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Salvi gli errori sui crediti non usati

di Marco Ligrani

In assenza di danno erariale, è illegittima l’iscrizione a ruolo del maggior credito erroneamente riportato in dichiarazione, se non utilizzato in compensazione, né chiesto a rimborso; tanto più se il contribuente lo ha emendato, anche in sede giudiziale, dimostrando la propria perfetta buona fede.

Con questa motivazione, la Ctr di Napoli (sentenza 7753/25/2017 – presidente Marenghi, relatore Spena), in linea con l’orientamento più recente della Cassazione, ha confermato l’annullamento integrale di una cartella di pagamento emessa a seguito del controllo formale di una dichiarazione Iva, con cui una curatela fallimentare aveva, erroneamente, esposto un credito maggiore di quello effettivo.

La vicenda muove dalla liquidazione delle imposte relative all’anno del fallimento, la cui dichiarazione presentava, come detto, un importo maggiore del dovuto. Il controllo automatizzato aveva, dunque, iscritto a ruolo la differenza (pari a circa 500mila euro), maggiorata di sanzioni e interessi, cui aveva fatto seguito la notifica della cartella di pagamento da parte dell’agente della Riscossione.

La curatela aveva, così, proposto ricorso, rilevando, tra l’altro, l’assenza di danno erariale, dovuto al fatto che il maggior credito non era stato, comunque, utilizzato, né in compensazione né, tantomeno, a rimborso.

Peraltro, preso atto dell’errore, la procedura lo aveva, comunque, corretto, successivamente alla notifica della cartella, nella prima dichiarazione utile, dimostrando, in tal modo, la propria buona fede.

Nella sua difesa, l’ufficio aveva chiesto la conferma del proprio operato, ma la Ctp lo aveva censurato, accogliendo le ragioni del fallimento.

Proposto appello, l’Agenzia aveva contestato che, indipendentemente dalla correzione postuma, la mancata presentazione della dichiarazione dell’anno successivo alla sentenza di fallimento impediva di provare la mancata utilizzazione del credito; per questa ragione, a suo dire l’iscrizione a ruolo andava confermata.

La Ctr, tuttavia, ha rigettato l’opposizione del Fisco, non solo perché innovativa rispetto al primo grado, ma anche nel merito.

In particolare, i giudici campani, ricordato il divieto di ius novorum in appello, hanno ribadito che l’eccedenza di credito, erroneamente esposta in dichiarazione, non aveva, comunque, causato alcun ammanco di liquidità nelle casse erariali.

Per altro verso, sotto il profilo soggettivo non vi era stato nessun utilizzo da parte della procedura, che, anzi, presentava un saldo Iva a credito nei confronti dell’erario.

Risultava, per questo, indubbia la buona fede della contribuente, tanto più evidente in quanto, nella prima dichiarazione utile, l’errore che aveva causato il recupero era stato, come detto, definitivamente corretto. È stato, così, confermato l’orientamento oramai consolidato in Cassazione, secondo il quale la correzione della dichiarazione dei redditi può avvenire senza alcuna limitazione e, pertanto, anche in sede contenziosa.

Quanto al merito della vicenda, i giudici hanno richiamato la recente pronuncia della Corte, che ha precisato come l’errore materiale, risultante dalla dichiarazione, non legittima alcun recupero in assenza di danno erariale, che sussiste solo a seguito e per effetto dell’utilizzo del credito non spettante (sentenza 2882/2017).

Fonte “Il sole 24 ore”

Dichiarazione fraudolenta con false fatture, il ravvedimento consente di patteggiare

Per accedere al patteggiamento in caso di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false è possibile aderire al ravvedimento: occorre infatti che il contribuente estingua completamente il proprio debito anche attraverso questa particolare regolarizzazione. A fornire questo principio è la Cassazione con la sentenza 5448/2018 depositata ieri.

La legale rappresentante di una società, imputata del reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false definiva il procedimento penale patteggiando la pena.

La Procura proponeva ricorreva per Cassazione lamentando che il giudice avesse omesso di verificare i requisiti necessari per il patteggiamento di questa tipologia di delitto.

In particolare, in base all’articolo 13-bis del Dlgs 74/2000, la pena patteggiata è subordinata per i reati tributari all’integrale estinzione del debito, compresi oneri e accessori, ovvero all’ipotesi di ravvedimento operoso.

I giudici di legittimità, riformando la decisione, hanno ritenuto fondato il ricorso. Innanzitutto la Cassazione ha rilevato che la nuova formulazione della norma stabilisce espressamente che per i delitti tributari, l’adesione al patteggiamento può essere chiesta dalle parti solo quando ricorre l’integrale pagamento prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, dei debiti, comprese le sanzioni amministrative e interessi ovvero in presenza di ravvedimento operoso. Fanno eccezione i reati di omesso versamento, di indebita compensazione di crediti non spettanti e di dichiarazione omessa o infedele, per i quali l’integrale pagamento anche tramite ravvedimento configura una causa di non punibilità.

Il reato contestato era di dichiarazione fraudolenta mediante fatture false per il quale l’integrale pagamento o il ravvedimento operoso avrebbero consentito l’accesso al patteggiamento.

Il giudice territoriale aveva omesso qualunque valutazione sulla sussistenza di uno dei due requisiti e di conseguenza che la sentenza doveva essere riformata.

La decisione fa emergere che l’interpretazione dell’amministrazione finanziaria, recentemente confermata a Telefisco 2018, secondo la quale questa tipologia di violazione non è ravvedibile (si veda Il Sole 24 Ore del 2 febbraio scorso), non è corretta. La circolare 180/E/1998 ha precisato che il ravvedimento non era possibile per regolarizzare infedeltà dichiarative riconducibili a condotte fraudolente, quali ad esempio l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. A tale conclusione l’Agenzia giungeva a seguito di una interpretazione restrittiva dell’articolo 13 del Dlgs 472 del 1997 secondo cui sono possibili le regolarizzazioni di «errori e di omissioni». Tuttavia con le novità introdotte nel sistema sanzionatorio penale tale interpretazione sembrava superata.

In occasione di Telefisco 2018, Entrate e Guardia di Finanza hanno sostanzialmente confermato l’esclusione del ravvedimento operoso per l’ipotesi di costi per operazioni inesistenti. La Cassazione ha ora chiaramente affermato che per accedere al patteggiamento, la norma prevede espressamente tale regolarizzazione, senza alcuna esclusione per tipologia di reato, e quindi anche l’utilizzo di fatture false può essere ravveduto.

Fonte “Il sole 24 ore”

Termine biennale per l’istanza di rimborso senza compilazione del quadro

Termine biennale per l’istanza di rimborso senza compilazione del quadro
La richiesta di rimborso del credito di imposta si ritiene formalmente corretta ai fini della prescrizione ordinaria decennale solo se è compilato l’apposito quadro in dichiarazione contenente l’importo di cui si richiede il rimborso mentre in assenza non si configura formale esercizio del diritto al rimborso e si rende applicabile l’articolo 21 del Dlgs 546/92. In questo caso l’istanza deve essere presentata entro due anni dalla data di presentazione della dichiarazione e in caso di contestazione dell’Amministrazione circa la sussistenza del credito di imposta il contribuente è onerato della dimostrazione dei presupposti della spettanza.
Ctp Roma, sentenza 26478/01/2017

Nel concordato preventivo con cessione di beni il liquidatore non resiste in giudizio

ACCERTAMENTO E CONTENZIOSO
Nel concordato preventivo con cessione di beni il liquidatore non resiste in giudizio
Nell’operazione di concordato preventivo la legittimazione del commissario liquidatore è riconoscibile solo nei limiti in cui la pretesa e l’obbligo siano sorti nel corso ed in funzione delle operazioni di liquidazione. In tutti i giudizi, compresi quelli tributari il liquidatore non è legittimato ad agire o a resistere in qualità di rappresentante del debitore, che pure rimane soggetto passivo di imposta in relazione agli obblighi di natura tributaria maturati dopo l’ammissione alla procedura concordataria. Questo in quanto l’imprenditore soggetto al concordato preventivo prosegue l’esercizio dell’impresa durante lo svolgimento della procedura anche se questa prevede la cessione dei beni ai creditori.
Ctp Roma, sentenza 26477/01/2017

Investimenti esteri nel quadro RW solo se fruttiferi

L’obbligo di compilazione del quadro RW non concerne qualsiasi investimento ed attività estera di natura finanziaria, ma solo quelli potenzialmente idonei a produrre redditi di fonte estera imponibili in Italia. A queste conclusioni è giunta la Ctr Veneto con la sentenza 70/2/2018 (presidente Russo, relatore Lapiccirella).

L’agenzia delle Entrate aveva contestato a due coniugi di non aver dichiarato nelle rispettive dichiarazioni una somma depositata in un conto corrente cointestato acceso presso una banca francese. A parere dell’Ufficio, la normativa sul monitoraggio fiscale (Dl 167/90) avrebbe richiesto ai contribuenti l’obbligo di dichiarare le consistenze finanziarie estere, in quanto la sola disponibilità delle medesime costituirebbe una presunzione legale di redditività. I contribuenti, invece, avevano provato che le somma giacente presso la banca transalpina fosse infruttifera ed improduttiva di interessi, sostenendo quindi che queste attività non fossero suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia.

Richiamando il disposto letterale dell’articolo 4 del citato Dl 167/90, i giudici veneti hanno confermato la sentenza di primo grado, accogliendo nel merito l’eccezione del contribuente che, nel giudizio di prime cure, era stata invece assorbita dal difetto di sottoscrizione dell’atto impugnato.

Per il Collegio lagunare, «la lettera della legge è chiara – debbono esistere redditi prodotti all’estero, che nel caso che occupa sono assenti – ma anche lo spirito della norma depone a favore di un obbligo dovuto almeno alla potenzialità reddituale – anche questa assente».

Quindi, un conto corrente infruttifero non può attribuire al contribuente alcuna potenzialità reddituale, poiché se il legislatore avesse voluto prevedere l’obbligo di dichiarazione per qualunque allocazione di risorse finanziarie estere avrebbe in tal senso formulato il disposto del citato 4. Tale circostanza, invece, non è avvenuta nemmeno con la riformulazione operata dalla legge 97/2013.

Il tenore letterale della norma, quindi, esclude l’obbligo di monitoraggio di ogni asset oltreconfine, prevedendone la necessità solo per quelli suscettibili di produrre un reddito imponibile in Italia. In sede interpretativa, invece, l’agenzia delle Entrate ritiene produttive di reddito da monitorare anche le citate attività finanziarie estere (circolari 38/2013 e 45/2010) e tra le rarissime sentenze che si sono occupate in passato della questione in argomento va segnalato un pronunciamento della Commissione tributaria di II grado di Bolzano (n. 48/2/14) che, anche in quel caso e poiché “in claris non fit interpretatio”, aveva statuito la non necessità di monitorare nel quadro RW un finanziamento infruttifero, confermando come il principio di legalità sancito in ambito tributario dall’articolo 3 Dlgs 472/97 ed il suo corollario principio di tassatività impongano una lettura molto rigorosa del chiaro disposto normativo.

Va infine segnalato che, per la novità della materia del contendere, i giudici veneziani hanno individuato un’idonea motivazione per derogare al principio di soccombenza e compensare tra le parti le spese di giudizio.

Fonte “Il sole 24 ore”

Per la Cassazione le nuove regole sull’imposta di registro non hanno effetto retroattivo

La Cassazione non molla l’osso sull’utilizzo dell’articolo 20 del Testo unico del registro (Dpr 131/1986), nella versione vigente fino al 31 dicembre 2017, per riqualificare gli atti sottoposti alla registrazione a seconda del loro significato economico, dando rilevanza interpretativa anche a elementi extratestuali e al collegamento tra una pluralità di atti. Con la sentenza n. 2007 del 26 gennaio 2018, la Cassazione ha infatti sancito che la modifica della legge di Bilancio non ha valenza retroattiva e che, quindi, per tutte le fattispecie originatesi prima del 1° gennaio 2018, l’articolo 20 non può essere letto – nel modo indicato dal suo nuovo testo – come riferito al solo atto presentato per la registrazione e al suo contenuto giuridico.

Dalle sentenze del 2008 (n. 30055, 30056 e 30057), con le quali la Cassazione ha ritenuto l’esistenza di un immanente principio anti-elusivo, derivato dall’articolo 53 della Costituzione, la giurisprudenza di legittimità si è schierata per utilizzare l’articolo 20 del Tur, in un primo tempo, come la norma anti-elusiva nell’ambito dell’imposta di registro e, da ultimo, come norma che legittima la tassazione della sostanza economica degli atti presentati per la registrazione, tenendo conto anche del loro eventuale collegamento.

Ne è prova l’inversione di rotta sulla questione (share deal/asset deal) della riqualificabilità della cessione di quote societarie come cessione di azienda: dapprima negata (ad esempio, Cassazione 27 dicembre 1948; Commissione centrale a Sezioni unite 38977/1952 e Commissione centrale 3636/1981; Cassazione 5862/2003) e poi affermata dal 2008 al 2015 in molte occasioni.

Ebbene, si presumeva che, nell’estate 2015, con l’introduzione della norma anti-elusiva generale di cui all’articolo 10-bis dello Statuto del contribuente, la tenzone tra la giurisprudenza di legittimità e il “resto-del-mondo” terminasse: e cioè che l’articolo 20 del Dpr 131/1986, tornasse a svolgere il suo ruolo di norma interpretativa degli effetti giuridici del singolo atto presentato per la registrazione e che le contestazioni in termini di elusività (e di significato economico dell’attività giuridica) fossero formulabili dall’amministrazione e giudicabili dalla giurisprudenza con modalità, procedure e garanzie di cui all’articolo 10-bis dello Statuto del contribuente.

Mai previsione fu meno azzeccata. La Cassazione (con l’unica eccezione della sentenza 2054/2017, sconfessata dalla giurisprudenza successiva) ha continuato a ritenere l’articolo 20 vocato alla tassazione della “causa reale” degli atti presentati alla registrazione (ad esempio, sentenze 25001/15 e 11873/17), tanto che il legislatore ha dovuto far dire all’articolo 20 quel che l’opinione dominante (eccetto la Cassazione) già riteneva dicesse, e cioè che si tratta di una norma preordinata a tassare il mero significato giuridico del singolo atto presentato alla registrazione.

Il legislatore ha però dimenticato di esplicitare la natura retroattiva della modifica, alla quale si allude solo nei lavori preparatori della legge di Bilancio. Con la conseguenza che è facile per la Cassazione nella sentenza 2007/2018 utilizzare tutta la retorica che viene utile in casi come questo: parlando di «modifica» il legislatore avrebbe inteso significare che il nuovo articolo 20 ha una portata «prettamente innovativa» e che dal suo «dato letterale» si dovrebbe desumere che il legislatore ha voluto operare una «rivisitazione strutturale e antitetica della fattispecie impositiva pregressa».

La Cassazione insomma non ci sta a sentirsi dire come l’articolo 20 del Dpr 131/1986 avrebbe dovuto essere interpretato ante 2018. E c’è da pensare che non sia finita qui, quando si legge, nella sentenza 2007/2018, che il collegamento negoziale e la rilevanza degli elementi extratestuali, fuoriusciti ipso iure dall’articolo 20 del Dpr 131/1986, sono ora di possibile «recupero» nei giudizi dove si applicherà l’articolo 10-bis dello statuto del contribuente. Non è irrealistico prevedere che sulla vicenda share deal/asset deal l’arbitro disporrà un recupero e che la parola “fine” sia ancora tutta da scrivere.

Fonte “Il sole 24 ore”

La consegna non salva dalla frode Iva

Nelle frodi “carosello” la prova della non consapevolezza dell’acquirente, che salva la detrazione dell’Iva, non ruota attorno alla regolarità delle scritture contabili o al fatto che la merce sia stata effettivamente consegnata e pagata, ma alla impossibilità di conoscere, con la normale diligenza imprenditoriale, il carattere fraudolento dell’operazione. È questo il principio stabilito dalla Ctr Lazio nella sentenza 3404/19/2017 del 13 giugno scorso (presidente Lentini, relatore Terrinoni).

Il caso
L’agenzia delle Entrate contestava ad una Srl l’indebita detrazione dell’Iva derivante da operazioni ritenute soggettivamente inesistenti (operazioni reali ma tra soggetti diversi da quelli indicati in fattura) perché intervenute con società “filtro” coinvolte in un sistema di frodi.

La società proponeva ricorso contestando l’assenza della prova circa la propria consapevolezza dell’attività fraudolenta realizzata dai cedenti. Il ricorso veniva accolto in primo grado.

La decisione
L’Agenzia proponeva appello. La Ctr Lazio, ribaltando la decisione di primo grado, ha ritenuto fondato l’avviso di rettifica valorizzando la presenza di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti addotti dall’ufficio. In particolare, l’assenza di attività commerciale e struttura organizzativa dei fornitori, testimoniata dalla mancanza di una sede societaria e di beni strumentali, l’omissione della dichiarazione dei redditi e dei versamenti Iva comproverebbero la soggettiva inesistenza delle operazioni.

Di contro, secondo la Ctr, la dimostrazione da parte del contribuente del transito delle merci e del pagamento delle relative fatture non sarebbe rilevante, né può ritenersi decisiva la regolarità delle scritture contabili poiché tali circostanze non escludono la possibile ricorrenza di un meccanismo di frode Iva (si veda Cassazione, sentenza 8011/2013 e ordinanza 10252/2013). La prova della buona fede della società accertata non può far leva quindi su tali elementi e sulla generica affermazione della non partecipazione alla frode, occorrendo dimostrare la propria estraneità e il non avere avuto conoscenza o conoscibilità dell’intera operazione.

L’onere della prova
La tematica del diritto alla detrazione dell’Iva in presenza di fatture per operazioni inesistenti, su cui pende anche un giudizio davanti alla Corte di giustizia Ue a seguito dell’ordinanza di rinvio della Ctr Lombardia 1714/1/2017 dello scorso 10 novembre, è sempre attuale. Se ne è occupata anche la circolare 1/2018 della Gdf che, richiamando il prevalente orientamento giurisprudenziale (Cassazione 5406/2016), sottolinea come la sussistenza di una frode Iva debba essere adeguatamente dimostrata in primis dagli organi di controllo.

Le regole sulla distribuzione dell’onere della prova (Cassazione 25538/2017 e 25545/2017) in tema di fatture soggettivamente inesistenti prevedono che sia l’ufficio a dare dimostrazione dell’accordo fraudolento posto in essere tra interposto e interponente, nonché della consapevole partecipazione alla frode dei vari soggetti coinvolti (ovvero il fatto che questi «sapevano o avrebbero dovuto sapere») attraverso elementi anche presuntivi (articolo 2727 del Codice civile). Spetta invece al contribuente provare la corrispondenza anche soggettiva tra l’operazione di cui alla fattura e quella in concreto realizzata, ovvero l’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale ingenerato dalla condotta del cedente.

Su queste basi, sarà poi il giudice di merito a valutare, caso per caso, se la condotta del cessionario (al quale non si possono comunque chiedere prove diaboliche) risponda alla diligenza ragionevolmente esigibile e faccia salvo, a differenza di quanto ritenuto dalla Ctr Lazio, il diritto alla detrazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Buchi di inventario giustificati

di Laura Ambrosi

È illegittima la rettifica dei ricavi per differenze inventariali se per la mole dei volumi trattati dal contribuente potrebbe essersi verificato un errore umano nella quantificazione. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 439 depositata ieri.

L’agenzia delle Entrate notificava a una società un avviso di accertamento con il quale disconosceva la deducibilità di costi infragruppo e presumeva ricavi non fatturati in conseguenza di una differenza inventariale rispetto alle giacenze. Il provvedimento veniva impugnato e i giudici di merito rigettavano l’eccezione. L’articolo 4 del Dpr 441/97 disciplina le presunzioni che possono conseguire alle differenze inventariali riscontrate in sede di accesso. Più precisamente, la norma consente di presumere ceduti senza fattura i beni che non si trovano nei depositi senza un’evidente ragione. In altre parole, si considera ceduto in «nero» il prodotto acquistato di cui il contribuente non riesce a giustificare l’assenza dal magazzino. Una presunzione legale ai fini Iva in favore del Fisco, contro la quale l’impresa può opporre prova contraria.

La società impugnava in Cassazione la decisione lamentando, tra l’altro, che le differenze inventariali erano minime rispetto ai volumi trattati e potevano al più derivare da meri «errori umani» di quantificazione. Tanto più che l’Ufficio nella propria rideterminazione non aveva compensato le differenze negative e positive, limitandosi ad applicare la presunzione solo sui valori negativi.

Secondo i giudici di legittimità, in caso di differenze inventariali, ovvero differenze tra merci giacenti in magazzino e scritture di carico e scarico, opera una presunzione legale. Il contribuente è tenuto alla prova contraria e cioè che le merci non rinvenute siano state impiegate nella produzione, perdute o distrutte. Nella specie, la Ctr non aveva riconosciuto alcuna rilevanza all’esiguità dei valori e alla plausibile circostanza che la differenza potesse dipendere da errate quantificazioni da parte del personale addetto. La Cassazione ha così ritenuto che questi elementi possono rappresentare un’adeguata prova contraria prodotta dal contribuente. La decisione appare importante poiché esclude un’applicazione automatica della presunzione legale in favore di una valutazione di buon senso da parte del giudice.

Fonte “Il sole 24 ore”

Il cedente detrae l’Iva se si dimostra estraneo alla frode messa in atto dall’esportatore

Quando la dichiarazione d’intento dell’esportatore è ideologicamente falsa, per la non imponibilità delle cessioni alle esportazioni effettuate nei confronti di esportatori abituali, occorre che il cedente dimostri l’assenza di un suo coinvolgimento nella frode accertata. Lo ha affermato la Cassazione nella sentenza 31116 del 29 dicembre.
Una Srl ha impugnato l’avviso di accertamento con il quale l’ufficio aveva recuperato anche l’Iva 2002, detratta indebitamente per le cessioni di veicoli in sospensione di imposta, su dichiarazioni di intento presentate dal cessionario. Nei gradi di merito il giudizio è risultato favorevole alla società. Non così in Cassazione dove l’Agenzia ha lamentato come la Ctr aveva erroneamente ritenuto sufficiente che, ai fini della non imponibilità Iva e dell’esclusione della compartecipazione nell’illecito ascritto al cessionario, esportatore abituale, la cedente dimostrasse solo la regolarità formale della dichiarazione d’intento.
In particolare, i giudici di legittimità hanno richiamato il principio (n.12751/11) secondo il quale la non imponibilità Iva dei beni destinati all’esportazione (subordinata alla dichiarazione scritta di responsabilità del cessionario e al possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi previsti dall’articolo 8, comma 1, lettera c, Dpr 633/72) viene meno se viene accertato che i beni non sono stati effettivamente esportati e che la dichiarazione è ideologicamente falsa. In tali ipotesi, il cedente è esonerato dall’obbligo di assolvere l’Iva su tali beni solo se dimostra di aver adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere per escludere la sua partecipazione alla frode e quindi che, anche usando la diligenza propria dell’imprenditore avveduto operante nel medesimo settore economico, non sarebbe potuto comunque venire a conoscenza dell’insussistenza dei presupposti necessari per qualificare il cessionario esportatore abituale (Cassazione, n.176/15 e n. 19896/16).

Nella fattispecie esaminata, la Cassazione ha concluso che, al di là del mero controllo formale dei documenti allegati dal cessionario, la cedente avrebbe potuto accertare agevolmente la qualità dei precedenti intestatari dei veicoli e degli anteriori cedenti, e cioè verificare, mediante l’acquisizione di dati di rapido reperimento rispetto a quelli allegati dal cessionario, se gli intestatari erano o meno legittimati a detrarre l’Iva. Ma così non è stato, poiché la società non ha adottato le ragionevoli misure in suo potere per escludere il proprio coinvolgimento nella frode accertata.

Fonte “Il sole 24 ore”

I tributi sono periodici: scatta la prescrizione quinquennale

Nei casi in cui venga eccepita la prescrizione del credito tributario , sotteso all’adozione di una misura cautelare a garanzia dello stesso, essa soggiace al termine più breve (quinquennale) piuttosto che a quello ordinario (decennale) , trattandosi di tributi periodici ai sensi dell’articolo 2948 del codice civile.
Questo il principio che emerge dalla sentenza della Ctp Milano n. 6797 del 6 dicembre 2017 (presidente e relatore DI ROSA).

Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici ambrosiani riguardava l’impugnazione da parte di un contribuente di un preavviso di fermo amministrativo adottato dall’ufficio sulla base di un credito derivate da alcune cartelle di pagamento per debiti Irepf, Iva e Irap.
Il ricorrente, fra i vari motivi di ricorso, eccepiva l’illegittimità del preavviso di fermo a causa della mancata notifica degli atti prodromici nonché la prescrizione del credito azionato.
L’ Ufficio, dal canto suo, difendeva l’atto cautelare emesso versando in giudizio la prova della notifica degli atti prodromici che legittimavano il preavviso di fermo impugnato.

I giudici milanesi preliminarmente confermano la validità degli atti prodromici alla misura cautelare opposta dal contribuente verificando la relativa documentazione versata in atti dall’ Ufficio; tuttavia è proprio da questo esame che giungono a dirimere la controversia a favore della parte privata in quanto gli atti prodromici erano stati notificati oltre il quinquennio rispetto all’adozione del fermo e non risultavano documentate ulteriori attività idonee ad interrompere il decorso del termine prescrizionale, che il Collegio identifica nell’articolo 2948 comma 4 del codice civile in considerazione della periodicità del tributo.

Il Collegio lombardo sembra implicitamente allinearsi alla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, n. 23397, che sembrava aver ormai definitivamente chiuso la questione stabilendo che le pretese tributarie si prescrivono nel termine “breve” di cinque anni, fatti salvi i casi in cui la sussistenza del credito non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato o tramite decreto ingiuntivo.
Un recente emendamento alla legge di Bilancio 2018 introdurrebbe nell’ordinamento una norma di interpretazione autentica ( ergo retroattiva) che, indipendentemente dal tipo di tributo, porterebbe la prescrizione da quinquennale a decennale, equiparandola all’ actio iudicati ex art. 2953 c.c.
La partita, quindi, come dimostra la sentenza in commento, sembra essere ancora aperta.

Fonte “Il sole 24 ore”

Gli articoli di cancelleria non concorrono al reddito d’impresa

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 30811 , del 22 dicembre 2017, ha respinto il ricorso dell’agenzia delle Entrate confermando la tesi dei giudici del merito: le rimanenze finali del materiale di cancelleria non rilevano come ricavi e non concorrono, secondo le disposizioni del Dpr 917/86, alla determinazione del reddito di impresa.

Una società ha impugnato dinanzi alla Ctp l’avviso di accertamento per l’anno d’imposta 1998, notificatole nel settembre 2005, con cui l’agenzia delle Entrate ha recuperato a tassazione rilevanti importi a titolo di imposte sul reddito e Irap, irrogando contestualmente, anche le relative sanzioni.
La Ctpha rigettato il ricorso della società che è stato appellato davanti alla Ctr; i giudici tributari del merito di secondo grado, riassumendo in sintesi la vicenda, hanno invece, dichiarato la legittimità delle deduzioni delle spese di cancelleria sostenute dalla società.
Avverso la sentenza sfavorevole l’agenzia delle Entrate è ricorsa in Cassazione.

Con riferimento alla parte della sentenza che interessa il presente commento l’agenzia delle Entrate denuncia, nel ricorso in Cassazione, la violazione del Dprn. 917/1986, ex artt. 53 e 59 (ora artt. 85 e 92), nella formulazione vigente ratione temporis, dovendosi includere le rimanenze finali del materiale di consumo (nella specie, materiale di cancelleria) nei ricavi.
Per i giudici di legittimità, la tesi sostenuta dall’agenzia delle Entrate è infondata in quanto gli articoli di cancelleria non costituiscono né beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività d’impresa, né materie prime e sussidiarie, semilavorati e altri beni mobili acquistati o prodotti per essere impiegati nella produzione di beni da parte della contribuente, che è società avente ad oggetto la produzione di componenti di auto.
Per i giudici di legittimità, di conseguenza, le relative rimanenze finali non possono concorrere alla formazione del reddito, ai sensi del combinato disposto del Dpr n. 917/1986, degli artt. 53 e 59 (ora artt. 85 e 92).
Non è condivisibile, rileva la Corte di Cassazione, la tesi sostenuta dall’agenzia delle Entrate, secondo cui il materiale di cancelleria, pur non partecipando direttamente al processo produttivo, deve essere ricompreso nelle rimanenze finali, analogamente a quanto avviene in sede civile ex art. 2423 ter c.c., visto che non può essere usato ripetutamente.

Per la Cassazione il ricorso va , pertanto , rigettato sulla base del principio che in tema di reddito d’impresa, le rimanenze finali del materiale di cancelleria non rilevano ai sensi del Dpr n. 917/86, ai fini della quantificazione dei ricavi di un’impresa che ha ad oggetto la produzione di articoli di diversa tipologia, trattandosi di beni che, pur non essendo destinati ad essere utilizzati ripetutamente, sono strumentali, in quanto non coinvolti direttamente nel processo produttivo, ma aventi solo funzione di supporto rispetto all’attività imprenditoriale.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Cedolare secca e uso abitativo: dai tribunali un’apertura verso i soggetti «non privati»

Quando si discute in merito all’applicazione del regime sostitutivo della cedolare secca, si fa essenzialmente riferimento agli immobili abitativi. L’articolo 3 del Dlgs 23/2011, rubricato «Cedolare secca sugli affitti», statuisce infatti che, in alternativa al regime ordinario vigente per la tassazione del reddito fondiario ai fini Irpef, il proprietario o il titolare di diritto reale di godimento di unità immobiliari abitative, locate a uso abitativo, può optare per il regime della cedolare secca.

Pertanto, dalla lettura della disciplina, emerge come siano soggettivamente legittimati all’applicazione del regime della cedolare secca, esclusivamente le persone fisiche che detengono gli immobili nella cosiddetta “sfera privata” e lochino i medesimi, senza che ciò rientri nell’esercizio di un’impresa o di una libera professione.

In altri termini, deve trattarsi di soggetti passivi Irpef che, in relazione alla locazione posta in essere, conseguano un reddito fondiario. Sulla base di tali considerazioni, la cedolare secca è stata, fino a oggi, preclusa ai locatori di immobili abitativi, che risultino soggetti passivi Ires, come individuati dall’articolo 73 del Tuir (Spa, Srl, società cooperative, enti commerciali, enti non commerciali, società ed enti di ogni tipo, compresi i trust, non residenti in Italia).

L’Agenzia ha confermato quanto già indicato dal legislatore, ma nella Cm 26/E/2011 è andata “oltre” il dettato normativo chiarendo che, per l’applicazione della cedolare secca, è necessario porre rilievo anche all’attività del conduttore, restando esclusi dal regime i contratti conclusi con locatari che agiscono nell’esercizio di attività d’impresa o di lavoro autonomo, nonostante detti immobili vengano di fatto utilizzati dall’affittuario per soddisfare le esigenze abitative dei propri collaboratori/dipendenti. Soggettivamente risulta essere condizione indispensabile la natura sia del locatore e sia del conduttore i quali, come indicato nel sopra citato documento di prassi e confermato nella Cm 8/E/2017, devono essere due persone fisiche le quali, rispettivamente, detengono e utilizzano l’immobile residenziale per finalità abitative. Di conseguenza, l’opzione per la cedolare secca non è esercitabile qualora la veste di locatore venga assunta da un soggetto diverso dal proprietario dell’immobile. In tale ambito, infatti, il reddito conseguito dal locatore non costituisce un reddito fondiario, ma bensì un reddito diverso.

Se è vero che l’amministrazione finanziaria ha assunto una tale posizione restrittiva, è altrettanto vero che la norma in sé non è poi così categorica. Tant’è che alcune pronunce sulla vicenda si sono rivelate favorevoli a una interpretazione più accomodante. La recente Ctr Lombardia, sezione 19, sentenza 754, del 27 febbraio 2017 , stabilisce che il locatore di immobili a uso abitativo, se persona fisica che agisce come privato, può optare per il regime fiscale agevolato della cosiddetta “cedolare secca”, a prescindere dal fatto che il conduttore sia persona fisica o società, nulla prescrivendo la citata norma sulla natura giuridica di quest’ultimo. Della stessa opinione, la Ctp Umbria-Terni, sezione II, 20 gennaio 2016, la Ctp Milano, sezione XXV, 17 aprile 2015 e la Ctp Reggio Emilia attraverso la pronuncia 470/03/2014. Quest’ultima ha, infatti, disposto il riconoscimento della cedolare secca anche a quella tipologia di contratti nei quali, il conduttore dell’immobile è un’impresa che lo loca per concederlo in uso a un proprio dipendente quale benefit.
L’interpretazione assunta dall’Ufficio nella Cm 26/E/2011 non trova alcun riscontro nella lettera della legge, ma deve essere considerata piuttosto “creativa” o contra legem, in violazione dell’articolo 12 delle preleggi al Codice civile e in abuso del vincolo costituzionale della potestà normativa in materia tributaria sancito dall’articolo 23 della Costituzione. Pertanto, pare giunto il momento per i contribuenti di far valere il peso delle norme nelle sedi competenti, forti dei primi riscontri da parte della giurisprudenza di merito.

Fonte “Il sole 24 ore”

La responsabilità penale in determinati casi ricade sul nuovo manager

Risponde del reato di omesso versamento Iva il nuovo amministratore che subentra dopo la presentazione della dichiarazione firmata dal precedente rappresentante legale. A confermare questo principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 55482 depositata ieri.
Il fatto
L’amministratore di una Srl veniva condannato dal tribunale e dalla Corte di appello per il reato omesso versamento Iva.
L’imputato ricorreva in Cassazione e lamentava, tra l’altro, l’erronea applicazione della norma penale, poiché la corte territoriale aveva ravvisato la responsabilità del nuovo amministratore pur in assenza di prove.
Secondo la difesa, infatti, l’evasione sarebbe stata determinata dall’inserimento di alcune fatture intracomunitarie nel periodo in cui l’amministrazione della società era affidato ad altro soggetto. L’evasione, quindi, era già stata pianificata prima che l’imputato ricoprisse l’incarico di legale rappresentante.
La decisione
La Suprema corte ha ritenuto la doglianza infondata. I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che con l’accettazione della carica di amministratore il soggetto acquisisce contezza delle obbligazioni, anche tributarie, da adempiere. Ai fini della configurazione dell’elemento psicologico del reato di omesso versamento dell’Iva è sufficiente la coscienza e volontà di non versare all’Erario l’imposta.
Ne consegue così che risponde del delitto anche chi è subentrato nella carica di amministratore dopo la presentazione della dichiarazione e prima della scadenza dell’acconto.
La Cassazione ha così precisato che l’assunzione della carica di amministratore comporta la necessità di una minima verifica preventiva della contabilità, dei bilanci e delle ultime dichiarazioni dei redditi.
Chi omette tali riscontri sceglie di esporsi volontariamente alle conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze. A nulla rileva, come nella specie, che il subentro sia avvenuto dopo la presentazione della dichiarazione da cui emergeva il debito di imposta, in quanto il reato di omesso versamento si consuma alla scadenza dell’acconto dell’anno successivo.
La decisione conferma l’orientamento espresso anche se, con la sentenza 30492/2015, la Suprema corte, ha operato un importante distinguo in base ai reati contestati: per i delitti di omessi versamenti a fronte di dichiarazioni predisposte da precedenti amministratori, il subentrante con un minimo di diligenza può facilmente verificare la sussistenza del debito di imposta non versato. Nell’ipotesi, invece, di reati dichiarativi ovvero per l’utilizzo di fatture false, è necessario che l’accusa provi la conoscenza da parte del nuovo soggetto delle violazioni contabili commesse in precedenza.
In ogni caso, appare opportuno che, nel momento in cui si assume la rappresentanza legale di una società di capitali, prudenzialmente venga posta in essere un’attività ricognitiva finalizzata a rilevare eventuali anomalie contabili e fiscali onde evitare, in futuro, contestazioni sull’operato altrui.
Fonte “Il sole 24 ore”

Sentenza corretta: due termini per contestare il ruolo definitivo

Il contrasto tra motivazione e parte dispositiva della sentenza può essere oggetto di istanza di correzione materiale, che va presentata entro il termine previsto per l’impugnazione. In tal caso il giudice deve pronunciarsi con ordinanza collegiale e la stessa può essere a sua volta appellata sempre nello stesso termine, con impugnazione che può riguardare la sentenza originaria corretta e/o l’ordinanza. In quest’ultimo caso, il Fisco non può iscrivere a ruolo a titolo definitivo le somme recate dall’accertamento finché non si è resa definitiva l’ordinanza collegiale anche in caso di mancata impugnazione della sentenza ante correzione. Questa la Ctr Sicilia, con la sentenza 3814/7/2017 (presidente Gennaro, relatore Sanfilippo).
Un contribuente ricorre contro l’Erario per un atto del 2002. Con sentenza depositata il 15 luglio 2010 la Ctp, da un lato, rigetta il ricorso nella parte motiva e, dall’altro, lo accoglie nella parte dispositiva.
Il Fisco notifica la sentenza il 28 gennaio 2011 all’indirizzo del ricorrente (anziché al domicilio eletto). Il contribuente non reagisce e poi chiede la correzione della sentenza per errore materiale e il dispositivo viene sostituito con ordinanza collegiale del 17 febbraio 2011.
Il 15 febbraio 2012, vigente il vecchio rito per l’impugnazione, il contribuente ricorre al comma 4 dell’articolo 288 del Codice di rito e appella l’ordinanza collegiale (le sentenze relativamente alle parti corrette, possono essere impugnate nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata depositata l’ordinanza di correzione).
In seguito alla mancata impugnazione della sentenza notificata al contribuente, il Fisco il 27 settembre 2011 iscrive a titolo definitivo le somme accertate e notifica il ruolo tramite concessionario il 20 gennaio 2012 a cui segue un secondo ricorso.
Per il contribuente non ci sono le condizioni per l’iscrizione a titolo definitivo. Infatti, non vale né il termine “corto” ( in base al quale la sentenza si sarebbe resa definitiva il 29 marzo 2011 perché non notificata al domicilio eletto), né il termine “lungo” (secondo cui la sentenza si sarebbe resa definitiva il 14 novembre 2011 perché l’ordinanza collegiale ha dato tempo sino al 28 marzo 2012 per appellare la sola parte della sentenza “corretta”, cosa che il contribuente ha fatto nel termine).
Al contrario, il Fisco sostiene la legittimità dell’iscrizione definitiva a ruolo, dato che la sentenza originaria non è stata appellata nè entro il 29 marzo 2011 (termine “corto”) né entro il 14 novembre 2011 (termine “lungo”).
I giudici di primo e secondo grado danno ragione al contribuente. La sentenza può essere temporalmente scomposta nella sentenza ante correzione e quella post correzione. Da qui due conseguenze pratiche:
una volta presentata l’istanza di correzione materiale, l’iscrizione a ruolo avviene solo dopo la correzione favorevole del dispositivo della sentenza tramite ordinanza collegiale;
una volta che sia stata impugnata la sentenza post correzione nella sola ordinanza collegiale, allora per l’iscrizione a ruolo definitiva bisogna aspettare il passaggio in giudicato della seconda parte, indipendentemente dall’impugnazione della sentenza originaria ante correzione.
Fonte “Il sole 24 ore”

Solo la sentenza definitiva blocca la non punibilità

Per i reati di omesso versamento dell’Iva e delle ritenute il cui procedimento era in corso al 22 ottobre 2015, il pagamento integrale dell’imposta ai fini della non punibilità può avvenire successivamente all’apertura del dibattimento a condizione che la sentenza non sia definitiva. A precisarlo è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 52640 depositata ieri.
Un contribuente era condannato, sia in primo grado sia in appello, a 5 mesi di reclusione per omesso versamento dell’Iva indicata in dichiarazione. L’imputato ricorreva in Cassazione, lamentando tra l’altro l’omessa applicazione nei suoi confronti della causa di non punibilità introdotta dal Dlgs 158/2015 e prevista dall’articolo 13 del Dlgs 74/2000. Egli aveva in corso, infatti, un piano di rateizzazione che sarebbe terminato a breve con il pagamento dell’intera pretesa.
In base alla nuova formulazione del citato articolo 13 i reati di omesso versamento di ritenute, Iva e indebita compensazione di crediti non spettanti, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative ed interessi, siano stati estinti mediante integrale pagamento.
La Corte di appello riteneva non applicabile tale causa di non punibilità perché nella specie il procedimento era già in secondo grado. La Cassazione ha invece ritenuto fondata la doglianza.
Secondo i giudici di legittimità la nuova previsione è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del decreto (22 ottobre 2015) e ciò anche se il dibattimento sia già stato aperto, purché non vi sia sentenza definitiva.
In caso di rateizzazione il giudice deve riconoscere un ulteriore termine di tre mesi, anche se è già aperto il dibattimento.
La natura assegnata al pagamento del debito, riguardante la punibilità del reato, comporta la sua applicazione a tutti i procedimenti in corso, anche ove sia stato oltrepassato il limite temporale previsto dalla norma. Il principio di uguaglianza vieta trattamenti differenti per situazioni uguali ed impone così che il pagamento assuma la medesima efficacia estintiva per i procedimenti in corso all’entrata in vigore della norma. Se così non fosse, vi sarebbe un’ingiustificabile disparità di trattamento per le quali potrebbe prospettarsi una questione di illegittimità costituzionale.
Da evidenziare che in precedenza la Cassazione aveva già affermato il medesimo principio (sentenze 40314/2016 e 11417/2017), tuttavia, di recente aveva, al contrario, ritenuto inapplicabile la causa di non punibilità ai procedimenti in corso con apertura del dibattimento già avvenuta (sentenza 30139/2017).
Fonte ” Il fisco”

Società estinte, l’estensione dei tempi di riscossione non è retroattiva

L’amministrazione finanziaria avrà a disposizione ben cinque anni per incassare le debenze dalle società cessate ma esclusivamente qualora l’istanza di cancellazione risulti depositata successivamente al 13/12/2014 in quanto, la disciplina accolta nell’articolo 28 del Dlgs 175/2014, che ha esteso le tempistiche di recupero per le poste debitorie esigibili da parte dell’agenzia delle Entrate, non può essere considerata retroattiva e, di conseguenza, è in grado di manifestare la sua efficacia esclusivamente qualora la procedura di cessazione risulti essere stata innescata successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo menzionato. A questa conclusione è giunta la Suprema Corte la quale, attraverso l’ordinanza 20427/2017 (conformi Cassazione, sentenza 6743/2015, 18385/2015, 19142/2016) ha cassato il ricorso depositato dall’amministrazione finanziaria. I Giudici del Palazzaccio hanno infatti chiarito che «l’articolo 28, comma 4, del Dlgs 21 novembre 2014, n. 175, recante disposizioni di natura sostanziale sulla capacità delle società cancellate dal registro delle imprese, non ha valenza interpretativa, neppure implicita, e non ha, quindi, alcuna efficacia retroattiva. Ne consegue che il differimento quinquennale (operante nei confronti soltanto dell’amministrazione finanziaria e degli altri enti creditori o di riscossione indicati nello stesso comma, con riguardo a tributi e contributi) degli effetti dell’estinzione della società derivanti dall’articolo 2495, comma 2, Codice civile, si applica esclusivamente ai casi in cui la richiesta di cancellazione della società dal registro delle imprese (che costituisce il presupposto di tale differimento) sia presentata nella vigenza della nuova disciplina di detto Dlgs, ossia il 13 dicembre 201, o successivamente”.
In buona sostanza l’Ufficio può contare su un intervallo di tempo superiore per incassare i propri crediti maturati nei confronti delle società (di capitali e di persone), il cui liquidatore ha presentato un’istanza di cancellazione in quanto, seguendo il disposto del comma 4, articolo 28, l’efficacia della cessazione di una società, qualora scaturisca da un’istanza di estinzione volontaria dal registro delle imprese, risulta essere differita di cinque anni dalla richiesta di depennamento limitatamente a comparti tributario e contributivo. Pertanto la cancellazione presentata, per tutta la durata del menzionato quinquennio non inertizza la validità e l’efficacia degli avvisi di accertamento, liquidazione e riscossione afferenti ai tributi e ai contributi e alle relative sanzioni e interessi oltre che degli atti processuali.
Una parte della dottrina è dell’avviso che l’enunciazione contenuta nel comma 4 dell’articolo 28 del Dlgs 175/2014 fosse funzionale a soddisfare l’esigenza di sanare gli atti invalidi notificati, in passato, dall’agenzia delle Entrate nei confronti delle società cancellate dal registro delle imprese. A conferma di tale tesi l’amministrazione finanziaria, attraverso le circolari n. 31/E/2014 e 6/E/2015, ha avuto modo di articolare, asserendo la natura di norma “procedimentale” della disciplina, al fine di ascrivere una valenza retroattiva in grado di “accomodare” il passato. La tesi sostenuta dall’Ufficio risulta essere però inammissibile, considerata la manifesta valenza sostanziale della disposizione, tenuto conto che la medesima influisce palesemente sulla sedicente capacità giuridica della società cancellata.
Il nostro convincimento è tuttavia che la disposizione contenuta nel Dlgs 175/2014, risultando illegittima, non possa trovare applicazione nemmeno nei confronti delle società cancellate a far data dal 13/12/2014 in quanto, alle irresolutezze evidenziate dagli Ermellini attraverso la sentenza n. 6743/2015, secondo la quale la disciplina genererebbe una ingiustificata disuguaglianza di trattamento tra i differenti creditori della società, la medesima disposizione apparirebbe promulgata travalicando gli ambiti di competenza attribuiti agli articoli 1 e 7 della Legge di Delegazione n. 23/2014 e tutto ciò condurrebbe a qualificarla come illegittima. Risulta infatti evidente che una società cancellata dal registro delle imprese non è in grado di intraprendere un giudizio e, di conseguenza, la disciplina contenuta nell’articolo 28 del Dlgs 175/2014 non consente al soggetto chiamato in causa di esercitare il proprio diritto di difesa, tutelato dall’articolo 24 Costituzione. Tale considerazione è stata condivisa anche dai Giudici del Palazzaccio che, nella menzionata sentenza n. 6743/2015, hanno sostenuto che il ricorso proposto da una società estinta risulta essere inammissibile in conseguenza del difetto di capacità della società e dell’improponibilità del ricorso stesso.
Fonte “Il fisco”

Una sanzione per ogni omissione

Marcia indietro della Cassazione sull’applicazione del cumulo giuridico alle sanzioni relative agli omessi versamenti. Con l’ordinanza n. 27068 depositata la scorsa settimana (si veda questo articolo ), i giudici di legittimità hanno escluso il cumulo per questa tipologia di violazione giungendo a conclusioni opposte rispetto a quanto espresso nella sentenza 21570/2016. Un cambio di orientamento rilevante perché, dopo la pronuncia del 2016, molti contribuenti hanno impugnato gli atti dell’amministrazione sugli omessi o ritardati versamenti di imposta senza applicazione del cumulo. Secondo l’interpretazione dell’amministrazione finanziaria, infatti, è da escludersi una simile possibilità.
Da notare che in presenza di omessi o tardivi versamenti, salvo errori dell’ufficio (in genere ravvedimenti non considerati) o difetti di notifica dell’agente della riscossione, difficilmente ci sono validi motivi da eccepire nell’impugnazione trattandosi di violazioni abbastanza evidenti.
Il precedente orientamento della Cassazione aveva così consentito, in presenza di plurime violazioni, la contestazione dell’operato dell’amministrazione almeno sul calcolo della sanzione irrogata.
Il precedente orientamento
Nella vicenda affrontata lo scorso anno, a una società era notificata una cartella di pagamento per omesso versamento di imposte liquidate dal contribuente, nella specie si trattava di Iva, Irpef, Irap, ritenute, oltre interessi e sanzioni. Il provvedimento veniva impugnato lamentando, tra i diversi motivi, l’omessa applicazione del cumulo giuridico sulle sanzioni. I giudici di merito di entrambi i gradi di giudizio accoglievano la tesi favorevole al contribuente.
L’agenzia delle Entrate ricorreva allora in Cassazione contestando, in estrema sintesi, un’errata interpretazione della norma. La Suprema Corte, respingendo i motivi dell’Ufficio, rilevava che il cumulo giuridico prevede in linea generale, l’applicazione di una sanzione unica e ridotta (cosiddetto cumulo giuridico) in luogo di quella derivante dalla somma delle sanzioni relative ai singoli illeciti (cosiddetto cumulo materiale).
Nell’ipotesi di omessi versamenti la sanzione è disciplinata dall’articolo 13 del Dlgs 471/97, il quale si limita a determinarne l’ammontare nella misura del 30% (la norma riformata prevede anche misure differenti in relazione a pagamenti tardivi). Tuttavia, la disposizione non esclude espressamente l’applicazione dell’istituto del cumulo giuridico, con la conseguenza che può ritenersi applicabile anche per tali violazioni. Si tratta, infatti, di un istituto la cui funzione è di attenuare il maggior rigore delle sanzioni che potrebbero derivare dal cumulo materiale. La sua applicazione non è facoltativa per gli uffici, poiché questi ultimi devono verificare in concreto la sanzione meno gravosa per il contribuente; non rileva peraltro né l’ambito temporale, non essendo cioè limitato allo stesso periodo di imposta, né oggettivo, potendosi applicare alla generalità dei tributi ed anche tra violazioni riguardanti lo stesso tributo.
Il revirement
Anche nel procedimento posto a base dell’ordinanza della Cassazione depositata ieri, a una società erano stati contestati con cartella di pagamento ripetuti tardivi omessi versamenti di imposta. Nella specie però la Suprema Corte ha ritenuto che per tali violazioni non sia possibile determinare le sanzioni considerando la continuazione.
Nella circostanza i giudici di legittimità hanno evidenziato che l’istituto del cumulo concerne le violazioni potenzialmente incidenti sulla determinazione dell’imponibile o sulla liquidazione del tributo. Il ritardo o l’omissione del pagamento è, invece, una violazione che attiene all’imposta già liquidata contenuta nella dichiarazione presentata dal contribuente, per la quale la norma disciplina un trattamento sanzionatorio proporzionale e autonomo per ciascun mancato pagamento.
Fonte “Il fisco”

Possibile il ravvedimento con pagamento frazionato

Il versamento delle somme dovute per il ravvedimento operoso può anche avvenire in via frazionata cumulando così i vantaggi del ravvedimento “breve” con quelli del ravvedimento “lungo” perché il ravvedimento operoso (totale) può avvenire sia con un pagamento unico sia con un pagamento frazionato. È il principio che l’ufficio ha tentato di negare e che la Ctr Sardegna ha ribadito (sentenza 223/5/17, presidente e relatore La Rocca) , condannando l’amministrazione al pagamento delle spese processuali.
La vicenda
Una Srl omette il versamento dell’Iva del 2005, si avvale poi della proroga normativa intervenuta il 26 luglio 2005 e rimedia effettuando distinti versamenti frazionati per imposta, sanzioni e interessi.
La prima tranche viene pagata entro il termine breve di 30 giorni con corresponsione della sanzione ridotta al 3,75%; la seconda e ultima tranche viene versata oltre i 30 giorni ma entro la data di presentazione della dichiarazione Iva corrispondendo la sanzione ridotta al 6 per cento.
L’amministrazione, tuttavia, considera tardivi entrambi i versamenti e iscrive a ruolo la differenza tra quanto dovuto in base alle sanzioni ordinarie del 30% cento e quanto pagato nei due casi (3,75 e 6%), vale dire il 26,25 e il 24 per cento.
Il contribuente, invece, si difende sostenendo che l’illegittimità del recupero operato dallìufficio, in quanto il ravvedimento operoso può anche essere effettuato in maniera frazionata.
Di parere diverso il Fisco, secondo cui il ravvedimento operoso non consentirebbe il pagamento scaglionato, in quanto il versamento dell’imposta dovrebbe avvenire interamente entro lo stesso limite temporale di quello delle sanzioni ridotte sulla base dell’articolo 13, comma 2, del Dlgs 472/1997 .
La tesi dell’amministrazione viene bocciata sia in primo che in secondo grado.
Le motivazioni
Secondo la Ctr, il contribuente ha correttamente operato nel rispetto della risoluzione 67/E del 23 giugno 2011 effettuando, in assenza di controlli, il versamento integrale del dovuto in forma frazionata nel termine massimo consentito conteggiando congruamente per ciascuna rata – o meglio per ciascuna frazione di tributo – oltre all’imposta originariamente non versata, anche sanzioni ed interessi (ridotti in base al momento in cui è avvenuto il pagamento).
Sotto questo profilo, il comportamento del contribuente risulta coerente con quanto previsto dalla stessa risoluzione 67/E, che ha escluso la possibilità di considerare perfezionato il ravvedimento, quando il contribuente versa solo la “prima rata”, pretendendo poi di avere sanzioni e interessi ridotti anche per gli importi versati oltre il termine ultimo.
Fonte “Il fisco”

Concorso in bancarotta per i sindaci che omettono i controlli

Sì alla condanna per concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale a carico dei sindaci che, malgrado fosse evidente che le condotte degli amministratori potevano determinare il fallimento della società, non hanno impedito l’evento omettendo i controlli. La Cassazione, con la sentenza 52433/2017 , afferma la corresponsabilità nel reato del presidente del collegio sindacale e di un componente del collegio di una Spa i cui amministratori, in un separato giudizio, avevano patteggiato una pena per una vasta gamma di operazioni illegali, dall’eccesso abusivo al credito all’eccessivo accantonamento delle indennità di infortunio dei lavoratori, dall’illegittima contabilizzazione dei costi per lo smaltimento dei rifiuti ai finanziamenti alle società a loro riconducibili.
Secondo la corte d’appello le azioni dei vertici erano così macrospiche da non poter “sfuggire” al controllo dei sindaci, per questo i fatti reati andavano imputati anche a loro. I ricorrenti contestano la lettura dei giudici di merito, condivisa invece dalla Cassazione, per la parte in cui, alla contestazione del reato per aver determinato il fallimento, per effetto delle operazioni dolose (articolo 223, comma 2 n.2 della legge fallimentare), sia seguita una condanna per bancarotta distrattiva o dissipativa (articolo 223 comma 1 della legge fallimentare). Per i giudici però il rimando alle distrazioni è coerente con le fattispecie contestate e la conclusione raggiunta in linea con la giurisprudenza di legittimità che ha definito i contorni del reato di determinazione del fallimento per effetto di operazioni dolose. Una fattispecie – precisano i giudici – che si distingue dalle ipotesi generali di bancarotta fraudolenta patrimoniale in quanto la nozione di “operazione” presuppone una modalità di pregiudizio patrimoniale che non dipende direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione) «bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante in procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato».

I giudici respingono poi anche l’appunto secondo il quale i giudici di merito avrebbero dedotto la responsabilità dei sindaci una volta appurate le “colpe” degli amministratori grazie al patteggiamento fatto da questi ultimi. La Cassazione però precisa che i giudici di merito non hanno fondato il loro giudizio solo sul fatto storico della dell’applicazione della pena da parte dei membri del board, ma hanno ricostruito le loro condotte, presupposto della responsabilità dei sindaci, specificando tutti gli elementi di prova.
Fonte “Il fisco”

Bonus prima casa anche se l’abitazione non è idonea

La titolarità del diritto di proprietà di un’abitazione “inidonea” sia per circostanze oggettive (casa inabitabile) sia per circostanze soggettive (allargamento della famiglia) non impedisce l’acquisto di un’altra abitazione con l’agevolazione “prima casa”: lo ha stabilito la Cassazione con l’ordinanza 27376 del 17 novembre 2017.
La questione non è nuova perché la Cassazione ha recentemente affermato (ordinanza 14740 del 13 giugno 2017, si veda questo articolo ) che la casa divenuta soggettivamente inidonea è di ostacolo all’agevolazione “prima casa” se il contribuente in questione ne voglia acquistare un’altra. C’è però da rammentare che questa pronuncia n. 14740 fece scalpore perché, con essa, la Cassazione ha invertito la sua precedente giurisprudenza di segno contrario (le sentenze 18128/2009, 100/2010 e 3931/2014), nella cui scia si era accodata anche la giurisprudenza di merito: Ctp Alessandria, 22/2010, Ctp Matera, 820/2011, Ctr Lombardia 2970/2014, Ctr Lombardia 4272/2015, Ctp Milano 5888/2016.
In passato, per un breve periodo (dal 24 gennaio 1993 al 31 dicembre 1995), la legge sull’agevolazione “prima casa” aveva concesso il beneficio a chi avesse dichiarato «di non possedere altro fabbricato … idoneo ad abitazione» (Dl 16/1993 e Dl 155/1993). Prendendo però atto del fatto che il giudizio di “idoneità” di un’abitazione comportava una forte discrezionalità nella osservazione dei singoli casi concreti (dovendosi tener conto sia delle caratteristiche del fabbricato sia delle esigenze personali del contribuente e della sua famiglia) il legislatore eliminò ben presto (con la legge 549/1995) il riferimento all’idoneità della abitazione preposseduta, viceversa stabilendo (con norma ancor oggi vigente) che l’agevolazione fiscale è impedita per il solo fatto della titolarità di una abitazione, senza più riferimento alla sua idoneità, o meno, per le esigenze abitative del contribuente.
Cosicchè, dal 1° gennaio 1996 alla sentenza di Cassazione 7 agosto 2009 n. 18128 nessuno ha mai più dubitato che, per l’ottenimento dell’agevolazione “prima casa”, occorresse considerare anche il requisito della idoneità dell’abitazione preposseduta. Nel 2009 invece la Suprema Corte ha improvvisamente ritenuto che «il requisito della “impossidenza di altro fabbricato … sussista nel caso di carenza di un altro alloggio concretamente idoneo a sopperire ai bisogni abitativi». Non è dato sapere se questa sentenza fu il frutto di un errore (e cioè di ritenere applicabile al caso oggetto del giudizio una normativa invece abrogata). Il fatto è che la giurisprudenza successiva, sopra menzionata (almeno, stando alle pronunce pubblicate), si è adeguata pedissequamente, nonostante l’Agenzia delle Entrate abbia cercato di fare argine con la risoluzione 86/E del 20 agosto 2010, nella quale ha negato la rilevanza dell’inidoneità soggettiva della casa preposseduta.
C’è infine da notare, peraltro, che l’Agenzia delle Entrate, nella risoluzione n. 107 del 1° agosto 2017 (nonché nella predetta risoluzione 86/2010), ha sancito che la proprietà di una casa divenuta oggettivamente inidonea ad essere abitata (ad esempio, a causa del terremoto) non impedisce al contribuente di comprarne un’altra, avvalendosi dell’agevolazione “prima casa”.
Fonte “Il fisco”

Residenza fiscale

Non sono sufficienti a integrare il requisito del domicilio in Italia ex art. 43 Codice civile richiamato dall’articolo 2 Tuir la sussistenza di interessi personali e familiari, in assenza della prova della conservazione nel nostro paese di interessi patrimoniali ed economici.
Questo è il principio ricavabile dalla lettura della sentenza della Ctp di Varese n. 402 depositata lo scorso 14 settembre 2017 che ha accolto il ricorso di un cittadino italiano emigrato dal 1974 in Venezuela, che aveva man mano ivi spostato (e in altri Paesi) i propri interessi di natura imprenditoriale e il cui collegamento con lo Stato Italiano era costituito principalmente da elementi (titolarità di un complesso immobiliare, di utenze, di un conto corrente, di un’autovettura) che trovavano giustificazione nel mantenimento del coniuge (asseritamente separato di fatto), residente in Italia.
Secondo l’amministrazione finanziaria il soggetto era da intendersi fiscalmente residente in Italia con tutte le conseguenti riprese a tassazione, atteso che per “domicilio” deve intendersi il luogo in cui il soggetto ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi non solo di natura economica ma anche personali, affettivi, sociali e familiari.
La Ctp di Varese rigetta la tesi dell’ufficio interpretando rigidamente, in un’ottica puramente economica, la locuzione «sede principale dei suoi affari ed interessi» contenuta nella definizione di “domicilio”, affermando l’assoluta irrilevanza degli indizi relativi alla conservazione in Italia di interessi personali o familiari, in assenza della prova per l’appunto del mantenimento nel nostro Paese di interessi patrimoniali ed economici.
Si tratta di una decisione dal carattere senz’altro innovativo, portatrice di una tesi che, pur trovando un forte supporto in dottrina, è però costantemente rigettata dalla Suprema Corte di Cassazione che da sempre accoglie, ai fini fiscali, una nozione molto ampia di domicilio, in linea con la prassi dell’amministrazione finanziaria, e ove semmai il punto ancora oggetto di dibattito, in assenza di un appiglio normativo, riguarda il criterio di prevalenza tra gli interessi economici-patrimoniali e quelli personali-affettivi.
Sotto questo profilo va ricordato che, nonostante l’orientamento maggioritario della Cassazione dava prevalenza ai rapporti personali affettivi, con la sentenza n. 6501 del 31 marzo 2015, i giudici di legittimità hanno invece inteso enfatizzare il centro degli interessi economici quale criterio per individuare la residenza fiscale dell’individuo. Con la successiva sentenza n. 12311 del 15 giugno 2016, la Corte di Cassazione è però tornata all’impostazione precedente, quindi ad oggi non vi è ancora un cristallino orientamento sul tema, restando imprescindibile una valutazione caso per caso.

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OMESSA IVA CON SOGLIA PIÙ ALTA. SCONTO DI PENA PER IL PASSATO

Cassazione Penale, sentenza depositata il 10 marzo 2016

Nel procedimento penale per l’omesso versamento di IVA può essere accordato uno sconto di pena al contribuente che è stato condannato sulla base della vecchia soglia di punibilità, vale a dire quella di € 50 mila elevata a € 250 mila dal D.Lgs. n. 158 del 2015, in vigore dal 22 ottobre dello stesso anno. 
È quanto emerge dalla sentenza n. 9936/16 della Terza Sezione Penale della Cassazione.

Ricorre per cassazione un legale rappresentate di società che la Corte D’Appello – a differenza del Tribunale – ha ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 10-ter del D.Lgs. n. 74 del 2000 per il mancato accantonamento dell’IVA dovuta all’Erario, con un’evasione di oltre 550 mila euro.
La Corte territoriale non ha ritenuto rilevanti, ai fini della dimostrazione della mancanza di dolo per grave crisi di liquidità, né la circostanza della perdita di un assegno di 600 mila euro né un mancato incasso di quasi 2 milioni di euro né il finanziamento “personale” da parte dell’imputato alla società né, infine, la chiusura delle linee credito; e ciò perché, a fronte di tali vicissitudini (tra l’altro non tutte fornite di prova secondo i giudici di secondo grado), è mancata la giustificazione da parte del ricorrente dell’impiego di liquidità per oltre 900.000 euro a titolo di IVA incassata.

Detta somma avrebbe dovuto essere accantonata per provvedere al pagamento del tributo alla scadenza prevista (28/12/2009); tenuto peraltro conto che la società non aveva dipendenti, né locali per cui corrispondeva un affitto (avendo sede nell’abitazione del prevenuto) né, infine, risultando prodotte fatture passive atte a fornire elementi di prova in ordine al fatto che le somme incassate fossero state utilizzate per pagare altri creditori.

Insomma, dal mancato accantonamento dell’IVA incassata la Corte D’appello ha tratto la prova del dolo nel mancato assolvimento dell’obbligazione tributaria. Le somme da versare all’Erario sono state distratte dalla loro destinazione naturale poiché utilizzate per tutt’altri fini.
Ebbene, il ragionamento decisionale che ha sorretto il giudizio di responsabilità penale pronunciato dal Collegio territoriale è stato pienamente condiviso dagli ermellini, che tuttavia hanno ravvisato l’opportunità di rivedere la pena inflitta al ricorrente (fissata dalla Corte D’Appello in sei mesi e venti giorni di reclusione). E ciò alla luce del mutato quadro legislativo.

In proposito in sentenza si legge: “può ritenersi che, effettivamente, alla stregua della novella del 2015 con cui è stata elevata la soglia di punibilità per il reato di omesso versamento Iva ad € 250 mila, rispetto alla soglia che, in relazione al periodo di imposta in contestazione, attribuiva rilevanza penale al fatto (pari ad € 103.291,18, in relazione alla declaratoria di incostituzionalità operata dalla sentenza n. 80 del 2014), il disvalore complessivo del fatto debba essere rivalutato, posto che la soglia svolge la propria funzione sul piano della selezione categoriale, incidendo quindi la sua elevazione, ai fini della rilevanza penale del fatto, sul complessivo e oggettivo disvalore penale del fatto medesimo, donde ciò giustifica la necessità di una rivalutazione della congruità complessiva del trattamento sanzionatorio alla luce del predetto ius superveniens”.

Pertanto la sentenza impugnata è stata annullata con rinvio, limitatamente al trattamento sanzionatorio.

Da segnalare che la difesa ha invocato anche la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui la Corte ha però escluso la ricorrenza.

Sulla compatibilità tra i reati per cui è prevista una soglia di punibilità e il giudizio di particolare tenuità del fatto è pendente la relativa questione davanti alle Sezioni Unite. Ciononostante i supremi giudici hanno richiamato un loro precedente pronunciamento secondo cui, quando si procede per il reato di omesso versamento dell’IVA, la non punibilità per particolare tenuità del fatto è applicabile solo se l’ammontare dell’imposta non corrisposta è di pochissimo superiore a quello fissato dalla soglia di punibilità, poiché la previsione di quest’ultima evidenzia che il grado di offensività della condotta ai fini della configurabilità dell’illecito penale è stato già valutato dal legislatore. Nel caso di specie l’ammontare dell’IVA non versata – a seguito della novella del 2015 – è pari al doppio di quella prevista dalla legge quale soglia di punibilità ai fini della rilevanza penale del fatto.

AUTORE: REDAZIONE FISCAL FOCUS

 

  • Sentenza n. 9936/16 della Terza Sezione Penale della Cassazione (820 kB)

Alla Consulta il contraddittorio «a macchia di leopardo»

Con la sentenza n. 24823 del dicembre scorso, le Sezioni Unite hanno sancito che non esiste, nell’ordinamento nazionale, un principio generale che impone all’Amministrazione finanziaria un obbligo circa l’instaurazione del preventivo contraddittorio con il contribuente.

Sottoscrizione ruolo. Risponde il concessionario se non chiama in causa l’ente impositore

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il contribuente può rivolgere l’impugnazione contro il solo concessionario

Nel caso in cui sia impugnato un atto proprio dell’agente della riscossione facendo valere anche vizi afferenti all’attività dell’ente impositore cui l’atto impugnato si collega, ricade sull’agente della riscossione, non sul ricorrente, l’onere di chiamare in giudizio l’ente impositore.

È il principio di diritto tratto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che la Commissione Tributaria Provinciale di Enna ha posto a fondamento dell’accoglimento di un ricorso avverso una cartella di pagamento emessa a seguito di iscrizione a ruolo dell’Agenzia delle Entrate.

Nella sentenza n. 1318/01/15 la CTP di Enna cita l’insegnamento delle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 16412/2007) secondo cui, nelle ipotesi in cui venga impugnato un atto proprio dell’agente della riscossione facendo valere anche vizi afferenti all’attività dell’ente impositore, la “legittimazione passiva resta in capo all’ente titolare del diritto di credito e non al concessionario il quale, se fatto destinatario dell’impugnazione, dovrà chiamare in giudizio il predetto ente, se non vuole rispondere dell’esito della lite, non trattandosi nella specie di vizi che riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi: l’enunciato principio di responsabilità esclude, come già detto, che il giudice debba ordinare ex officio l’integrazione del contraddittorio, in quanto non sussiste tra ente creditore e concessionario una fattispecie di litisconsorzio necessario”.

Inoltre, secondo Cass. (Sez. VI-T) 21220/12: “nel processo tributario, il fatto che il contribuente abbia individuato nel concessionario, piuttosto che nel titolare del credito tributario, il legittimato passivo, nei cui confronti dirigere l’impugnazione, non determina l’inammissibilità della domanda, ma può comportare la chiamata in causa dell’ente creditore, onere che, tuttavia, grava sul convenuto, senza che il giudice adito debba ordinare l’integrazione del contraddittorio”.

E allora la CTP di Enna è giunta alla conclusione che, nel caso di specie, spettava all’Agente della riscossione chiamare in causa l’Agenzia delle Entrate “al fine di consentire a quest’ultima di dimostrare, in replica all’eccezione dl ricorrente, che il ruolo dal quale scaturisce la cartella impugnata era stato reso esecutivo giusta sottoscrizione da parte del titolare dell’ufficio ovvero di un suo delegato, con la conseguenza che dell’esito della lite non può che rispondere solo l’Agente della Riscossione” e che la stessa (lite) “non può che essere sfavorevole all’agente, poiché in assenza di dimostrazione della corretta sottoscrizione de ruolo, l’impugnata cartella di pagamento deve ritenersi nulla”.

In buona sostanza, quindi, Equitalia avrebbe dovuto chiamare in causa l’Agenzia o, in alternativa, dimostrare la correttezza della sottoscrizione del ruolo: ma nel caso esaminato il concessionario non ha fatto né l’uno né l’altro. Dal che la declaratoria di nullità della cartella impugnata.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Medici e attività intramoenia. Illegittime le trattenute dell’Asl

Illegittime le trattenute dell’Asl – Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Lavoro, sentenza depositata il 7 gennaio 2016

In tema di Irap, sono illegittime le trattenute dell’ASL al medico ospedaliero che svolge anche attività libero-professionale intramuraria.

L’azienda sanitaria può trasferire sui pazienti l’onere relativo all’Irap attraverso l’adeguamento delle tariffe del servizio.

È quanto emerge dalla sentenza 7 gennaio 2016, n. 79, della Corte di Cassazione – Sezione Lavoro.

La Corte d’Appello di L’Aquila ha condannato la locale azienda sanitaria a
restituire a un medico, svolgente attività libero-professionale intramoenia, le
somme trattenute a titolo di IRAP.

La condanna è stata motivata dalla Corte territoriale nel senso che il reddito inerente all’ALPI è assimilabile al reddito da lavoro dipendente e che il soggetto passivo dell’imposta regionale sulle attività produttive è unicamente l’ASL.

Pertanto, nel caso di specie, non potendo sopportare i costi per l’ALPI, l’ASL avrebbe dovuto determinare le tariffe del servizio, e così traslare gli oneri dell’imposta sui pazienti e non sui medici. L’Asl, dunque, non poteva pretendere che fossero i medici stessi a trasferire sui pazienti l’onere economico relativo all’IRAP.

Ebbene, la Sezione Lavoro della Suprema Corte ha mantenuto ferma la statuizione del giudice di secondo grado.

Gli ermellini hanno rilevato che soggetto passivo dell’imposta è L’ASL; inoltre è
incontroverso che l’ALPI è attività rientrante nello schema generale del lavoro subordinato.

I supremi giudici hanno aggiunto che, se anche il contratto collettivo decentrato prevede che l’onere del pagamento dell’imposta debba gravare sui pazienti, le tariffe del servizio sono nella disponibilità dell’ASL e non dei medici, i quali, per rispettarle, non possono in alcun modo trasferire l’Irap sui pazienti.

Resta poi esclusa, per i giudici di Piazza Cavour, la possibilità giuridica di trasferire la qualità di sostituto d’imposta dall’ASL ai medici, essendo questi ultimi estranei al rapporto tributario poiché “meri subordinati del
sostituto d’imposta IRAP”.

Infine in sentenza si legge: “né può dirsi violato il canone ermeneutico dell’art. 1363 c.c. in relazione al comportamento, anche successivo, delle parti sol perché nel successivo accordo integrativo aziendale dell’area dirigenza medica del 2007 è stata espressamente pattuita la suddetta traslazione: si tratta di una anfibologia perché, nel succedersi delle fonti collettive, una specificazione
non presente in quelle precedenti può essere intesa tanto come mera
interpretazione autentica quanto come innovazione rispetto al precedente
assetto negoziale”.

Accertamento nullo se firmato da soggetto non qualificato

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione tributaria, sentenza depositata il 16 dicembre 2015

L’accertamento fiscale è nullo se l’Ufficio non prova che è stato firmato da un funzionario della carriera direttiva, ancorché non necessariamente un dirigente.

È quanto ha sostenuto la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione nella sentenza 16 dicembre 2015, n. 25280.
Ricorre per cassazione l’Agenzia delle Entrate, ma senza successo.
Gli ermellini hanno confermato – e quindi reso definitivo – il verdetto della CTR di Venezia relativamente a un avviso di accertamento per imposte di cui il contribuente aveva sostenuto – sin dal ricorso introduttivo della lite – la nullità per difetto di sottoscrizione.
E, in effetti, secondo il giudice dell’appello, “l’Ufficio non ha mai provato che chi ha firmato l’atto avesse la nona qualifica funzionale richiesta dalla normativa”.
Nel caso di specie la CTR ha ravvisato il mancato assolvimento dell’onere probatorio gravante sull’Amministrazione finanziaria, nel senso che questa avrebbe dovuto provare i poteri del funzionario sottoscrittore oppure l’esistenza di una valida delega al medesimo; mentre è risultato pacifico che l’atto impugnato non era stato sottoscritto dal direttore dell’ufficio, né da un funzionario della carriera direttiva (nona qualifica) dallo stesso validamente delegato. Peraltro l’atto dispositivo non poteva essere considerato valida delega solo sulla base del suo tenore letterale. In esso, infatti, non si parlava “di una delega in caso di accertamento, nemmeno in favore del ‘Capo Area accertamento’, al quale la delega di firma è conferita solo per le ‘richieste di atti e notizie o segnalazioni di elementi di accertamento’”.
Da quanto sopra la CTR ha tratto l’illegittimità dell’atto in contestazione, per mancanza del requisito di sottoscrizione previsto, a pena di nullità, dall’art. 42, commi 1 e 3, del D.P.R. n. 600/73.
Ebbene, la Cassazione ha reputato corretta la conclusione della Commissione.
Innanzitutto perché la ricorrente Agenzia ha ammesso che l’eccezione di nullità per omessa sottoscrizione di un funzionario qualificato era stata dedotta dal contribuente fin dal ricorso introduttivo di primo grado, poi, effettivamente, l’Ufficio non ha mai provato che chi ha firmato avesse la nona qualifica funzionale richiesta dalla normativa, cioè fosse un funzionario della carriera direttiva (ancorché non necessariamente un dirigente).
Insomma, il ricorso prodotto dalla difesa erariale è stato respinto. Nulla sulle spese.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Commercialisti e dichiarazione fraudolenta: assoluzione per la registrazione delle fatture

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 16 dicembre 2015

Affinchè si configuri il reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 del D.Lgs. 74/2000 è indispensabile la presentazione della dichiarazione fiscale nella quale vi sia stato l’effettivo inserimento di elementi passivi fittizi, mentre le condotte prodromiche di acquisizione e registrazione nelle scritture contabili di fatture o altri documenti falsi restano del tutto irrilevanti, sul piano penale, non potendo essere punite neppure a titolo di tentativo.

Deve pertanto essere mandato assolto, “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, il commercialista che ha registrato le fatture false per conto dei clienti se non è dimostrato l’inserimento delle stesse nelle varie dichiarazioni fiscali presentate.

È quanto emerge dalla sentenza n. 49570/15 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Un commercialista è stato riconosciuto responsabile dalla Corte d’Appello, a titolo di concorso, del reato previsto dall’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 per avere, secondo le accuse, fatto da tramite tra una società estera che emetteva fatture false e i destinatari delle stesse, suoi clienti (precisamente dei promotori finanziari per i quali teneva la contabilità), così consentendo loro di evadere le imposte.

Ebbene, il giudizio di responsabilità è stato annullato senza rinvio dalla Suprema Corte, in accoglimento del motivo difensivo centrato sulla violazione di legge, posto che l’addebito contestato non contemplava l’avvenuta presentazione di alcuna delle necessarie dichiarazioni annuali, riportanti le fittizie componenti passive enunciate, limitandosi genericamente a contestare l’utilizzazione delle fatture per operazioni inesistenti. Da qui, fra l’altro, la mancanza di accertamento, da parte del giudice di merito, del momento consumativo del reato contestato.

Gli Ermellini hanno argomentato che il reato in questione si consuma all’atto della presentazione della dichiarazione. In tal senso depone, infatti, il dato testuale dell’art. 2 D.lgs. 74/2000, norma rimasta immodificata anche a seguito del D.L. n. 158 del 2015.

Occorre poi evidenziare come l’art. 6 dello stesso decreto abbia previsto che il delitto in questione non sia comunque punibile a titolo di tentativo; ed è significativo che la stessa relazione ministeriale al D.Lgs. 74/00 spieghi che la ratio della norma è appunto quella di evitare che il trasparente intento del legislatore delegante di bandire il modello del reato prodromico risulti concretamente vanificato dall’applicazione dell’art. 56 del codice penale: si potrebbe sostenere, difatti, ad esempio, che le registrazioni in contabilità di fatture per operazioni inesistenti o sottofatturazioni, scoperte nel periodo d’imposta, rappresentino atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere una successiva dichiarazione fraudolenta o infedele, come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato. Da qui dunque la conseguenza, da un lato, che solo con la presentazione della dichiarazione il reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. 74/00 può dirsi perfezionato e, dall’altro, che, a differenza di quanto in precedenza stabiliva l’art. 4, lett. g), della L. 516/82, le condotte ad essa pregresse restano, sul piano penale, del tutto irrilevanti, non potendo essere punite neppure a titolo di tentativo.

E allora il supremo collegio ha ravvisato giusti motivi per ritenere errato il verdetto di responsabilità pronunciato dalla Corte territoriale, poiché “il fatto contestato al professionista non ha disvalore penale, mancando in esso qualunque riferimento alla necessaria e imprescindibile indicazione in dichiarazione delle fatture emesse: nel capo d’imputazione riportato in sentenza, ed esattamente corrispondente al contenuto dell’addebito indicato nel decreto che dispone il giudizio, si è contestato infatti all’imputato di aver, in concorso con altre sessantanove persone, aver consentito a queste di evadere le imposte avvalendosi di fatture inesistenti, avendo in particolare fatto da tramite tra detti soggetti e la struttura della (omissis) s.a. che, attraverso società estere, curava l’emissione delle fatture ‘registrate nelle scritture contabili obbligatorie o tenute a fini di prova nel confronti dell’amministrazione finanziaria, a fronte di una provvigione sugli importi fatturati’. Ed è del resto significativo che la motivazione della sentenza impugnata, in qualche modo ‘accontentandosi’, ai fini della utilizzazione illecita, del dato invece neutro rappresentato dalla registrazione delle fatture nelle scritture contabili, non dia conto per nulla dell’avvenuta indicazione delle stesse nelle varie dichiarazioni”.

In definitiva, per la Suprema Corte il commercialista in questione non ha commesso alcun reato.

Autore: redazione fiscal focus

Notifica agli eredi. La costituzione in giudizio sana il vizio

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Sentenza della Cassazione in tema di notifica irregolare agli eredi

L’eventuale vizio di notifica dell’avviso di accertamento intestato a soggetto deceduto può dirsi sanato dall’impugnazione dell’atto da parte dei suoi eredi.

È quanto emerge dalla sentenza 4 novembre 2015, n. 22476, della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione.

La CTR della Lombardia confermava l’accoglimento del ricorso proposto dagli eredi di un contribuente divenuto destinatario – in ragione del maggior reddito accertato nei confronti della Snc della quale era socio – di un avviso di accertamento a titolo di IRPEF e ILOR.

Il giudice d’appello ha ritenuto la nullità insanabile del suddetto avviso a causa della “irregolarità” della notificazione, poiché effettuata impersonalmente e collettivamente agli eredi nell’ultimo domicilio del defunto, laddove tale modalità di notifica è possibile quando, diversamente dal caso di specie, non è stata data comunicazione all’AdE dei nomi e degli indirizzi degli eredi.

Ebbene, la Cassazione ha accolto il ricorso prodotto dall’Agenzia delle Entrate, con rinvio della causa al giudice di secondo grado.

In motivazione gli ermellini riaffermano il principio secondo il quale, in tema di atti d’imposizione tributaria, la notificazione non è un requisito di giuridica esistenza e perfezionamento dell’atto, ma una condizione integrativa d’efficacia, sicché la sua invalidità (o anche inesistenza) non determina in via automatica l’inesistenza dell’atto, quando ne risulti inequivocabilmente la piena conoscenza da parte del contribuente entro il termine di decadenza concesso per l’esercizio del potere all’Amministrazione finanziaria (da ultimo, Cass. n. 8374 del 2015).

In particolare, quindi, nel caso di atto impositivo intestato a soggetto deceduto, l’esecuzione della notifica, ai sensi dell’articolo 65 comma 4 del D.P.R. n. 600 del 1973, presso il suo ultimo domicilio, impersonalmente e collettivamente agli eredi, nonostante questi abbiano effettuato, almeno trenta giorni prima, la comunicazione all’Ufficio delle proprie generalità e del domicilio fiscale, configura anch’essa una ipotesi di nullità della notificazione stessa, soggetta quindi al regime della sanatoria ex art. 156 c.p.c.,laddove la insanabile inesistenza della notificazione deve ritenersi limitata alla sola ipotesi di notifica dell’atto indirizzata al soggetto deceduto, perché essa, in tal caso, va ad incidere in realtà sul momento strutturale del rapporto tributario (e quindi sull’atto), che non è evidentemente configurabile nei confronti di un soggetto non più esistente (tra le altre, Cass. n. 18729 del 2014).

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

 

Accertamenti e sottoscrizione. La delega “impersonale” annulla l’atto

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza pubblicata l’11 dicembre 2015

In tema di sottoscrizione dell’avviso di accertamento tributario, devono considerarsi nulli gli atti firmati in forza di una delega che reca la sola qualifica professionale del destinatario, senza alcun riferimento alle sue generalità. Per rendere legittima la delega non è sufficiente, ad esempio, l’indicazione come delegato del “capo team”.

È quanto emerge dalla sentenza 11 dicembre 2015, n. 25017, della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione.

Accogliendo il ricorso proposto da un contribuente Siciliano – raggiunto da un avviso di accertamento a fini IRPEF, e che ha lamentato la nullità dell’atto per violazione dell’art. 42 del D.P.R. 600/73, in quanto sottoscritto, a suo dire, da soggetto che non era in possesso della qualifica richiesta e senza l’annotazione della delega ricevuta -, i supremi giudici hanno osservato, a beneficio del giudice del rinvio, che non è indifferente che un atto complesso come l’accertamento tributario sia emesso da un funzionario privo della necessaria qualifica, quindi – deve presumersi – della necessaria capacità tecnica.

E infatti, in base all’art. 42 citato, l’avviso di accertamento è nullo se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Tale delega, ha precisato il supremo collegio, può essere conferita o con atto proprio o con ordine di servizio purché siano indicati, unitamente alle ragioni della delega (ossia le cause che ne hanno resa necessaria l’adozione, quali carenza di personale, assenza, vacanza, malattia, etc.):

  • il termine di validità
  • ed il nominativo del soggetto delegato.

Non è sufficiente, perciò, sia in caso di delega di firma sia in caso di delega di funzione, l’indicazione della sola qualifica professionale del destinatario della delega, senza alcun riferimento nominativo alle generalità di chi effettivamente rivesta la qualifica richiesta.

E allora sono “illegittime le deleghe impersonali, anche ‘ratione offici’, prive di indicazione nominativa del soggetto delegato. E tale illegittimità si riflette sulla nullità dell’atto impositivo. Non è dunque sufficiente l’indicazione come delegato del capo team per rendere legittima la delega”.

Autore: redazione fiscal focus

Liti fiscali. La sentenza favorevole alla società blocca l’accertamento nei confronti del socio

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza pubblicata il 4 dicembre 2015

In tema di società a ristretta base sociale, l’accertamento negativo, con sentenza passata in giudicato, dell’utile extracontabile della società rimuove il presupposto da cui dipende l’accertamento del maggior utile da partecipazione del socio.

È quanto emerge dalla sentenza 24793/15, pubblicata il 4 dicembre dalla Sesta Sezione Civile – T della Cassazione.

La controversia è scaturita da un avviso di accertamento per IRPEF 1995, con cui l’Agenzia delle Entrate aveva ripreso a tassazione i redditi di partecipazione del contribuente a una Srl, società a propria volta destinataria di un avviso di accertamento per il medesimo anno d’imposta, atto poi divenuto oggetto d’impugnazione.

Ebbene, l’annullamento, con sentenza passata in giudicato, dell’accertamento nei confronti della società ha determinato anche l’annullamento dell’atto impositivo inviato al socio e impugnato con ricorso autonomo.

L’Agenzia delle Entrate, nel giudizio di cassazione, ha sostenuto che il presupposto della pretesa nei confronti del socio non è la formazione di un accertamento definitivo nei confronti della società, ma il fatto storico dell’esistenza di redditi della società non dichiarati; sicché l’accertamento nei confronti della società potrebbe vincolare quello nei confronti del socio solo quando la pretesa nei confronti della società sia ritenuta inesistente nel merito e non, come nella specie, per un vizio procedurale. Infatti, nel caso di specie, il ricorso per cassazione contro la sentenza della CTR favorevole alla società era stato dichiarato inammissibile per mancato deposito dell’avviso di ricevimento della relativa notifica per posta.

I giudici del Palazzaccio non hanno ritenuto di poter condividere gli assunti della ricorrente Agenzia.

In tema di effetti del giudicato è già stato chiarito (Cass. n. 6788/13 e 2137/14), in via generale, che la sentenza passata in giudicato, oltre ad avere un’efficacia diretta tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, ne ha anche una riflessa, poiché, quale affermazione oggettiva di verità, produce conseguenze giuridiche anche nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo nei quali sia stata resa qualora essi siano titolari di diritti dipendenti dalla situazione definitiva in quel processo, o comunque subordinati a questa.

Sulla scorta di quanto sopra (nonché dei principi affermati in Cass. n. 24049/11), i giudici della Sesta Sezione del Palazzaccio hanno ritenuto di poter enunciare il principio secondo cui, nel giudizio avente a oggetto l’avviso di accertamento relativo al socio di una società di capitali a ristretta base sociale, deve riconoscersi l’efficacia riflessa del giudicato, formatosi nel giudizio intercorso tra l’Agenzia delle Entrate e la società, con cui è stata accertata la insussistenza di utili extracontabili della società. L’accertamento negativo dell’utile extracontabile della società rimuove, infatti, il presupposto da cui dipende l’accertamento del maggior utile da partecipazione del socio.

I giudici del Palazzaccio (in risposta all’assunto del fisco secondo cui il giudicato favorevole alla società farebbe stato nei confronti del socio “solo quando la pretesa nei confronti della società viene ritenuta inesistente nel merito”) hanno aggiunto che nel caso di specie il giudicato esterno vincolante non è la sentenza – effettivamente tutta in rito – con cui la Cassazione ha rigettato il ricorso contro la sentenza d’appello favorevole alla società, ma proprio la sentenza d’appello che ha annullato l’avviso di accertamento emesso nei confronti dalla società non per ragioni di legittimità formale degli atti o del procedimento impositivo, bensì sulla scorta di un giudizio che ha portato la CTR a ritenere che l’Amministrazione finanziaria non avesse adempiuto all’onere di dimostrare i fatti costitutivi della pretesa fiscale.

Per gli ermellini, dunque, la sentenza ottenuta dalla società ha operato un accertamento negativo del credito tributario di cui ha potuto beneficiare il socio: cioè essa sentenza, dopo il suo passaggio in giudicato, ha fatto stato anche nel giudizio intrapreso dal socio. Dal che il rigetto del ricorso dell’Agenzia delle Entrate.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

 

Iscrizione ipotecaria nulla senza preavviso

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 4 dicembre 2015

Equitalia deve comunicare preventivamente l’iscrizione ipotecaria per i debiti erariali non pagati, altrimenti il provvedimento è illegittimo per violazione del diritto del debitore alla partecipazione al procedimento, garantito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 41,47 e 48).

In ipotesi di omessa attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, l’iscrizione mantiene la sua efficacia fino alla declaratoria giudiziale dell’illegittimità, attesa la natura reale dell’ipoteca.

È quanto emerge dalla sentenza n. 24794/15 della Sesta Sezione Civile – T della Cassazione.

La controversia è originata da una comunicazione d’iscrizione ipotecaria ex art. 77 D.P.R. 602/73, provvedimento confermato dalla Commissione Tributaria Regionale di Venezia-Mestre, il cui verdetto è stato prontamente impugnato in Cassazione dal debitore.

Ebbene, la Suprema Corte ha ribaltato le sorti del giudizio decidendo la causa nel merito alla luce dell’insegnamento delle Sezioni Unite secondo cui, anche in materia d’iscrizione ipotecaria, s’impone il rispetto del contraddittorio endoprocedimentale.

Gli ermellini hanno accolto il motivo di ricorso concernente la violazione di legge per avere la CTR ritenuto legittima l’ipoteca esattoriale oggetto d’impugnazione sebbene questa fosse stata iscritta senza alcun preventivo avviso finalizzato a indurre il debitore ad adempiere.

Il diritto al contraddittorio preventivo è sancito negli articoli 41, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e, secondo la Corte di Giustizia, deve trovare applicazione ogniqualvolta l’amministrazione di uno Stato membro si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto a esso lesivo. Ed è per questa ragione che le Sezioni Unite (sentenze n. 19667 e 19668 del 2014) hanno sostenuto che, in tema di riscossione coattiva delle imposte, l’amministrazione finanziaria, prima di iscrivere ipoteca ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, articolo 77, deve comunicare al contribuente che intende procedere alla predetta iscrizione sui suoi beni immobili, concedendo a quest’ultimo un termine – che, per coerenza con altre analoghe previsioni normative presenti nel sistema, può essere fissato in trenta giorniperché egli possa esercitare il proprio diritto di difesa, presentando opportune osservazioni, o provveda al pagamento del dovuto.

L’iscrizione di ipoteca non preceduta dalla comunicazione al contribuente è nulla, in ragione della violazione dell’obbligo che incombe all’amministrazione di attivare il “contraddittorio endoprocedimentale”, mediante la preventiva comunicazione al contribuente della prevista adozione di un atto o provvedimento che abbia la capacità di incidere negativamente, determinandone una lesione, sui diritti e sugli interessi del contribuente medesimo.

Tuttavia, in ragione della natura reale dell’ipoteca, l’iscrizione eseguita in violazione del predetto obbligo conserva la propria efficacia fino a quando il giudice non ne abbia ordinato la cancellazione, accertandone l’illegittimità.

Alla stregua di questi rilievi, la Suprema Corte ha cassato senza rinvio la sentenza della CTR veneta disponendo, per l’effetto, la cancellazione dell’iscrizione ipotecaria impugnata.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Sottoscrizione accertamenti. Da dimostrare la validità della delega

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria sentenza depositata il 2 dicembre 2015

Sono affetti da nullità, per violazione dell’art. 42 del D.P.R. 600/73, gli avvisi di accertamenti sottoscritti da soggetto diverso dal Capo dell’ufficio in assenza d’indicazione alcuna in ordine alla qualifica e ai poteri a esso conferiti e in mancanza di prova circa l’esistenza di un provvedimento di delega da parte del Capo dell’ufficio.

A fronte della tempestiva eccezione formulata dal contribuente/ricorrente, l’Ufficio finanziario è tenuto a fornire la prova del corretto esercizio del potere di delega.

È quanto emerge dalla sentenza 2 dicembre 2015, n. 24492, della Quinta Sezione Civile della Corte di Cassazione.

La controversia è originata da un accertamento per il recupero a tassazione di ricavi non contabilizzati. L’Agenzia delle Entrate ha agito sulla base dei rilievi operati dalle Fiamme gialle e la società interessata dalla ripresa ha proposto tempestivamente impugnazione, senza tuttavia avere successo nei primi due gradi di giudizio.

Nel giudizio di legittimità, invece, gli ermellini hanno ritenuto fondata l’eccezione involgente la sottoscrizione degli atti impugnati, per essere questi stati firmati da soggetto diverso dal capo dell’Ufficio e senza che l’amministrazione resistente abbia fornito elementi sufficienti a far ritenere l’esistenza di una valida delega di firma in capo all’impiegato firmatario.

Da tempo la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la sottoscrizione dell’avviso di accertamento da parte di funzionario diverso da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo, oppure da parte di un soggetto da detto funzionario non validamente ed efficacemente delegato, non soddisfa il requisito di sottoscrizione prescritto, a pena di nullità, dall’art. 42 (commi 1 e 2) del D.P.R. 600 (cfr. Cass. 14195/2010).

È pacifico, poi, l’orientamento secondo cui, nell’individuazione del soggetto legittimato a sottoscrivere l’avviso di accertamento, in forza dell’art. 42 sopra citato, incombe all’Agenzia delle entrate l’onere di dimostrare il corretto esercizio del potere e la presenza di eventuale delega (cfr. Cass. n. 14942/2013).

Sempre la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che l’onere probatorio posto in capo all’amministrazione è effetto diretto dell’espressa previsione della tassativa sanzione legale della nullità dell’avviso di accertamento; previsione che trova la sua ragion d’essere nel fatto che gli avvisi di accertamento costituiscono la più complessa espressione del potere impositivo e incidono con particolare profondità nella realtà economica e sociale. Le qualità professionali di chi emana l’atto, quindi, costituiscono un’essenziale garanzia per il contribuente (da ultimo, Cass. n. 22800/2015).

Solo in diversi contesti, ha precisato la Quinta Sezione del Palazzaccio – quali ad esempio la cartella esattoriale, il diniego di condono, l’avviso di mora e l’attribuzione di rendita -, e in assenza di una sanzione espressa, opera la presunzione generale di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio è adottato; mentre in materia di IVA l’art. 56 del D.P.R. 633/72 richiama implicitamente l’art. 42 del D.P.R. 600/73; pertanto vale anche per gli avvisi di accertamento IVA la sanzione prevista (nullità) per il vizio di sottoscrizione.

I giudici del Palazzaccio, infine, hanno ritenuto opportuno sottolineare che i superiori principi non sono stati contraddetti dall’orientamento recentemente espresso dalla sentenza n. 22800 del 9 novembre scorso in tema di interpretazione del concetto di “impiegato della carriera direttiva” che può essere delegato.

Detta sentenza è giunta all’approdo che per le Agenzie fiscali la vecchia carriera direttiva deve oggi essere individuata nella terza area, che ha assorbito la nona qualifica funzionale, la quale è stata ritenuta idonea da diverse pronunce a determinare la validità della delega, con conseguente rigetto della tesi secondo cui il delegato dovrebbe essere un dirigente vero e proprio.

Resta dunque fermo il principio secondo cui, ove sia contestato l’esistenza di uno specifico atto di delega da parte del capo dell’ufficio e/o l’appartenenza dell’impiegato delegato alla carriera direttiva come sopra definita, spetta all’Amministrazione finanziaria fornire la prova della non sussistenza del vizio dell’atto; e tanto si deve sia al principio di vicinanza della prova (in quanto si discute di circostanze che coinvolgono direttamente la parte pubblica, mentre per il contribuente sarebbe difficile l’accesso ai documenti) sia a quello di leale collaborazione che grava sulle parti processuali (soprattutto quella pubblica). Non è, dunque, nemmeno consentito al giudice tributario attivare d’ufficio i poteri istruttori.

Ebbene, nel caso in esame, la CTR Lombardia non ha fatto buongoverno di questi principi. Di qui la decisione dei supremi di giudici di cassare la sentenza di secondo grado, con rinvio.

Autore: redazione fiscal focus

Cartelle di pagamento con raccomandata informativa

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

In ipotesi di irreperibilità momentanea del destinatario, la notifica della cartella esattoriale può dirsi validamente eseguita soltanto se sono stati curati tutti gli adempimenti previsti dall’articolo 140 del codice di procedura civile. In particolare, deve essere inviata la raccomandata informativa dell’avvenuto deposito del plico presso la casa comunale e, in caso di contestazione circa il ricevimento della cartella, il concessionario deve provare il ricevimento della stessa da parte dell’interessato, perché altrimenti la notifica deve considerarsi nulla.

È quanto emerge dalla sentenza n. 51/09/15 della Commissione Tributaria Regionale di Roma.

La controversia è scaturita da un preavviso di fermo veicolo in ragione dell’omesso pagamento di alcune cartelle che il contribuente ha negato di aver ricevuto.

La CTR capitolina, contrariamente alla CTP, ha ritenuto non provata, da parte della resistente Equitalia, la notifica delle cartelle sottese al fermo impugnato, e quindi ha accolto il motivo d’appello involgente la violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c., non risultando nella documentazione prodotta dal concessionario la prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata di avviso di deposito presso la casa comunale del plico da notificare.

La CTR ha ricordato che, nei casi previsti dall’articolo 140 c.p.c., il contribuente deve essere informato, mediante l’invio di raccomandata A/r, che la cartella esattoriale è stata depositata presso la casa comunale (v. C. cost. n. 258 del 2012).

L’art. 140 si applica nel caso d’irreperibilità relativa del notificatario e laddove il domicilio del medesimo sia conosciuto.

La norma prevede una serie di adempimenti:

  • l’affissione dell’avviso alla casa comunale (che però non costituisce formalità essenziale non essendo idonea, di per sé, a porre l’atto nella sfera di conoscibilità del destinatario);
  • l’affissione, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, a opera del notificatore, di un avviso dell’avvenuto deposito (ma anche questo secondo adempimento non è considerato dalla legge sufficiente, stante la sua precarietà che può tradursi nella sottrazione o, comunque, nella dispersione dell’avviso);
  • la notizia dell’avvenuto deposito che il notificatore deve dare al destinatario mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

Ebbene, poiché “il dettato della norma porta a ritenere che con il compimento del terzo adempimento, ovvero la spedizione della raccomandata, la notificazione deve considerarsi perfezionata nei confronti del soggetto che effettua la notifica (…), viceversa non perfeziona gli effetti della notifica nei confronti del soggetto destinatario della stessa”, il concessionario per la riscossione deve produrre una copia della ricevuta della raccomandata regolarmente sottoscritta dal soggetto notificando o da altro soggetto legittimato ai sensi del codice civile, ovvero copia del plico da cui risulti la compiuta giacenza presso l’ufficio postale a seguito di regolare avviso. Questa interpretazione “è corroborata dalla sentenza 3/10 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 140 c.p.c. nella parte in cui prevede che la notifica si perfezioni per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa anziché con il ricevimento o, comunque, decorso il periodo di compiuta giacenza”.

Ma nel caso esaminato, scrive la CTR capitolina, “non è stata mai prodotta alcuna ricevuta della raccomandata o altrimenti provato che l’interessato non abbia curato il ritiro della stessa nel normale termine di giacenza presso l’ufficio postale. La notifica delle cartelle pregresse al fermo oggetto di questo giudizio deve ritenersi del tutto irrituale con la conseguenza che il fermo, in accoglimento dell’appello, dev’essere dichiarato illegittimo”.

Le spese del giudizio sono state compensate.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

CARTELLE DI PAGAMENTO CON RACCOMANDATA INFORMATIVA

In ipotesi di irreperibilità momentanea del destinatario, la notifica della cartella esattoriale può dirsi validamente eseguita soltanto se sono stati curati tutti gli adempimenti previsti dall’articolo 140 del codice di procedura civile. In particolare, deve essere inviata la raccomandata informativa dell’avvenuto deposito del plico presso la casa comunale e, in caso di contestazione circa il ricevimento della cartella, il concessionario deve provare il ricevimento della stessa da parte dell’interessato, perché altrimenti la notifica deve considerarsi nulla.

È quanto emerge dalla sentenza n. 51/09/15 della Commissione Tributaria Regionale di Roma.

La controversia è scaturita da un preavviso di fermo veicolo in ragione dell’omesso pagamento di alcune cartelle che il contribuente ha negato di aver ricevuto.

La CTR capitolina, contrariamente alla CTP, ha ritenuto non provata, da parte della resistente Equitalia, la notifica delle cartelle sottese al fermo impugnato, e quindi ha accolto il motivo d’appello involgente la violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c., non risultando nella documentazione prodotta dal concessionario la prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata di avviso di deposito presso la casa comunale del plico da notificare.

La CTR ha ricordato che, nei casi previsti dall’articolo 140 c.p.c., il contribuente deve essere informato, mediante l’invio di raccomandata A/r, che la cartella esattoriale è stata depositata presso la casa comunale (v. C. cost. n. 258 del 2012).

L’art. 140 si applica nel caso d’irreperibilità relativa del notificatario e laddove il domicilio del medesimo sia conosciuto.

La norma prevede una serie di adempimenti:

  • l’affissione dell’avviso alla casa comunale (che però non costituisce formalità essenziale non essendo idonea, di per sé, a porre l’atto nella sfera di conoscibilità del destinatario);
  • l’affissione, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, a opera del notificatore, di un avviso dell’avvenuto deposito (ma anche questo secondo adempimento non è considerato dalla legge sufficiente, stante la sua precarietà che può tradursi nella sottrazione o, comunque, nella dispersione dell’avviso);
  • la notizia dell’avvenuto deposito che il notificatore deve dare al destinatario mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

Ebbene, poiché “il dettato della norma porta a ritenere che con il compimento del terzo adempimento, ovvero la spedizione della raccomandata, la notificazione deve considerarsi perfezionata nei confronti del soggetto che effettua la notifica (…), viceversa non perfeziona gli effetti della notifica nei confronti del soggetto destinatario della stessa”, il concessionario per la riscossione deve produrre una copia della ricevuta della raccomandata regolarmente sottoscritta dal soggetto notificando o da altro soggetto legittimato ai sensi del codice civile, ovvero copia del plico da cui risulti la compiuta giacenza presso l’ufficio postale a seguito di regolare avviso. Questa interpretazione “è corroborata dalla sentenza 3/10 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 140 c.p.c. nella parte in cui prevede che la notifica si perfezioni per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa anziché con il ricevimento o, comunque, decorso il periodo di compiuta giacenza”.

Ma nel caso esaminato, scrive la CTR capitolina, “non è stata mai prodotta alcuna ricevuta della raccomandata o altrimenti provato che l’interessato non abbia curato il ritiro della stessa nel normale termine di giacenza presso l’ufficio postale. La notifica delle cartelle pregresse al fermo oggetto di questo giudizio deve ritenersi del tutto irrituale con la conseguenza che il fermo, in accoglimento dell’appello, dev’essere dichiarato illegittimo”.

Le spese del giudizio sono state compensate.

AUTORE: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Il professionista “zelante” ed “efficiente” non dovrà mai risarcisce il cliente

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Civile, sentenza del 27 novembre 2015

In tema di risarcimento danni per responsabilità professionale, il professionista non è in colpa, ai sensi dell’articolo 1176 comma 2 del Codice civile, qualora non abbia tenuto una condotta difforme da quella che avrebbe tenuto, al suo posto, un ideale professionista “medio”. Per tale si deve intendere non un “professionista mediocre” bensì uno “professionista bravo”: ossia serio, preparato, zelante, efficiente.

È quanto emerge dalla sentenza 27 novembre 2015, n. 24213, della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione.

La Suprema Corte – trattando un caso di responsabilità medica – ha osservato che il diritto al risarcimento presuppone la causazione di un danno attraverso la violazione di norme giuridiche o di comune prudenza. E per capire se siano state violate norme giuridiche o di comune prudenza è necessario compiere un apprezzamento alla stregua dell’art. 1176 del Codice civile, che è applicabile anche alle ipotesi di responsabilità extracontrattuale.

L’articolo 1176 citato, al comma 1, chiarisce che il debitore deve adempiere l’obbligazione usando la diligenza del buon padre di famiglia, mentre al comma 2 la norma afferma che, “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”. La nozione di “diligenza” rappresenta l’inverso logico della nozione di “colpa”; ragion per cui è in colpa chi non è diligente. Viceversa, chi tiene una condotta diligente non può essere ritenuto in colpa.

Ebbene, gli ermellini hanno precisato che le norme di comune prudenza dalla cui violazione può scaturire una colpa civile non sono uguali per tutti.

Nel caso di obbligazioni comuni, ovvero di danni causati da chi non svolga un’attività professionale, l’art. 1176 impone di assumere, a parametro di valutazione della condotta del responsabile, il comportamento che avrebbe tenuto, nelle medesime condizioni, il “cittadino medio”, vale a dire “la persona di normale avvedutezza, formazione e scolarità”.

Nel caso invece di inadempimento di obbligazioni professionali, ovvero di danni cagionati nell’esercizio di una attività professionale in senso ampio, il secondo comma dell’art. 1176 prescrive un criterio più rigoroso.

Il professionista, infatti – ci dice la Cassazione – è in colpa non solo quando tenga una condotta difforme da quella che, idealmente, avrebbe tenuto nelle medesime circostanze il bonus pater familias, ma anche quando abbia tenuto una condotta difforme da quella che avrebbe tenuto, al suo posto, un ideale “professionista medio”.

Nella giurisprudenza di legittimità, l’ideale “professionista medio” ex art. 1176, comma 2, cod. civ., , non è un professionista “mediocre”, ma è un “professionista bravo”: vale a dire serio, preparato, zelante efficiente.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Beni sequestrati al manager che sa del giro di fatture false emesse a monte e a valle dalla cartiera

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 26 novembre 2015

I beni personali (mobili e immobili) del legale rappresentante di società sono passibili di sequestro preventivo, funzionale alla confisca, se risulta il suo coinvolgimento attivo nella frode carosello. È quanto emerge dalla sentenza 26 novembre 2015, n. 46857, della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Gli ermellini hanno respinto il ricorso prodotto da un legale rappresentante di società nei confronti del quale è stata ipotizzata la fattispecie di reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 con un’evasione d’IVA per oltre 2mln di euro; importo fino alla concorrenza del quale è stato disposto il sequestro preventivo, ai fini di confisca, di beni immobili e mobili, polizze assicurative e somme depositate su conto corrente.

La decisione impugnata, pronunciata dal Tribunale del riesame, è sembrata alla Suprema Corte corretta giuridicamente, oltreché congruamente motivata.

Il giudice di merito ha ricostruito la vicenda evidenziando come la guardia di finanza, con accertamenti e verifiche, avesse acquisito la documentazione e denunciato il ricorrente quale autore di una c.d. frode carosello che coinvolgeva almeno tre società, una della quali – che era situata in un altro Paese U.E. – emetteva come cartiera, “a monte”, fatture di acquisto e, “a valle”, fatture di vendita tra le aziende coinvolte nella transazione, svolgendo la funzione di “cartiera” e interponendosi tra gli effettivi soggetti della negoziazione, conseguendosi con tale meccanismo, il vantaggio patrimoniale di lucrare l’importo relativo all’IVA non versata e consentendo anche all’effettivo destinatario della merce (cioè la società del ricorrente) di acquistarla a un prezzo ridotto. Il Tribunale ha quindi evidenziato, da un lato, i rapporti commerciali esistenti tra la società del ricorrente e la “cartiera” e, dall’altro, come alla fine dei vari passaggi e operazioni la società del ricorrente lucrasse un risparmio di spesa di più dell’8 per cento, non pagando peraltro l’IVA.

Ebbene, la Suprema Corte, nell’avallare il verdetto del giudice di merito, ha osservato, fra l’altro, che la previsione del D.P.R. n. 633/72 (articolo 21, comma 7) – secondo la quale, “se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura” – è esplicita nel senso di imporre il versamento dell’imposta, ma di precluderne la detrazione. La disposizione viene infatti letta nel senso che il tributo viene a essere considerato “fuori conto” e la relativa obbligazione, conseguentemente “isolata” dalla massa di operazioni effettuate, “estraniata”, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra Iva “a valle” e Iva “a monte”, che presiede alla detrazione d’imposta di cui al decreto 633 (articolo 19). E ciò per il rilievo che il versamento dell’Iva a un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada a un indebito recupero dell’imposta, è evento dirompente, nell’ambito del complessivo sistema Iva. Il diritto alla detrazione dell’imposta non può infatti prescindere dalla regolarità delle scritture contabili e in particolare dalla fattura che è considerata documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa.

Nella specie, poi, la Suprema Corte ha ritenuto escludibile qualsiasi inconsapevolezza da parte del ricorrente circa l’esistenza del meccanismo fraudolento. Infatti è stato possibile ricavare dal testo dei provvedimenti impugnati come il meccanismo criminoso fosse strutturato su più livelli per cui la merce, prima di giungere definitivamente alla società rappresentata dall’indagato, “è stata fatta oggetto di numerose operazioni di compravendita, solo cartolari, finalizzate esclusivamente alla creazione in capo alle simulate alienanti, assetti societari riconducibili al ricorrente, di un credito Iva non spettante, mai versato all’erario e al quale va perciò parametrato il profitto conseguito con l’evasione”.

Al ricorrente non resta che pagare le spese del giudizio di legittimità.

Autore: redazione fiscal focus

La congruità agli Studi di settore blocca l’induttivo coi parametri

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il dato di congruità dei ricavi o compensi dichiarati dal contribuente, rispetto allo studio di settore approvato con riferimento all’attività svolta, rende illegittimo l’accertamento basato sull’applicazione dei parametri.

È quanto ha sostenuto la Sezione Tributaria della Cassazione con la sentenza 23554 del 18 novembre 2015.

I giudici tributari del Palazzaccio hanno accolto il ricorso proposto da un contribuente esercente attività di trasporto merci su strada.

All’autotrasportatore, in applicazione dei parametri di cui al D.P.C.M. 29/01/1996, l’Ufficio finanziario aveva contestato maggiori ricavi, con conseguente rideterminazione di quanto dovuto a fini IRPEF e contributo SSN, nonché IVA per l’anno d’imposta 1996.

La rettifica del reddito d’impresa sulla base dei presunti maggiori ricavi è stata avvalorata dalla CTR del Lazio perché, a suo parere, il contribuente, né in sede di contraddittorio endoprocedimentale né in sede processuale, aveva fornito elementi sufficienti a screditare l’operato dell’Ufficio finanziario.

Ebbene, ad avviso della Suprema Corte il contribuente ha lamentato a buon diritto la violazione e falsa applicazione di legge laddove la CTR, nonostante le specifiche doglianze mosse sin dal primo grado di giudizio, non ha ritenuto, a fronte della pacifica congruità dell’attività agli studi di settore, “precluso o comunque superato” l’accertamento induttivo dell’Ufficio.

Il contribuente aveva evidenziato di essere congruo secondo i risultati degli studi di settore e tale circostanza non è stata smentita dall’Ufficio. In proposito gli ermellini hanno osservato che “il risultato di congruità emergente dall’applicazione dello studio di settore, stante la natura procedimentale di quest’ultimo, non può essere escluso ove applicato ad un anno anteriore, tanto più, come precisato da Cass. 8311/2013, a fronte di situazioni ordinarie, non essendo emerse situazioni contingenti, cioè correlate solo a determinate annualità d’imposta o eccezionali, cioè ad esempio di tipo economico”. E allora, secondo la S.C.: “Il dato di congruità dei ricavi o compensi dichiarati dal contribuente, rispetto allo studio di settore approvato con riferimento all’attività svolta, dato questo non contestato dall’Agenzia delle Entrate (come accertato in sentenza dalla CTR), valeva pertanto a rendere illegittimo l’accertamento basato sull’applicazione dei parametri”.

La Cassazione ha quindi deciso la causa nel merito, accogliendo il ricorso introduttivo del contribuente. Il fisco dovrà pagare le spese processuali del grado.

Autore: redazione fiscal focus

Sì alle ritenute per la concessione di locali uso foresteria

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 25 novembre 2015

La concessione a titolo gratuito di un locale a uso foresteria concorre a formare il reddito da lavoro dipendente come “fringe benefits” – con conseguente necessità di operare le ritenute alla fonte – se la società non dimostra che il dipendente lo utilizza solo saltuariamente, ossia in occasione delle trasferte di lavoro.

È quanto emerge dalla sentenza n. 24007/15 della Sezione Tributaria della Cassazione.

La controversia ha riguardato un avviso di accertamento con cui l’Ufficio finanziario ha contestato a una società le omesse ritenute alla fonte – per circa 4mila euro – su pretesi compensi in natura e, segnatamente, per la concessione a titolo gratuito di locali uso foresteria in favore di un dipendente che rivestiva, nel periodo considerato, la carica di amministratore e legale rappresentate.

La contribuente società ha spiegato che l’immobile oggetto di controversia si trovava nel Comune di ubicazione della sede legale/amministrativa, mentre l’amministratore risiedeva in un’altra città; quindi lo stesso immobile era utilizzato dall’amministratore e legale rappresentate non in modo permanente, ma unicamente quando era necessaria la sua partecipazione alle riunioni o assemblee societarie.

Ebbene, le suddette argomentazioni difensive non hanno fatto breccia né presso i giudici di merito né presso la Suprema Corte, la quale infatti ha reso definitivo l’accertamento oggetto di controversia.

Nel caso di specie, la ripresa a tassazione per omesse ritenute alla fonte su compensi in natura (c.d. fringe benefits) si è fondata sul disposto dell’art. 48, comma 4, lett. c), del vecchio TUIR. Dal primo comma di detta disposizione emerge chiaramente l’esistenza di un principio di (sia pure tendenziale) onnicomprensiva riconducibilità alla sfera reddituale delle erogazioni a qualsiasi titolo corrisposte al dipendente, stante l’esplicito riferimento a “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”, cui nel successivo quarto comma, lett. c), segue, in particolare, il riferimento appunto all’ipotesi di “fabbricati concessi in locazione, in uso o in comodato”.

E allora, secondo la Suprema Corte, “contrariamente a quanto opinato dal ricorrente, spetta non già all’amministrazione finanziaria, bensì al contribuente, l’onere di provare che, in concreto, le specifiche modalità di utilizzo a titolo gratuito di un immobile, in connessione al rapporto di lavoro, comportino una eccezione a quella previsione normativa generale”.

La CTR, nel caso in esame, ha correttamente fondato la decisione impugnata sulla mancanza di prova in ordine al concreto utilizzo dell’appartamento tenuto a disposizione dell’amministratore nella città di ubicazione della sede legale della società. Precisamente è mancata la prova in merito alla “specifica frequenza dell’utilizzo, per documentate necessità di trasferta del dipendente, nel periodo d’imposta in esame”, le quali sono rimaste in atti come meramente assertive e del tutto imprecisate”.

Insomma, nulla da fare per la società ricorrente, cui non resta che pagare le spese del giudizio di legittimità.

Autore: redazione fiscal focus

Reato di omessa dichiarazione. L’incarico al commercialista non evita la condanna

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 24 novembre 2015

Affidare al commercialista il compito di predisporre e presentare la dichiarazione annuale non esonera l’imprenditore dalla responsabilità penale per il reato di omessa dichiarazione. Non solo. Laddove si proceda per detto reato, il giudice può ritenere superata la soglia monetaria fissata dalla norma incriminatrice sulla base dell’accertamento induttivo dell’imponibile compiuto dagli organi dell’amministrazione finanziaria.

È quanto emerge dalla sentenza n. 46500/15 della Terza Sezione Penale della Cassazione.

I giudici penali del Palazzaccio hanno esaminato il ricorso di un legale rappresentate di società riconosciuto responsabile del reato previsto dall’art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000 in relazione a due annualità: il 2006 e il 2007. Va precisato che per quanto riguarda la prima annualità, gli ermellini hanno rilevato l’estinzione del reato per prescrizione, con conseguentemente eliminazione della relativa pena. Il giudizio di responsabilità della Corte d’appello è invece stato confermato per l’anno 2007.

Nel respingere le numerose censure operate dai difensori dell’imputato, la Suprema Corte ha ribadito l’orientamento secondo cui, in tema di reati tributari, l’accertamento induttivo compiuto dagli uffici finanziari può rappresentare un valido elemento di indagine per stabilire, in sede penale, se vi sia stata evasione e se questa abbia raggiunto le soglie di punibilità previste dalla legge, a condizione che il giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in essi evidenziati, ma proceda a specifica autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti “aliunde” (cfr. Cass. n. 1904/99, n. 40992/13, fra le altre).

Di questi principi, secondo gli ermellini, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione assumendo – si legge – “che a) l’accertamento era fondato su dati obiettivi, derivando dalla sommatoria degli importi portati dalla fatture emesse dalla società e non contabilizzate; b) non erano state fornite dall’imputato fatture passive; c) era ininfluente la presenza di eventuali operazioni esenti iva, dal momento che la condotta omissiva in contestazione riguardava esclusivamente l’imposta diretta sul reddito (IRES); d) la base imponibile determinata in sede di accertamento era stata accettata dallo stesso imputato che aveva provveduto al pagamento della imposte dovute; e) la soglia di punibilità risultava pertanto ampiamente superata”.

Quanto all’elemento soggettivo del reato, la difesa ha sostenuto che la prova del dolo di evasione, richiesto dalla norma, non può essere fatto discendere da un comportamento colpevole come quello di non aver verificato la trasmissione telematica della dichiarazione da parte del professionista incaricato.

Ebbene, gli ermellini hanno ribattuto che l’affidamento a un professionista dell’incarico di predisporre e preparare la dichiarazione annuale dei redditi non esonera il soggetto obbligato dalla responsabilità penale per il reato di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 74, “in quanto, trattandosi di reato omissivo proprio, la norma tributaria considera come personale e non delegabile il relativo dovere”. Ciò vale a maggior ragione in un caso come quello di specie in cui è rimasta indimostrata la negligenza del professionista incaricato e in cui è stata ritenuta irrilevante la circostanza della presentazione delle dichiarazioni per gli anni precedenti perché, come osservato dal giudice di merito, “il dolo specifico richiesto dalla norma, oltre che dalla mancata presentazione della denuncia, era desumibile anche dalla mancata esibizione delle fatture emesse dalla società e dall’effettuazione del pagamento delle imposte solo dopo la contestazione”.

Autore: redazione fiscal focus

Perdite e riflessi sull’avviamento

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il valore di avviamento non può essere aprioristicamente escluso, né dall’esistenza né dall’ammontare delle perdite intervenute negli anni precedenti e in quello di cessione. È ben possibile che un’impresa, benché in perdita, possieda un avviamento consistente.

È quanto emerge dalla sentenza n. 22506/2015 della Sezione Tributaria della Cassazione.

La controversia è originata da un avviso di accertamento che rettificava il valore della cessione di un complesso aziendale con rivalutazione in oltre 21 mld delle vecchie lire della voce “avviamento – marchio – testata”, che le parti avevano invece dichiarato pari a una lira (valore simbolico).

A intraprendere il giudizio di cassazione è stato l’Ufficio finanziario dopo che la CTC, a conferma del verdetto della CTR, aveva sostenuto l’illegittimità della rettifica nella misura in cui non aveva tenuto conto della persistente inattitudine dell’azienda a produrre reddito, testimoniata dai risultati economici negativi anteriori e successivi, tali da far ritenere corretta la riduzione dell’avviamento a valore simbolico, praticamente corrispondente al suo annullamento.

Ebbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate ritenendo fondate le censureinvolgenti, rispettivamente, la violazione e falsa applicazione di legge (artt. 48 D.P.R. n. 634/72; 51 D.P.R. n. 131/86) e l’insufficiente motivazione in punto di determinazione del valore di avviamento.

La CTC ha desunto dal mero fatto delle perdite intervenute negli anni precedenti e in quello di cessione la “persistente inattitudine dell’azienda alla produzione di un reddito”, quindi l’esclusione di un valore di avviamento superiore a quello simbolico dichiarato dalle parti (1 £).

Ad avviso della CTC, quindi, la circostanza delle perdite intervenute negli anni precedenti nonpoteva comportare, di per sé, un valore positivo dell’avviamento, stante la persistenza delle stesse anche dopo la vendita. Tuttavia una simile affermazione, secondo la S.C., rappresenta un errore giuridico, in quanto, costituendo una qualità dell’azienda, l’avviamento possiede un valore che si somma a quello degli altri beni che compongono l’azienda stessa e tale operazione, anche considerando il testo della norma applicata, deve precedere la detrazione delle passività. Sicché il valore di avviamento non può essere aprioristicamente escluso, né dall’esistenza né dall’ammontare delle perdite.

In altre parole, per la S.C., tanto l’art. 51 del D.P.R. n. 131, quanto la previgente norma del D.P.R. n. 634 del 1972 sono “nel senso che per gli atti che hanno per oggetto aziende o diritti reali rileva il valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento, al netto delle passività. Il che traduce un dato coerente con la natura stessa dell’avviamento, che è un valore patrimoniale e che, come tale, non configura un valore dell’attività d’impresa ma dell’azienda (obiettivamente considerata); un valore che non necessariamente risente dell’esito (in termini di utili o di perdite) dell’attività d’impresa. Consegue che la circostanza che un’impresa abbia prodotto delle perdite negli anni precedenti alla cessione dell’azienda, pur potendo esser rilevante e meritevole di attenta considerazione ai fini della determinazione dell’avviamento commerciale, non esaurisce (non può esaurire) l’oggetto dell’indagine perché è ben possibile che l’impresa sia in perdita per ragioni che nulla hanno a che fare con l’avviamento aziendale (l’insufficiente liquidità, il peso degli oneri finanziari, le consistenza di perdite su crediti e così via), sebbene l’azienda – correttamente gestita – persista nel possesso di un considerevole valore di avviamento”.

Dunque il ricorso del Fisco è stato ritenuto fondato circa la questione della determinazione dell’avviamento; il che ha determinato la cassazione con rinvio dell’impugnata sentenza.

Autore: redazione fiscal focus

Le valutazioni nel falso in bilancio secondo il Massimario della Cassazione

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Con l’entrata in vigore della Legge 27/05/2015, n. 69, recante “Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio”, le false comunicazioni sociali hanno cambiato radicalmente impostazione.

Trattasi, in sostanza, di una riforma epocale che introduce un regime punitivo assai più severo, configurando tutte le fattispecie di mendacio come delitti, in aperta antitesi rispetto al falso in bilancio risultante dalla precedente riforma del 2002.

La condotta punita.L’art. 2621 c.c., come sostituito dall’art. 9, comma 1 della Legge 69/2015, disciplina il delitto di false comunicazioni sociali; la nuova previsione, che opera in via residuale al di fuori delle fattispecie disciplinate dalla disposizioni successive, prevede due diverse configurazioni nella condotta criminosa:

  • esposizione nelle comunicazioni sociali fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero;
  • omissione nei medesimi documenti fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene.

Secondo una lettura “tradizionale” della disposizione in commento, nella nozione di “fatto materiale” (oggetto dell’esposizione nelle comunicazioni sociali) dovrebbero rientrare i dati oggettivi che attengono alla realtà economica, patrimoniale e finanziaria della società o del gruppo cui essa appartiene.

In antitesi con tale categoria di elementi, emergono le “valutazioni” che, stando alla lettera della norma, resterebbero escluse dall’ambito penale; in tale categoria si ricomprendono di norma le scelte soggettive riconducibili entro parametri certi. La revisione operata dal D.Lgs n. 69/2015 sembrerebbe pertanto escludere definitivamente la rilevanza penale delle valutazioni, che sfuggono alle logiche della materialità di un fatto non rispondente al vero.

Le valutazioni secondo l’Ufficio del Massimario. Nella relazione n. 3 redatta il 15 ottobre scorso per la V Sezione Penale, l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione affronta il tema nelle “nuove” false comunicazioni sociali, fornendo una chiave di lettura in controtendenza rispetto all’orientamento espresso nella sentenza n. 33774 del 16/06/2015 della medesima sezione penale (citata al punto 2.3 della relazione); in tale ultima pronuncia, la Suprema Corte ritiene prive di rilevanza penale le valutazioni, alla luce del revisionato sistema del mendacio societario, che ha comportato la soppressione dell’inciso (presente nella precedente versione della norma) “ancorché oggetto di valutazioni”.

La relazione, in particolare, evidenzia come, secondo la dottrina predominante, “il bilancio è costituito quasi del tutto da valutazioni e si basa su un metodo convenzionale di rappresentazione numerica dei fatti attinenti alla gestione dell’impresa; la maggior parte dei numeri che devono essere appostati in bilancio si riferisce non a grandezze certe, bensì solo stimate; è quindi ineludibile la rilevanza penale della valutazione degli elementi di bilancio, essendo la sua funzione principale quella di indicare il valore del patrimonio sociale al fine di proteggere i terzi che entrano in rapporto con la società, e costituendo il patrimonio sociale la garanzia per i creditori (e più in generale la misura di questa garanzia per i terzi); nonché per i soci (soprattutto di minoranza) lo strumento legale di informazione contabile sull’andamento della compagine sociale”.

In conclusione, l’Ufficio del Massimario appare confermare la rilevanza penale delle valutazioni anche nella revisionata formulazione della norma, nei termini precisati nella relazione in commento; di conseguenza, la decisione circa la falsità di una valutazione di bilancio dovrà basarsi sul rispetto o meno dei criteri legali di redazione del bilancio; a corollario dell’interpretazione formulata nella medesima relazione, viene richiamata la pronuncia della Sezione V del 16/12/1994, n. 234, per la quale la veridicità o la falsità delle componenti del bilancio va valutata in relazione alla loro corrispondenza ai criteri di legge e non alle enunciazioni “realistiche” con le quali vengono indicate.

Autore: Marco Brugnolo

Finanziamenti dei soci

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 20 novembre 2015

In tema di determinazione della base imponibile ai fini dell’IRES, qualora l’erogazione di una somma a titolo di finanziamento infruttifero sia eseguita dai soci mediante compensazione con un credito da loro vantato nei confronti della società, il relativo importo non può costituire sopravvenienza attiva, in quanto, se il finanziamento ha la sostanza del mutuo, l’obbligo di restituzione che lo accompagna esclude che esso determini nuova ricchezza, mentre se il finanziamento è in conto capitale, la configurabilità della sopravvenienza è esclusa dall’articolo 88 del TUIR.

È il principio di diritto enunciato dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione con la sentenza 20 novembre 2015, n. 23782.

Il verdetto dei giudici dell’appello (CTR Milano) è stato parzialmente annullato dalla Suprema Corte, in accoglimento del ricorso proposto nell’interesse di una SRL. Nei confronti di quest’ultima l’Ufficio aveva accertato un maggiore imponibile a fini IVA, IRES e IRAP sulla base dei rilievi di un PVC.

In particolare, il fisco ha contestato sopravvenienze attive non dichiarate inerenti alla contabilizzazione di una somma di circa 500mila euro. Ma è stato accertato che tale somma era stata corrisposta dai soci, mediante compensazione, e a titolo di finanziamento infruttifero. Il che ha fatto ritenere fondata la doglianza formulata in proposito dalla ricorrente società, con enunciazione, da parte dei giudici di legittimità, del principio di diritto di cui si è detto e del quale ora dovrà tenere contro il giudice del rinvio.

La Suprema Corte, in relazione a un’altra doglianza della società, che però non è stata accolta, ha fornito chiarimenti in tema di detrazione IVA nel caso in cui il contribuente invochi l’applicazione di abbuoni e sconti previsti contrattualmente. L’applicazione dell’art. 26 del D.P.R. 633/72 richiede, secondo la Corte, che venga praticato al cessionario uno sconto sul prezzo della vendita effettuato e che la riduzione del corrispettivo al cliente sia il frutto di un accordo, il quale può essere documentale, o verbale, e persino successivo, purché del medesimo sia fornita la prova, da parte dei soggetti interessati, mediante la trasfusione del patto stesso in note di accredito, emesse da una parte in favore dell’altra, con l’allegazione della causale che, volta per volta, abbia giustificato gli sconti medesimi. Onere probatorio che, secondo la CTR, non è stato assolto dalla ricorrente società, anche “perché la dichiarazione via e-mail, nonché la successiva attestazione, riguardate come documenti, non sarebbero idonee a documentare l’accordo, in base al principio secondo il quale in forza dell’art. 2704 c.c., non e opponibile all’amministrazione finanziaria, ai fini della prova dei presupposti per l’applicazione dell’art. 26 del D.P.R. 633/72, una scrittura privata priva di sottoscrizione autenticata in data certa(cfr. Cass. 8535/2014).

Autore: redazione fiscal focus

Giurisprudenza Studi settore. Occorre adattare l’accertamento alla specifica realtà aziendale

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

È illegittimo l’avviso di accertamento basato unicamente sulle risultanze dello studio di settore anche laddove l’Amministrazione abbia utilizzato lo strumento più recente. È questo emerge dalla sentenza n. 1307/10/15 della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna.

La CTR dell’Emilia Romagna ha ritenuto illegittimo – così come la CTP – un avviso di accertamento basato sugli studi di settore, atto con cui l’Ufficio finanziario aveva rideterminato induttivamente i ricavi di una società operante nel settore dell’informatica e dedita all’attività di “sviluppo di sistemi informatici integrati di gestione della fabbrica, adattati per ogni specifico cliente”.

La ricorrente (che aveva aderito al preventivo invito al contraddittorio) ha eccepito con successo l’inadeguatezza dello studio di settore a rappresentare la propria specifica realtà aziendale; tant’è vero che era stata la stessa Amministrazione finanziaria a riconoscere, in sede di contraddittorio endoprocedimentale, l’imprecisione dello studio TG66U il quale, pertanto, era stato sostituito col più evoluto UG66U, con conseguente riduzione dei maggiori ricavi inizialmente contestati.

L’Ufficio resistente, dal canto suo, ha inutilmente sostenuto la legittimità dell’accertamento in questione, posto che esso non poteva dirsi il prodotto di una presunzione semplice di maggior reddito ma il frutto dell’adeguamento dell’elaborazione statistica alla concreta realtà economica della contribuente e, quindi, portatore di quel quid pluris richiesto dalla giurisprudenza (su tutte: Cass.,S.U., n. 26635/2009).

Ebbene, secondo i giudici di primo grado, gli accertamenti basati sull’incongruenza fra ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore, così come disposto dall’art. 62-sexies del D.L. 331/93, costituiscono di per sé una presunzione grave, precisa e concordante a favore dell’Amministrazione finanziaria ma solo “se risulta applicata correttamente la procedura di rilevazione degli studi di settore, come le relazioni esistenti tra le variabili contabili e quelle strutturali, andamento della domanda, livello dei prezzi in relazione ai vari periodi temporali, concorrenza, ecc. ferma restando la facoltà del contribuente di fornire prova contraria”. Nella fattispecie, l’Ufficio – secondo la CTP – non ha fornito una convincente dimostrazione del fatto che lo studio di settore utilizzato potesse rappresentare con sufficiente attendibilità un’azienda, come la contribuente, “altamente specializzata in una materia, quella dell’informatica, oggi in continua evoluzione. Nonostante gli sforzi effettuati dall’ufficio nella ricerca di uno studio più aderente alla realtà aziendale, le rilevazioni effettuate, la prima con lo studio TG66U e la seconda con lo studio UG66U ritenuto più attendibile, non appaiono convincenti per dimostrare la legittimità dell’atto impositivo”.

Queste argomentazioni del Collegio di prime cure hanno trovato concordi i giudici regionali, secondo i quali, nel caso di specie, “mentre dagli atti risulta che la parte abbia profuso dati ed argomenti, l’Ufficio ha identificato nella mera applicazione dello studio di settore più evoluto GU66U l’operazione di concreto adattamento alla specifica realtà aziendale”. Inoltre, una volta instauratasi la controversia, l’Ufficio ha replicato che “se è vero, infatti, che l’Ufficio deve valutare ulteriori elementi rispetto alle risultanze degli studi di settore, per rapportare il calcolo alla realtà del singolo contribuente, è anche vero che tale analisi potrà essere fatta se e solo se il contribuente stesso fornisce tali elementi, supportati da idonei mezzi di prova e dovrà essere basata proprio su quanto da questi esposto”; ma per la CTR un simile assuntocostituisce una curiosa inversione dell’onere della prova: se il ripetuto insegnamento della Cassazione pretende che le risultanze dell’applicazione di uno studio di settore pertinente siano corroborate da altre prove con onere a carico dell’Ufficio, questo non può cavarsela sostenendo ‘non ho potuto addurre le prove ulteriori perché il contribuente non ha fornito gli elementi, supportati dalle prove, che mi avrebbero consentito di arricchire le risultanze dello studio di settore applicato’”.

La CTR conclude dicendo: “non si ritiene ricorrano gravità e persistenza del disallineamento per rafforzare la presunzione derivante dalla mera applicazione dello studio di settore (pure contestato). Per converso si ritiene carente l’indagine dell’Ufficio circa la concreta applicazione delle risultanze dello studio di settore alla realtà gestionale ed organizzativa della società accertata, nonché al particolare mercato in cui essa opera”.

L’Ufficio finanziario paga le spese processuali.

Autore: redazione fiscal focus

Quadro RW. L’integrativa non evita la sanzione

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Sentenza della CTR Lombardia in tema di omessa dichiarazione d’investimenti all’estero

La sanzione prevista per l’omessa compilazione del quadro “RW” è applicabile anche nel caso in cui il contribuente abbia integrato la dichiarazione. È quanto emerge dalla sentenza n. 3778/67/15 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (Sez. Staccata di Brescia) secondo cui, peraltro, il raddoppio dei termini per l’accertamento previsto dal D.L. 78 del 2009 con riferimento agli investimenti in Paesi a fiscalità privilegiata ha carattere processuale ed è pertanto suscettibile di applicazione retroattiva.

Dopo aver ricevuto un questionario dell’Ufficio, il contribuente ha presentato dichiarazione integrativa per l’anno d’imposta 2006 allo scopo di porre rimedio all’omessa dichiarazione di investimenti all’estero, stante la partecipazione in una società elvetica. La presentazione dell’integrativa con il riferimento al quadro RW non ha evitato la notifica di un atto di contestazione per violazione del D.L. 167/90, con irrogazione della sanzione. Dal che la proposizione del ricorso davanti alla competente CTP, la quale ha annullato l’atto di contestazione ritenendo, da un lato, che l’Ufficio non potesse usufruire del raddoppio dei termini per l’accertamento e, dall’altro, che la presentazione della dichiarazione integrativa (ex art. 2, comma 8, D.P.R. 322/98) aveva inciso sulla possibilità di applicare la sanzione per l’omessa dichiarazione d’investimenti all’estero nonostante fosse già stata intrapresa l’attività accertativa.

Ebbene, la CTR ha preso le distanze dal ragionamento decisionale del Collegio di prime cure.

Secondo l’amministrazione appellante, la CTP non ha considerato che il raddoppio dei termini per l’accertamento, riferito agli investimenti in Paesi a fiscalità privilegiata, ha carattere “processuale”, con conseguente applicabilità della nuova normativa anche ad annualità precedenti per le quali non fossero ancora scaduti i termini di accertamento. In ogni caso, la presentazione della dichiarazione integrativa non è circostanza capace di incidere sulla sanzione di cui all’art. 5 del D.L. 167/90; dunque il contribuente avrebbe dovuto ricorrere al ravvedimento operoso oppure alla definizione agevolata ex art. 16 D.Lgs. n. 472/97.

I suddetti motivi d’appello dell’Agenzia delle Entrate hanno trovato ingresso presso i giudici bresciani. Questi, infatti, hanno sostenuto ‘”l’evidentissimo carattere processuale del raddoppio del termine per l’accertamento” e, inoltre, che l’integrazione della dichiarazione ha rilevanza ai fini della ridefinizione della materia imponibile “ma senza che ciò ridondi sulla sanzione correlata alla mancata (tempestiva) dichiarazione”. Infine, la CTR esclude che la mancata compilazione del quadro RW costituisca violazione formale, “perché se è vero che essi non danno luogo direttamente a materia imponibile, è altrettanto vero che costituiscono un ‘segnale di attenzione’, a maggior ragione rilevante se si considera che evidenziano dati (…) che per definizione non potrebbero essere desumibili, neppure aliunde o incidentalmente, dalla Amministrazione fiscale”.

Insomma, nella specie l’AdE ha ottenuto la riforma della sentenza di prime cure che aveva accolto il ricorso introduttivo del contribuente. Le spese del giudizio sono state compensate tra le parti.

Autore: redazione fiscal focus

Frode fiscale e aggravante della transnazionalità

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 19 novembre 2015

La Corte di Cassazione (Sez. 3. Pen.), con la sentenza n. 45935/15 pubblicata ieri, si èespressa in merito alla circostanza aggravante speciale prevista dall’art. 4 della Legge n. 146 del 2006, nell’ambito di un procedimento nel quale le imputazioni provvisorie hanno riguardato i reati di associazione a delinquere per commettere una serie indeterminata di reati contro la pubblica amministrazione e fiscali, corruzione di funzionari esteri, evasione fiscale.

I giudici penali di legittimità hanno “bacchettato” il giudice di merito per aver applicato l’aggravante della transnazionalità malgrado la genericità sul punto delle imputazione provvisorie. Di conseguenza è stato parzialmente accolto il ricorso proposto da uno dei soggetti coinvolti nel suddetto procedimento. Precisamente l’ordinanza gravata è stata annullata relativamente all’applicazione dell’art. 4 L. 146 del 2006, con rinvio per nuovo esame.

La Sezione Terza Penale di Piazza Cavour ha evidenziato – a beneficio del giudice del rinvio – che la transnazionalità non è un elemento costitutivo di un’autonoma fattispecie di reato, ma una qualità riferibile a qualsiasi delitto, a condizione che sia punito con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro annie sia riferibile a un gruppo criminale organizzato, anche se operante solo in ambito nazionale, e ricorra, in via alternativa, una delle seguenti situazioni:

  • il reato sia commesso in più di uno Stato;
  • il reato sia commesso in uno Stato, ma con parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo in un altro Stato;
  • il reato sia commesso in uno Stato, con implicazione di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato;
  • il reato sia commesso in uno Stato, con produzione di effetti sostanziali in altro Stato.

Il Supremo Collegio ha poi ricordato:

  • che il riconoscimento del carattere transnazionale, di per sé, non comporta alcun aggravamento di pena, ma produce gli effetti sostanziali e processuali previsti dalla legge n. 146 del 2006 agli articoli 10 (Responsabilità amministrativa degli enti), 11 (Ipotesi speciali di confisca obbligatoria e confisca per equivalente), 12 (Attività di indagine a fini di confisca)e 13 (Attribuzione di competenze al procuratore distrettuale antimafia).
  • che l’aggravante per i reati transnazionali è applicabile anche al delitto di associazione per delinquere se alla commissione del reato ha contribuito un gruppo criminale organizzato in attività criminali in più di uno Stato, il quale è configurabile in presenza: di stabilità di rapporti tra gli adepti; minimo di organizzazione senza formale definizione di ruoli; non occasionalità o estemporaneità della stessa; costituzione in vista anche di un solo reato o per il conseguimento di un vantaggio finanziario o di altro vantaggio materiale;
  • che il gruppo criminale organizzato è un quid pluris rispetto al mero concorso di persone, ma si diversifica anche dall’associazione a delinquere ex art. 416 c.p. perché può trattarsi di un insieme di persone legate da rapporti stabiliti che abbia costituito un’organizzazione autonoma e distinta da quella alla quale è riferibile il reato, impegnata in attività illecite in più di uno Stato, anche minimale e priva di una formale definizione di ruoli, sebbene con occasionale o estemporanea.
Autore: redazione fiscal focus

Tardiva dichiarazione sganciata dalle violazioni sui versamenti

Ma la Cassazione ritiene necessario ravvedere sia la tardività che le violazioni sui versamenti

Recupero credito d’imposta. Avviso “sprint” nullo, salvo urgenza

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza pubblicata il 18 novembre 2015

Salvo comprovati motivi d’urgenza, è nullo l’avviso di accertamento emesso prima del decorso del termine di sessanta giorni di cui all’art. 12 comma 7 dello Statuto dei contribuenti (L. 212/00).

È il principio di diritto ribadito dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (sentenza n. 23547/15, depositata ieri) nel decidere il caso di una società alla quale l’Amministrazione finanziaria, dopo la verifica esperita presso i locali dell’azienda, aveva contestato l’indebita fruizione del credito d’imposta per incremento occupazionale (art. 7 L. n. 388/2000).

La CTR ha ritenuto non sanzionabile con la nullità l’avviso di accertamento emesso senza rispettare, come nel caso di specie, il termine di 60 giorni previsto dall’art. 12 comma 7 della legge 212 del 2000; ma si è trattato di un assunto opportunamente censurato nel giudizio di legittimità.

Anche per l’avviso di recupero del credito d’imposta (v. Cass. n. 19561/2014), valgono i principi espressi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte in materia di diritti e garanzie dei contribuenti sottoposti ad accessi, ispezioni o verifiche da parte degli organi di controllo dell’Amministrazione finanziaria.

Le Sezioni Unite (sentenza n. 18184/2013) hanno chiarito che la violazione del termine dilatorio di 60 giorni per l’emissione dell’avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del verbale di chiusura delle operazioni di verifica – determina di per sé l’illegittimità dell’atto impositivo emesso anticipatamente, salvo che non ricorrano specifiche ragioni d’urgenza (con onere probatorio sul punto in capo all’Ufficio procedente).

Ebbene, nella sentenza di ieri si legge: “manca nel caso di specie sia l’enunciazione sia la prova dei motivi d’urgenza che avrebbero consentito la notifica del recupero del credito d’imposta prima dei sessanta giorni dalla chiusura delle operazioni di verifica, non essendo sufficiente, come affermato dalla CTR, che il pvc fosse noto al contribuente in quanto notificato prima dell’avviso impugnato. Detto termine è infatti posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi di buona fede e collaborazione tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositivo”.

E allora l’impugnata sentenza della CTR è stata cassata, con decisione della causa nel merito. Per l’effetto, il ricorso introduttivo della società contribuente è stato accolto.

Autore: redazione fiscal focus

 

APPELLO INAMMISSIBILE SE INCOMPLETO IL DEPOSITO

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

E’ inammissibile l’appello principale se la parte omette di depositare, presso la segreteria della Commissione tributaria regionale, copia della ricevuta di spedizione dell’appello eseguita per posta, anche se sono prodotti, in sede di udienza, i soli avvisi di ricevimento delle raccomandate.

Questo è quanto deciso dalla CTR di Catanzaro, con sentenza n. 1537/15, depositata in data 22 ottobre 2015, con la quale è stato dichiarato inammissibile l’appello presentato dall’Agenzia delle entrate per i motivi suesposti.

La costituzione in giudizio

L’articolo 53, comma 2, del D. Lgs. n. 546/1992, dispone che l’appellante, entro trenta giorni dalla proposizione dell’appello, deve costituirsi in giudizio secondo le modalità previste dall’articolo 22, commi 1, 2 e 3, del citato decreto. Pertanto, egli deve depositare presso la segreteria della Commissione tributaria regionale:

  1. copia dell’appello spedito alla controparte, con allegata la fotocopia della ricevuta della raccomandata a. r. di spedizione postale (possibilmente con la cartolina di ritorno), ovvero
  2. copia dell’atto di appello consegnato alla controparte, insieme con la fotocopia della ricevuta di consegna diretta, ovvero
  3. originale dell’atto di appello notificato a mezzo Ufficiale giudiziario (in questo caso alla controparte è stata notificata copia conforme all’originale).

Qualora l’appello sia stato proposto mediante spedizione postale o consegna diretta, l’appellante deve dichiarare la conformità dell’atto depositato o spedito presso la segreteria della Commissione e quello consegnato o spedito alla controparte.

La sentenza

I giudici dell’appello hanno ritenuto inammissibile l’impugnazione posta in essere dall’Agenzia delle entrate, in quanto “l’atto di appello (in copia od in originale), in assenza della ricevuta della spedizione per raccomandata, non risponde allo schema legale previsto ed è altresì inidoneo al raggiungimento del suo scopo, ossia: a) la tempestiva costituzione in giudizio dell’appellante, b) l’impedimento in giudicato della sentenza impugnata”.
Peraltro, scrivono i giudici, il mancato deposito della ricevuta di spedizione, non può essere sanato mediante la tradiva produzione del documento in sede di udienza di trattazione.

Riflessioni

La decisione presa dalla Regionale merita particolare attenzione. Si premette che, l’articolo 22, comma 1, del decreto n. 546/1992, richiamato dal menzionato articolo 53, prescrive che, presso la segreteria della Commissione tributaria regionale, deve essere depositata, oltre alla copia dell’appello, anche la fotocopia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale.
L’Agenzia delle entrate, con la circolare n. 36/E del 3 aprile 2001, ha chiarito che il ricorso in appello si intende proposto al momento della spedizione. Da questo momento decorrono i termini per la costituzione in giudizio del ricorrente/appellante. Per la regolare costituzione, quando l’appello è proposto tramite servizio postale, la norma richiede il deposito della sola ricevuta di spedizione, prescindendo dalla prova del perfezionamento della procedura di notifica, costituita dall’avviso di ricevimento. Questo è giustificato dal fatto che, spesso, l’avviso di ricevimento torni nella materiale disponibilità del ricorrente in una data successiva a quella entro cui lo stesso deve costituirsi in giudizio.
Nel caso della sentenza in commento, l’Ufficio ha depositato i soli avvisi di ricevimento, ma non la ricevuta di spedizione dell’appello che, invece, costituisce il documento essenziale per poter dimostrare il rispetto dei termini necessari per proporre il ricorso in appello. D’altro canto, il mancato deposito della ricevuta di spedizione, provoca l’inesistenza della notifica e della conseguente inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio di appello. In altri termini, i giudici di secondo grado, senza la “presa visione” della ricevuta di spedizione, non hanno la possibilità di stabilire se l’appello è stato prodotto nei termini di legge.
Pertanto, si condivide la decisione della Regionale, che ha applicato pedissequamente il dettato normativo disposto dal citato articolo 22, laddove è previsto che l’inammissibilità del ricorso è causata anche dal mancato deposito della fotocopia della ricevuta di spedizione, nel nostro caso, dell’appello.
Per completezza di argomento, va ricordato che, in precedenza, l’articolo 53, comma 2, secondo periodo, del D. Lgs n. 546/1992, prevedeva che l’atto di appello fosse depositato anche presso l’ufficio di segreteria della commissione tributaria che aveva pronunciato la sentenza impugnata. L’articolo 36 del D. Lgs n. 175/2014, ha eliminato tale adempimento per gli appelli notificati dal 13 dicembre 2014, corrispondente alla data di entrata in vigore del decreto.

Autore: Francesco Barone

RESPONSABILI DEL BOLLO PER AUTO IN LEASING

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

A chi spetta il pagamento del tributo

Con la sentenza 3526/27/2015 CTR Lombardia pronunciata il 19 giugno 2015 (deposito del 29 luglio) viene stabilito che l’utilizzatore è l’unico contribuente responsabile al versamento della tassa sulla circolazione alla Regione (“bollo auto”) in caso di leasing.

La norma

Tutto ruota sull’interpretazione dell’articolo 7 della Legge 99/2009, in vigore dal 15 agosto 2009, il quale stabilisce che, in caso di locazione finanziaria, il pagamento del tributo non ricada più sul concedente (società di leasing), ma solo sull’utilizzatore.

La normativa sopra indicata ha previsto che il soggetto passivo va identificato con chi materialmente utilizza il bene. Nello specifico, quindi sono da considerarsi soggetti passivi gli usufruttuari, gli acquirenti con patto di riservato dominio, ed il locatario (in caso di leasing o noleggio).

Sulla questione va sottolineato che era intervenuto anche il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) che con una specifica Nota del 27 giugno 2012 aveva stabilito che, non vi era alcuna soggettività passiva della società di leasing nel pagamento del bollo auto, poiché lo stesso era ad esclusivo carico del locatario.

La solidarietà passiva

Nel merito della questione è appena il caso di ricordare che la solidarietà passiva si verifica quando più debitori sono tutti obbligati per la medesima prestazione in modo che ciascuno di essi può essere costretto all’adempimento per l’intero tributo e il pagamento di uno libera tutti gli altri.

In ambito fiscale il classico esempio di solidarietà passiva si verifica nel campo dell’imposta di registro dove debitore principale è l’acquirente, ma in via di regresso potrebbe essere chiamato al pagamento pure il venditore, per cui entrambi sia pur a diversi livelli sono “responsabili solidali” per il tributo.

L’obbligazione solidale rappresenta una maggior garanzia per il soggetto che è creditore. Il vincolo solidale, infatti, rende più sicuro il diritto dell’ente creditore.

La nota dell’Agenzia delle Entrate

Sul punto sia pur in maniera non esplicita è possibile trovare una presa di posizione anche dell’Agenzia delle entrate (vedasi agg.2012 “Guida al pagamento del bollo auto e moto 2010) che ha avuto modo di esprimere lo stesso concetto sviluppato dal Mef nella nota (sopracitata) del 27/06/2012, ossia che l’unico soggetto responsabile del tributo sia l’utilizzatore.

Nonostante questo, però, molte Regioni fra cui, in primo luogo Lombardia ed Emilia Romagna, hanno protratto la richiesta di pagamento della tassa anche alle società di leasing diversamente invocando la presenza di un regime di responsabilità solidale con l’utilizzatore, provocando così, un nutrito contenzioso nel merito.

La norma di interpretazione autentica.

Sulla questione si deve ora segnalare l’approvazione di una norma di interpretazione autentica (art. 9 comma 9 bis Dl 78/2015) che dovrebbe mettere fine ad ogni tipo di contesa.

L’articolo citato stabilisce, infatti, che in caso di contratto di leasing il contribuente tenuto al pagamento della tassa automobilistica è solo l’utilizzatore non prevedendo alcuna responsabilità solidale del concedente.

L’unica eccezione a tale regola viene ammessa solo nell’ipotesi in cui il concedente provveda, a seguito di accordo fra le parti, ad effettuare il versamento cumulativo dei bolli auto dovuti per i periodi di tassazione compresi nella durata dei contratti di leasing stipulati secondo le modalità stabilite dall’Ente competente (circolare serie fiscale 23/2015 Assileia).

In relazione a quanto evidenziato vi è così l’auspicio che anche i funzionari della regione si conformino con il chiaro orientamento espresso dal legislatore (nonché dalla giurisprudenza), e questo non solo in rapporto alla gestione delle nuove pratiche (dove si rende possibile l’intervento in autotutela), ma anche con un’opportuna rinuncia al contenzioso ove esistente.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Bancarotta. Il “nero” non salva l’imprenditore

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 17 novembre 2015

All’imprenditore accusato di bancarotta fraudolenta non giova invocare la circostanza dei pagamenti “in nero” ai dipendenti se la somma “distratta” è molto ingente, tanto che il lavoro si sarebbe dovuto svolgere pure di notte.

È quanto emerge dalla sentenza n. 45665/2015 della Quinta Sezione Penale della Cassazione.

La Suprema Corte si è occupata del caso di tre soggetti processati per fatti di bancarotta fraudolenta per avere, secondo l’accusa, tenuto libri e scritture contabili in maniera da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del volume d’affari della fallita (della quale erano stati pure distratti beni strumentali), nonché per aver sottratto un’ingente somma (circa un miliardo delle vecchie lire) registrata in contabilità sotto il conto “finanziamento ai soci”.

I giudici di merito hanno sposato le tesi dell’accusa e quindi inflitto la pena della reclusione a tutti i coimputati. Ne è conseguito il giudizio di cassazione, che però è terminato con la conferma del giudizio di responsabilità penale.

La Corte territoriale, ad avviso degli ermellini, non ha commesso nessuno degli errori denunciati dagli imputati. In particolare, il giudice di secondo grado ha giustamente ritenuto poco credibile l’asserzione difensiva concernente la destinazione della somma indicata come “distratta” al pagamento in nero degli operai.

In sentenza sul punto si legge: “per quanto concerne la destinazione della somma indicata come distratta al pagamento in nero degli operai, i quali in dibattimento hanno confermato di essere stati pagati fuori busta paga, non si presenta illogica la motivazione fornita dalla Corte territoriale circa la non plausibilità di tale versione, per essere davvero ingenti le somme in questione, tali che i dipendenti avrebbero dovuto lavorare anche di notte per giustificare importi sì elevati e comunque nell’anno contestato, erano stati già tutti licenziati, dunque non c’era necessità di corrispondere straordinari in nero”.

I ricorrenti dovranno pagare le spese processuali del grado.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS