o imprenditore agricolo professionale (si veda Il Sole 24 Ore del 25 giugno scorso).

Fonte “Il sole 24 ore”

Alberghi, b&b e affitti brevi: arriva il «grande fratello» del turismo

Albergatori, gestori di strutture ricettive e alcuni semplici locatori di “affitti brevi” saranno presto inseriti in una mega banca dati della ricettività. Ma i loro dati serviranno anzitutto all’agenzia delle Entrate.

Con il secondo e il terzo comma del nuovo articolo 13 quater del Dl 34/2019 è infatti stato previsto che il ministero dell’Interno debba fornire all’agenzia delle Entrate i dati risultanti dalle comunicazioni di cui all’articolo 109, comma 3, del Tulps. Si tratta dei dati individuati dal Dm dell’Interno del 7 gennaio 2013 che ciascun gestore di una struttura ricettiva e ciascun locatore o sublocatore di immobili concessi in godimento con contratti di durata inferiore a trenta giorni devono inviare alla questura competente per territorio mediante il portale denominato “AlloggiatiWeb”.

Dati a uso fiscale

L’Agenzia delle Entrate renderà poi disponibili detti dati, anche a fini di monitoraggio, ai Comuni che hanno istituito l’imposta di soggiorno o il contributo di soggiorno. I dati stessi, inoltre, verranno utilizzati dall’Agenzia delle Entrate, unitamente ai dati trasmessi dai soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare ai sensi dell’articolo 4, commi 4 e 5, del Dl 50/2017, ai fini dell’analisi del rischio relativamente alla correttezza degli adempimenti fiscali.

La norma, per essere concretamente attuata richiede però che criteri, termini e modalità (quasi sicuramente telematica) della trasmissione dei dati vengano stabiliti con un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell’interno, da adottare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge 58/2019 di conversione del Dl 34/2019 (cioè entro il 30 settembre 2019), sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali che deve pronunciarsi entro quarantacinque giorni dalla data di trasmissione.

La banca dati

Con il quarto e quinto comma del nuovo articolo 13 quater del Dl 34/2019 è stata infine prevista l’istituzione presso il ministero delle Politiche agricole, di una “banca dati” sia delle strutture ricettive, sia degli immobili destinati alle locazioni brevi ai sensi dell’articolo 4 del Dl 50/2017, presenti nel territorio nazionale.

La banca dati (che si prefigge di contrastare forme irregolari di ospitalità anche ai fini fiscali) dovrà quindi contenere sia le informazioni relative a tutte le strutture ricettive alberghiere ed extralberghiere (cioè, oltre agli alberghi: case e appartamenti per vacanze, bed & breakfast, affittacamere, foresterie, ostelli, rifugi alpini, campeggi e altre tipologie previste dalle singole regionali che disciplinano la materia), sia le informazioni relative ai soli immobili destinati alle locazioni brevi ai sensi dell’articolo 4 del Dl 50/2017. Poiché questi immobili destinati alle locazioni brevi sono solo quelli oggetto di contratti stipulati da persone fisiche, al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa, dalla banca dati resteranno esclusi tutti gli alloggi oggetto di contratti di locazione stipulati da persone giuridiche e tutti gli alloggi oggetto di contratti di locazione stipulati da persone fisiche nell’esercizio dell’attività di impresa.

Nella banca dati ogni struttura ricettiva e ogni immobile destinato alla locazione breve ai sensi dell’articolo 4 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, verrà identificato mediante un codice alfanumerico (cosiddetto “codice identificativo”) che dovrà essere utilizzato in ogni comunicazione inerente all’offerta e alla promozione dei servizi all’utenza. Attenzione: quest’ultimo obbligo riguarda però solo i soggetti titolari di vere e proprie strutture ricettive, chi esercita attività di intermediazione immobiliare e i gestori di portali telematici saranno tenuti a pubblicare il codice identificativo nelle comunicazioni inerenti all’offerta e alla promozione. Non, invece, i locatori di immobili concessi in godimento con contratti di durata inferiore a trenta giorni, che non sono compresi nell’elenco dei soggetti obbligati alla pubblicazione del codice.

Si dovrà comunque attendere un Dm delle Politiche agricole da adottare entro il 30 luglio 2019 contenente:

a) le norme per la realizzazione e la gestione della banca dati, compresi i dispositivi per la sicurezza e la riservatezza dei dati;

b) le modalità di accesso alle informazioni della banca dati;

c) le modalità con cui le informazioni contenute nella banca dati sono messe a disposizione degli utenti e delle autorità̀ preposte ai controlli e quelle per la conseguente pubblicazione nel sito internet istituzionale delle Politiche agricole;

d) i criteri che determinano la composizione del codice identificativo.

Fonte “Il sole 24 ore”

Cedolare affitti, niente sanzione per chi non comunica la proroga

Semplificazione piccola ma comunque importante: dal 30 giugno, giorno di entrata in vigore della legge 58/2019 di conversione del dl 34/2019, sono state cancellate le sanzioni per la tardiva o omessa comunicazione della proroga del contratto di locazione con regime della cedolare secca. La sanzione era pari a 100 euro, che scendevano a 50 euro in caso di regolarizzazione entro 30 giorni dall’evento (cioè dalla a scadenza del termine.

L’articolo 3-bis del Dl 34, aggiunto dalla legge 58/2019, stabilisce infatti che al comma 3 dell’articolo 3 del Dlgs 23/2011 (che regola il meccanismo della cedolare secca sui canoni di locazione), l’ultimo periodo è soppresso. La nuova norma di soppressione quantifica anche gli oneri derivante dalla cancellazione della sanzione, che non sono irrilevanti: 0,9 milioni di euro per il 2019 e 1,8 milioni di euro annui a decorrere dal 2020, il che vuol dire, considerando che nella grande maggioranza dei casi veniva applicata la sanzione massima (difficile ricordarsi di un adempimento del genere entro un mese dalla dimenticanza), che comunque l’amnesia colpiva almeno 20mila locatori all’anno.

Si tratta, in effetti, di un obbligo il cui senso non è mai stato chiarissimo, anche perché il dato si ricava facilmente dal «comportamento concludente» del locatore, come è detto chiaramente anche nello stesso articolo 3. In questo caso si poteva versare la sanzione con ravvedimento operoso e curiosamente lo si può fare ancora, visto che questa parte dell’articolo 3 non è stata soppressa ma la sanzione invece sì.

Dell’articolo 3, comma 3 del Dlgs 23/2011 è rimasto in vita anche il primo periodo, che dice: «Nei casi di omessa richiesta di registrazione del contratto di locazione si applica l’articolo 69 del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131».

Rimangono quindi gli adempimenti (cioè la registrazione del contratto) e le relative sanzioni in caso di inosservanza, esattamente come per i contratti di locazione non soggetti a cedolare: la sanzione amministrativa va dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell’imposta dovuta. Se la richiesta di registrazione È effettuata con ritardo non superiore a 30 giorni, si applica la sanzione amministrativa dal sessanta al centoventi per cento dell’ammontare delle imposte dovute, con un minimo di 200 euro.

Sempre sugli affitti va ricordato che il Dl Crescita 34/2019 prevede anche l’eliminazione dell’obbligo della dichiarazione Imu per le case affittate a canone concordato (che beneficiano di uno sconto statale del 25% su Imu e Tasi e, in molte città, hanno aliquote comunali ridotte). Per questi contratti, però, istruzioni ministeriali alla mano, la dichiarazione non è obbligatoria già oggi.

Infine (si veda il Sole 24 Ore di ieri) è stato chiarito un dubbio ventennale: le proroghe dei contratti a canone concordato dopo la prima sono tutte biennali e non triennali. Lo afferma l’articolo 19 bis del Dl 34/2019 (inserito dalla legge di conversione 58/2019).

Fonte “Il sole 24 ore”

E-fatture, anche le partite Iva devono aderire entro fine ottobre alla consultazione

Via libera fino al 31 ottobre 2019 all’adesione «a regime» al servizio di «Consultazione e acquisizione delle fatture elettroniche o dei loro duplicati informatici», emesse e ricevute attraverso il Sistema di interscambio. Il servizio, che sarà «a regime» dal 1° novembre 2019, ha subito delle modifiche a seguito delle indicazioni del Garante privacy del 16 novembre 2018, il quale ha richiesto un’apposita adesione allo stesso, attraverso un consenso espresso a uno specifico «accordo di adesione al servizio».

Per i consumatori finali, infatti, le fatture elettroniche ricevute non sono state visibili in Fisconline fino allo scorso 1° luglio e da questa data in poi, lo sono solo previa adesione da effettuare nel link «Le tue fatture» all’interno di Fisconline.

Per i soggetti Iva, invece, tutti i dati delle e-fatture emesse o ricevute sono già consultabili nel proprio Fisconline o Entratel (anche prima del 1° luglio 2019), senza alcuna adesione a questo servizio. Anche gli intermediari abilitati possono consultare le fatture dei propri clienti, previa delega al servizio, presentata alle Entrate con il modulo di delega approvato con il provvedimento del 5 novembre 2018 ovvero fino al 4 gennaio 2019 con quello del provvedimento del 13 giugno 2018. Ma non sarà sempre così, se entro il 31 ottobre 2019 non si effettuerà l’apposita adesione «a regime» a questo servizio.

Modalità di adesione

Per i soggetti Iva, l’adesione «a regime» al servizio è possibile solo dal 1° luglio e fino al 31 ottobre 2019, attraverso un’apposita spunta di adesione all’interno del proprio Fisconline o Entratel (link «Home consultazione» e «Fatture elettroniche e altri dati Iva») ovvero con l’intervento di un intermediario delegato a questo servizio con il modulo di delega approvato con il provvedimento del 5 novembre 2018 (non con quello precedente).

Periodo transitorio

Se l’adesione avverrà prima del 1° novembre 2019, il contribuente potrà consultare, in modo completo, dal sito delle Entrate, la «totalità dei file delle fatture emesse/ricevute» anche prima della data di adesione, cioè nel periodo transitorio dal 1° gennaio al 31 ottobre 2019. La mancata adesione comporterà la cancellazione dei file memorizzati nel periodo transitorio, entro il 31 dicembre 2019. Se l’adesione verrà effettuata dal 1° novembre 2019, infine, si applicheranno le regole a regime, quindi, si potranno visualizzare i dati completi delle fatture emesse/ricevute solo dopo la data di adesione.

Conseguenze dell’adesione

L’adesione al servizio comporta conseguenze differenti, che dipendono dai soggetti che vi aderiscono:

1) se aderirà almeno una delle parti, il cedente/prestatore o il cessionario/committente (anche tramite un intermediario), l’Agenzia memorizzerà «tutti» i dati delle e-fatture e li renderà disponibili solo a chi ha aderito, fino a 60 giorni successivi al 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di ricezione da parte del Sdi. La parte che non aderirà, invece, potrà consultare (anche tramite intermediari), fino al 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione di riferimento, solo i «dati fiscali della fattura» del punto 1.2 del provvedimento del 30 aprile 2018, cioè quelli fiscalmente rilevanti dell’articolo 21 del Dpr 633/1972, ad esclusione, tra l’altro, dei dati relativi alla natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione (comma 2, lettera g);

2) se tutte e due le parti coinvolte non aderiranno al servizio, l’Agenzia, dopo l’avvenuto recapito della fattura al destinatario, cancellerà i file delle e-fatture e memorizzerà solo i «dati fiscali della fattura».

Possibili svantaggi

Con l’adesione al servizio di consultazione, però, le Entrate e la Guardia di Finanza potranno «utilizzare i dati dei file» delle fatture e delle note di variazione per le «attività di controllo», degli articoli 51 del Dpr 633/1972 e 32 del Dpr 600/1973, con le modalità di cui al decreto ministeriale 4 agosto 2016. Questa modalità di acquisizione dei dati, attraverso i file memorizzati, previa adesione del contribuente, presso l’Agenzia, verrà effettuata arrecando «la minore turbativa possibile allo svolgimento delle attività stesse, nonché alle relazioni commerciali o professionali del contribuente, ai sensi dell’articolo 12 dello Statuto del contribuente» (punto 10.3, provvedimento 30 aprile 2018).

Quindi, non si dovranno ricercare i suddetti documenti Iva, al fine della loro esibizione fisica l’Ufficio. Il richiamo effettuato all’articolo 12 dello Statuto, rafforza la regola che impone i controllori, quando iniziano una verifica, di informare il contribuente delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda (articolo 12, comma 2). In ogni caso, l’agenzia delle Entrate dovrà chiarire se chi aderirà al servizio avrà maggiori o uguali rischi di essere controllato rispetto a chi non vi aderirà.

Fonte “Il sole 24 ore”

Pronto il certificato unico che fotografa i debiti tributari

L’agenzia delle Entrate ha reso noti i facsimile del modello e della richiesta
Il debitore o il Tribunale sono gli unici che possono avvalersi del documento

Arriva il certificato unico dei debiti tributari. A prevederlo era il Codice della crisi d’impresa e ora l’Agenzia delle Entrate ha messo a punto il modello. Con un provvedimento diffuso ieri , infatti, l’amministrazione finanziaria ha reso noto sia il facsimile del certificato sia il modello per la richiesta. A potere presentare la richiesta solo due soggetti: il debitore stesso oppure il Tribunale. Già oggi alcuni uffici giudiziari nella fase prefallimenatre si premurano di avare un quadro il più possibile aggiornato dell’esposizione dell’mprenditore nei confronti del Fisco, tenuto conto che è quest’ultimo, di gran lunga, il creditore economicamente più significativo.

Si completa in questo modo uno degli adempimenti operativi che la riforma della Legge fallimentare metteva a capo delle Entrate, allineandola del resto a quanto sino a ora era previsto solo sul fronte Inps e Inail. Ma in realtà il certificato unico, che permetterà di avere una fotografia assai più aderente alla realtà dell’esposizione debitoria in particolare e della più generali condizioni economiche dell’impresa, va letto anche in una chiave diversa. Quella di tutto il Codice della crisi, che punta a scongiurare il precipitare della situazione e a evitare l’insolvenza.

In questa prospettiva, allora, potere disporre di uno strumento efficace e aggiornato che inquadri la crisi prima che diventi irreparabile sarà certo utile e, nei fatti, ratifica oltretutto le buone pratiche in essere in alcuni degli uffici giudiziari del Paese, rendendo strutturale quello che adesso è sporadico.

Sulla base dei dati tratti dalle interrogazioni al sistema informativo dell’anagrafe tributaria, chiarisce il provvedimento, l’ufficio certifica l’assenza di debiti tributari o l’esistenza di debiti tributari non soddisfatti. In quest’ultimo caso i dati sono forniti attraverso un prospetto articolato in 11 colonne (da A a M), nel quale i debiti tributari sono distintamente indicati nell’ammontare e nello stato della riscossione alla data di rilascio del certificato.

Nelle colonne da A ad E sono fornite le informazioni sulla tipologia dell’atto al quale si riferisce il debito (ad esempio avviso di accertamento, atto di contestazione,cartella di pagamento, comunicazione degli esiti), il numero identificativo dell’atto, l’anno di imposta, la data di notifica e l’importo residuo dovuto del debito. Per importo residuo del debito deve essere considerato l’importo dovuto alla data di rilascio del certificato a titolo di imposta, sanzioni e interessi con esclusione degli interessi di mora.

Fonte “Il sole 24 ore”

E-fattura, conto alla rovescia per la moratoria sulle sanzioni

Dal 17 novembre niente più sconti per i contribuenti mensili e trimestrali
Punito anche il cessionario che detrae l’imposta in assenza di una e-fattura

Scade il 16 novembre la moratoria per i contribuenti mensili e trimestrali consistente nella disapplicazione o riduzione delle sanzioni per omessa o tardiva emissione delle fatture in formato elettronico; sanzioni piene invece per omesso, incompleto o errato invio dell’esterometro. Con la circolare 14/E, l’agenzia delle Entrate ha ricordato come la moratoria non riguarda le violazioni punibili con sanzioni per omesso versamento Iva, per utilizzo di crediti non spettanti e per non corretta tenuta e conservazione di scritture contabili, documenti e registri. Queste sanzioni restano sempre applicabili, salvo ravvedimento operoso da parte del contribuente.

Moratoria

Dal 1° gennaio 2019 l’emissione di una fattura con modalità diverse da quelle elettroniche, e quindi non in formato xml e senza invio tramite Sdi, equivale a non averla emessa. Punibile il cessionario/committente che, avendo acquistato beni e servizi senza che sia stata emessa fattura in elettronico, non abbia provveduto nei termini a regolarizzare l’operazione con autofattura-denuncia. Per il primo semestre del periodo d’imposta 2019 per i contribuenti trimestrali e sino a settembre 2019 per i mensili, non trovano tuttavia applicazione le sanzioni per omessa o tardiva fatturazione se la fattura viene emessa in formato elettronico oltre il termine normativamente stabilito, ma comunque in un momento tale da potere far concorrere l’imposta alla corretta liquidazione di periodo sia mensile o trimestrale. Le sanzioni vengono invece contestate, ma ridotte al 20%, quando la fattura, seppure emessa tardivamente in elettronico, partecipa comunque alla liquidazione periodica del mese o trimestre successivo.

Sanzioni

Dal 17 novembre, scaduto il periodo di moratoria per i mensili e i trimestrali, l’emissione di una fattura non in formato elettronico oppure oltre i termini normativamente previsti determina l’applicazione in misura piena delle sanzioni previste dall’articolo 6 del Dlgs 471/1997. Quanto alla tempistica di emissione, dal 1° luglio 2019 le fatture immediate potranno essere emesse, e quindi trasmesse al SdI, entro 10 giorni (12 giorni secondo l’emendamento approvato al Dl 34/2019) dall’effettuazione dell’operazione come indicata nel campo “data” del tracciato xml. Le fatture differite continuano invece a dovere essere emesse, e inviate a SdI, entro il 15 del mese successivo a quello di effettuazione delle operazioni quando data di consegna, spedizione o prestazione è attestata da documento commerciale, ddt o altra documentazione idonea. Se la trasmissione avviene oltre tali termini, sarà irrogabile la sanzione fra il 90 e il 180% dell’imposta relativa all’imponibile non correttamente documentato. Se la violazione non ha inciso sulla corretta liquidazione del tributo, la sanzione è in misura fissa, tra 250 e 2.000 euro. Anche il cessionario o il committente che abbia detratto l’imposta in assenza di una fattura elettronica è punito con una sanzione pari al 100% dell’imposta, con un minimo di 250 euro, sempreché non regolarizzi l’operazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Torna il superammortamento

Per gli investimentida aprile a dicembre 2019 resta il tetto a 2,5 milioni
Dal 2023 l’Imu su immobili strumentali diventa totalmente deducibile

La conversione in legge del decreto crescita non modifica la ripartenza del superammortamento, mentre spinge sino al 100% (ma solo dal 2023) la deduzione dell’Imu nella determinazione del reddito d’impresa e di lavoro autonomo.

La maggiorazione del costo di acquisto (o della quota capitale del canone in caso di locazione finanziaria) dei beni strumentali nuovi resta essenzialmente quella già in vigore per effetto della versione originaria del Dl 34/2019, consistente in un incremento del 30% sino all’importo limite dell’investimento di 2,5 milioni di euro. Continua a costituire un punto interrogativo il concreto operare del meccanismo di limitazione in presenza di investimenti eccedenti tale soglia. È confermato che il bonus:

si applica sia alle imprese che agli esercenti arte e professione (solo imposte sui redditi, no Irap);

non riguarda i veicoli e gli altri mezzi di trasporto di cui all’articolo 164, comma 1, del Tuir (restano pertanto fuori i taxi, i ciclomotori, i motocicli, i caravan, le autovetture utilizzate dalle autoscuole, mentre rientrano i “veri” autocarri e gli autoarticolati);

non riguarda i beni immateriali, i beni usati, i fabbricati e le costruzioni nonché tutti i beni per cui il Dm del 31 dicembre 1988 prevede coefficienti di ammortamento inferiori al 6,5% e alcuni beni particolari indicati in allegato alla legge 208/2015;

si applica agli investimenti effettuati (secondo i “soliti” criteri di competenza fiscale) dal 1° aprile 2019 al 31 dicembre 2019, con possibile estensione al 30 giugno 2020 a condizione che, entro il 31 dicembre, venga accettato l’ordine dal venditore e sia versato a titolo di acconto almeno il 20% del prezzo;

non incide ai fini dei calcoli per gli indicatori di affidabilità fiscale (Isa) e neppure sugli acconti d’imposta.

Conseguentemente, gli investimenti effettuati nei primi tre mesi del 2019 non possono fruire del maxi-ammortamento, a meno che non si tratti di beni per i quali, tramite l’accettazione dell’ordine e il versamento dell’acconto qualificato entro il 31 dicembre scorso, si era “prenotata” l’applicazione della disciplina 2018 anche se la concreta effettuazione dell’investimento interviene entro il 30 giugno prossimo (articolo 1, comma 29, della legge 205/2017).

I beni che rientrano nella disciplina dell’iperammortamento (prorogata dai commi 60 e seguenti della legge 145/2018) possono aspirare ad una maggiore agevolazione, ove l’impresa realizzi tutto quanto richiesto secondo tale agevolazione. Passando all’intervento operato dal legislatore sulla deducibilità Imu degli immobili strumentali nell’ambito del reddito d’impresa o di lavoro autonomo, il testo finale prevede la seguente scaletta:

deduzione 50% per il periodo d’imposta 2019;

deduzione 60% per i periodi 2020 e 2021;

deduzione 70% per il periodo 2022;

deduzione 100% a decorrere dal periodo 2023 (questa è la vera novità introdotta in sede di conversione).

Per le società con periodo d’imposta non coincidente con l’anno solare, occorre far riferimento al periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre dell’anno precedente a quello sopra indicato. La deduzione avviene secondo il criterio misto “cassa-competenza” di cui alla circolare 10/E/2014. La norma interessa gli immobili strumentali (concetto definito dall’articolo 43, comma 2 del Tuir), con esclusione di quelli ad uso promiscuo, che costituiscono rimanenze finali e degli immobili qualificati come “patrimonio” (articolo 90 del Tuir).

L’intervento non elimina, né l’integrale indeducibilità dell’imposta locale ai fini Irap – disposta dal comma 1 dell’articolo 14 del Dl 23/2011-, né la totale deducibilità della Tasi, che si ricava (in assenza di diversa indicazione) dall’articolo 99 del Tuir.

Fonte “Il sole 24 ore”

Nuovi Isa, slitta al 30 settembre la scadenza per versare le imposte

Il ritardo accumulato nel debutto dell’operazione pagelle fiscali (i nuovi Isa, ossia gli indicatori sintetici di affidabilità fiscale) convince anche il Parlamento a concedere più tempo per i versamenti d’imposta. Con un emendamento al decreto crescita approvato dalle commissioni Bilancio e Finanze della Camera viene, infatti, previsto lo slittamento al 30 settembre dei versamenti delle imposte per circa 3,89 milioni di partite Iva (professionisti, ditte e società) soggette al nuovo strumento di calcolo di ricavi o compensi, che da quest’anno sostituisce gli studi di settore. Il correttivo approvato prevede, infatti, che i termini per i versamenti scaturiti dal modello Redditi, Irap e Iva in scadenza tra il 30 giugno e il 30 settembre 2019 sono prorogati al 30 settembre prossimo.

Una proroga che coinvolge anche i soci delle società chiamate appunto a compilare le pagelle fiscali. Di fatto, viene così superato il percorso avviato con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm), che aveva “acquisito” la prima firma del ministro dell’Economia Giovanni Tria lo scorso 6 giugno e ora alla registrazione della Corte dei conti, finalizzato a concedere una proroga fino al prossimo 22 luglio (ma in questo contesto avrebbero beneficiato di più tempo anche minimi e forfettari, che sono esclusi dagli Isa).

Come spiega il sottosegretario all’Economia, Massimo Bitonci, con l’emendamento si accolgono le richieste del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti (Cndcec), che hanno espresso soddisfazione a riguardo. «La proroga al 30 settembre – spiega il presidente Massimo Miani del Cndcec – concede una boccata d’ossigeno ai nostri colleghi ed è tanto più apprezzabile perché, una volta tanto, arriva non all’ultimo minuto ma con congruo anticipo. In ogni caso – afferma il numero uno della categoria – le difficoltà legate agli Indici sintetici di affidabilità restano in campo. Per questo crediamo che rendere meramente facoltativa la loro applicazione e la compilazione dei relativi modelli per il corrente anno, sarebbe una soluzione utile e razionale».

Ma le novità in ambito fiscale non si fermano agli Isa. Arriva anche un doppio intervento sull’obbligo di invio dei corrispettivi telematici, la cui prima fase debutterà il prossimo 1° luglio per commercianti ed esercenti con volume d’affari oltre i 400mila euro. Da un lato, per i primi soggetti obbligati si prevede una moratoria dalle sanzioni della durata di sei mesi a condizione che gli operatori interessati provvedano all’invio dei dati al Fisco entro un mese dall’operazione, fermi restando i termini di liquidazione dell’Iva. Più in generale, e quindi con una norma a regime, viene previsto che comunque la trasmissione dei dati debba essere effettuata entro 12 giorni dall’operazione. In pratica, un allineamento con quanto le commissioni Bilancio e Finanze con un emendamento approvato la scorsa settimana avevano previsto per la fattura elettronica: in questo caso, la regola dei 12 giorni per l’emissione scatterà dal 1° luglio.

Fonte “Il sole 24 ore”

L’impatriato dichiara il conto aperto all’estero

Obblighi di monitoraggio nel quadro RW e imposta sulle successioni e donazioni a geometria variabile per chi si trasferisce in Italia mantenendo attività e investimenti all’estero. Sono sempre più i regimi fiscali di attrazione per i contribuenti stranieri che vogliono spostarsi nel nostro Paese e per gli italiani che, dopo un periodo all’estero, vogliono rientrare. Ma va fatta attenzione alla corretta gestione fiscale in Italia degli asset mantenuti oltreconfine.

Gli obblighi di monitoraggio 
L’articolo 4 del Dl 167/1990 impone alle persone fisiche residenti in Italia di indicare, nel quadro RW della dichiarazione annuale dei redditi, gli investimenti all’estero (ad esempio immobili, opere d’arte) e le attività estere di natura finanziaria (come i conti correnti e da quest’anno anche le criptovalute). Il quadro RW va compilato anche per il calcolo dell’imposta sul valore degli immobili all’estero (Ivie) e dell’imposta sul valore delle attività finanziarie estere (Ivafe), rispettivamente nella misura dello 0,76% e dello 0,2 per cento. La violazione degli obblighi può comportare sanzioni sino al 30% per le attività localizzate in Paesi black list.

I regimi di attrazione fiscale
Chi si trasferisce in Italia può aderire al regime previsto dall’articolo 24-bis del Tuir per i «neo residenti» (i cosiddetti «Paperoni») che, al ricorrere di determinate condizioni, consente di optare per un’imposta sostitutiva pari a 100mila euro annui su tutti i redditi prodotti all’estero a prescindere dall’importo dei redditi medesimi.

L’adesione al regime garantisce ai beneficiari, per tutta la durata dell’opzione (massimo 15 anni), l’esonero dalla compilazione del quadro RW e dal versamento dell’Ivie e dell’Ivafe. Inoltre, non si applica l’imposta sulle successioni e donazioni ai trasferimenti di beni detenuti all’estero dal neo residente (le imposte si applicano, invece, ai trasferimenti di beni e diritti esistenti in Italia).

Discorso parzialmente diverso per i pensionati esteri che trasferiscono la residenza in un Comune del Sud Italia con meno di 20mila abitanti (articolo 24-ter del Tuir), i quali potranno optare per un’imposta sostitutiva del 7% su tutti i redditi esteri (non solo sulle pensioni). I pensionati non saranno così tenuti a compilare il quadro RW e saranno esonerati dall’Ivie e dall’Ivafe, ma, a differenza dei «neo residenti», non godranno di agevolazioni per l’imposta sulle successioni e donazioni. Nessun esonero, invece, per i lavoratori «impatriati» (articolo 16 del Dlgs 147/2015) e per i ricercatori e docenti (articolo 44 del Dl 78/2010) che si trasferiscono in Italia. Tuttavia, per questi soggetti il Dl crescita, ora all’esame in prima lettura alla Camera, ha previsto un potenziamento delle agevolazioni già esistenti.

Le peculiarità dei regimi di attrazione fiscale
Chi si trasferisce in Italia può aderire al regime previsto dall’articolo 24-bis del Tuir per i cosiddetti «neo residenti» che, al ricorrere di determinate condizioni, consente di optare per un’imposta sostitutiva pari a 100mila euro annui su tutti i redditi prodotti all’estero a prescindere dall’importo dei redditi medesimi. L’adesione al regime garantisce ai beneficiari, per tutta la durata dell’opzione (massimo 15 anni), l’esonero dalla compilazione del quadro RW e dal versamento dell’Ivie e dell’Ivafe.

Inoltre, non si applica l’imposta sulle successioni e donazioni ai trasferimenti di beni detenuti all’estero dal neo residente (le imposte sono ordinariamente applicabili ai trasferimenti di beni e diritti esistenti in Italia). Discorso parzialmente diverso per il regime applicabile ai pensionati esteri che trasferiscono la residenza in un Comune del Sud Italia con meno di 20mila abitanti (articolo 24-ter Tuir), i quali potranno optare per un’imposta sostitutiva del 7% su tutti i redditi esteri (non solo sulle pensioni).

I pensionati non saranno così tenuti a compilare il quadro RW e saranno esonerati dall’Ivie e dall’Ivafe, ma, a differenza dei «neo residenti», non godranno di agevolazioni ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni. Nessun esonero, invece, per i cd. lavoratori «impatriati» (articolo 16, Dlgs 147/2015) e per i ricercatori e docenti (articolo 44, Dl 78/2010) che si trasferiscono in Italia. Tuttavia, per questi soggetti il recente Dl Crescita ha previsto un potenziamento delle agevolazioni già esistenti: per gli impatriati (la cui platea oggi è più ampia), la detassazione per cinque anni del reddito passa dal 50% al 70% ed arriva sino al 90% per chi si trasferisce al Sud (con estensione per ulteriori cinque anni e detassazione al 50% se il lavoratore ha figli o acquista un’abitazione in Italia); per docenti e ricercatori resta ferma la detassazione dei redditi da lavoro al 90% e la durata delle agevolazioni sale da quattro a sei anni per arrivare sino a 13 anni in presenza di tre figli.

Fonte “Il sole 24 ore”

Al via le pagelle Isa: check up su fatture e spese

Dopo l’arrivo del software che consente di calcolare la pagella con l’applicazione degli Isa 2019 i professionisti possono cominciare a fare le prime simulazioni per capire l’impatto dei nuovi indici sintetici di affidabilità. È possibile effettuare il calcolo anche perché sono disponibili, nel cassetto fiscale, gli ulteriori dati necessari per il funzionamento dell’applicativo. I contribuenti possono acquisire anche i dati presenti negli archivi del Fisco e valutare se la propria posizione fiscale sia, secondo il Fisco, sufficientemente affidabile.

Gli indicatori 
Al voto finale attribuibile al professionista contribuente (indicatore di affidabilità fiscale) si arriva in base alla media degli indicatori semplici. Anche se si tratta di una media aritmetica, non sempre tutti gli indicatori troveranno applicazione.

Due le tipologie di indicatori previste: quelli elementari di affidabilità e di anomalia, i cui effetti sono diversi in conseguenza della loro partecipazione al risultato finale. A loro volta gli indicatori di affidabilità sono quattro: ricavi per addetto; valore aggiunto per addetto; reddito per addetto; indice di durata e di decumulo delle scorte (quest’ ultimo non si applica ai professionisti).

Gli indicatori elementari di affidabilità vanno da 1 a 10 e si applicano sempre; quindi concorrono in ogni caso all’esito del voto finale. Invece,quelli di anomalia concorrono al voto finale solo se la situazione del contribuente presenti, appunto, anomalie. Essi possono assumere un voto tra 1 e 5.

Occorre quindi prestare attenzione ad errori che potrebbero far diminuire il valore finale.

I compensi
Se i compensi risultanti dalle Cu del 2019 sono superiori rispetto a quelli indicati dal contribuente nel modello di dichiarazione scatta la segnalazione dell’anomalia. La circostanza potrebbe essere ad esempio dovuta ad eventuali errori commessi dal sostituto d’imposta, che potrebbe aver comunicato compensi superiori rispetto a quelli effettivamente corrisposti. In questa ipotesi è necessario modificare il dato del Fisco. Altrimenti, scatterà l’applicazione dell’indicatore di anomalia abbassando il voto finale. Al contrario, se i compensi risultanti in anagrafe tributaria dovessero essere inferiori, anche se sottostimati, rispetto a quelli dichiarati, non sarà necessario correggere il dato perché non scatterà l’indicatore di anomalia.

Anche il numero delle prestazioni incide sul compenso medio relativo alla singola tipologia di prestazione. Quindi, se il professionista per errore indica nel modello Isa un numero di prestazioni professionali superiore rispetto a quello effettivo, si riduce il compenso medio che alla fine potrebbe essere inferiore al compenso minimo stabilito per singola provincia, indicato nella nota metodologica di ogni Isa (si vedano anche gli esempi in basso) . Potrebbe così scattare l’indicatore di anomalia. Il numero delle prestazioni non coincide sempre con il numero delle fatture emesse soprattutto se sono state emesse fatture per acconti.

Le spese e i redditi 
L’ndicatore di anomalia scatta se l’ammontare complessivo delle spese dello studio è percentualmente eccessivo rispetto all’ammontare dei compensi dichiarati. Il professionista quindi farà bene a monitorare compensi e spese dichiarate.

L’indicatore scatta anche se il professionista ha dichiarato un reddito negativo per più di un triennio (si considerano anche i dati dei sette anni precedenti). L’indicatore assume valori sempre più bassi se il numero degli anni in perdita aumenta.

Fonte “Il sole 24 ore”

Trasporti e vecchi esoneri evitano l’invio telematico dei corrispettivi

L’introduzione della memorizzazione elettronica dei corrispettivi e della trasmissione dei relativi dati rappresenta una regola generale e sostituisce qualunque altra precedentemente in essere. Sono quindi escluse solo le operazioni per le quali, temporaneamente, il Dm del 10 maggio scorso stabilisce un esonero specifico.

Il nuovo obbligo decorre dal 1° gennaio 2020, eccetto per i soggetti con volume d’affari annuo superiore a 400mila euro, per i quali la partenza è anticipata al 1° luglio 2019, salvo proroghe dell’ultima ora. L’adempimento sostituisce la registrazione dei corrispettivi (articolo 24 del Dpr 633/1972 ), oltre che la certificazione mediante scontrino o ricevuta fiscale; la fattura dovrà però essere emessa se richiesta dal cliente.

Si deve considerare il volume d’affari complessivo del 2018 e, quindi, per chi ha iniziato l’attività nel 2019 l’obbligo scatta dal 2020 (risoluzione 47/E/2019 ). In assenza di specifiche istruzioni, si ritiene che chi ha iniziato l’attività nel 2018 debba verificare il superamento della soglia, senza effettuare alcun ragguaglio ad anno.

Con il Dm del 10 maggio sono stati previsti gli esoneri dai nuovi obblighi che, per espressa previsione, valgono solo in fase di prima applicazione. L’articolo 3 dispone infatti che, con successivi interventi, saranno individuate le date a partire dalle quali verranno meno gli esoneri dalla memorizzazione e trasmissione telematica dei corrispettivi giornalieri, con ciò lasciando intendere che l’intenzione è quella di arrivare comunque a un obbligo generalizzato.

Per il momento, sono escluse le operazioni di commercio al minuto e assimilate per le quali, oltre all’esonero dall’obbligo di emissione della fattura (a meno che non sia richiesta dal cliente), l’articolo 2 del Dpr 696/1996 prevede la possibilità di non emettere nemmeno lo scontrino o la ricevuta fiscale (l’esonero compete anche per i servizi di duplicazione della patente di cui al Dm 13 febbraio 2015 e per quelli elettronici del Dm 27 ottobre 2015).

Fra le esclusioni dall’obbligo di certificazione, si rammenta il caso della cessione di giornali quotidiani e periodici (articolo 2, comma 2, lettera e) del Dpr 696/1996). Ne deriva che l’edicola (o, più in generale, il dettagliante) che effettua tali cessioni nei confronti di clienti privati o meno, non sarà tenuta ai nuovi obblighi telematici, restando ferme le regole attuali.

Salvo diverso orientamento da ufficializzare con urgenza, lo stesso ragionamento dovrebbe valere, per esempio, per gli editori che adottano il sistema della forfettizzazione della resa, con riferimento agli abbonamenti sottoscritti dai privati. Per questi soggetti, in effetti, è previsto l’esonero dall’obbligo di emissione della fattura (che discende dell’articolo 1, comma 5, Dm 9 aprile 1993 e, nell’ipotesi specificata, anche dall’articolo 22 del decreto Iva) ma anche da quello di certificazione del corrispettivo mediante scontrino/ricevuta. Il Dpr 696/1996 (articolo 2, lettera oo) esonera infatti queste operazioni dall’obbligo in questione. Ecco quindi che anche per le cessioni qui in esame (dall’editore verso i privati) dovrebbe valere l’esonero dai corrispettivi telematici.

In base al Dm 10 maggio 2019 e fino a nuovo ordine, sono altresì esonerate dai corrispettivi “telematici”:

 le prestazioni di trasporto pubblico collettivo di persone e di veicoli e bagagli al seguito, con qualsiasi mezzo esercitato, per le quali i biglietti di trasporto (compresi quelli emessi da biglietterie automatiche) assolvono la funzione di certificazione fiscale;

 le operazioni effettuate a bordo di una nave, aereo o treno nel corso di un trasporto internazionale.

L’esonero vale, ma solo fino al 31 dicembre 2019, anche per le operazioni collegate e connesse a quelle di cui all’articolo 2 del Dpr 696/1996 e a quelle di trasporto sopra menzionate. Non risulta però definito il criterio di collegamento/connessione.

Inoltre, sembrerebbero costituire una categoria a sé, anche in base a quanto espresso nella relazione illustrativa, le operazioni ex articolo 22 del decreto Iva, se marginali rispetto a quelle già esonerate dai corrispettivi telematici ai sensi delle lettere a) e b) dell’articolo 1 del Dm 10 maggio 2019 o a quelle soggette all’obbligo di fattura. La marginalità è fissata all’1% del volume d’affari dell’anno 2018.

Restano invece confermate le attuali regole settoriali per le vending machine e i distributori di carburante. In particolare, per questi ultimi, le cessioni diverse da quelle di benzina o gasolio destinati a essere utilizzati come carburanti per motori sono oggi certificate mediante scontrino o ricevuta fiscale. Tali operazioni potranno essere esentate dai nuovi obblighi telematici qualora marginali, ma solo fino al 31 dicembre 2019.

Fonte “Il sole 24 ore”

Rottamazione, istanze fino al 31 luglio. E-fattura con 12 giorni per l’emissione

Arriva il primo via libera delle Commissioni Bilancio e Finanze della Camera alla riapertura dei termini fino al 31 luglio per aderire alla rottamazione ter e al saldo e stralcio delle cartelle, ovvvero il condono per chi è in difficoltà economica con Isee fino a 20mila euro. Una proroga destinata a migliora i risultati già raggiunti dalla Pace fiscale al 30 aprile scorso e che ieri al Senato il direttore delle Entrate, Antonino Maggiore, ha presentato in audizione alla Commissione Finanze: con 12,9 milioni di cartelle rottamate per un controvalore di oltre 38 miliardi di euro da cui emerge un potenziale gettito per le casse dell’Erario di 21,1 miliardi in 5 anni per la rottamazione ter e 6,5 miliardi per il saldo e stralcio, destinati a ridursi anche perché il condono per chi è in difficoltà economica offre uno sconto anche sulla quota capitale del 16, 20 e 35% in base all’Isee.

Per la riapertura dei termini l’emendamento dei relatori al Dl crescita, Giulio Centemero (Lega) e Raphael Raduzzi (M5S), prevede che il debitore di una cartella datata tra il 2000 e il 2017 entro il 31 luglio prossimo potrà presentare all’agente pubblico della riscossione istanza di adesione alla definizione agevolata delle cartelle con il pagamento solo di imposte e contributi senza sanzioni e interessi. Saranno ritenute valide anche le domande presentate dopo il 30 aprile 2019 e fino alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto crescita. Si potrà versare in un’unica soluzione entro il 30 novembre prossimo o con un versamento dilazionato in 17 rate, la prima delle quali entro il 30 novembre. Per la prima rata sarà dovuto il versamento di almeno il 20% delle somme dovute ai fini dell’adesione alla sanatoria.

Con i voti di ieri nelle commissioni di Montecitorio è arrivato il via libera anche a tutte le altre norme di semplificazione degli adempimenti fiscali già votati dalla Camera nella proposta di legge “Ruocco-Gusmeroli”. Tra queste vanno ricordati i 12 giorni di tempo concessi per l’emissione della fattura elettronica dal momento dell’effettuazione dell’operazione. Con un’altra norma di semplificazione dal 1° gennaio 2020 l’agenzia delle Entrate potrà verificare con procedure automatizzate la corretta annotazione del pagamento dell’imposta di bollo virtuale sulle fatture elettroniche. Diventano, poi, regolari i registri Iva anche non in formato cartaceo, aggiornati e tenuti con sistemi elettronici, senza trascrizione su supporti cartacei se stampati in caso di un’eventuale richiesta degli organi di controllo. Sempre in tema di e-fattura e trasmissione telematica dei corrispettivi è arrivato l’ok all’esclusione per le luci votive. In materia di Iva per facilitare le imprese in cerca di liquidità diventano cedibili anche i crediti trimestrali.

Sulla fatturazione elettronica si è soffermato anche Maggiore al Senato precisando che «nei primi 5 mesi del 2019 si è registrato un maggior gettito Iva per 1,8 miliardi di euro. E credo che questo sia anche l’effetto positivo della fatturazione elettronica», stando almeno dall’analisi dei versamenti spontanei dei modelli F24. Non solo. Per Maggiore il sistema è ormai quasi a regime con 889 milioni di e-fatture inviate all’11 giugno, uno scarto del 2,9%, con 3,3 milioni di cedenti e un importo complessivo di circa 1.537 miliardi di euro, di cui 161 miliardi sono di imposta.

Fonte “Il sole 24 ore”

Sanatoria sulle agevolazioni per chi rientra entro il 2019

Riconosciuti i benefici a chi non è stato iscritto all’Aire
Serve invece un provvedimento per applicare i nuovi bonus a chi torna prima del 2020

L’articolo 5 del decreto crescita ha modificato la disciplina dei benefici fiscali applicabili agli “impatriati”, aumentandone durata, importo, nonché la platea dei potenziali beneficiari. Fra i rinnovati vantaggi applicabili alle persone che prenderanno la residenza in Italia a partire dal 2020, essendo in possesso degli altri requisiti previsti dalla norma, si contano il raddoppio del numero massimo di anni oggetto di agevolazione (da cinque a dieci anni), nonché l’innalzamento della soglia di esenzione fiscale (portata, per tutti, dal 50 al 70%, con la possibilità di ulteriore innalzamento al 90%) come esemplificato nella tabella a fianco.

Inoltre, le modifiche al comma 1 dell’articolo 16 del Dlgs 147/2015 permetteranno agli operatori non solo di eliminare le analisi relative alle situazioni più complesse come quelle dei dipendenti distaccati all’estero e rientrati in Italia (in gran parte già risolte dall’agenzia delle Entrate con la risposta 45/2018), ma anche di agevolare gli impatriati che, essendo in possesso dei presupposti soggettivi, vengono a lavorare in Italia come dipendenti di datori di lavoro esteri senza stabili organizzazioni nel nostro paese.

Le nuove agevolazioni si applicheranno però solo a chi trasferirà la residenza fiscale in Italia a partire dal 2020, anche se il nuovo comma 5-ter dell’articolo 16 introduce precisazioni che potrebbero fin d’ora risolvere alcune delle criticità riscontrate nell’applicazione della precedente versione della norma e generate dal concetto di residenza fiscale alla luce della normativa italiana, di quella dello Stato di provenienza, nonché di quanto previsto dall’articolo 4 del modello Ocse delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni.

Ai cittadini italiani già rientrati in Italia o che vi rientreranno entro la fine del 2019 senza essersi mai iscritti all’Aire (anagrafe dei residenti all’estero), la norma prevede una sorta di sanatoria, garantendo loro i benefici previsti dalla previgente versione (massimo cinque anni di non concorrenza al reddito del 50% dei redditi di lavoro) per i periodi di imposta già oggetto di atti impositivi ancora impugnabili o già oggetto di controversie o, per i periodi di imposta ancora nei termini di accertamento (da cinque a sette anni) purché i lavoratori, nel periodo precedente al trasferimento in Italia, siano stati residenti fiscalmente in un paese estero in base a una convenzione internazionale.

Anche se non espressamente disciplinata, tale previsione normativa sembrerebbe ammettere la possibilità di applicare l’agevolazione anche a coloro che non l’avevano ancora richiesta sulla base dei precedenti criteri adottati dall’amministrazione finanziaria. Infatti, come visto, per i cittadini italiani residenti all’estero in base alle convenzioni internazionali, l’assenza di iscrizione all’Aire determinava comunque l’impossibilità di ottenere il bonus fiscale per gli impatriati.

A tale proposito, poiché l’articolo 3 della nostra Costituzione vieta qualsiasi genere di discriminazione, sembra lecito dedurre che anche tali soggetti potranno fruire dell’agevolazione presentando una dichiarazione integrativa “a favore” in base all’articolo 2, comma 8 del Dpr 322/1998.

Occorrerà, invece, uno specifico intervento normativo di armonizzazione perché possano essere estesi i maggiori benefici contenuti nelle “nuove norme” anche ai soggetti che abbiano trasferito la residenza in Italia prima del 2020 e che già fruiscono della precedente agevolazione sulla base delle “vecchie norme” (e quindi siano tassati sul reddito di lavoro dipendente prodotto in Italia limitatamente al 50% del suo ammontare).

Fonte “Il sole 24 ore”

Pagelle fiscali al via: corsa in quattro tappe per ottenere i premi

Inizia il conto alla rovescia per il debutto degli indicatori sintetici di affidabilità fiscale (Isa). Una novità che manda in soffitta gli studi di settore e gli altri parametri per determinare “automaticamente” il reddito dei contribuenti e che interessa tutti i professionisti.

Il periodo di imposta 2018 è l’anno zero, cioè il periodo in cui troveranno applicazione per la prima volta i nuovi Isa. È necessario dunque comprendere come operare, quali sono gli adempimenti e le “tappe” da seguire in vista della prossima dichiarazione dei redditi. La metodologia di stima e quindi la verifica del grado di affidabilità del contribuente (con un punteggio da 1 a 10) è completamente diversa dagli studi di settore.

L’acquisizione dei dati

La prima operazione da fare è l’acquisizione degli ulteriori dati necessari per gli Isa 2019. Questi ulteriori dati sono indicati nell’allegato 1 del provvedimento del Direttore dell’agenzia delle Entrate (protocollo n. 126200/2019 ). Ad esempio, devono essere estratti dall’archivio dell’anagrafe tributaria (dal cassetto fiscale o con apposita delega) i dati relativi alla condizione di lavoro dipendente risultante dalla “Certificazione unica”; la condizione di “Pensionato” risultante sempre dalla “Certificazione unica”; l’anno di inizio dell’attività risultante in Anagrafe tributaria.Dati noti al contribuente e rintracciabili nel frontespizio del modello Isa. L’estrazione consentirà al professionista di controllarne la correttezza e di intervenire per correggere eventuali errori. Una verifica molto importante: l’indicazione nel modello di un dato difforme rispetto a quello noto al Fisco può far scattare anomalie e quindi abbassare il punteggio finale.

Gli indicatori di anomalia

Per determinare il punteggio finale, il modello utilizza specifici indicatori di affidabilità e di anomalia. Questi evidenziano anche disallineamenti tra le informazioni dichiarate nei modelli Isa oppure tra queste informazioni presenti nei modelli e/o in altre banche dati esterne. Il professionista deve prestare estrema attenzione ad eventuali disallineamenti e rimuoverli. Se il disallineamento permane, scatterà l’attribuzione di un punteggio da 1 a 5 che potrebbe penalizzare notevolmente il risultato finale. Ad esempio, uno degli indicatori che potrebbe far scattare la segnalazione di anomalia è dato dalla “Corrispondenza delle giornate retribuite con il modello Cu e i dati Inps”. L’indicatore controlla il numero delle giornate retribuite relative ai dipendenti, dichiarate nel quadro A del modello Isa, con lo stesso dato desumibile dagli archivi della Certificazione unica (Cu) e Uniemens-Inps. Se i dati non dovessero corrispondere, potranno verificarsi due situazioni: se i dati indicati nel quadro A non sono corretti, il contribuente potrà adeguare l’indicazione ai dati risultanti dalleCu e all’Inps; viceversa, se i dati in possesso del contribuente fossero corretti, ma divergenti rispetto a quelli indicati nelle banche dati esterne, il contribuente potrà confermare tramite una “forzatura” le indicazioni a lui risultanti. In questa ipotesi, però, l’agenzia delle Entrate potrebbe effettuare delle verifiche. Invece, se le divergenze dovessero permanere, il modello segnalerà l’anomalia con l’attribuzione di un punteggio variabile tra 1 a 5 che influenzerà negativamente il risultato finale. Gli indicatori di anomalia sono presenti nelle note metodologiche dei singoli Isa.

Le specificità dei professionisti

Ai professionisti si applicano anche degli indicatori specifici. In alcuni casi (non per tutti i professionisti) si procede a verificare il compenso medio percepito dal professionista con riferimento alle diverse tipologie di attività. La stima del compenso medio viene effettuata avendo riguardo al numero delle prestazioni. Dopo aver stimato il compenso medio il modello procede a effettuare un confronto dello stesso con i “livelli” di compensi minimi divisi per provincia. Se il compenso medio dovesse essere inferiore ai “minimi provinciali” scatterà l’anomalia e sarà attribuito al contribuente un punteggio pari a 1, che abbasserà notevolmente il punteggio finale. Diventa dunque fondamentale indicare correttamente il numero delle prestazioni i cui compensi sono stati incassati nell’anno. Se viene indicato per errore un numero di prestazioni superiore a quello effettivo, il compenso medio viene sottostimato e rischia di scattare l’anomalia.

La dichiarazione

Il contribuente, al fine di raggiungere un maggior grado di affidabilità e ottenere i benefici previsti dal regime premiale, può indicare nelle dichiarazioni fiscali ulteriori componenti positivi non risultanti dalle scritture contabili. Questi componenti incideranno sulle imposte dovute (dirette, Iva, e Irap). Mentre negli studi di settore l’adeguamento serviva a raggiungere la congruità, nel caso degli Isa questo è modulare. Il contribuente può scegliere liberamente l’integrazione a seconda del miglioramento del punteggio che intende ottenere.

I tempi

I contribuenti non sono ancora in grado di acquisire gli ulteriori dati necessari ai fini del calcolo presenti negli archivi dell’Anagrafe tributaria. La data a partire dalla quale sarà possibile prelevare i file sarà indicata sul sito internet delle Entrate (si presume verso fine maggio). Il software per effettuare il calcolo sarà disponibile, presumibilmente, nella prima decade di giugno. Le categorie interessate hanno già chiesto il rinvio della data del 30 giugno prevista per il versamento. Un emendamento al decreto crescita prevede che il termine di presentazione delle dichiarazioni fiscali slitti al 30 novembre, quindi al 2 dicembre perché quest’anno cade di sabato.

Fonte “Il sole 24 ore”

Forfettari, escluso il socio di Srl anche senza maggioranza ma decadenza solo dal 2020

Secondo l’Agenzia (risposta ad interpello 146/2019 pubblicata ieri ), una partecipazione significativa in una Srl che svolge attività riconducibile a quella del socio comporta l’incompatibilità con il regime forfettario se il singolo professionista opera in favore della società, anche se a norma di statuto non si dispone della maggioranza in assemblea ordinaria.

L’adesione resta salva per il 2019, ma la decadenza scatta dal 2020, a meno che le prestazioni in favore della società – compresa la qualifica di amministratore – non siano cessate a partire dal 10 aprile scorso, data di pubblicazione della circolare n. 9/E/2019. Continuano le risposte dell’Agenzia agli interpelli sui forfettari e continua la “linea rigida” sul requisito del controllo nelle Srl partecipate.

Secondo la lettera d) del comma 57 dell’articolo 1 della legge 190/2014 (come modificata dalla legge di Bilancio 2019), imprenditori e professionisti non possono avvalersi del regime forfettario se partecipano contemporaneamente a società di persone, associazioni o imprese familiari di cui all’articolo 5 Tuir o se controllano direttamente o indirettamente Srl che esercitano attività economiche direttamente o indirettamente riconducibili a quelle svolte con partita Iva individuale.

Nel caso dell’interpello, un ingegnere (sezione ATECO M) che nel 2018 era già in regime forfettario, detiene il 50% delle quote di una Srl con attività di consulenza e sviluppo progetti per la produzione di energia (sempre sezione M). Nel quesito si specifica che: l’altro socio al 50% è soggetto terzo; per la validità delle assemblee occorre la presenza del 51% del capitale; non vi sono diritti particolari o patti parasociali; l’amministrazione è affidata ad entrambi i soci disgiuntamente.

Diversamente dall’istante, l’agenzia ritiene che, nel caso di specie, si rientri comunque nell’ambito dell’influenza dominante di cui al n. 2) del comma 1 dell’articolo 2359 del Codice civile (e quindi del controllo diretto), per cui il professionista può aderire nel 2019 al regime forfettario, decadendo però con effetto dal 2020.

Tuttavia, preso atto che la circolare n. 9/E ha avuto un contenuto innovativo, tale ultimo effetto può essere evitato se il professionista cessa dalla carica di amministratore e non effettua più alcuna cessione di beni o prestazioni di servizi a favore della Srl a partire dal 10 aprile scorso (forse sarebbe stato opportuno riconoscere almeno i 60 giorni dello Statuto del contribuente).

In proposito, con la risposta ad interpello n. 126/2019, l’agenzia aveva sostenuto la medesima tesi anche con un professionista socio al 49%, per cui pare che l’influenza dominante, a questi fini, vada individuata più nella sussistenza di rapporti economici tra socio e società che nella caratura della partecipazione e nei diritti connessi. Da ricordare che, secondo la circolare n. 9/E, l’esistenza di rapporti economici si può sterilizzare anche rendendo indeducibili i costi collegati alle prestazioni del socio in regime forfettario, situazione che, evidentemente, può riguardare cessioni o prestazioni di ammontare marginale.

 Fonte “Il  sole 24 ore”

Corrispettivi telematici, esoneri a tempo dall’obbligo d’invio

Esoneri a tempo dall’obbligo di memorizzazione elettronica e trasmissione telematica dei corrispettivi giornalieri: con un avvio graduale, le cui tempistiche saranno individuate da decreti ministeriali, tutti i commercianti al minuto – e per tutte le attività a oggi escluse – finiranno per trasmettere le informazioni delle cessioni e delle prestazioni rese con cadenza giornaliera avvalendosi non solo di registratori o server telematici ma anche delle soluzioni tecnologiche che saranno appositamente individuate dalle Entrate.

Questa è la principale ragione della gradualità nell’avvio che, ad esempio, esclude al momento dalla trasmissione delle operazioni realizzate attraverso e-commerce, e cioè mediante uno dei canali di vendita maggiormente utilizzati dagli utenti.

Il primo termine di adeguamento

A ogni modo, con il Dm Economia del 10 maggio 2019 pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 18 maggio  è stato già fissato al 31 dicembre prossimo il primo termine di adeguamento e di avvio dell’obbligatorietà per una serie di operazioni quali quelle connesse o collegate alle escluse dalla certificazione nonché per quelle marginali, produttive cioè nel corso del 2018 di ricavi o compensi in misura non superiore all’1% del volume d’affari complessivo dell’operatore: tali esclusioni operano a prescindere dal volume d’affari realizzato nel corso del 2018 dall’operatore.

In particolare, la previsione delle operazioni marginali permette di spostare dal 1° luglio 2019 al 1° gennaio 2020 l’obbligo di memorizzazione e trasmissione dei corrispettivi giornalieri anche per quei contribuenti il cui volume d’affari sia stato superiore a 400mila euro nel 2018. Si pensi al caso di un’impresa industriale del settore alimentare che oltre a fatturare le operazioni di cessione di beni prodotti, gestisce anche uno o più spacci aziendali. Senza la previsione, contenuta nel decreto, dell’estensione dell’esonero per le operazioni marginali, avrebbe dovuto installare un registratore telematico per trasmettere i corrispettivi percepiti dallo spaccio aziendale in quanto il parametro di riferimento sarebbe stato il volume d’affari complessivo. Al contrario, occorre ora verificare la percentuale di incidenza dei ricavi o compensi da corrispettivi rispetto al volume d’affari, al fine di escludere o meno l’obbligatoria trasmissione dal prossimo 1° luglio. In ogni caso tutte le operazioni ad oggi marginali costituiranno oggetto di invio telematico dal 1° gennaio 2020 in quanto la norma di esclusione vale solo sino al termine del 2019.

Distributori di carburante

Analoghe considerazioni valgono per gli esercenti impianti di distribuzione di carburante: in questi casi l’esonero temporaneo sino al prossimo 31 dicembre riguarda la tipologia di beni ceduti, e cioè solamente le cessioni di beni diverse da quelle di vendita di benzina o gasolio, quando i relativi corrispettivi rispettino il criterio di marginalità: se quindi un impianto ha venduto nel 2018 beni diversi dai carburanti per importi superiori al margine, occorrerà dotarsi di registratore telematico e trasmettere le informazioni dal 1° luglio 2019 se il volume d’affari supera i 400mila euro. Gli esoneri sono quindi caratterizzati da una valenza temporale limitata in quanto il reale obiettivo è quello non solo di superare in via graduale il ricorso a scontrini e ricevute fiscali, e cioè a documenti fiscali sostitutivi della fattura, ma anche di garantire un patrimonio informativo completo e integrato alle Entrate attraverso l’implementazione telematica e la trasmissione esclusivamente in modalità digitale dei dati fiscalmente rilevanti.

Gli esoneri comprendono le operazioni già oggi escluse dall’obbligo di certificazione dei corrispettivi con scontrino e ricevuta, le quali saranno progressivamente ricomprese nel perimetro oggettivo dell’obbligo. Inoltre sono escluse anche le prestazioni di trasporto pubblico collettivo di persone e di veicoli e bagagli al seguito, con qualunque mezzo esercitato, per le quali i biglietti di trasporto, compresi quelli emessi da biglietterie automatiche, assolvono la funzione di certificazione fiscale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Bonus lavori, arriva la cessione al fornitore con sconto fisso

Imprese favorite con tempi di recupero fiscale dimezzati e nuove possibilità per la rigenerazione urbana. Nel decreto crescita sono previsti diversi interventi che vanno a sostenere il settore edilizio e impiantistico, con un occhio di riguardo alle scelte di sicurezza e risparmio energetico.

Stando alla bozza approvata giovedì scorso dal Consiglio dei ministri diventa più conveniente, dal punto di vista fiscale, per un’impresa di costruzione, acquisire uno stabile cielo-terra, abbatterlo e ricostruirlo con i nuovi criteri. Ma a sollevare speranze e polemiche sono soprattutto gli articoli che dimezzano – da dieci a cinque anni – i tempi di recupero del credito fiscale acquistato da imprese e consorzi per interventi agevolati con ecobonus e sismabonus.

Ecobonus più facile
La nuova disposizione prevede che chi ha diritto alle detrazioni (cioè il contribuente) può optare per uno sconto sulla fattura «di pari ammontare» da parte del «fornitore che ha effettuato gli interventi». Quest’ultimo, a sua volta, ottiene un credito d’imposta da usare in compensazione, in cinque quote annue uguali (secondo il meccanismo di cui al Dlgs 241/97) e senza l’applicazione dei limiti previsti dalle leggi 388/2000 e 244/2007. In sostanza, si tratta di una possibilità in più, piuttosto diversa da quella attualmente prevista, che comunque rimane.

Anzitutto il “prezzo” della cessione è predefinito: lo sconto deve essere pari alla detrazione, quindi, per un lavoro di 10mila euro con detrazione del 65% il committente-contribuente avrà subito uno sconto di 6.500 euro e il «fornitore» potrà compensare le imposte a suo carico con un credito d’imposta di 1.300 euro all’anno per cinque anni. Non si contratta, quindi, l’importo dello sconto sulla fattura come invece si può contrattare il prezzo di acquisto del credito fiscale se si sceglie l’altra possibilità che rimane in vigore.

Entro 30 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto crescita, le Entrate dovranno emanuare un provvedimento di attuazione, benché la lettera della norma si presti a interpretazioni abbastanza elastiche sul soggetto cui va attribuito lo sconto. Con la nuova modalità non sarà, però, possibile per l’impresa effettuare un’ulteriore cessione del credito a terzi.

Rete Irene ha espresso alcune perplessità sulla disposizione, che – a un primo esame – semplifica le cose ai contribuenti-committenti e li mette al riparo da una trattativa sulla cessione del credito fiscale che non sempre si conclude al meglio. A dominare il mercato della riqualificazione energetica, infatti, potrebbero alla fine restare pochi soggetti, fiscalmente ipercapienti, che diventeranno main contractor con contratti di subappalto verso la filiera di chi i lavori li realizza davvero. Resta ora da vedere come assicurare la dinamica di mercato tramite la giusta concorrenza.

Va anche detto, però, che la nuova modalità di cessione risolve il problema del bonifico parlante pari al 100% della spesa dell’intervento, in quanto l’amministratore di condominio dovrebbe fare il pagamento solo della parte di spesa non corrispondente al credito ceduto.

Sismabonus costruttori esteso alle zone 2 e 3
Viene riconosciuta anche alle vendite di case in zone a rischio sismico 2 e 3 la possibilità di beneficiare della detrazione del 75% (a fronte della riduzione del rischio sismico che determini il passaggio ad una classe di rischio inferiore) o dell’85% (passaggio a due classi di rischio inferiore) sul prezzo di acquisto. Ammontare massimo di spesa: 96mila euro. Al momento sono agevolate solo le operazioni in zona 1 (la più pericolosa). L’immobile deve essere stato ristrutturato o demolito e ricostruito (anche con variazione volumetrica) da imprese che lo abbiano venduto entro 18 mesi dalla fine lavori. L’agevolazione interessa le spese sostenute per gli interventi dal 2019 al 2021. La possibilità di cedere le detrazioni in cambio di uno sconto (illustrata prima per l’ecobonus) è riconosciuta anche in questo caso.

Rigenerazione urbana
Viene concessa sino a tutto il 2021 la «misura fissa» delle imposte di registro, ipotecaria e catastale (600 euro in tutto) per le cessioni di interi fabbricati a imprese di costruzione o ristrutturazione che, entro i successivi dieci anni, li demoliscano e ricostruiscano (anche con variazione volumetrica se permessa). Stesso bonus per la rivendita, anche se non è chiaro se vale sino al 2021 o anche oltre.

Fonte “Il sole 24 ore”

Superammortamento per spese fino a 2,5 milioni

Per acquisti effettuati dal 1° aprile al 31 dicembre 2019 Esclusi immobili e veicoli
Torna il superammortamento del 30% per acquisti di beni strumentali nuovi effettuati da imprese e professionisti dal 1° aprile e fino al 31 dicembre 2019, ma con un tetto di spesa pari a 2,5 milioni. L’articolo 1 del decreto crescita ripropone la maggiorazione del costo fiscale per il calcolo di ammortamenti e leasing che era scaduta a fine 2018, escludendo gli investimenti in autovetture di cui all’articolo 164 del Tuir, oltre a fabbricati e costruzioni. Prevista una coda temporale fino al 30 giugno 2020 per ordini e acconti del 20% effettuati entro il prossimo 31 dicembre.
Il nuovo superammortamento previsto dal decreto crescita riproduce le regole dell’ultima versione della norma (scaduta il 31 dicembre scorso, ma prolungata fino al 30 giugno prossimo per ordini e acconti entro il 2018). Potranno usufruire del bonus gli investimenti effettuati da imprese e professionisti nel periodo tra il 1° aprile 2019 e il 31 dicembre prossimo. In presenza di ordini confermati e acconti del 20% pagati entro il 31 dicembre, l’effettuazione dell’investimento può arrivare sino a giugno 2020.
Non rientrano nella nuova agevolazione (oltre agli immobili e ai beni con coefficiente di ammortamento inferiore al 6,5%) i veicoli indicati nel comma 1 dell’articolo 164 del Tuir e dunque ogni tipo di autovettura (a prescindere dall’utilizzo), aeromobili da turismo, imbarcazioni da diporto, moto e ciclomotori. Sono invece agevolabili gli autocarri e veicoli similari.
I beni devono possedere, come in passato, i requisiti di novità e strumentalità. Per rientrare nel bonus la consegna o spedizione del bene deve essere successiva al 31 marzo, anche se gli ordini o i contratti sono stati conclusi entro tale data. Qualora la consegna entro marzo non sia stata accompagnata dal passaggio di proprietà (ad esempio, beni ceduti salvo prova o gradimento), rileverà invece il momento in cui si verifica l’effetto traslativo (se quest’ultimo evento scatta dal 1° aprile, l’investimento sarà superammortizzabile). In presenza di investimenti in appalto, rileva la data di ultimazione. Pertanto, ad esempio, il costo di un bene realizzato in appalto con inizio lavori a gennaio 2019 e ultimazione (consegna al committente senza riserve) a ottobre 2019, usufruirà del 30%. Per gli appalti avviati prima del periodo agevolato, occorre comunque verificare che non vi siano, entro il 31 marzo 2019, stati di avanzamento contrattualizzati con liquidazione di corrispettivi a titolo definitivo, nel qual caso la parte di costo ante 1° aprile dovrà essere esclusa.
L’agevolazione, che come in passato si sostanzia in una deduzione extracontabile pari al 30% del costo ragguagliata al piano di ammortamento fiscale, non spetta per importi di investimento complessivi superiori a 2,5 milioni. Si ripropone al riguardo un interrogativo che sta già interessando l’iperammortamento a scaglioni della legge 145/2018, circa l’imputazione della agevolazione ai diversi beni in caso di importi superiori al tetto. In particolare, è da ritenere che l’impresa possa scegliere di portare in superammortamento il costo di quei beni che hanno coefficiente di ammortamento più elevato.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Luca Gaiani

La mini-Ires 2.0 premia gli utili accantonati a riserve disponibili

La riduzione dell’aliquota slegata da investimenti e nuova occupazione
Il prelievo scende progressivamente fino a 4 punti (a regime nel 2021)
Il decreto crescita approvato ieri salvo intese dal Consiglio dei ministri prevede anche la sostituzione della mini-Ires con una nuova versione che, con un meccanismo simile ma decisamente più semplice, consente la riduzione progressiva dell’aliquota (sino al 20% nel caso dell’Ires) sugli utili accantonati a riserve disponibili, senza porre alcuna ulteriore condizione di reinvestimento degli stessi utili in beni strumentali o in nuove assunzioni.
Si ricorda che la misura originaria – introdotta dalla legge di Bilancio per il 2019 (legge 145/2018) – recava un nuovo regime di imposizione sui redditi ad aliquota agevolata volto ad incentivare il reinvestimento degli utili per l’acquisizione di beni strumentali materiali nuovi e per l’incremento dell’occupazione che, al verificarsi congiunto di determinate condizioni, attribuiva al contribuente la possibilità di beneficiare della riduzione dell’aliquota dell’imposta sui redditi di 9 punti percentuali. Sin da subito, l’agevolazione era apparsa complessa e di non immediata applicazione, necessitando la contemporanea combinazione di tre parametri: l’ottenimento di un reddito imponibile dichiarato; l’esistenza di un utile d’esercizio del periodo d’imposta precedente non distribuito e accantonato in una riserva di utili diversa da quelle indisponibili; l’effettuazione di investimenti incrementali in beni strumentali nuovi e/o in nuova occupazione la cui quantificazione implicava complessi calcoli.
Con la “mini-Ires 2.0” si conferma la struttura di base dell’agevolazione originaria, ma se ne semplifica considerevolmente il funzionamento, limitando l’incentivo al solo “accumulo” di utili mediante il ricorso a un meccanismo di natura forfetaria.
Se per un verso viene confermato che il reddito imponibile “dichiarato” (non derivante da accertamento) può beneficiare dell’agevolazione fino a concorrenza dell’importo corrispondente agli utili di esercizio accantonati a riserve diverse da quelle di utili non disponibili, per un altro verso, nella nuova versione si stabilisce che il beneficio non debba spettare più nel limite degli investimenti effettuati bensì soltanto nel limite costituito dall’incremento di patrimonio netto, ciò anche per tener conto di quelle eventuali operazioni coi soci (apporti e distribuzioni) che non erano compiutamente disciplinate nella versione originaria dell’incentivo.
A fronte di tali semplificazioni, la mini-Ires 2.0 prevede tuttavia una restrizione del beneficio: la riduzione dell’aliquota dell’imposta sui redditi passa difatti da 9 a 4 punti percentuali. Viene peraltro previsto che tale riduzione entrerà a regime solo dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2021 (2022 per i soggetti “solari”) con un periodo transitorio che prevede riduzioni di aliquota in misura crescente (1,5% per il 2019, 2,5% per il 2020 e 3,5% per il 2021).
Nel nuovo assetto rimane fermo che per i soggetti solari i primi utili d’esercizio rilevanti ai fini della mini-Ires 2.0 saranno quelli dell’esercizio 2018, i quali, se accantonati nel 2019 in una riserva diversa da quelle indisponibili, renderanno agevolabile – per pari importo – il reddito del 2019 da dichiarare nella dichiarazione del 2020. Come nella versione originaria, nella mini-Ires 2.0 è mantenuta la caratteristica di opzionalità.
Sono confermate altresì le disposizioni di coordinamento per consentirne la fruizione anche a soggetti Irpef e a quelli che aderiscono ai regimi del consolidato nazionale, mondiale o della trasparenza fiscale, nonché la previsione volta a regolare il riporto in avanti delle eccedenze. A tal ultimo riguardo, data l’eliminazione del limite degli investimenti, il meccanismo opererà con esclusivo riferimento alle eccedenze di utile che potrebbero scaturire dalla non perfetta combinazione in un periodo d’imposta dell’utile accantonato e del reddito imponibile dichiarato.
La nuova versione dell’agevolazione continua, peraltro, a essere cumulabile con altre discipline agevolative, quali l’iperammortamento e il reintrodotto super-ammortamento (si veda altro articolo in pagina), fatta eccezione per quelle che prevedono una determinazione forfetaria del reddito imponibile e per quella riconosciuta agli enti non profit e consistente nella riduzione dell’aliquota Ires al 12% ex articolo 6 del Dpr 601/73.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Carlo Sanna
Alberto Trabucchi

Liti pendenti, il concetto di «atto impositivo» al test di quelli liquidatori

La nuova disposizione finalizzata alla chiusura delle liti fiscali pendenti impone un’attenta valutazione derivante dalla struttura della norma nella parte in cui delimita il perimetro di applicazione ai soli atti qualificati come impositivi.
Tale contesto lascia intravedere che le controversie riguardanti atti con i quali l’agenzia delle Entrate si è limitata a liquidare le somme dovute in esito a quanto dichiarato dai contribuenti, resterebbero prive di una soluzione bonaria. L’ultima conferma, in tal senso, arriva dalla Cassazione con lasentenza n. 7099 del 13 marzo 2019 .
Tra queste situazioni potrebbero rientrare, ad esempio, l’avviso di liquidazione dell’imposta di registro e dell’imposta principale di successione e donazione, così come le cartelle che fanno seguito agli avvisi bonari.

Per il momento, quindi, ci sono perplessità sulla possibilità di definire gli atti con i quali l’ufficio richiede il pagamento dell’imposta principale (ad esempio, registrazione d’ufficio, richiesta di registrazione di atti giudiziari), dell’imposta suppletiva e dell’imposta complementare diversa da quella di un maggior valore accertato (ad esempio, decadenza dalle agevolazioni tributarie).
Tuttavia, se nei precedenti provvedimenti di pacificazione fiscale l’amministrazione finanziaria aveva prevalentemente escluso che la semplice attività liquidatoria avesse la connotazione di attività impositiva, rimane comunque margine per far rientrare nel novero degli atti impositivi, attraverso un’attenta lettura sistematica delle norme e degli indirizzi giurisprudenziali, anche quei provvedimenti che per la prima volta esternalizzano la pretesa tributaria.
A questo proposito, la linea di demarcazione tra l’ atto che ha natura impositiva e quello che non ce l’ha non può essere ricavata dalla semplice denominazione del provvedimento, ma deve essere verificata sulla base della sostanza e sull’incidenza che lo stesso produce nella sfera patrimoniale del contribuente.
Su questi presupposti l’agenzia delle Entrate chiarì, in merito alla chiusura delle liti fiscali minori (circolare 48/E 2011), che in tema di liquidazione dell’imposta principale di successione, affinché l’atto avesse natura impositiva, occorreva che dal contenuto finale dell’atto amministrativo tributario si ricavasse l’esercizio dell’attività discrezionale e valutativa dell’ufficio di carattere non seriale.

In quell’occasione, inoltre, in merito all’imposta di registro fu anche precisato, richiamando un precedente giurisprudenziale di legittimità (Cassazione 20731/2010), che all’avviso di liquidazione non può essere esclusa la natura di atto impositivo quando questo è destinato ad esprimere per la prima volta una pretesa maggiore rispetto a quella applicata al momento della registrazione.
In sostanza, per essere definibile, bisogna guardare alla natura sostanziale del rapporto giuridico d’imposta che si intende chiudere. In altre parole, l’atto rientra nella sanatoria tutte le volte che dal suo contenuto si evincono passaggi cognitivi e valutativi necessari per arrivare alla formazione del provvedimento tributario. E questo può avvenire anche quando oggetto del giudizio è un avviso di liquidazione in quanto primo atto con cui viene richiesta l’imposta.
Da tale contesto emerge chiaramente come una valutazione oggettiva e consapevole non può prescindere, per coloro che intendo attivare la procedura agevolativa, da un intervento chiarificatore che specifichi le singole fattispecie rientranti nell’ambito della sanatoria.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Il controllo interno «doc» prepara la trasmissione dei corrispettivi

I contribuenti con più punti cassa devono avere una dichiarazione di conformità
Per gli operatori maggiori l’obbligo scatta dal 1° luglio 2019
Processi amministrativi e contabili interni e sistemi informatici da far certificare come conformi prima o contestualmente all’entrata in funzione dei registratori o server telematici; i termini per la conformità sono in ogni caso stabiliti al 1° gennaio 2020 per tutti gli esercenti e al 1° luglio 2019 per i contribuenti con volume d’affari oltre i 400mila euro, compresi gli operatori che avevano optato per la trasmissione opzionale dei corrispettivi prevista per la Gdo dalla legge 311 del 2004. Queste le principali indicazioni rese dall’agenzia delle Entrate con la risposta a consulenza giuridica 13 pubblicata ieri, 20 marzo 2019: in assenza di puntuali indicazioni contenute nelle specifiche tecniche versione 6.0 di agosto 2018, sono stati in questo modo individuati i termini entro cui gli esercenti con più punti cassa per singolo punto vendita devono ottenere la dichiarazione di conformità di processi e sistemi informatici aziendali coinvolti nella memorizzazione e trasmissione telematica dei corrispettivi. Gli operatori interessati infatti, oltre alla certificazione con cadenza annuale del proprio bilancio di esercizio, devono dotarsi non solo di un processo di controllo interno, conforme al modello 231/2001, ma richiedere e ottenere il rilascio, da parte di una società di revisione o degli enti (istituti universitari o Cnr) abilitati, di tale dichiarazione di conformità prima dell’avvio della trasmissione telematica e, successivamente, con cadenza triennale. Ai fini della certificazione, occorre garantire che il processo di controllo interno rispetti una serie di requisiti minimi tra cui, essenzialmente, la verifica che a ogni documento di vendita (corrispettivo) corrisponda un incasso in contanti o con strumenti tracciabili. Il controllo di processo interno, secondo le specifiche tecniche, deve essere effettuato a livello di singola cassa, cassiere e forme di pagamento. Eventuali differenze e eccezioni devono essere riconciliate con idonea documentazione da conservare elettronicamente, in base al Dm 17 giugno 2014, per dieci anni. Allo stesso modo occorre predisporre e conservare elettronicamente la documentazione amministrativa che descrive tale processo interno, da strutturare in una serie di fasi.
Per far fronte all’obbligo dei corrispettivi telematici non è sufficiente una attenta valutazione del fornitore delle apparecchiature che permettono la memorizzazione e la trasmissione, ma occorre al contrario partire dall’analisi delle necessità aziendali, verificare canali, modalità e struttura di vendita, considerando l’interfacciamento con Erp e applicativi aziendali già utilizzati e gestire le problematiche per la corretta documentazione di resi, abbuoni, sconti o acquisti con utilizzo di gift card. Il tutto in un quadro regolamentare che deve essere completato quanto prima, con il rilascio degli ulteriori decreti ministeriali attuativi che definiranno con precisione soggetti e operazioni interessate i quali, non necessariamente, coincideranno con quanto finora stabilito per scontrini e ricevute fiscali dal Dpr 696 del 1996.
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Alessandro Mastromatteo
Benedetto Santacroce

Detrazioni Iva a rischio dopo la procedura esecutiva

L’effetto della mancata emissione della nota di accredito nei termini
La posizione delle Entrate riguarda anche le procedure concorsuali
La mancata emissione della nota d’accredito “nei termini” mette a rischio il recupero dell’Iva anche in caso di procedura concorsuale o esecutiva. Queste sono le conseguenze desumibili dalla risposta 55/2019, allineata alle conclusioni della precedente risposta n. 113 del 2018 in materia di note di variazione nel concordato preventivo “in continuità”. Per evitare tali effetti, occorre dunque conoscere la data che, secondo il Fisco, attesta l’infruttuosità della procedura. È a partire da tale data, infatti, che si può operare la variazione in diminuzione, tenendo presente che, in base al vigente articolo 19, comma 1, Dpr 633/72, l’imposta è recuperabile, al più tardi, con la dichiarazione relativa all’anno in cui il diritto è sorto e alle condizioni del momento in cui è sorto. Solo per le rettifiche i cui presupposti si sono manifestati ante 1° gennaio 2017, il termine per il recupero del tributo è quello della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello di nascita del diritto, come previsto dalla precedente versione dell’articolo 19 (circolare n. 1/E/2018).
Per il fallimento è necessario che sia decorso il termine per le osservazioni al piano di riparto (circolare 77/E/2000) o, se non c’è riparto, quello per il reclamo al decreto di chiusura della procedura (risoluzione 195/E/2008). In caso di concordato preventivo, oltre alla sentenza che omologa la procedura, si deve considerare anche il momento in cui il debitore adempie gli obblighi assunti (circolare 8/E/2017 e risposta 113/2018). In vista della scadenza del 30 aprile, pertanto, occorre monitorare le procedure chiuse (nel senso precisato) nel 2018 e, se non si è già provveduto, è bene affrettarsi. L’emissione entro aprile della nota di variazione (elettronica) permette, infatti, previa registrazione in apposito sezionale, di esercitare la detrazione nella dichiarazione. Se questa è già stata presentata, pare possibile ricorrere alla dichiarazione correttiva nei termini, facendovi confluire il credito portato dalla nota in diminuzione nel frattempo emessa. Secondo le Entrate, invece, il recupero non sarà possibile dopo il 30 aprile, ricorrendo alla dichiarazione integrativa a favore.
Stante la regola “transitoria” per i casi in cui il presupposto della rettifica è maturato ante 1° gennaio 2017, sono recuperabili con il modello Iva 2019 anche i crediti d’imposta verso procedure concluse nel 2016, a condizione che la variazione (per la quale non opera il limite annuale dell’articolo 26, comma 3, Dpr 633/72) sia eseguita entro il prossimo 30 aprile. Soluzione che, invece, non pare ammessa per una procedura chiusa nel 2017, ove non sia stata emessa nota di credito entro aprile dell’anno scorso.
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Pagina a cura di
Matteo Balzanelli
Massimo Sirri

Voucher monouso, tassazione al momento dell’emissione

Rilevante ai fini Iva l’individuazione di beni e servizi preacquisiti
Il multiuso è invece tassato solo al riscatto con passaggi intermedi fuori campo Iva
L’utilizzo dei voucher nel commercio e nel welfare aziendale ridetermina il momento di tassazione Iva delle singole operazioni, solo se lo stesso individua beni e servizi preacquisiti. Per comprendere appieno la problematica è in primo luogo necessario chiarire cosa rientra nella nozione di voucher e, di conseguenza, cosa – in aggiunta alle esclusioni previste dalla normativa comunitaria per i buoni sconto, i titoli di trasporto, i biglietti di ingresso a cinema e musei, i francobolli e altri titoli simili – ne è estraneo.
Anzitutto, un voucher, sebbene possa essere emesso per facilitare un processo di pagamento, non è uno strumento di pagamento. La distinzione fra le due fattispecie si fonda sull’esistenza o meno di un diritto preacquisito a ricevere beni o servizi. Più precisamente, gli strumenti di pagamento si distinguono dai voucher in quanto non incorporano tale specifico diritto, ma hanno l’unica finalità di effettuare un pagamento.
Il riscatto di un voucher contro la prestazione di beni o servizi non realizza un pagamento. Il riscatto rappresenta l’esercizio del diritto, che il voucher incorpora, a ricevere beni/servizi sorto in via anticipata (preacquisito) rispetto alla prestazione, ovvero sorto a seguito del pagamento corrisposto “a monte” all’atto dell’acquisto del voucher. Al contrario, uno strumento di pagamento non incorpora tale diritto. Uno strumento di pagamento per coprire il costo di beni o servizi conferisce al titolare il diritto a ricevere tali beni o servizi solo nel momento di effettuazione del pagamento realizzato tramite l’utilizzo del credito rappresentato dallo strumento in questione. Pertanto, uno strumento che non incorpora il diritto (preacquisito) a ricevere beni o servizi ma ne determina il sorgere contestualmente della sua presentazione per il riscatto non è un voucher ma è da assimilarsi a un mezzo di pagamento.
Va poi precisato che un voucher può non contenere l’indicazione specifica dei beni o servizi a cui dà diritto. Il nuovo articolo 6-bis del Dpr 633/72 stabilisce che un voucher deve indicare «i beni o i servizi da cedere o prestare o le identità dei potenziali cedenti o prestatori». L’uso della congiunzione disgiuntiva «o» suggerisce l’obbligo di menzionare almeno uno fra i beni/servizi e i cedenti/prestatori. Così, si ritiene riconducibile alla nozione di voucher un buono ad valorem da utilizzare presso un esercizio commerciale convenzionato che vende beni soggetti ad aliquote Iva diverse, contro beni scelti dal titolare del voucher all’atto del riscatto fra quelli in vendita. Un voucher con tali caratteristiche rientra fra i buoni multiuso dato che la prestazione (cessione di beni o prestazione di servizi) a cui dà diritto non è individuata con sufficiente precisione da poter fissare il corretto regime Iva già dal momento dell’emissione. Se, invece, un voucher incorpora il diritto a ricevere beni/servizi per i quali già all’atto dell’emissione si dispone di tutte le informazioni necessarie per applicare la appropriata disciplina Iva – in particolare, l’aliquota e il luogo di cessione/prestazione – il voucher è da ricondurre alla categoria dei monouso. La differenza fra le due tipologie è che il monouso è tassato all’atto dell’emissione come se con l’emissione si realizzasse la cessione del bene o la prestazione del servizio a cui il voucher dà diritto. Di conseguenza – come se venissero ceduti tali beni/servizi sottostanti – sono tassate anche tutte le cessioni intermedie del buono prima del riscatto, il quale avviene senza applicazione dell’Iva, essendo essa già stata corrisposta a monte (all’emissione). Al contrario, un voucher multiuso è tassato solo al riscatto, quando sono individuati i beni/servizi a cui dà diritto e, con questi, la relativa disciplina Iva. Di conseguenza, i passaggi intermedi del voucher, in quanto mere movimentazioni finanziarie, sono fuori campo Iva.
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A cura di
Matteo Mantovani
Benedetto Santacroce

Nel decreto sblocca-cantieri torna il superammortamento ed entra il taglio dell’Ires al 22,5%

Il decreto sblocca-cantieri si allarga e punta a prendere la forma di un provvedimento a tutto campo per la crescita: la vera «manovra-bis» nell’ottica del governo, chiamata non a correggere i conti ma a spingere il Pil.

Per farlo, nelle prime versioni conta 35 misure articolate in aree: fisco per la crescita, investimenti privati e investimenti pubblici. Nel primo capitolo si incontra la replica del super-ammortamento, per gli investimenti in beni strumentali fino a 2,5 milioni di euro effettuati dal 1° aprile al 31 dicembre. Escluse però autovetture, immobili e attrezzature «di lunga durata». Nel capitolo fiscale dovrebbe poi trovare spazio la riduzione progressiva dell’Ires con l’obiettivo di tagliarla dal 24 al 20 per cento, all’interno di un taglio al cuneo fiscale che comprende anche la stabilizzazione della riduzione del 30% ai premi Inail avviata per il 2019-21 dalla legge di bilancio. Ma la misura deve ancora risolvere il problema delle coperture per trovare una definizione. Sempre in campo fiscale, tra le novità in arrivo va segnalata l’eliminazione dell’obbligo di interpello per accedere al Patent Box, lo sconto fiscale sui beni immateriali, la proroga del credito d’imposta per ricerca e sviluppo, l’estensione delle agevolazioni per il rientro dei cervelli dall’anno d’imposta 2020. In cantiere anche una correzione necessaria per rimettere in moto il mercato dei Pir (Piani individuali di risparmio): si prevede una «rimodulazione progressiva della quota di investimenti qualificati» da destinare al Venture Capitale e all’Aim per arrivare «gradualmente alla percentuale del 3,5%» introdotta con la manovra.

Un’altra correzione arriva poi per la Flat Tax: i datori di lavoro che accedono alla tassa piatta dovranno comunque applicare le ritenute ai loro dipendenti.

Si studia poi un versante sugli investimenti locali, con una replica da 450 milioni per la spinta alla spesa in conto capitale dei Comuni fino a 50mila abitanti. Agli enti locali si estende poi il piano di dismissioni immobiliari.

Sotto esame anche i tempi di pagamento, in particolare nelle transazioni fra privati. Come forma di «moral suasion», si chiede alle aziende di dichiarare nelle scritture contabili i tempi medi utilizzati per pagare i propri fornitori, evidenziando quelli che sforano i tetti di legge.

Il provvedimento rappresenta nelle intenzioni del governo una sorta di antipasto al Def di aprile, nel quale potrebbero trovare posto anche i progetti più ampi di riforma fiscale. Ai tavoli del Mef si è tornati in questi giorni a parlare della trasformazione in sconto fiscale del bonus da 80 euro, oggi classificato come spesa pubblica. La mossa, complicata, non troverà spazio nel decreto, ma si riapre appunto in vista del Def.

In fatto di fisco, in prima fila c’è il taglio Ires per utili e riserve che vengono lasciati in azienda e non distribuiti ai soci. Sul tavolo c’è l’idea di un taglio dell’aliquota, che punta a ridurla di quattro punti. Non tutto subito, ma una parte delle coperture arriverebbe dall’addio alla mini-Ires, che si sta rivelando più complicata del previsto nelle sue traduzioni pratiche. A inizio settimana lo ha riconosciuto anche il sottosegretario all’Economia Massimo Garavaglia, all’assemblea delle piccole e medie imprese di Assolombarda. Di qui l’idea di utilizzare le risorse messe a bilancio per questa misura (1,1 miliardi per il 2019, 1,5 per il 2020 e 1,9 per il 2021) per avviare il taglio dell’aliquota: già per il 2019 si potrebbe scendere a 22,5%, per poi abbassarsi di un punto all’anno per arrivare a regime al 20% nel 2021-22. Questo è il calendario che si ricaverebbe dal quadro finanziario attuale; ma come sottolineato a Milano dallo stesso Garavaglia l’ambizione è quella di ridurre i tempi planando al 20% già con la manovra d’autunno. Saldi e clausole permettendo.

Errori formali, regolarizzazione entro il 2 marzo del 2020

Efficacia della sanatoria subordinata alla rimozione – anche se un po’ nebulosa – delle irregolarità o omissioni. Apertura anche alle violazioni commesse da sostituti d’imposta e intermediari abilitati. Sono alcuni degli aspetti più rilevanti contenuti nel provvedimento di ieri del direttore dell’agenzia delle Entrate (prot. 62274/2019) in attuazione della sanatoria delle irregolarità formali disciplinata dall’articolo 9 del Dl 119/2018.

Ambito applicativo

Le violazioni formali regolarizzabili sono quelle commesse fino al 24 ottobre 2018 da contribuenti, sostituti d’imposta, intermediari e chiunque sia tenuto ad adempimenti fiscalmente rilevanti. Il provvedimento, quindi, apre anche alle violazioni commesse dagli intermediari telematici.

Il primo elemento fondamentale per accedere alla regolarizzazione è che, per la violazione formale, risulti competente l’agenzia delle Entrate all’irrogazione della sanzione. Il secondo è che la violazione non incida sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo. Il provvedimento precisa che l’omessa presentazione delle dichiarazioni (imposte sui redditi, Irap o Iva), anche qualora non dovesse risultare un’imposta dovuta, non rientra nella sanatoria.

La rimozione dell’errore

Il secondo presupposto per accedere alla sanatoria è la rimozione delle irregolarità od omissioni commesse per ciascuno dei periodi d’imposta per i quali si effettua il versamento dei 200 euro. Su questo aspetto, molto delicato, il provvedimento disciplina diverse casistiche in modo non chiarissimo (punto 2.7). Il termine ordinario entro cui la rimozione degli errori deve essere effettuata è il 2 marzo 2020. Si prevede però che se il soggetto interessato non ha effettuato per un giustificato motivo (quale possa essere è ignoto) la rimozione di tutte le violazioni formali dei periodi d’imposta oggetto di regolarizzazione, la sanatoria è comunque efficace se la rimozione avviene entro un termine fissato dall’Agenzia, che non può essere inferiore a 30 giorni. La rimozione va in ogni caso effettuata entro il 2 marzo 2020 in presenza di violazioni formali già constatate o per la quale sia stata irrogata la sanzione oppure comunque fatta presente (la violazione) all’interessato. È comunque chiaramente detto che l’eventuale mancata rimozione di tutte le violazioni formali non pregiudica gli effetti della regolarizzazione sulle violazioni formali correttamente rimosse. Quindi, in questo ginepraio si può dire che, la deadline per la rimozione dell’errore è il 2 marzo 2020. Che tutto ciò che è sanato entro tale data è attratto nella sanatoria (a condizione che siano versati i 200 euro). E che ci saranno casi in cui il soggetto che ha versato i 200 euro potrà far valere la sanatoria anche regolarizzando l’errore post-controllo nel termine che sarà fissato dall’Agenzia.

Il provvedimento stabilisce ulteriormente che la rimozione non va effettuata quando non sia possibile o necessaria avendo riguardo ai profili della violazione formale. Si evoca, a tale riguardo, le violazioni riguardanti l’errata applicazione dell’inversione contabile ma potremmo aggiungere, anche gli errori e le omissioni relativi alle comunicazioni periodiche Iva poi assorbite dalla dichiarazione annuale Iva.

Il provvedimento dispone il divieto della compensazione, anche se non stabilito dalla norma. Infine, sorprendentemente, si prevede che il differimento di due anni dei termini di accertamento per le violazioni commesse fino al 31 dicembre 2015, stabilito dal comma 6 dell’articolo 9, riguarda i Pvc anche successivi al 24 ottobre 2018. Davvero criptica – oltreché indeterminata – anche tale previsione.

Fonte “Il sole 24 ore”

La rivalutazione dei beni d’impresa «supera» il costo storico

Appuntamento con la rivalutazione dei beni dell’impresa nei bilanci del 2018 in chiusura; infatti, la legge di Bilancio 2019, con i commi 940-950, ha riaperto i termini per procedere alla rivalutazione.

L’aggiornamento dei valori è una opportunità da valutare, ad esempio, nel caso di imprese che detengono beni riscattati a seguito del contratto di leasing e tuttora impiegati nel processo produttivo; così pure la rivalutazione è opportuna per gli assets che nei prossimi anni saranno ceduti nonché per il riallineamento dei disavanzi di fusione imputati sul valore dei beni immobili.

La rivalutazione, infatti, consente di sostituire il costo storico del bene con il suo valore effettivo, determinando, in caso di cessione, una minore plusvalenza.

Le regole per rivalutare

Possono accedere alla rivalutazione dei beni di impresa i soggetti indicati nell’articolo 73, comma 1, lettere a) e b) del Tuir, ovvero società di capitali ed enti commerciali, a condizione che non adottino i principi contabili internazionali. Possono aderire tutti i soggetti che rientrano nel reddito di impresa, compresi i contribuenti in contabilità semplificata.

Sono rivalutabili i beni materiali e immateriali iscritti in bilancio alla data del 31 dicembre 2017, comprese le partecipazioni e con esclusione degli immobili alla cui produzione e/o scambio è diretta l’attività di impresa. La rivalutazione deve riguardare tutti i beni appartenenti alla stessa categoria omogenea e deve essere annotata nell’inventario e nella nota integrativa.

Tutti i passaggi per le rivalutazioni

Il maggior valore riconosciuto ai beni in sede di rivalutazione si considera riconosciuto ai fini fiscali con il versamento di una imposta sostitutiva, calcolata sui maggiori valori iscritti in bilancio, pari al 16% per i beni ammortizzabili e al 12% per quelli non ammortizzabili.

Il maggior valore attribuito ai beni per effetto della rivalutazione è riconosciuto, ai fini delle imposte sui redditi e Irap a partire dal terzo esercizio successivo a quello in cui è eseguita la rivalutazione; limitatamente ai beni immobili il maggior valore derivante dalla imputazione del disavanzo di fusione è riconosciuto dal 2020.

Ciò significa che, fino al raggiungimento del terzo anno successivo a quello di rivalutazione, alla fine dell’esercizio si calcolerà l’ammortamento sul costo del bene rivalutato ma, ai fini fiscali, non essendo riconosciuto questo valore, si dovrà effettuare una variazione in aumento. L’ammortamento civilistico eccedente quello fiscalmente ammesso comporta l’emersione di un costo temporaneamente indeducibile e quindi lo stanziamento delle imposte anticipate.

Contemporaneamente alla rivalutazione, è consentito effettuare l’affrancamento del saldo attivo, mediante il pagamento di un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi, dell’Irap e di eventuali addizionali pari al 10 per cento.

La rivalutazione deve essere eseguita nel bilancio o rendiconto dell’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2017, quindi in quello relativo all’anno 2018 la cui approvazione è generalmente prevista entro il prossimo 30 aprile 2019.

La rivalutazione secondo le modalità ormai consuete può avvenire secondo tre criteri alternativi:

1) rivalutazione del costo storico e del fondo di ammortamento, mantenendo inalterata l’originaria durata del processo di ammortamento;

2) rivalutazione del solo costo storico, determinando un allungamento del processo di ammortamento, se viene mantenuto inalterato il precedente coefficiente, oppure procedendo con l’incremento del coefficiente se si intende lasciare inalterata la durata del periodo di vita utile del cespite.

3) riduzione del fondo di ammortamento con conseguente stanziamento di ammortamenti su un costo analogo a quello originario.

Si ricorda che la circolare dell’Agenzia 14/E/2017 ha fornito chiarimenti in merito.

Fonte “Il sole 24 ore”

La doppia partita del Fisco tra «pace» e alert preventivi

Partita doppia. Negli stessi giorni in cui dovranno decidere se sfruttare la chance della pace fiscale, molte famiglie, professionisti e imprese riceveranno dal Fisco 1,78 milioni di lettere per la compliance. Comunicazioni a cui il Piano delle performance 2019-21 dell’agenzia delle Entrate ricollega un recupero di gettito di 1,5 miliardi di euro.
Passate dalle 395mila del 2015 agli 1,89 milioni dell’anno scorso (dato preconsuntivo), le lettere per la compliancesono il simbolo della campagna per il “fisco amico” lanciata dal Governo Renzi. Di fatto, puntano a evidenziare le anomalie tra ciò che i contribuenti hanno dichiarato e quanto risulta dalle banche dati dell’Agenzia, sollecitandoli a mettersi in regola con uno sconto sulle sanzioni, tramite l’istituto ravvedimento operoso.
Dalla cedolare secca all’Iva
Il provvedimento del direttore delle Entrate del 15 febbraio scorso indica le tipologie di proventi su cui si concentrerà la prima tornata di comunicazioni. Redditi di fabbricati, compresi quelli soggetti alla cedolare secca. Redditi da partecipazione in società di persone e Srl a base ristretta. Assegni periodici, come quelli al coniuge. Redditi da lavoro dipendente. Pensiamo ad esempio al caso di un lavoratore che ha ricevuto due Certificazioni uniche (Cu) e non ha presentato la dichiarazione dei redditi.
L’esperienza degli ultimi anni, però, insegna che un gran numero di lettere per la compliance riguarerà l’Iva. Tributo che ha raccolto poco più del 50% delle segnalazioni inviate nel 2017, per esempio. E rispetto al quale le Entrate contano di far tesoro dei dati raccolti con la fattura elettronica, a partire dai 228 milioni di file Xml trasmessi al Sistema di interscambio da 2,3 milioni di titolari di partita Iva in occasione della liquidazione del 18 febbraio.
Le decisioni del 30 aprile e 31 maggio
Le lettere per la compliance non sono atti impositivi in senso tecnico e non sono impugnabili in modo autonomo. Il sito delle Entrate ricorda che chi ne riceve una “infondata” deve inviare al Fisco «eventuali elementi e documenti di cui l’Agenzia non era a conoscenza». In questi termini, le lettere non hanno nulla a che fare con la pace fiscale, che nelle sue varie articolazioni riguarda processi verbali di contestazione (Pvc), avvisi di accertamento, liti pendenti, cartelle esattoriali.
Eppure, le due campagne – compliance e pace fiscale – finiscono per intrecciarsi, almeno in parte. Riguardano gli stessi contribuenti. Vanno finanziate dagli stessi portafogli, già esposti ai primi effetti della recessione economica. Hanno un calendario sovrapposto, con le date chiave del 30 aprile (istanze di rottamazione-ter) e del 31 maggio (liti pendenti, errori formali, Pvc e violazioni doganali). Ma seguono, paradossalmente, logiche opposte: se le lettere per la compliance invitano cittadini e imprese a ravvedersi prima che sia troppo tardi, la pace fiscale – al contrario – sembra riaffermare che non è mai troppo tardi per riconciliarsi con le pretese del Fisco.
L’attesa per nuove sanatorie
Gli strumenti di contrasto all’evasione fiscale messi in campo di quest’anno dal Fisco derivano in parte da istituti lanciati alla fine della scorsa legislatura e confermati dall’attuale Governo, come la fattura elettronica, cui è stato anzi aggiunto l’invio automatico dei corrispettivi (per i grandi contribuenti dal prossimo 1° luglio e per tutti dal 2020). Mentre, per un altro verso, vengono riproposti istituti già utilizzati negli anni scorsi, dalla definizione delle liti pendenti alla rottamazione delle cartelle, arrivata alla terza edizione in due anni.
E c’è già chi scommette su un’estensione della rottamazione ai carichi affidati nel 2018 (ora si ferma al 31 dicembre 2017). O su un ampliamento alle imprese del saldo e stralcio – misura che prevede uno sconto anche sull’imposta, oltre che sulle sanzioni – sulla falsariga di quanto auspicato nei giorni scorsi dal vicepremier, Matteo Salvini. Di sicuro, nei prossimi 100 giorni si potrà capire se l’attesa per altre sanatorie avrà frenato l’appeal di quelle in corso.
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Cristiano Dell’Oste
Giovanni Parente

Nota di variazione Iva, il termine per l’emissione scatta dalla sottoscrizione del lodo

Dalla sottoscrizione e non dall’esecutività del lodo arbitrale che fa venir meno l’operazione scatta il termine di emissione della relativa nota di variazione Iva. Il termine ultimo per l’emissione della nota di variazione è determinata dall’articolo 19 del Dpr 633/72 e se già spirato non ammette mai la presentazione di una dichiarazione integrativa.

L’agenzia delle Entrate, con la risposta n. 55 di ieri (clicca qui per consultarla ), ha specificato alcuni principi relativi ai tempi ed ai modi di recupero dell’imposta relativa ad un’operazione correttamente fatturata, che è venuta meno in tutto o in parte. In particolare, l’Agenzia ha ribadito che la nota di variazione può essere emessa, anche oltre il decorso di un anno dal momento di effettuazione dell’operazione, in ipotesi di risoluzione, recesso e revoca del contratto che, nella pratica, si manifestano attraverso atti di accertamento negoziale o sentenze, tra cui fa rientrare anche il lodo arbitrale precisando, in questo ultimo caso, che il dies a quo per il computo del termine per l’emissione della nota di variazione è la data di sottoscrizione del lodo.

Una volta realizzatosi il presupposto per l’emissione della nota di variazione, occorre far riferimento al termine entro cui poter esercitare il diritto a detrazione dell’imposta che proprio dalla nota di variazione trae origine. Ebbene, in questo caso l’agenzia delle Entrate, richiamando la circolare 1/E del 2018 (in commento al Dl 50/2017), ha confermato che se i presupposti per l’emissione della nota di variazione si sono verificati ante 1° gennaio 2017, si applica la norma di cui all’art. 19, comma 1, vigente ratione temporis, secondo cui il diritto a detrazione poteva essere esercitato al più tardi con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione era sorto; mentre per tutte le note di variazione emesse successivamente a detta data, si applica l’art. 19 tutt’oggi vigente, secondo cui il diritto alla detrazione può essere esercitato al più tardi con la dichiarazione relativa all’anno in cui il diritto alla detrazione è sorto.

Con questa risposta, l’Agenzia ha sostanzialmente ribadito che il diritto a detrazione può essere correttamente esercitato con l’emissione della nota di variazione, secondo gli ordinari termini previsti dall’art. 19. Tuttavia, nel caso in cui la nota di variazione non sia stata emessa entro la suddetta data e i termini siano già spirati, non è possibile recuperare l’imposta versata presentando una dichiarazione integrativa a favore, in quanto, secondo l’Agenzia, mancano i presupposti per poter presentare la dichiarazione integrativa, non ravvisandosi alcun errore od omissione cui rimediare con riferimento all’anno di emissione della fattura originaria.

Per di più, non sarebbe nemmeno possibile sostenere che la mancata emissione della nota di variazione sia stato un errore commesso dal contribuente, che possa essere corretto; ciò in quanto l’emissione di una nota di variazione in diminuzione è una facoltà concessa al contribuente, cui lo stesso può rinunciare, e non un obbligo.

L’Agenzia conclude poi con un principio, secondo cui l’emissione di una nota di variazione produce effetti diversi dalla dichiarazione integrativa: mentre la prima assicura che sia rispettato il principio di neutralità dell’Iva, la dichiarazione integrativa consente il solo recupero dell’imposta versata in misura superiore, ma non anche il riversamento da parte di chi l’ha detratta.

Fonte “Il sole 24 ore”

Passaggio al forfettario, niente vincolo triennale anche se c’è opzione

Un’adesione di massa si profila nel regime forfettario da parte di persone fisiche che esercitano una attività di impresa o professionale.

Il regime è comodo e poco costoso tenuto conto che sul reddito determinato forfettariamente si applica l’imposta sostitutiva del 15%. Può anche essere applicata la percentuale del 5% nei casi in cui l’attività sia nuova, nel senso che chi la svolge non ha avuto la partita Iva nell’ultimo triennio, ovvero non prosegua l’attività già svolta come lavoratore dipendente o infine, se prosegue una attività mediante acquisto di azienda, questa deve avere avuto un ammontare di ricavi non superiore a 65.000 euro.

Inoltre, nel regime forfettario le operazioni non sono soggette a Iva e quindi se, da un lato, questa situazione genera un costo corrispondente all’Iva assolta sugli acquisti che non è detraibile, dall’altro, pone il forfettario in una situazione favorevole in quanto non fa pagare l’Iva al proprio cliente.

La manifestazione di Telefisco 2019 ha consentito di avere qualche punto fermo in questa fase iniziale relativamente alla possibilità di accesso al regime.

L’unico requisito di accesso è rimasto il limite di ricavi o compensi pari a euro 65.000, che deve essere verificato nel periodo di imposta precedente e quindi nel 2018. L’Agenzia ha confermato che, fatto salvo il rispetto dell’ammontare di ricavi, non ha alcuna rilevanza se il regime contabile adottato nel 2018 è frutto di una opzione. Infatti, l’Agenzia ha azzerato le opzioni in forza del principio contenuto nel Dpr 442/1997 che prevede che, in presenza di modifiche normative, il vincolo triennale previsto per le opzioni non opera. Quindi via libera a tutti.

Ci saranno anche i pensionati che svolgono una attività professionale di fine carriera che fino allo scorso anno non potevano essere forfettari, in quanto un requisito di accesso prevedeva che, in presenza di reddito di lavoro dipendente o pensione, l’importo annuo non fosse superiore a 30.000 euro.

Nel 2019, è prevista una causa di esclusione nel caso in cui il contribuente forfettario operi prevalentemente con il proprio datore di lavoro o con chi lo è stato nei due periodi di imposta precedenti. Anche in questo caso non conta cosa sia accaduto nel 2018 e, quindi, l’aspirante forfettario può anche aver operato esclusivamente per il proprio datore di lavoro o per chi lo è stato; l’importante è rispettare tale regola nel 2019 e cioè il forfettario deve operare prevalentemente per altri soggetti.

Occorre considerare anche l’altra nuova causa ostativa e cioè il possesso di partecipazioni in società di persone oppure essere coadiuvanti nell’impresa familiare, nonché possedere una partecipazione di controllo in società a responsabilità limitata la quale svolga un’attività riconducibile a quella del proprio socio che la controlla. Nelle risposte di Telefisco, l’Agenzia ha precisato che anche questa causa di esclusione deve cessare nell’anno precedente e quindi i contribuenti che vogliono aderire al regime forfettario nel 2019 dovevano essere liberi da queste partecipazioni al 1° gennaio di tale anno. L’eventuale acquisto di una partecipazione nel 2019 genera la decadenza dal regime dal 2020 ma se viene ceduta entro la fine di quest’anno non preclude il regime.

Fonte “Il sole 24 ore”

Per esterometro e spesometro proroga «lunga» al 30 aprile

Dopo soli 45 giorni del nuovo anno si riapre la stagione delle proroghe fiscali. Un atto dovuto, dicono i professionisti e le imprese già ampiamente sotto pressione per l’avvio della fatturazione elettronica e che a più riprese hanno chiesto ai vertici dell’amministrazione finanziaria e a quelli di Governo una razionalizzazione delle scadenze degli adempimenti. A partire da quelli di fine febbraio dove in calendario alla data del 28 sarebbe previsto l’invio dei dati delle fatture da e per l’estero, il cosiddetto «esterometro», il secondo semestre o il terzo trimestre 2018 dello spesometro e l’invio delle comunicazioni delle liquidazioni Iva. Il tutto condito dal termine della moratoria delle sanzioni per la fatturazione elettronica. Richieste accolte dal sottosegretario all’Economia, Massimo Bitonci (Lega) che, in una nota diramata ieri, ha annunciato lo slittamento al 30 aprile la prima scadenza dell’esterometro e l’ultima dello spesometro. Slittamenti che dovranno essere formalizzati con un Dpcm.

In sostanza, professionisti e imprese avranno due mesi di tempo in più rispetto alla scadenza attualmente fissata al 28 febbraio per effettuare i due adempimenti. L’esterometro riguarda i dati delle fatture da e verso l’estero che quindi non transitano dal canale dello Sdi (Sistema di interscambio) da cui passano tutte le fatture elettroniche tra “privati” obbligatorie dal 1° gennaio scorso. Lo spesometro, invece, riguarda i dati delle fatture dell’ultima parte del 2018 (secondo semestre o terzo trimestre), visto che l’adempimento va in soffitta proprio con il debutto dell’e-fattura dal 2019.

Come ha spiegato Bitonci dal «confronto nel tavolo tecnico sulla concomitanza delle scadenze fiscali» sono emerse tutte le criticità sottolineate nelle ultime settimane da professionisti e imprese e in questo senso «si sono volute diversificare le scadenze per dare maggior respiro e tranquillità nelle operazioni degli addetti».

Nessuna possibilità di proroga al momento per le comunicazioni dei dati delle liquidazioni Iva che resta in scadenza il 28 febbraio, così come di un possibile allungamento della moratoria delle sanzioni sull’e-fattura. «Il differimento di spesometro ed esterometro è a costo zero per l’Erario e semplifica la vita di professionisti e imprenditori. Si tratta di un atto di buon senso».

Sui mancati rinvii è tornato ieri anche il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili (Cndcec), che venerdì scorso avevano chiesto ufficialmente una revisione del calendario al ministro dell’Economia Giovanni Tria e al direttore delle Entrate Antonino Maggiore. «Pur apprezzando il rinvio di queste due scadenze – ricorda il presidente Massimo Miani – ribadiamo tuttavia l’assoluta necessità di prorogare la moratoria sulle sanzioni per la tardiva trasmissione delle fatture elettroniche, i termini per la comunicazione delle liquidazioni periodiche Iva del quarto trimestre 2018 e l’invio dei dati per la predisposizione delle dichiarazioni precompilate».

I tributaristi dell’Int chiedono, invece, che venga emanato in tempi rapidi il Dpcm e di riaprire il dossier delle semplificazioni fiscali. Il disegno di legge presentato alla Camera dalla maggioranza è, infatti, rimasto fermo e verrà, con tutta probabilità, “svuotato” delle norme di deregulation che prevedono costi per lo Stato.

La partita della revisione del sistema fiscale dovrebbe passare da un intervento ad ampio raggio. La Lega con i sottosegretari Bitonci e Garavaglia sta lavorando a una riduzione della prima aliquota Irpef dal 23% al 20% e del taglio di quattro punti dell’aliquota Ires.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Stop a mini cartelle per 32 miliardi non più incassabili

Pace fiscale. Cancellati i debiti fino a mille euro per 12,6 milioni di contribuenti ma restano in sospeso i carichi affidati dall’Inps La perdita di gettito stimata risulta di 524 milioni di euro
Sono circa 13 milioni i contribuenti ad aver beneficiato della cancellazione delle micro-cartelle fino a 1.000 euro. Più che di cartelle per l’esattezza si tratta di 114,44 milioni di “partite” affidate all’agente della riscossione tra il 2000 e il 2010 e che agenzia Entrate- Riscossione ha stralciato perché inferiori a “quota mille”. E se è vero che «la somma fa il totale» (per dirla alla Totò), lo stralcio dal magazzino della ex-Equitalia delle micro-cartelle calcolato in euro è pari a 32 miliardi.
Uno stralcio calcolato dall’amministrazione finanziaria e dal Governo, senza nessun allarme per la tenuta dei già deboli conti pubblici. Come si legge nella relazione al decreto legge fiscale collegato alla manovra che introduce la sanatoria delle micro-cartelle, si tratta di somme in assoluto non più recuperabili. Somme la cui cancellazione produce una perdita di 524 milioni, calcolata come il 3,5% del gettito di quasi 15 miliardi atteso dalla rottamazione-ter (11,1 miliardi), dalla rottamazione-bis per i pagamenti 2018 (821 milioni) e per i “confluiti” nella terza edizione della sanatoria (circa 3,1 miliardi). In sostanza la perdita di gettito per l’Erario è quanto non incasserà dalle rottamazioni proprio con le mini-cartelle del tutto stralciate.
Come anticipato, lo stralcio riguarda 114,4 milioni di «partite». Con questo termine si intende il valore riferito al singolo procedimento di controllo chiuso dall’amministrazione finanzairia con uno specifico atto impositivo, di liquidazione e di riscossione. Differente dal ruolo che invece rappresenta un insieme di partite affidate all’agente della riscossione.
Proprio sul valore delle singole partite, come anticipato su queste pagine, è in atto da fine anno un confronto tra Inps e amministrazione finanziaria. A tutt’oggi non sono state ancora cancellate le posizioni debitorie targate Inps. Lo stesso presidente dell’Istituto, Tito Boeri, ha reso noto nel corso dell’audizione al Senato sul reddito di cittadinanza e quota 100, di essere in attesa di un chiarimento del ministero del Lavoro proprio su come si deve intendere la soglia dei mille euro. Per l’Inps le sanzioni civili maturate nel corso degli anni vanno conteggiate ai fini del raggiungimento della soglia dei mille euro. Di diverso avviso il Mef che ha già chiarito all’Inps che la soglia va individuata nel valore originariamente affidato agli agenti (si veda Il Sole 24 Ore del 5 febbraio). E, prendendo per buona la percentuale del 13-14% sul peso delle cartelle Inps sul totale, si può ipotizzare che al momento resterebbe sospesa la cancellazione di centinaia di miliaia di partite “previdenziali e contributive” per un controvalore di circa 4 miliardi.
Ma perché il Fisco ha rinunciato a recuperare cartelle per 32 miliardi di euro complessivi? Per circa oltre 4,3 miliardi di euro si tratta di partite relative a soggetti deceduti e a imprese che hanno cessato qualsiasi attività. Altra quota di pesa, sopra i 3,2 miliardi, invece, sono debiti di nullatenenti o di soggetti non presneti nell’anagrafe tributaria. Ci sono poi i falliti o con procedure concorsuali in corso e, anche se in minima parte, contribuenti con debiti sospesi per provvedimenti amministrativi o per contenziosi in atto.
Insomma si tratta di micro-cartelle impossibili o quasi impossibili da incassare e su cui lo Stato, per altro, negli anni ha dovuto sostenere dei costi. Basti pensare alla continua attivazione di atti interruttivi della prescrizione o di iniziative di azioni di recupero pressoché inefficaci. Inoltre con la cancellazione di queste cartelle si evita di anticipare e poi imputare agli enti creditori le spese per procedure cautelari ed esecutive nell’inutile tentativo di recuperare micro-somme di difficile o impossibile esazione.
Tra le curiosità merita attenzione la distribuzione territoriale delle micro-cartelle cancellate. La Campania con oltre 20 milioni e mezzo di partite stralciate e con un controvalore di 5,1 miliardi si colloca al primo posto della classifica seguita dai circa 18 milioni di partite per 4,7 miliardi e la Lombardia con 15,7 milioni di poste cancellate (4,5 miliardi di valore complessivo).
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Marco Mobili

Spese sanitarie, dati online in tempo reale

Non bisognerà più attendere la dichiarazione dei redditi precompilata. Sarà infatti possibile consultare in tempo reale le spese trasmesse al Sistema tessera sanitaria. Lo ha annunciato ieri il ministero dell’Economia.
Basterà collegarsi al portale www.sistemats.it per accedere ai nuovi servizi telematici rivolti a tutti i cittadini. In questo modo, si avrà immediatamente a disposizione il quadro delle informazioni inviate per la predisposizione della precompilata da parte dell’agenzia delle Entrate.
Più nel dettaglio, è possibile consultare i propri dati di spesa sanitaria relativi agli anni 2017, 2018 e 2019. Potranno essere esportati e analizzati attraverso statistiche, come la ripartizione delle spese, sia per tipologia di erogatore che per tipologia di spesa, con la relativa distribuzione mensile.
I contribuenti potranno anche segnalare immediatamente eventuali incongruenze, sia relative agli importi che alla classificazione delle spese. Le segnalazioni saranno girate direttamente al soggetto che ha effettuato l’invio: questo potrà poi procedere all’eventuale correzione dell’anomalia. Questa funzionalità sarà disponibile per i dati relativi all’anno 2019 (quindi, fino al 31 gennaio del 2020).
Allo stesso modo, sarà anche possibile esercitare l’opposizione all’invio dei dati alle Entrate: in questo modo non entreranno nella dichiarazione dei redditi precompilata. Questa funzionalità è disponibile annualmente, solo nel mese di febbraio. Seguendo, così, le indicazioni condivise con il Garante per la privacy. Il Sistema tessera sanitaria non renderà disponibili all’Agenzia i dati per i quali risulti richiesta di opposizione. L’accesso al servizio di consultazione sarà possibile tramite Spid, tessera sanitaria, e credenziali «Fisconline» rilasciate dall’agenzia delle Entrate.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”

Il datore forfettario non versa le tasse per il dipendente

In busta paga retribuzione lorda, imponibile e ritenute previdenziali
Il lavoratore dovrà presentare autonomamente il 730 o il modello Redditi
La legge di bilancio 2019 (la 145/2018) ha modificato la legge 190/2014 intervenendo sulle disposizioni che regolamentano il regime contabile forfettario. Ora si prevede che i contribuenti – persone fisiche esercenti attività d’impresa, arti o professioni – che nell’anno precedente hanno conseguito ricavi/compensi non superiori a 65.000 euro, rientrino automaticamente nel regime forfettario.
La nuova disciplina presenta una sostanziale differenza rispetto al regime in vigore sino al 2018, poiché non prevede più, come causa di esclusione dal regime, l’aver sostenuto spese per un ammontare complessivamente superiore a 5.000 euro lordi per lavoro accessorio, per lavoratori dipendenti e collaboratori. Il venir meno di tale limitazione amplifica la portata della disposizione, potendo giungere sino al coinvolgimento di datori di lavoro.
In tale ottica, assume particolare rilievo quanto disposto dall’articolo 1, comma 69, della legge 190/2014 nella parte in cui afferma che i soggetti a cui si applica il regime fiscale forfettario non sono tenuti a operare le ritenute alla fonte (Dpr 600/1973, titolo III). Essi devono solo indicare nella loro dichiarazione dei redditi (nel quadro RS del modello Redditi vi è una sezione dedicata), il codice fiscale del percettore dei compensi che – all’atto del pagamento – non sono stati assoggettati a ritenuta fiscale.
Le ricadute, in ambito lavoristico, sono molteplici. Emerge su tutte la necessità di prevedere una busta paga che sia adeguata alla nuova “tipologia” di datore di lavoro forfettario. Il cedolino (in teoria già quello di gennaio 2019) dovrà essere emesso con la sola indicazione della retribuzione lorda, dell’imponibile e delle ritenute previdenziali. Resta il fatto che per il dipendente si tratta pur sempre di reddito di lavoro dipendente da dichiarare e da tassare; operazione che il lavoratore dovrà eseguire autonomamente, presentando il 730 o il modello Redditi.
Altro aspetto riguarda la dichiarazione da rilasciare al lavoratore con i dati del reddito corrisposto ancorché non tassato. Non essendo tenuto a operare e versare le ritenute, il datore di lavoro non dovrebbe rilasciare la certificazione unica parte fiscale, anche se, su questo aspetto, l’agenzia delle Entrate il prossimo anno potrebbe integrare le istruzioni della certificazione obbligando al rilascio pure chi si trova nella situazione descritta.
Una perplessità, tuttavia, resta riguardo ai rapporti di lavoro che si concludono in corso d’anno, vista la possibilità offerta al dipendente di chiedere l’emissione della Cu al datore che è obbligato a rilasciarla nei dodici giorni successivi (obbligo che sembra essere venuto meno). Se questo verrà confermato, di fatto, la tassazione definitiva del lavoratore subirà un rinvio al 2020 con conseguente slittamento sia dell’integrale pagamento del saldo Irpef per il 2019, sia del correlato acconto per il 2020.
Altro dubbio attiene alle addizionali del 2018 che vengono versate a rate nel 2019. Si dovrà chiarire se per questo aspetto il datore di lavoro forfettario resta – se pure temporaneamente – sostituto di imposta tenuto alla continuazione del prelievo.
Infine, ricordiamo l’esenzione dalla presentazione della dichiarazione dei redditi nei confronti di coloro che hanno percepito solo reddito di lavoro dipendente corrisposto da un unico sostituto d’imposta obbligato a effettuare le ritenute d’acconto. Poiché l’obbligo di effettuazione delle ritenute (da parte del datore di lavoro in regime forfettario) non esiste più, sembra decadere l’esenzione, rendendo quindi il lavoratore obbligato alla presentazione della dichiarazione dei redditi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Giuseppe Maccarone
Alessandro Mengozzi

Definizione causa a costo zero sulla sanzione legata al tributo

Definizione delle liti a costo zero se la controversia riguarda la sanzione collegata al tributo nel caso in cui quest’ultimo sia stato definito anche con modalità differenti dalla sanatoria. In tale contesto, diviene fondamentale comprendere quando la sanzione oggetto di lite sia, o meno, collegata al tributo. La distinzione non dipende né dalla impugnazione autonoma (o meno) del solo tributo, né dalla tipologia di atto utilizzato per l’irrogazione della sanzione (avviso di accertamento insieme alla richiesta dell’imposta ovvero atto separato).
Nel corso del Telefisco 2019, è stato richiesto se rientrino tra le sanzioni collegate al tributo (con gli effetti che ne conseguono ai fini della definizione della lite pendente) quelle irrogate a un terzo (amministratore di fatto, professionista ecc.) in concorso con una società e calcolate sulla base dell’imposta evasa da quest’ultima ove detta imposta sia stata successivamente versata in acquiescenza, attraverso istituti deflattivi o pace fiscale. L’Agenzia ha precisato che le sanzioni irrogate a un terzo in concorso con la società rientrano tra le sanzioni collegate al tributo e, pertanto, se il rapporto relativo al tributo sia stato definito con il pagamento del tributo stesso, la lite instaurata dal terzo può definirsi senza versare nulla.
In proposito, l’agenzia delle Entrate ha richiamato il contenuto della precedente circolare 23/2017. Tuttavia il quesito faceva riferimento sia agli amministratori di fatto, sia ai professionisti e il documento di prassi richiamato in merito al professionista precisava al tempo che la sanzione dovesse considerarsi autonoma e non collegata al tributo. Ciò, nonostante essa fosse corrispondente a quella irrogata al contribuente al quale era richiesta l’imposta.
Così l’agenzia delle Entrate, nella medesima circolare, concludeva che il consulente non poteva definire la lite a zero.
Dal tenore della nuova risposta sembra ora superata tale precedente interpretazione contenuta nella circolare 23/2017, ritenendo estensibile anche al professionista la definizione a zero.
Del resto, dovrebbe escludersi che nella stesura della risposta sia stato ignorato il contenuto del precedente documento di prassi, in quanto esso viene espressamente richiamato dall’agenzia delle Entrate nella risposta stessa proprio per affermare la natura di sanzione collegata al tributo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Laura Ambrosi

La notifica del ricorso chiude la lite con il 5%

Le Entrate a Telefisco: se l’avviso è pervenuto entro il 19 dicembre 2018
A Telefisco 2019 le Entrate hanno chiarito alcuni dubbi sulla definizione delle liti pendenti in Cassazione. Il Dl fiscale, in caso di vittoria del contribuente in entrambi i giudizi di merito, ha previsto la chiusura della lite con il pagamento del solo 5% delle imposte pretese. Circa il periodo temporale di riferimento, la norma lasciava qualche dubbio parlando dei ricorsi «pendenti innanzi alla Corte di cassazione», non chiarendo se fosse sufficiente la pendenza dei termini per l’impugnazione, la notifica del ricorso o la costituzione in giudizio da parte dell’Avvocatura dello Stato. L’Agenzia ha precisato che per definire la lite con il 5%, oltre alla soccombenza dell’Ufficio in tutti i precedenti gradi, occorre la notificazione del ricorso per cassazione entro il 19 dicembre 2018. Quindi beneficiano del pagamento del 5% delle imposte pretese, senza interessi e sanzioni, chi ha sentenza favorevole in Ctp e in Ctr e ha già ricevuto la notifica del ricorso in Cassazione da parte dell’Avvocatura entro il 19 dicembre 2018. Conseguentemente, chi si trova nella medesima situazione, ma ha ricevuto il ricorso dell’Avvocatura dal 20 dicembre in poi, potrebbe definire la lite con il pagamento del 15%.
Nel caso invece di giudizi intermedi in entrambi i gradi di merito, e ricorso pendente in cassazione, la definizione per la parte che ha dato ragione al contribuente va effettuata con il pagamento del 15% (resta fermo il 100% sulla quota di soccombenza).
Il momento rilevante per l’individuazione del dovuto coincide con il 24 ottobre 2018 e pertanto pronunciamenti successivi sono irrilevanti. L’unica eccezione attiene la decisione della Cassazione senza rinvio, una pronuncia definitiva che pregiudica la possibilità di definizione. La norma, infatti, consente di aderire alla sanatoria solo a condizione che alla data di presentazione della domanda non sia intervenuta pronuncia definitiva. In ogni caso, tale ipotesi può riguardare solo una decisione della Cassazione, poiché per le sentenze di merito (Ctp e Ctr) i termini di impugnazione sono automaticamente sospesi, con la conseguenza che, nelle more della presentazione della domanda, non possono divenire definitive.
Sussiste ancora qualche perplessità per l’importo da versare in caso di sentenza di rinvio della Cassazione. La norma dispone che le controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte l’Agenzia, aventi ad oggetto atti impositivi, pendenti in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello in Cassazione e anche a seguito di rinvio, possono essere definite con il pagamento del 100% del valore di lite. Ne consegue così che anche per il rinvio, secondo la regola generale, è dovuto il 100%. Il dubbio sorge perché la relazione al Dl 119/2018 precisava che con una sentenza della Cassazione con rinvio, la controversia si considera pendente in primo grado senza decisione. Il nuovo comma 1-bis ha previsto che per i ricorsi pendenti in primo grado, la definizione possa avvenire con il pagamento del 90% (non più 100%) del valore della controversia. Occorre comprendere se, in caso di rinvio, sia dovuto il 100% o il 90%.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Antonio Iorio

Nella definizione dei Pvc soltanto i maggiori imponibili

Nella dichiarazione solo elementi che derivano dal processo verbale
Per la definizione agevolata dei Pvc occorre presentare una particolare dichiarazione nella quale vanno indicati esclusivamente i maggiori imponibili (e le maggiori imposte dovute) derivanti dal processo verbale.
L’articolo 1 del Dl 119/2018 prevede che, ai fini della definizione dei processi verbali di constatazione, il contribuente deve presentare la «relativa dichiarazione per regolarizzare le violazioni constatate». In pratica, il contribuente deve inviare, per ciascun periodo d’imposta e per ciascuna imposta oggetto di constatazione, la relativa dichiarazione nella quale vanno indicati gli imponibili e le conseguenti imposte derivanti dal Pvc. La norma non la definisce espressamente come dichiarazione integrativa, anche perché la definizione agevolata può essere utilizzata anche da chi originariamente ha omesso di presentare la dichiarazione.
Nel Provvedimento delle Entrate del 23 gennaio scorso viene stabilito (punto 3.2) che occorre barrare nel frontespizio della dichiarazione relativa all’annualità oggetto di definizione la casella “correttiva nei termini” anche nel caso in cui è stata omessa la dichiarazione originaria. Probabilmente, tale modalità di indicazione si deve alla necessità di contraddistinguerla dalle altre dichiarazioni integrative (ad esempio, da quelle da ravvedimento operoso). Tuttavia, quello che risulta un po’ criptico, al di là della barratura della casella, è il fatto che nel Provvedimento (punto 3.1) si specifica che nella dichiarazione «a rettifica e integrazione di quanto originariamente dichiarato, sono indicati esclusivamente i maggiori imponibili, le maggiori imposte e gli elementi derivanti dalle violazioni constatate nel processo verbale». Sembrerebbe, in prima battuta, che a fronte di un reddito di 100 dichiarato originariamente e, ad esempio, di spese constatate come non inerenti per 60, il contribuente debba indicare nella dichiarazione solamente 60 e non 160. La cosa lascerebbe davvero perplessi perché sarebbero evidenti le difficoltà di calcolo, ad esempio, per i soggetti Irpef.
Il Provvedimento, sempre al punto 3.1, stabilisce che la modalità di indicare esclusivamente i maggiori imponibili e le maggiori imposte vale anche nel caso di omessa presentazione della dichiarazione. Da qui, forse, si comprende il significato di quanto stabilito dal Provvedimento. È chiaro, infatti, che se un contribuente ha omesso di presentare la dichiarazione non ha senso prevedere che lo stesso deve indicare esclusivamente i maggiori imponibili derivanti dalle violazioni constatate. Evidentemente, tutto ciò che andrà a dichiarare risulterà un maggiore imponibile. Così che l’affermazione contenuta nel Provvedimento va interpretata nel senso che il contribuente, nella dichiarazione che presenta a seguito dell’adesione agevolata al Pvc, dichiara “esclusivamente” ciò che deriva dal processo verbale stesso. In sostanza, nella specifica dichiarazione non possono trovare luogo altre vicende che non derivano dal verbale. Ad esempio, il contribuente non potrà indicare nuovi componenti negativi di reddito non riconosciuti dal verbale e non indicati nella dichiarazione originaria, così come non potrà indicare altri componenti positivi non derivanti dal verbale (che fruirebbero della non sanzionabilità).
Questo appare il significato da attribuire alla previsione contenuta nel Provvedimento. Va ad ogni modo rilevato che la volontà sembra essere quella di non assegnare la natura di vera e propria dichiarazione integrativa alla dichiarazione che si presenta in seguito alla definizione agevolata dei Pvc. Anche se tale lettura determina più di qualche perplessità.
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Dario Deotto

Saldo e stralcio sui debiti dall’attività di liquidazione

Disco rosso al saldo e stralcio per gli avvisi bonari. Possono invece senz’altro rientrare nella nuova sanatoria tutti i debiti derivanti dalla liquidazione delle dichiarazioni, eseguite in base agli articoli 36 bis, Dpr 600/1973, e 54 bis, Dpr 633/1972. Si tratta delle prime significative risposte dell’agenzia delle Entrate, fornite nel corso di Telefisco, sulla nuova definizione agevolata della legge di Bilancio 2019.
La prima risposta era abbastanza scontata ma lascia ugualmente insoddisfatti. Non si può fare a meno di notare che da tutte le sanatorie della pace fiscale restano sempre fuori gli avvisi bonari. Il contribuente che, magari con fatica, è riuscito a tenere in piedi la rateazione degli avvisi, anche con un Isee basso, non potrà fruire dello stralcio, solo perché non si è in presenza di importi affidati all’agente della riscossione.
La seconda risposta presenta, invece, alcuni profili di interesse. La liquidazione delle dichiarazioni può determinare l’emersione sia di imposte dichiarate e non versate sia la richiesta di maggiori imposte per il disconoscimento, ad esempio, di oneri deducibili. Detto in altri termini, la procedura di cui all’articolo 36 bis può essere meramente liquidatoria, quando si limita al recupero dei tributi evidenziati in denuncia, oppure accertativa, quando si risolve nella rettifica dei dati dichiarati. Occorre stabilire se le iscrizioni a ruolo conseguenti possano, in entrambi i casi, beneficiare dello stralcio.
A ben vedere, nella normativa di riferimento si richiamano i debiti rinvenienti sia dall’omesso versamento di imposte risultanti dalla dichiarazione sia dalle attività di liquidazione sopra indicate. La formulazione di legge potrebbe prestarsi ad una duplice lettura. Da un lato, potrebbe arguirsi che i due requisiti debbano coesistere. Se così fosse, sarebbero ammessi allo stralcio gli omessi versamenti delle imposte dichiarate purché questi emergano dalle procedure liquidatorie, in base agli articoli 36 bis/600 e 54 bis/633.
Si ritiene, tuttavia, che non sia questo il senso della legge e che la particella «e» che connette le due fattispecie (omesso pagamento di imposte dichiarate, da un lato, e iscrizioni da 36 bis, dall’altro) abbia la funzione di ammettere entrambe, separatamente considerate, ai benefici di legge. Questo, se si vuole, anche per motivi di semplificazione, poiché non sarebbe stato sempre agevole riscontrare con precisione le ragioni del recupero. Si pensi, ad esempio, alla correzione di errori materiali di riporto di somme commessi dal contribuente: la liquidazione che ne scaturisce come sarebbe stata interpretata ai fini dello stralcio?
La risposta dell’Agenzia sembra confermare la lettura estensiva dell’ambito della definizione agevolata, poiché si riferisce a tutti i tributi rivenienti dalle ridette attività di liquidazione, senza distinzione alcuna.
È di interesse anche l’ulteriore precisazione in ordine ai tributi ammessi alla sanatoria. La norma, in effetti, non detta alcuna elencazione tassativa delle imposte definibili. Ciò che conta è che il debitore sia una persona fisica e che l’affidamento derivi dalla liquidazione delle dichiarazioni annuali. Ne consegue che nulla osta a che lo stralcio includa anche tutte le imposte sostitutive dell’Irpef che, in quanto tali, sono oggetto delle medesime procedure di controllo. Si pensi ad esempio alla cedolare secca sulle locazioni immobiliari. L’agenzia delle Entrate ha confermato l’esattezza di questa conclusione.
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Luigi Lovecchio

Niente regime forfettario per i medici «intramoenia»

Le prestazioni svolte nelle strutture ospedaliere assimilate a lavoro dipendente

Compensi fatturati dall’ente e poi liquidati all’interno della busta paga

Le prestazioni mediche intramoenia ospedaliera hanno natura di reddito di lavoro dipendente e quindi non rilevano ai fini del regime forfettario. Questa in sintesi la risposta fornita dal Mef al question time in commissione Finanze alla Camera presentato da Giulio Centemero (Lega).
L’interpellante aveva posto il problema dell’applicazione del regime forfettario (legge 190/2014, articolo 1 comma 57 come risulta dopo le modifiche di cui alla legge n. 145/2018) per i medici lavoratori autonomi che hanno avviato l’attività con partita Iva prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni, i quali potrebbero essere penalizzati da un’interpretazione retroattiva della norma.
Lucida la risposta ministeriale, secondo cui la nuova causa ostativa al regime forfettario relativa ai rapporti con il proprio datore di lavoro non può avere effetti retroattivi; anzi, dal 2019 è più facile rientrarvi. Infatti, in passato un lavoratore dipendente o assimilato con reddito annuo di importo superiore a 30mila euro non poteva applicare il regime forfettario, mentre dal 1° gennaio 2019 questo è consentito, a condizione che con la partita Iva operi prevalentemente con soggetti diversi dal proprio datore di lavoro.
Ma la precisazione ministeriale riguarda in particolare la prestazione medica intramoenia che nulla ha a che fare con il regime forfettario. Infatti, i compensi percepiti dai medici del Servizio sanitario nazionale in relazione all’attività intramoenia (quindi nella sede del servizio medesimo) costituiscono redditi assimilati ai redditi di lavoro dipendente e quindi non possono rientrare nel regime forfettario.
Infatti, le prestazioni professionali svolte dai medici all’interno della struttura ospedaliera oltre l’impegno di servizio vengono fatturate dall’ente ospedaliero e vengono liquidate nella busta paga del medico dopo aver trattenuto una quota per le spese di struttura. Quindi, il medico non fattura nulla al paziente che ha chiesto la visita medica. Anche ai fini dell’Irap, l’articolo 2 del Dlgs n. 446/1997 dispone che per i medici che hanno sottoscritto specifiche convenzioni con le strutture ospedaliere per lo svolgimento delle attività all’interno delle predette strutture non sussista l’autonoma organizzazione e quindi l’imposta regionale non sia dovuta.
La nuova norma prevede che il contribuente non possa accedere al regime forfettario se, in aggiunta al rapporto subordinato, questo operi con partita Iva prevalentemente con il proprio datore di lavoro o con chi lo è stato nei due periodi di imposta precedenti o con soggetti ad esso riconducibili.
Quindi, i medici ospedalieri se sono autorizzati ad operare anche privatamente possono applicare il regime forfettario qualora i compensi percepiti nel 2018 per le attività professionali siano risultati non superiori 65mila euro, fatturando le prestazioni ai clienti privati.
Invece, non possono essere forfettari se fatturano direttamente all’ente ospedaliero da cui dipendono o presso il quale erano dipendenti nei due periodi di imposta precedenti, a meno che il fatturato con l’ente non risulti inferiore a quello fatto con altri clienti.
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Gian Paolo Tosoni

Processo tributario telematico: attestano anche i difensori privati

Anche i difensori dei contribuenti potranno autenticare i documenti estratti dal fascicolo processuale e, in caso di spese di lite compensate, il contributo unificato rimane tutto a carico della parte privata. Sono questi i chiarimenti forniti dal Mef in occasione di Telefisco 2019 e pubblicati per la prima volta in questa pagina.
Attestazione di conformità
Tra le novità introdotte dal decreto fiscale (Dl 119/2018) in tema di processo tributario telematico c’è il potere di certificazione della conformità.
L’attestazione di fatto “garantisce” che la copia informatica (anche per immagine) di un atto processuale di parte, di un provvedimento del giudice o di un documento sia “identica” al suo originale o alla sua copia conforme su supporto analogico.
Il nuovo articolo 25-bis del processo tributario (Dlgs 546/1992) prevede che tale attestazione possa essere eseguita da «il difensore e il dipendente di cui si avvalgono l’ente impositore, l’agente della riscossione e i soggetti iscritti nel citato Albo per la riscossione degli enti locali» (secondo le modalità previste dal Codice dell’amministrazione digitale, Dlgs 82/2005).
La copia informatica o cartacea munita dell’attestazione di conformità equivale all’originale o alla copia conforme dell’atto o del provvedimento detenuto o presente nel fascicolo informatico. Nel compimento dell’attestazione, per espressa previsione normativa, i difensori e i dipendenti assumono a ogni effetto la veste di pubblici ufficiali.
Da una prima lettura della norma sembrava che tale possibilità di attestazione fosse riservata ai difensori della parte pubblica. Per questo motivo è stato posto un quesito in occasione di Telefisco 2019. Il Mef ha precisato che il nuovo articolo 25-bis è riferito ai difensori di tutte le parti, e quindi anche del contribuente, i quali potranno così estrarre copie e attestarne la conformità della copia. È stato altresì precisato che le attestazioni sono in esenzione del pagamento di eventuali diritti.
È un chiarimento utile alla vigilia del processo tributario telematico obbligatorio, infatti, dal prossimo 1° luglio: unitamente ad altre novità introdotte, come ad esempio le udienze in videoconferenza, consentirà effettivamente di gestire l’intero processo anche a distanza, con evidente beneficio in termini di spese per i contribuenti.
Spese di lite compensate
Un’altra questione controversa riguardava l’obbligo di restituzione da parte dell’ente impositore della metà del contributo unificato nelle ipotesi in cui il giudice tributario dispone la compensazione delle spese di lite. Il Mef ha innanzitutto precisato che il contributo unificato per il processo tributario è regolato da una specifica disciplina all’interno della quale non possono trovare applicazione, neanche in via analogica, le disposizioni previste per i processi civile e amministrativo.
Per il rito tributario, la Corte di cassazione ha individuato la natura di obbligazione ex legge del contributo unificato tributario gravante sulla sola parte soccombente, soltanto nel caso di espressa sua condanna alle spese del giudizio nelle statuizioni della sentenza (Cassazione 2691/2016 e 23830/2015). A ciò consegue che la restituzione del contributo unificato a carico del contribuente può avvenire solo in ipotesi di condanna alle spese di giudizio dell’ente impositore. Quando è invece disposta la compensazione, rimangono interamente a carico della parte privata, compreso il contributo unificato.
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Laura Ambrosi
Antonio Iorio

Fattura elettronica, da AssoSoftware un tracciato per la Gdo

Tra le grandi promesse della fatturazione elettronica, una in particolare ha contribuito alla sua recente entrata in vigore. Si tratta della possibilità di realizzare un’automazione completa dei processi amministrativi e gestionali grazie al trasferimento tra cedente e cessionario dei dati elaborabili presenti nella fattura elettronica.

In questo approfondimento voglio fare alcune considerazioni su quanto è stato effettivamente finora realizzato e su quanto c’è ancora da fare affinché questa promessa possa davvero considerarsi concretamente e pienamente mantenuta.

L’automazione dei processi legati al ciclo attivo di fatturazione, che preveda non solo la contabilizzazione delle fatture emesse, ma anche la riconciliazione con gli ordini, i Ddt, il magazzino, eccetera, senza l’intervento dell’operatore è una delle grandi promesse della fatturazione elettronica. Cui si collega inevitabilmente l’automazione, lato ciclo passivo, dei processi di contabilizzazione delle fatture di acquisto, con tutti i risvolti gestionali connessi.

Nella spinta all’automazione, stanno giustamente entrando – forse in modo un po’ dispotico – le imprese più strutturate, in particolare quelle della grande distribuzione (Gdo) che, godendo della posizione privilegiata di “grandi clienti”, stanno imponendo ai propri fornitori l’inserimento di una serie di informazioni appositamente codificate nella struttura Xml, che rendono possibile l’automazione dei processi gestionali.

La domanda che quindi sorge spontanea è: a che punto siamo oggi – che siamo entrati pienamente nell’era della fatturazione elettronica – con la digitalizzazione di tutti i processi amministrativi e gestionali? In altre parole, è tutto già pronto e perfettamente automatizzato, oppure c’è ancora qualcosa da fare? E quanto resta ancora da fare?

Chiaramente molto è stato fatto, ma evidentemente la risposta a questa domanda è si può fare ancora tanto. Risposta che porta sempre con sé l’obiezione che ci siamo tutti fatti cogliere impreparati su questi aspetti, che da anni sono decantati come vantaggi assoluti della fatturazione elettronica. In proposito ci sentiamo però in dovere di fare alcune utili riflessioni, anche di tipo tecnico. Suddividiamo l’analisi per punti:
•l’attuale struttura della fattura elettronica non contempla, se non marginalmente, l’indicazione strutturata di tutte le informazioni utili ad automatizzare tutti i processi gestionali;
•l’attuale struttura della fattura elettronica prevede però la possibilità di inserire in un formato non codificato, ma codificabile convenzionalmente tra le parti, ulteriori informazioni sia di corpo che di rigo.

Ne conseguono alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che poter acquisire già dal 1° gennaio 2019 in modo automatico sui propri gestionali la maggior parte dei dati delle fatture di acquisto (importi, descrizioni di rigo, aliquote e nature Iva, eccetera) è un primo passo molto importante, che rende la registrazione delle fatture più rapida e sicura rispetto alla digitazione manuale dei dati, ancorché l’operatore debba per il momento continuare a effettuare alcune operazioni manuali per completare la registrazione.

La seconda è che non è del tutto vero che si siano fatti tutti cogliere tutti impreparati su questi aspetti. Il problema è esclusivamente di comunicazione. Gli addetti ai lavori, che da anni conoscono l’attuale tracciato, il medesimo che dal 2014 è utilizzato per la fatturazione alla Pa, hanno ben chiaro da sempre che un’automazione condivisa sarà possibile e si potrà raggiungere quando, all’interno delle fatture emesse, i fornitori inseriranno tutte le informazioni necessarie, in modo strutturato ed elaborabile.

Ma che cosa significa «in modo strutturato ed elaborabile»? Si può già fare qualcosa? E se sì, perché non è stato già fatto? La risposta a questo legittimo interrogativo è complessa e richiede un esame articolato dei fatti.

La fattura elettronica è nata come obbligo – com’è noto a tutti – per esigenze fiscali, in particolare di controllo delle frodi in ambito Iva. Per questo motivo tutta la sua gestione è stata affidata dal nostro legislatore all’agenzia delle Entrate, che si è concentrata su tutti gli aspetti che riguardavano l’ambito fiscale.

Gli aspetti gestionali sono stati quindi lasciati alla libera impostazione degli stakeholders (tra cui le Gdo), che però sono molti e finora non si sono ancora organizzati per concordare soluzioni comuni.

L’unico soggetto che da subito ha proposto un tracciato codificato valido per tutti è proprio AssoSoftware, che da quasi due anni ha ufficializzato una codifica comune che utilizza i campi dedicati agli aspetti gestionali contenuti all’interno dell’attuale schema Xml ufficiale dell’agenzia delle Entrate. Si tratta di un tracciato pubblico e libero, visionabile sul sito istituzionale www.assosoftware.it e utilizzabile da chiunque sia interessato, senza vincolo alcuno, cui hanno aderito i principali produttori di software associati che ne garantiscono l’elaborabilità.

AssoSoftware inoltre, in qualità di socio di Uninfo (Ente italiano di normazione sulle tecnologie informatiche federato all’Uni), ha intrapreso un percorso di sviluppo e standardizzazione del suo arricchimento informativo che dovrebbe portare dapprima alla pubblicazione del documento tecnico come «Prassi di riferimento Uni» e a seguire a proporre al Cen (Comitato Europeo di Normazione) tale prassi come estensione italiana del prossimo standard europeo sulla fatturazione elettronica.

Dunque, per rispondere al quesito, sì si può già fare, tuttavia ben pochi soggetti si sono fino a questo momento potuti dedicare e hanno potuto richiedere le necessarie implementazioni dei propri software (il che è naturale, visto che il rischio di una proroga ci ha accompagnato fino al 1° gennaio 2019), per cui ci aspettiamo nei prossimi mesi un’evoluzione dei processi da parte di molti stakeholders che porteranno via via a un’automazione sempre più spinta dei processi.

Il nostro suggerimento, soprattutto nei confronti delle Gdo che hanno necessità particolari e specifiche, è quello di non adottare soluzioni proprietarie la cui implementazione da parte dei produttori software che realizzano le procedure informatiche costituirebbe un costo addebitabile esclusivamente a un solo loro cliente (il fornitore della singola Gdo), ma è invece di adottare il tracciato integrato AssoSoftware, che è un tracciato nazionale.
Ma facciamo un caso specifico: supponiamo che la richiesta della Gdo al proprio fornitore sia di far inserire all’interno del tracciato il «Centro di Costo/Punto Vendita» a cui destinare la merce acquistata, come si dovrebbe implementare il contenuto della fattura Xml?

Leggendo le specifiche tecniche del tracciato AssoSoftware vediamo che è previsto il codice «AswCenCost» proprio per identificare il centro di costo da parte del mittente. A questo punto usando le indicazioni delle specifiche tecniche andremo a implementare il blocco [2.2.1.16] AltriDatiGestionali utilizzando i seguenti tipi dato convenzionali:
•[2.2.1.16.1] TipoDato = “AswCenCost” nel caso di Centro di costo/Punto Vendita
•[2.2.1.16.2] riportare il valore del Centro di costo/codice del punto vendita destinatario della merce.

In questo modo il software della Gdo potrà elaborare le fatture in arrivo e smistarle/contabilizzarle correttamente.

Nel caso in cui il tracciato AssoSoftware dovesse rivelarsi non idoneo a gestire determinate problematiche, l’Associazione si rende disponibile – su richiesta che pervenga per il tramite dei propri associati o anche direttamente nel caso di Gdo di grande rilevanza – a integrare tale tracciato, senza costo alcuno per il richiedente. La soluzione proposta da AssoSoftware è chiaramente una soluzione di mercato, nata per far fronte a esigenze gestionali, che – come dicevamo poc’anzi – non essendo di interesse dell’agenzia delle Entrate sono state implementate in modo non codificato nell’attuale schema Xml.

L’auspicio è che, partendo dall’iniziativa di AssoSoftware, si apra un confronto vivo con tutti gli stakeholders interessati che porti a condividere codifiche e convenzioni di carattere gestionale per giungere veramente a un’unica «estensione nazionale della fattura elettronica».

Fonte “Il sole 24 ore”

Aliquota Iva ordinaria per le bevande proteiche

di Anna Abagnale e Benedetto Santacroce
Le cessioni di “gel energetici” e “bevande proteiche” sono soggette all’aliquota Iva ordinaria, e non a quella agevolata del 10% prevista al punto 80) della tabella A, parte III, allegata al Dpr 633/1972.

Con la risposta n. 12 di ieri, l’amministrazione finanziaria ritorna, dopo non appena dieci giorni (si veda risposta n. 8 del 18 gennaio 2019 e prima ancora risposta n.1 del 4 settembre 2018), sul tema del trattamento Iva applicabile agli integratori alimentari e ai prodotti nutrizionali.

La difficoltà del contribuente nello stabilire se prodotti di questo genere rientrino nella disciplina Iva agevolata, in quanto «preparazioni alimentari non nominate ne comprese altrove (v.d. ex 21.07) esclusi gli sciroppi di qualsiasi natura», è collegata alla diversa classificazione doganale che i prodotti in argomento possono subire in relazione alla loro composizione.

Nell’ultimo caso sollevato dal contribuente, l’agenzia delle Dogane aveva già classificato i prodotti con codice NC 2202 9919 e 2202 999, e non NC 21.06. Considerando che tale ultimo codice NC 21.06 corrisponde alla voce 21.07 della Tariffa doganale in vigore al 31 dicembre 1987, richiamata al punto 80) della Tabella A, parte III, allegata al DPR 633/1972, l’esclusione dalla stessa comporta di conseguenza l’esclusione dall’applicazione dell’Iva al 10%.

La correlazione fra i beni elencati nella tabella e le voci doganali non è sempre di facile interpretazione. In particolare, nei casi in cui non è menzionata né la relativa norma né la voce doganale, per stabilire la corretta aliquota Iva di un prodotto, occorre far riferimento alle comuni regole merceologiche di identificazione dei beni. Per questo motivo è necessario sempre verificare in dettaglio il caso concreto e rivolgersi alle amministrazioni finanziarie laddove sussistano delle difficoltà.

Fonte “Il sole 24 ore”

La Pec delle Entrate obbliga i sostituti d’imposta ad aggiornare i dati

La Pec con la quale l’agenzia delle Entrate rende noto al sostituto d’imposta che il suo consulente del lavoro, autorizzato alla ricezione dei risultati contabili dei modelli 730-4, ha comunicato la risoluzione del rapporto di delega, impone al datore di lavoro di provvedere all’aggiornamento dell’indirizzo telematico. Se non adempie, l’Agenzia cancella l’indirizzo e il sostituto è tenuto a compilare e a inviare entro il 7 marzo il quadro CT della certificazione unica. Lo precisa la circolare n. 3/E del 25 gennaio 2019 con la quale la Direzione centrale dei servizi fiscali sottolinea come diversi sostituti, nonostante l’invito formulato dall’Agenzia, non abbiano comunicato il nuovo indirizzo al quale devono essere inviate le risultanze dei modelli 730.

La questione trae origine dall’articolo 2 del decreto legislativo 175/2014 il quale, modificando l’articolo 16, comma 4-bis, lettera b), del Dm 164/1999, ha previsto che a partire dal 2015 i sostituti d’imposta devono comunicare, entro il 7 marzo, la sede telematica dove ricevere i modelli 730-4 attraverso il flusso informativo delle certificazioni uniche (Cu).

La comunicazione della sede telematica può essere effettuata con la Cu, attraverso la compilazione dell’apposito quadro CT, oppure con il modello “Comunicazione per la ricezione in via telematica dei dati relativi ai modelli 730-4 resi disponibili dall’Agenzia delle Entrate” (Cso). Il quadro CT è riservato ai sostituti d’imposta che trasmettono almeno una certificazione di redditi di lavoro dipendente e che non hanno presentato, a partire dal 2011, il modello Cso.

Tenuto conto che le Cu devono essere presentate entro il 7 marzo, e che sono considerate tempestive le Cu inviate entro 5 giorni dalla ricevuta di scarto, al fine di gestire i processi relativi all’acquisizione dei dati delle comunicazioni per la ricezione in via telematica dei modelli 730-4, dopo la prima metà del mese di marzo non è più consentito inserire all’interno della Cu il quadro CT. Ne consegue che l’Agenzia prenderà in considerazione solo i dati contenuti nell’ultimo invio effettuato entro la predetta data (circolare 4/E/2018). Il modello Cso è invece utilizzato dai sostituti d’imposta che non hanno presentato, a partire dal 2011, l’apposito modello Cso e che non hanno trasmesso il quadro CT, oppure nel caso in cui intendano variare i dati già comunicati a partire dal 2011 con il modello Cso o con il quadro CT della Cu. Detto modello deve pertanto essere utilizzato per modificare: la sede telematica propria o dell’intermediario già scelto; l’intermediario sostituito con altro intermediario; l’utenza telematica da Fisconline a Entratel; l’intermediario con il sostituto stesso o viceversa. Potrebbe però verificarsi che sia l’intermediario (normalmente il consulente del lavoro) a comunicare tramite Pec alle Entrate l’avvenuta risoluzione del mandato, a suo tempo conferitogli dal proprio cliente, per ricevere telematicamente i modelli 730-4. In tal caso l’Agenzia invia a quest’ultimo un messaggio Pec con il quale lo invita ad effettuare la variazione comunicando, con il modello Cso, il nuovo intermediario o la sostituzione dell’intermediario con se stesso.

Qualora il sostituto non adempia, l’Ade provvederà alla cancellazione dell’indirizzo telematico dell’intermediario che ha reso nota la cessazione del rapporto, con la conseguenza che il sostituto sarà tenuto in sede di trasmissione delle Cu, entro il 7 marzo, a compilare il quadro CT, per comunicare il nuovo indirizzo telematico non essendo più possibile avvalersi del modello Cso.

Fonte “Il sole 24 ore”

Interessi passivi, le modifiche sulla deduzione portano nuove penalizzazioni alle imprese

Modifiche a pioggia dal decreto di recepimento della direttiva antielusione, ma senza lo stravolgimento delle regole interne che erano in gran parte già allineate con i principi comunitari. Il Dlgs 142/2018 interviene su molte disposizioni del Tuir, ma non tocca la norma generale anti-abuso e neppure i principi base del sistema.

Fiscalità di vantaggio
Un’ampia area di modifiche ha riguardato le disposizioni sui paesi a fiscalità privilegiata e le relative ricadute in termini di imposizione di dividendi, capital gain e Cfc. Si tratta dell’ennesima riscrittura dei criteri di selezione dei paradisi fiscali, dopo l’abbandono delle «black list» sostituite appena tre anni fa da una analisi fai da te da parte dei contribuenti. Dal 2019, si cambia ancora per passare ad un doppio binario: test della tassazione effettiva per le partecipazioni di controllo e verifica della aliquota nominale per quelle sotto soglia, auspicando che le Entrate forniscano presto agli operatori istruzioni complete e, laddove possibile, modalità semplificate per svolgere i confronti richiesti dalla legge.

Gli interessi passivi
L’altro intervento correttivo si è focalizzato sulla disciplina degli interessi passivi. Il nostro Rol, in vigore da oltre 10 anni, era sostanzialmente adeguato ai criteri comunitari. Ciononostante, il legislatore ha inteso riscrivere l’intero articolo 96 del Tuir scardinando, tra l’altro, alcune regole poste a tutela dei contribuenti (il cui contenuto non pareva, peraltro, poter stimolare comportamenti “elusivi”) come l’esonero per gli interessi capitalizzati (da portare sotto Rol, con una forte penalizzazione per le imprese di costruzione) e quello per i mutui ipotecari delle immobiliari di gestione. Esonero, quest’ultimo, ripristinato a tempo di record dalla legge di Bilancio 2019. Si passerà inoltre dal semplice dato contabile a un parametro “fiscale”, cioè calcolato apportando alle voci del conto economico che rientrano nel Rol, le variazioni previste dal Tuir, con un effetto finale pressoché irrilevante, se non fosse per l’inutile complicazione nei calcoli dei contribuenti. Va invece nella giusta direzione di fornire regole chiare e certe, l’introduzione, dopo tanti anni di dubbi, di una definizione puntuale del concetto di intermediario finanziario ai fini fiscali.

Fonte “Il sole 24 ore”