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La seconda-prima casa sfida il Fisco

La Cassazione apre probabilmente una nuova era nella storia dell’agevolazione per l’acquisto della «prima casa». La sentenza 2565/2018 (si veda «Il Sole 24 Ore» del 3 febbraio) proclama infatti, a chiare lettere, che la proprietà di una casa «non idonea» a uso abitativo non ostacola l’acquisto agevolato di un’altra abitazione (senza dover necessariamente alienare la casa «preposseduta»). Si consolida così l’orientamento inaugurato con la sentenza 18128/2009 e l’ordinanza 100/2010.

Pertanto, quando la legge sull’agevolazione (la nota II-bis all’articolo 1, Tariffa parte I, allegata al Dpr 131/1986) dispone che non può comprare la «prima casa» il contribuente nella situazione di «prepossidenza» di un’altra casa, si dovrebbe interpretare tale normativa (secondo la Cassazione) come se dicesse che è impedito l’acquisto della «prima casa» al contribuente che abbia:

• nel medesimo Comune, la piena proprietà (o il diritto di uso, usufrutto o abitazione) di altra casa idonea all’uso abitativo;

• in qualsiasi parte del territorio nazionale, la piena o nuda proprietà (o il diritto di uso, usufrutto o abitazione) di altra casa, acquistata con l’agevolazione «prima casa».

Il ragionamento della Cassazione è che quando la legge prescrive l’«impossidenza» di altre case nel medesimo Comune, tale situazione vi sarebbe anche nell’ipotesi di «possidenza» di case che non si prestino a essere atte all’uso abitativo del contribuente. Si aprono però almeno tre problemi.

Il primo è che l’amministrazione non è mai stata d’accordo di dar rilievo alla pretesa inidoneità dell’abitazione preposseduta: con toni diversi, correlati alla legislazione tempo per tempo vigente, il Fisco ha espresso contrarietà a questo ragionamento nella risoluzione 86/E del 2010, nella circolare 1/E del 1994, nella risoluzione n. 311657 del 1989 e nella circolare 29/9/1449 del 1982.

Il secondo problema è che la legge impone, per ottenere l’agevolazione «prima casa», che il contribuente dichiari, nell’atto di acquisto di essere in una situazione di «impossidenza»; e sanziona la dichiarazione mendace pretendendo l’imposta ordinaria e la pena pecuniaria pari al 30% della differenza tra l’imposta agevolata e l’imposta ordinaria: in soldoni, il 9,1% della base imponibile se l’atto è tassato con il registro (e, quindi, sulla rendita catastale moltiplicata per 126) oppure il 7,8% della base imponibile se l’atto è a Iva (e, quindi, sul prezzo della compravendita). Chi si fida a sfidare il fisco rischiando la contestazione della dichiarazione mendace?

Il terzo problema è come tradurre in pratica il concetto di «inidoneità» della casa preposseduta: la Cassazione chiaramente dice che può trattarsi sia di una situazione oggettiva (e cioè attinente allo stato dell’immobile), sia di una situazione soggettiva (cioè inerente alle condizioni personali del contribuente). Inidonea potrebbe dunque essere una casa divenuta troppo piccola (per l’aumento del numero dei famigliari del contribuente in questione) o troppo grande (a causa della loro diminuzione); oppure, una abitazione prima tranquillamente utilizzabile ma che poi si renda inaccessibile (perché ubicata in un piano elevato non servito da un ascensore) a chi resti vittima di un incidente che ne comprometta la deambulazione; oppure, una casa posizionata in un luogo insalubre per il mutamento delle condizioni di salute del suo proprietario o che si renda inutilizzabile a causa della distanza dal suo luogo di studio o di lavoro; oppure, l’abitazione sulla quale il contribuente non abbia un diritto che non ne comporti «il potere di disporne come abitazione propria» (la Cassazione con sentenza 21289/2014 ha giudicato inidonea l’abitazione di cui il contribuente era comproprietario solo per il 5%); oppure una casa priva di impianti o servizi o resasi pericolante o fatiscente; eccetera. Insomma, si finisce per discutere (Cassazione 2278/2016) se sia idonea la casa in cui ogni bambino, di diverso sesso, non abbia la sua stanza.

Fonte “Il sole 24 ore”

Per la Cassazione sono irricevibili i ricorsi «assemblati»

La metodologia di redazione dei supposti ricorsi «assemblati» o «imbottiti», che racchiudono una pluralità di documenti integralmente riprodotti all’interno del singolo ricorso, in carenza di una distinzione sintetica dei loro contenuti, non soddisfa la richiesta di schematica rielaborazione degli avvenimenti processuali contenuta nel codice di rito per il giudizio di cassazione, infrange il principio di sinteticità che deve uniformare l’intero processo e impedisce di intendere le problematiche della circostanza, comportando da dissimulazione delle informazioni concretamente rilevanti per le argomentazioni sviluppate, tanto da risolversi in un difetto di autosufficienza del ricorso stesso. A tale conclusione è giunta la Corte di cassazione attraverso la sentenza n. 4155/2018, depositata in cancelleria il 21 febbraio 2018.

Con istanza risalente al 2008 una Spa ha richiesto all’agenzia delle Entrate il rimborso dei crediti di imposta Irap e Iva che l’ufficio, tuttavia, ha ritenuto di rigettare. Avverso il provvedimento di diniego di rimborso la Spa ha proposto ricorso dinanzi alla Ctp al quale l’agenzia delle Entrate si opposta.

La Ctp, con sentenza n. 19 del 29 gennaio 2010, ha accolto il ricorso dell’istante. Avverso la suddetta pronuncia l’agenzia delle Entrate ha proposto appello dinanzi alla Ctr al cui accoglimento si è opposta la Spa, la quale ha contestualmente richiesto la conferma della sentenza impugnata. La Ctr, tuttavia, ha respinto l’appello e di conseguenza l’amministrazione finanziaria ha ritenuto di proporre ricorso per Cassazione al quale la Spa ha resistito mediante controricorso.

A parere del collegio di legittimità, è risultata essere infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di sinteticità sollevata in udienza dal pubblico ministero, il quale ha rilevato che il ricorso è stato compilato con la tecnica del “conglomerato”, cioè con la riproduzione, senza alcuna selezione specifica dei contenuti rilevanti, di diversi documenti accolti nel fascicolo di merito in quanto, come statuito dalla Corte suprema, la tecnica di redazione dei cosiddetti ricorsi “assemblati” o “farciti” o “sandwich”, che implica una pluralità di documenti integralmente riprodotti all’interno del ricorso, in assenza di selezione sintetica dei loro contenuti, non soddisfa la richiesta di concisa rielaborazione delle vicende processuali contenuta nel codice di rito per il giudizio di cassazione, viola il principio di sinteticità che deve uniformare l’intero processo e impedisce di cogliere le problematiche della vicenda, comportando il “mascheramento” dei dati effettivamente rilevanti per le argomentazioni svolte, tanto da risolversi in un difetto di autosufficienza del ricorso stesso (Cassazione sentenza n. 18363 del 18/09/2015).

Nel caso di specie, tuttavia, i documenti riprodotti nel corpo del ricorso sono risultati facilmente individuabili e separabili dal restante contenuto del ricorso, che è pertanto riconducibile a dimensioni e contenuti rispettosi del canone di sinteticità previsto per il giudizio per Cassazione, e i motivi sono risultati adeguatamente formulati mediante la chiara enunciazione delle censure proposte (Cassazione Sentenza n. 12641 del 19/5/2017).

 Fonte “Il sole 24 ore”

Omesse ritenute, il liquidatore non risponde sempre

Il liquidatore risponde del reato di omesso versamento delle ritenute solo se ha violato le regole di riparto delle attività di liquidazione, previste dalla norma fiscale, e ha assegnato ai soci beni pur in presenza di debiti tributari. A fornire questo importante chiarimento è la Cassazione con la sentenza 8995/2018 depositata ieri.

Il legale rappresentante di una società ed il liquidatore succeduto nell’incarico per la procedura di concordato preventivo venivano indagati per il reato di omesso versamento di ritenute, per due periodi di imposta differenti.

Il Gip disponeva il sequestro preventivo diretto delle somme depositate sul conto corrente della società, finalizzato alla eventuale successiva confisca. Gli indagati ricorrevano al Tribunale del riesame, che annullava la misura cautelare. La procura ricorreva così in Cassazione.

La Suprema corte, confermando la decisione del Tribunale del riesame, ha innanzitutto precisato che il liquidatore non è escluso dalla responsabilità penale nell’ipotesi di omesso versamento di ritenute, ma tale responsabilità è espressamente delimitata dall’articolo 36 del Dpr 602/1973.

Essa sussiste solo riguardo alle imposte dovute per il periodo della liquidazione e per quelle anteriori, se il liquidatore non prova di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci e creditori ovvero di aver soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari.

Il reato si configura, in sostanza, se i soggetti preposti alla liquidazione distraggono l’attivo della società finalizzato al pagamento delle imposte e lo destinano a scopi differenti. Ne consegue che non è sufficiente ai fini della rilevanza penale, il mero inadempimento fiscale. Una diversa lettura della norma porterebbe alla conclusione che il liquidatore da un lato dovrebbe seguire un certo ordine per il riparto delle liquidità, dall’altro che proprio l’osservanza di tale regola possa comportare la commissione di un reato.

Circa il sequestro, la Cassazione ha rilevato che le somme non potevano rappresentare il profitto poiché erano stata accreditate successivamente alla commissione del reato su un conto creato per la procedura di concordato e che non erano correlate ai precedenti omessi versamenti di ritenute.

Fonte “Il sole 24 ore”

Avviso di mora, doppia strada per l’impugnativa

In caso di impugnazione di un avviso di mora o di altro atto della riscossione per omessa notifica della cartella di pagamento presupposta, il contribuente può agire, indifferentemente, sia nei confronti dell’ente impositore che ha proceduto all’iscrizione a ruolo, sia nei confronti dell’Agente della riscossione, non essendo in tal caso configurabile alcun litis consorzio necessario.

È questa la principale precisazione fornita dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 4578 depositata il 28 febbraio 2018 , pronunciandosi su una questione che, sempre più spesso, i professionisti, in qualità di difensori del contribuente, si trovano a dover affrontare.
Accade di frequente, infatti, che il contribuente venga a conoscenza dell’emissione di un atto impositivo presupposto nei suoi confronti solo a seguito, ad esempio, della notifica di una cartella di pagamento o di una lettera di presa in carico delle somme o, come nel caso di specie, di un avviso di mora da parte dell’Agente della riscossione.

In tale ipotesi, l’articolo 19, comma 3 del Dlgs n. 546/92 stabilisce che «la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo».

Pertanto, in caso di vizi di notifica dell’atto presupposto, che ne hanno comportato la mancata ricezione e la conseguente omessa impugnazione, in forza dell’articolo 19, comma 3 del Dlgs n. 546/1992, il contribuente può proporre ricorso avverso l’atto successivo nei termini ordinari (60 giorni più l’eventuale sospensione dei termini feriali), facendo innanzitutto valere le proprie ragioni in merito al vizio di notifica e poi eventualmente difendendosi sulla pretesa tributaria contenuta nell’atto presupposto.

La Corte Suprema ha, infatti, più volte sancito che al contribuente è data facoltà di contestare “alla radice” la pretesa, impugnando, in via cumulativa, l’atto “successivo” e l’atto “presupposto” e, con quest’ultima pronuncia in commento, che egli può agire in modo indifferente, sia nei confronti dell’ente impositore sia dell’agente della riscossione ed è ininfluente un litisconsorzio.

Detto ciò, è evidente che, nella maggior parte delle situazioni, il contribuente avrà interesse ad impugnare l’atto “successivo” eccependo l’omessa notifica dell’atto “presupposto”, in quanto, eccettuato il caso in cui l’ente creditore sia ancora nei termini per la notifica dell’atto in precedenza omessa, egli avrà buone possibilità di ottenere una sentenza favorevole che “chiuda” la questione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Procedure esecutive, sui limiti alla difesa parola alla Consulta

Quale tutela e quali limiti incontra il contribuente per opporsi all’esecuzione dei crediti tributari? Alla domanda dovrà rispondere la Corte costituzionale a seguito dell’ordinanza del 24 ottobre 2017 del Tribunale di Trieste (pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» numero 8 del 21 febbraio 2018) emessa dal giudice dell’esecuzione che dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 57 del Dpr 602/73 , in quanto limiterebbe l’opposizione all’esecuzione qualora la natura del credito sia di carattere tributario.

L’origine della controversia nasce dall’opposizione al pignoramento eseguito dall’Agenzia delle entrate-Riscossione per un credito Ici nei confronti di un creditore dell’opponente. Il presupposto del credito (Ici), su cui l’agente della riscossione basava il pignoramento, era stato precedentemente contestato dal contribuente in sede tributaria.

La questione che si pone il giudice remittente è rivolta a verificare l’effettiva corrispondenza al dettato costituzionale dell’articolo 57 del Dpr 602/73 nella parte in cui, in ambito tributario, non è ammessa l’opposizione all’esecuzione salvo per la pignorabilità dei beni.

Le giustificazioni per il rinvio alla Consulta nascono dal fatto che dalla lettera della norma il contribuente può proporre opposizione solamente per far valere le eccezioni concernenti la pignorabilità dei beni, venendo meno, per i rapporti di carattere tributario, ogni possibilità di contestare l’illegittimità e la carenza dei presupposti per l’esecuzione. Non è quindi ammessa l’opposizione per difetto di titolo esecutivo o per ragioni di merito. Infatti il contribuente, che decidesse di impugnare il provvedimento esattivo, si troverebbe nella condizione di vedersi probabilmente compromessa la possibilità di tutela laddove si consideri, da un lato, l’incompetenza del giudice tributario a dirimere le questioni inerenti gli atti dell’esecuzione forzata e, dall’altro, le limitazioni, anche in sede civile, derivanti proprio dall’articolo 57 del Dpr 602/73 che, in particolar modo, vieta espressamente l’eventuale opposizione.

Il giudice dell’esecuzione ritiene, quindi, che l’articolo 57 del Dpr 602/72 non sia conforme al dettato costituzionale sia sotto l’aspetto della disparità di trattamento tra contribuenti, sia perché limita il diritto di difesa, sia perché non permette al giudice dell’opposizione di entrare nel merito ed infine, perché limita e impedisce al contribuente, in modo indiscriminato ed ingiustificato, ogni difesa contro tutti gli atti dell’esecuzione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Omesso versamento, risponde il legale rappresentante in carica per l’acconto Iva

Il reato di omesso versamento di Iva oltre soglia è fattispecie a struttura mista, commissiva ed omissiva. In caso, però, di mancata coincidenza tra l’amministratore che sottoscrive e presenta la dichiarazione Iva e quello che successivamente gli subentra, il reato viene imputato soltanto a chi risulta in carica quale legale rappresentante al momento del termine ultimo per il versamento, coincidente con quello della corresponsione dell’acconto Iva del periodo d’imposta successivo. E questo per due ragioni.

Intanto la responsabilità a titolo di dolo eventuale è sempre in capo a chi deve ottemperare al controllo di natura contabile sugli adempimenti fiscali. Poi la configurabilità del dolo è intesa a tutelare l’interesse dell’Erario alla riscossione delle somme dovute in base alla dichiarazione Iva. Così la Cassazione, sezione terza penale, sentenza n. 8040/2018 depositata ieri.

La controversia

Un uomo, già legale rappresentante di una Snc, viene rinviato a giudizio per il reato di omesso versamento di Iva, che secondo l’accusa egli ha commesso con riferimento all’anno 2008 per oltre 322mila euro.

L’uomo si difende. In primo luogo, la condotta attiva del reato, consistente nella predisposizione e sottoscrizione della dichiarazione annuale Iva, non può essergli ascritta, in quanto, all’epoca dei fatti, egli non era legale rappresentante della società. In secondo luogo, non vi è prova del fatto che il potere di sottoscrivere in sua vece la dichiarazione Iva sia stato conferito al precedente amministratore.

Il Pm insiste nella reità della condotta e per la sua condanna. Il precedente amministratore ha agito in qualità dì rappresentante firmatario della dichiarazione mentre l’attuale imputato, in qualità di legale rappresentante subentrato, era tenuto al pagamento del risultante debito d’imposta.

Il Tribunale riconosce l’uomo colpevole e lo condanna a quattro mesi di reclusione, pena che viene poi confermata in appello. Neppure il ricorso per Cassazione dell’uomo riesce a ribaltare l’esito del giudizio e la condanna viene confermata.

La Cassazione

Secondo la Corte, trattandosi di fattispecie di reato a struttura mista, commissiva per la presentazione della dichiarazione e omissiva per il mancato versamento, anche in caso di mancata coincidenza tra chi presenta e sottoscrive la dichiarazione e chi poi gli subentra, il disvalore penale della condotta è sempre attribuibile a chi risulta in carica quale legale rappresentante al momento del termine ultimo per il versamento, coincidente con quello del versamento dell’acconto Iva per il periodo d’imposta successivo.

Questo perché:

•nei casi in cui il debito fiscale risultante dalla dichiarazione, ancorché sottoscritta da un terzo, non risulta versato, colui che è onerato dell’obbligo del controllo preventivo di natura contabile sugli adempimenti fiscali è anche investito della responsabilità a titolo di dolo eventuale;

•la configurabilità del dolo normativamente richiesto per la punibilità dell’imputato, riferita alla condotta omissiva penalmente rilevante, è volta a tutelare l’interesse dell’Erario alla riscossione delle somme dovute per Iva in base alla dichiarazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Credito Iva detraibile anche in assenza della dichiarazione annuale

Il contribuente può portare in detrazione l’eccedenza Iva anche in assenza della dichiarazione annuale finale, purché siano rispettati i requisiti sostanziali per poter fruire della detrazione.

Con la sentenza di ieri, n. 4392 , la Suprema Corte applica il principio cristallizzato dalla Sezioni Unite nel 2016 (sentenza n. 17757/16) per cui la neutralità dell’Iva non può essere messa in discussione per la mancanza o la non correttezza di una formalità. Pertanto, pur in mancanza della dichiarazione annuale, il credito Iva risultante da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti e detratto nei termini, va riconosciuto qualora tutti i requisiti sostanziali sono rispettati.

D’altronde non potrebbe essere altrimenti, dato che il diritto alla detrazione, costituendo parte integrante e fondamentale del meccanismo dell’imposta, in linea generale, non può essere soggetto a limitazioni, salvo specifiche deroghe. Si ricorda al riguardo l’orientamento dei giudici europei (ad es. Cgue, sentenza Idexx Laboratories Italia oppure sentenza Ecotrade) quale monito per l’amministrazione finanziaria a non imporre condizioni supplementari che potrebbero ostacolare l’esercizio della detrazione, laddove essa sia già in possesso delle informazioni necessarie a dimostrare che la sostanza del diritto è certa.

Restando su questa linea la sentenza di ieri è un riferimento in più per i contribuenti contro quei formalismi che potrebbero in qualche modo pregiudicare un principio cardine della detrazione e quindi della neutralità, minando alla natura stessa dell’imposta, cioè quella di evitare che, nelle fasi intermedie del ciclo economico, l’operazione possa essere, anche solo in parte, tassata.

Fonte “Il sole 24 ore”

Il compenso per la relazione giurata non va tarato sul valore della pratica

di Romina Morrone

L’onorario da corrispondere al commercialista per la relazione giurata ex articolo 161 della legge fallimentare deve essere ammesso al passivo fallimentare tenendo conto della sua determinazione con riferimento non al valore della pratica ma utilizzando i criteri individuati dall’articolo 31, lettera e), del Dpr 645/1994 a seconda che abbia stimato beni, diritti, aziende, partecipazioni sociali. Lo ha chiarito la Cassazione con l’ordinanza 3599/2018.

Il Tribunale di Livorno ha accolto l’opposizione di un commercialista allo stato passivo di una Srl, relativa al credito vantato per le sue prestazioni professionali, e ha ritenuto che le quattro relazioni giurate ex articolo161 della legge fallimentare, dovessero essere ricondotte tra quelle ex articolo 31, comma1, lettera a), del Dpr 645/1994, predisposte non solo a fini valutativi (per la determinazione del valore dell’azienda, dell’immobile e di beni conferiti nella società), ma anche come pareri motivati per fornire indicazioni sulla fattibilità del piano.

La curatela ha impugnato il decreto in Cassazione. Dopo aver evidenziato la mancata previsione, nella tariffa dei dottori commercialisti (Dpr 645/1994), della relazione giurata ex articolo 161, comma 3, della legge fallimentare (introdotto dal Dlgs 169/1997), a causa dello sfasamento temporale tra le due fonti, la Suprema corte ha accolto il motivo di ricorso, ritenendo adeguata la collazione dellarelazione tra le prestazioni indicate nella lettera e), articolo31 del Dpr 645/1994.

Ciò sia per il ruolo rilevante del professionista nelle procedure di crisi, vista la sua posizione di terzietà e di indipendenza rispetto al debitore, sia per l’affinità della prestazione professionale con le altre relazioni di stima previste (ex articoli 2343, 2343-bis, 2501-quinquies del Codice civile), sia infine perché la stessa norma non esclude affatto, da parte del tecnico, un apporto cognitivo ulteriore al mero conteggio. Conclusioni avvalorate anche dalla distinzione, nel Dm 169/2010, tra perizie, motivati pareri e consulenze tecniche di parte, da un lato, e valutazione di singoli beni, diritti, aziende o rami di azienda, patrimoni, partecipazioni sociali non quotate, e relazioni di stima previste dalla legge, dall’altro.

Fonte “Il sole 24 ore”

Dichiarazione fraudolenta con false fatture, il ravvedimento consente di patteggiare

Per accedere al patteggiamento in caso di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false è possibile aderire al ravvedimento: occorre infatti che il contribuente estingua completamente il proprio debito anche attraverso questa particolare regolarizzazione. A fornire questo principio è la Cassazione con la sentenza 5448/2018 depositata ieri.

La legale rappresentante di una società, imputata del reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false definiva il procedimento penale patteggiando la pena.

La Procura proponeva ricorreva per Cassazione lamentando che il giudice avesse omesso di verificare i requisiti necessari per il patteggiamento di questa tipologia di delitto.

In particolare, in base all’articolo 13-bis del Dlgs 74/2000, la pena patteggiata è subordinata per i reati tributari all’integrale estinzione del debito, compresi oneri e accessori, ovvero all’ipotesi di ravvedimento operoso.

I giudici di legittimità, riformando la decisione, hanno ritenuto fondato il ricorso. Innanzitutto la Cassazione ha rilevato che la nuova formulazione della norma stabilisce espressamente che per i delitti tributari, l’adesione al patteggiamento può essere chiesta dalle parti solo quando ricorre l’integrale pagamento prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, dei debiti, comprese le sanzioni amministrative e interessi ovvero in presenza di ravvedimento operoso. Fanno eccezione i reati di omesso versamento, di indebita compensazione di crediti non spettanti e di dichiarazione omessa o infedele, per i quali l’integrale pagamento anche tramite ravvedimento configura una causa di non punibilità.

Il reato contestato era di dichiarazione fraudolenta mediante fatture false per il quale l’integrale pagamento o il ravvedimento operoso avrebbero consentito l’accesso al patteggiamento.

Il giudice territoriale aveva omesso qualunque valutazione sulla sussistenza di uno dei due requisiti e di conseguenza che la sentenza doveva essere riformata.

La decisione fa emergere che l’interpretazione dell’amministrazione finanziaria, recentemente confermata a Telefisco 2018, secondo la quale questa tipologia di violazione non è ravvedibile (si veda Il Sole 24 Ore del 2 febbraio scorso), non è corretta. La circolare 180/E/1998 ha precisato che il ravvedimento non era possibile per regolarizzare infedeltà dichiarative riconducibili a condotte fraudolente, quali ad esempio l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. A tale conclusione l’Agenzia giungeva a seguito di una interpretazione restrittiva dell’articolo 13 del Dlgs 472 del 1997 secondo cui sono possibili le regolarizzazioni di «errori e di omissioni». Tuttavia con le novità introdotte nel sistema sanzionatorio penale tale interpretazione sembrava superata.

In occasione di Telefisco 2018, Entrate e Guardia di Finanza hanno sostanzialmente confermato l’esclusione del ravvedimento operoso per l’ipotesi di costi per operazioni inesistenti. La Cassazione ha ora chiaramente affermato che per accedere al patteggiamento, la norma prevede espressamente tale regolarizzazione, senza alcuna esclusione per tipologia di reato, e quindi anche l’utilizzo di fatture false può essere ravveduto.

Fonte “Il sole 24 ore”

Per la Cassazione le nuove regole sull’imposta di registro non hanno effetto retroattivo

La Cassazione non molla l’osso sull’utilizzo dell’articolo 20 del Testo unico del registro (Dpr 131/1986), nella versione vigente fino al 31 dicembre 2017, per riqualificare gli atti sottoposti alla registrazione a seconda del loro significato economico, dando rilevanza interpretativa anche a elementi extratestuali e al collegamento tra una pluralità di atti. Con la sentenza n. 2007 del 26 gennaio 2018, la Cassazione ha infatti sancito che la modifica della legge di Bilancio non ha valenza retroattiva e che, quindi, per tutte le fattispecie originatesi prima del 1° gennaio 2018, l’articolo 20 non può essere letto – nel modo indicato dal suo nuovo testo – come riferito al solo atto presentato per la registrazione e al suo contenuto giuridico.

Dalle sentenze del 2008 (n. 30055, 30056 e 30057), con le quali la Cassazione ha ritenuto l’esistenza di un immanente principio anti-elusivo, derivato dall’articolo 53 della Costituzione, la giurisprudenza di legittimità si è schierata per utilizzare l’articolo 20 del Tur, in un primo tempo, come la norma anti-elusiva nell’ambito dell’imposta di registro e, da ultimo, come norma che legittima la tassazione della sostanza economica degli atti presentati per la registrazione, tenendo conto anche del loro eventuale collegamento.

Ne è prova l’inversione di rotta sulla questione (share deal/asset deal) della riqualificabilità della cessione di quote societarie come cessione di azienda: dapprima negata (ad esempio, Cassazione 27 dicembre 1948; Commissione centrale a Sezioni unite 38977/1952 e Commissione centrale 3636/1981; Cassazione 5862/2003) e poi affermata dal 2008 al 2015 in molte occasioni.

Ebbene, si presumeva che, nell’estate 2015, con l’introduzione della norma anti-elusiva generale di cui all’articolo 10-bis dello Statuto del contribuente, la tenzone tra la giurisprudenza di legittimità e il “resto-del-mondo” terminasse: e cioè che l’articolo 20 del Dpr 131/1986, tornasse a svolgere il suo ruolo di norma interpretativa degli effetti giuridici del singolo atto presentato per la registrazione e che le contestazioni in termini di elusività (e di significato economico dell’attività giuridica) fossero formulabili dall’amministrazione e giudicabili dalla giurisprudenza con modalità, procedure e garanzie di cui all’articolo 10-bis dello Statuto del contribuente.

Mai previsione fu meno azzeccata. La Cassazione (con l’unica eccezione della sentenza 2054/2017, sconfessata dalla giurisprudenza successiva) ha continuato a ritenere l’articolo 20 vocato alla tassazione della “causa reale” degli atti presentati alla registrazione (ad esempio, sentenze 25001/15 e 11873/17), tanto che il legislatore ha dovuto far dire all’articolo 20 quel che l’opinione dominante (eccetto la Cassazione) già riteneva dicesse, e cioè che si tratta di una norma preordinata a tassare il mero significato giuridico del singolo atto presentato alla registrazione.

Il legislatore ha però dimenticato di esplicitare la natura retroattiva della modifica, alla quale si allude solo nei lavori preparatori della legge di Bilancio. Con la conseguenza che è facile per la Cassazione nella sentenza 2007/2018 utilizzare tutta la retorica che viene utile in casi come questo: parlando di «modifica» il legislatore avrebbe inteso significare che il nuovo articolo 20 ha una portata «prettamente innovativa» e che dal suo «dato letterale» si dovrebbe desumere che il legislatore ha voluto operare una «rivisitazione strutturale e antitetica della fattispecie impositiva pregressa».

La Cassazione insomma non ci sta a sentirsi dire come l’articolo 20 del Dpr 131/1986 avrebbe dovuto essere interpretato ante 2018. E c’è da pensare che non sia finita qui, quando si legge, nella sentenza 2007/2018, che il collegamento negoziale e la rilevanza degli elementi extratestuali, fuoriusciti ipso iure dall’articolo 20 del Dpr 131/1986, sono ora di possibile «recupero» nei giudizi dove si applicherà l’articolo 10-bis dello statuto del contribuente. Non è irrealistico prevedere che sulla vicenda share deal/asset deal l’arbitro disporrà un recupero e che la parola “fine” sia ancora tutta da scrivere.

Fonte “Il sole 24 ore”

Buchi di inventario giustificati

di Laura Ambrosi

È illegittima la rettifica dei ricavi per differenze inventariali se per la mole dei volumi trattati dal contribuente potrebbe essersi verificato un errore umano nella quantificazione. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 439 depositata ieri.

L’agenzia delle Entrate notificava a una società un avviso di accertamento con il quale disconosceva la deducibilità di costi infragruppo e presumeva ricavi non fatturati in conseguenza di una differenza inventariale rispetto alle giacenze. Il provvedimento veniva impugnato e i giudici di merito rigettavano l’eccezione. L’articolo 4 del Dpr 441/97 disciplina le presunzioni che possono conseguire alle differenze inventariali riscontrate in sede di accesso. Più precisamente, la norma consente di presumere ceduti senza fattura i beni che non si trovano nei depositi senza un’evidente ragione. In altre parole, si considera ceduto in «nero» il prodotto acquistato di cui il contribuente non riesce a giustificare l’assenza dal magazzino. Una presunzione legale ai fini Iva in favore del Fisco, contro la quale l’impresa può opporre prova contraria.

La società impugnava in Cassazione la decisione lamentando, tra l’altro, che le differenze inventariali erano minime rispetto ai volumi trattati e potevano al più derivare da meri «errori umani» di quantificazione. Tanto più che l’Ufficio nella propria rideterminazione non aveva compensato le differenze negative e positive, limitandosi ad applicare la presunzione solo sui valori negativi.

Secondo i giudici di legittimità, in caso di differenze inventariali, ovvero differenze tra merci giacenti in magazzino e scritture di carico e scarico, opera una presunzione legale. Il contribuente è tenuto alla prova contraria e cioè che le merci non rinvenute siano state impiegate nella produzione, perdute o distrutte. Nella specie, la Ctr non aveva riconosciuto alcuna rilevanza all’esiguità dei valori e alla plausibile circostanza che la differenza potesse dipendere da errate quantificazioni da parte del personale addetto. La Cassazione ha così ritenuto che questi elementi possono rappresentare un’adeguata prova contraria prodotta dal contribuente. La decisione appare importante poiché esclude un’applicazione automatica della presunzione legale in favore di una valutazione di buon senso da parte del giudice.

Fonte “Il sole 24 ore”

Il cedente detrae l’Iva se si dimostra estraneo alla frode messa in atto dall’esportatore

Quando la dichiarazione d’intento dell’esportatore è ideologicamente falsa, per la non imponibilità delle cessioni alle esportazioni effettuate nei confronti di esportatori abituali, occorre che il cedente dimostri l’assenza di un suo coinvolgimento nella frode accertata. Lo ha affermato la Cassazione nella sentenza 31116 del 29 dicembre.
Una Srl ha impugnato l’avviso di accertamento con il quale l’ufficio aveva recuperato anche l’Iva 2002, detratta indebitamente per le cessioni di veicoli in sospensione di imposta, su dichiarazioni di intento presentate dal cessionario. Nei gradi di merito il giudizio è risultato favorevole alla società. Non così in Cassazione dove l’Agenzia ha lamentato come la Ctr aveva erroneamente ritenuto sufficiente che, ai fini della non imponibilità Iva e dell’esclusione della compartecipazione nell’illecito ascritto al cessionario, esportatore abituale, la cedente dimostrasse solo la regolarità formale della dichiarazione d’intento.
In particolare, i giudici di legittimità hanno richiamato il principio (n.12751/11) secondo il quale la non imponibilità Iva dei beni destinati all’esportazione (subordinata alla dichiarazione scritta di responsabilità del cessionario e al possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi previsti dall’articolo 8, comma 1, lettera c, Dpr 633/72) viene meno se viene accertato che i beni non sono stati effettivamente esportati e che la dichiarazione è ideologicamente falsa. In tali ipotesi, il cedente è esonerato dall’obbligo di assolvere l’Iva su tali beni solo se dimostra di aver adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere per escludere la sua partecipazione alla frode e quindi che, anche usando la diligenza propria dell’imprenditore avveduto operante nel medesimo settore economico, non sarebbe potuto comunque venire a conoscenza dell’insussistenza dei presupposti necessari per qualificare il cessionario esportatore abituale (Cassazione, n.176/15 e n. 19896/16).

Nella fattispecie esaminata, la Cassazione ha concluso che, al di là del mero controllo formale dei documenti allegati dal cessionario, la cedente avrebbe potuto accertare agevolmente la qualità dei precedenti intestatari dei veicoli e degli anteriori cedenti, e cioè verificare, mediante l’acquisizione di dati di rapido reperimento rispetto a quelli allegati dal cessionario, se gli intestatari erano o meno legittimati a detrarre l’Iva. Ma così non è stato, poiché la società non ha adottato le ragionevoli misure in suo potere per escludere il proprio coinvolgimento nella frode accertata.

Fonte “Il sole 24 ore”

Gli articoli di cancelleria non concorrono al reddito d’impresa

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 30811 , del 22 dicembre 2017, ha respinto il ricorso dell’agenzia delle Entrate confermando la tesi dei giudici del merito: le rimanenze finali del materiale di cancelleria non rilevano come ricavi e non concorrono, secondo le disposizioni del Dpr 917/86, alla determinazione del reddito di impresa.

Una società ha impugnato dinanzi alla Ctp l’avviso di accertamento per l’anno d’imposta 1998, notificatole nel settembre 2005, con cui l’agenzia delle Entrate ha recuperato a tassazione rilevanti importi a titolo di imposte sul reddito e Irap, irrogando contestualmente, anche le relative sanzioni.
La Ctpha rigettato il ricorso della società che è stato appellato davanti alla Ctr; i giudici tributari del merito di secondo grado, riassumendo in sintesi la vicenda, hanno invece, dichiarato la legittimità delle deduzioni delle spese di cancelleria sostenute dalla società.
Avverso la sentenza sfavorevole l’agenzia delle Entrate è ricorsa in Cassazione.

Con riferimento alla parte della sentenza che interessa il presente commento l’agenzia delle Entrate denuncia, nel ricorso in Cassazione, la violazione del Dprn. 917/1986, ex artt. 53 e 59 (ora artt. 85 e 92), nella formulazione vigente ratione temporis, dovendosi includere le rimanenze finali del materiale di consumo (nella specie, materiale di cancelleria) nei ricavi.
Per i giudici di legittimità, la tesi sostenuta dall’agenzia delle Entrate è infondata in quanto gli articoli di cancelleria non costituiscono né beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività d’impresa, né materie prime e sussidiarie, semilavorati e altri beni mobili acquistati o prodotti per essere impiegati nella produzione di beni da parte della contribuente, che è società avente ad oggetto la produzione di componenti di auto.
Per i giudici di legittimità, di conseguenza, le relative rimanenze finali non possono concorrere alla formazione del reddito, ai sensi del combinato disposto del Dpr n. 917/1986, degli artt. 53 e 59 (ora artt. 85 e 92).
Non è condivisibile, rileva la Corte di Cassazione, la tesi sostenuta dall’agenzia delle Entrate, secondo cui il materiale di cancelleria, pur non partecipando direttamente al processo produttivo, deve essere ricompreso nelle rimanenze finali, analogamente a quanto avviene in sede civile ex art. 2423 ter c.c., visto che non può essere usato ripetutamente.

Per la Cassazione il ricorso va , pertanto , rigettato sulla base del principio che in tema di reddito d’impresa, le rimanenze finali del materiale di cancelleria non rilevano ai sensi del Dpr n. 917/86, ai fini della quantificazione dei ricavi di un’impresa che ha ad oggetto la produzione di articoli di diversa tipologia, trattandosi di beni che, pur non essendo destinati ad essere utilizzati ripetutamente, sono strumentali, in quanto non coinvolti direttamente nel processo produttivo, ma aventi solo funzione di supporto rispetto all’attività imprenditoriale.

 Fonte “Il sole 24 ore”

La responsabilità penale in determinati casi ricade sul nuovo manager

Risponde del reato di omesso versamento Iva il nuovo amministratore che subentra dopo la presentazione della dichiarazione firmata dal precedente rappresentante legale. A confermare questo principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 55482 depositata ieri.
Il fatto
L’amministratore di una Srl veniva condannato dal tribunale e dalla Corte di appello per il reato omesso versamento Iva.
L’imputato ricorreva in Cassazione e lamentava, tra l’altro, l’erronea applicazione della norma penale, poiché la corte territoriale aveva ravvisato la responsabilità del nuovo amministratore pur in assenza di prove.
Secondo la difesa, infatti, l’evasione sarebbe stata determinata dall’inserimento di alcune fatture intracomunitarie nel periodo in cui l’amministrazione della società era affidato ad altro soggetto. L’evasione, quindi, era già stata pianificata prima che l’imputato ricoprisse l’incarico di legale rappresentante.
La decisione
La Suprema corte ha ritenuto la doglianza infondata. I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che con l’accettazione della carica di amministratore il soggetto acquisisce contezza delle obbligazioni, anche tributarie, da adempiere. Ai fini della configurazione dell’elemento psicologico del reato di omesso versamento dell’Iva è sufficiente la coscienza e volontà di non versare all’Erario l’imposta.
Ne consegue così che risponde del delitto anche chi è subentrato nella carica di amministratore dopo la presentazione della dichiarazione e prima della scadenza dell’acconto.
La Cassazione ha così precisato che l’assunzione della carica di amministratore comporta la necessità di una minima verifica preventiva della contabilità, dei bilanci e delle ultime dichiarazioni dei redditi.
Chi omette tali riscontri sceglie di esporsi volontariamente alle conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze. A nulla rileva, come nella specie, che il subentro sia avvenuto dopo la presentazione della dichiarazione da cui emergeva il debito di imposta, in quanto il reato di omesso versamento si consuma alla scadenza dell’acconto dell’anno successivo.
La decisione conferma l’orientamento espresso anche se, con la sentenza 30492/2015, la Suprema corte, ha operato un importante distinguo in base ai reati contestati: per i delitti di omessi versamenti a fronte di dichiarazioni predisposte da precedenti amministratori, il subentrante con un minimo di diligenza può facilmente verificare la sussistenza del debito di imposta non versato. Nell’ipotesi, invece, di reati dichiarativi ovvero per l’utilizzo di fatture false, è necessario che l’accusa provi la conoscenza da parte del nuovo soggetto delle violazioni contabili commesse in precedenza.
In ogni caso, appare opportuno che, nel momento in cui si assume la rappresentanza legale di una società di capitali, prudenzialmente venga posta in essere un’attività ricognitiva finalizzata a rilevare eventuali anomalie contabili e fiscali onde evitare, in futuro, contestazioni sull’operato altrui.
Fonte “Il sole 24 ore”

Solo la sentenza definitiva blocca la non punibilità

Per i reati di omesso versamento dell’Iva e delle ritenute il cui procedimento era in corso al 22 ottobre 2015, il pagamento integrale dell’imposta ai fini della non punibilità può avvenire successivamente all’apertura del dibattimento a condizione che la sentenza non sia definitiva. A precisarlo è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 52640 depositata ieri.
Un contribuente era condannato, sia in primo grado sia in appello, a 5 mesi di reclusione per omesso versamento dell’Iva indicata in dichiarazione. L’imputato ricorreva in Cassazione, lamentando tra l’altro l’omessa applicazione nei suoi confronti della causa di non punibilità introdotta dal Dlgs 158/2015 e prevista dall’articolo 13 del Dlgs 74/2000. Egli aveva in corso, infatti, un piano di rateizzazione che sarebbe terminato a breve con il pagamento dell’intera pretesa.
In base alla nuova formulazione del citato articolo 13 i reati di omesso versamento di ritenute, Iva e indebita compensazione di crediti non spettanti, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative ed interessi, siano stati estinti mediante integrale pagamento.
La Corte di appello riteneva non applicabile tale causa di non punibilità perché nella specie il procedimento era già in secondo grado. La Cassazione ha invece ritenuto fondata la doglianza.
Secondo i giudici di legittimità la nuova previsione è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del decreto (22 ottobre 2015) e ciò anche se il dibattimento sia già stato aperto, purché non vi sia sentenza definitiva.
In caso di rateizzazione il giudice deve riconoscere un ulteriore termine di tre mesi, anche se è già aperto il dibattimento.
La natura assegnata al pagamento del debito, riguardante la punibilità del reato, comporta la sua applicazione a tutti i procedimenti in corso, anche ove sia stato oltrepassato il limite temporale previsto dalla norma. Il principio di uguaglianza vieta trattamenti differenti per situazioni uguali ed impone così che il pagamento assuma la medesima efficacia estintiva per i procedimenti in corso all’entrata in vigore della norma. Se così non fosse, vi sarebbe un’ingiustificabile disparità di trattamento per le quali potrebbe prospettarsi una questione di illegittimità costituzionale.
Da evidenziare che in precedenza la Cassazione aveva già affermato il medesimo principio (sentenze 40314/2016 e 11417/2017), tuttavia, di recente aveva, al contrario, ritenuto inapplicabile la causa di non punibilità ai procedimenti in corso con apertura del dibattimento già avvenuta (sentenza 30139/2017).
Fonte ” Il fisco”

Società estinte, l’estensione dei tempi di riscossione non è retroattiva

L’amministrazione finanziaria avrà a disposizione ben cinque anni per incassare le debenze dalle società cessate ma esclusivamente qualora l’istanza di cancellazione risulti depositata successivamente al 13/12/2014 in quanto, la disciplina accolta nell’articolo 28 del Dlgs 175/2014, che ha esteso le tempistiche di recupero per le poste debitorie esigibili da parte dell’agenzia delle Entrate, non può essere considerata retroattiva e, di conseguenza, è in grado di manifestare la sua efficacia esclusivamente qualora la procedura di cessazione risulti essere stata innescata successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo menzionato. A questa conclusione è giunta la Suprema Corte la quale, attraverso l’ordinanza 20427/2017 (conformi Cassazione, sentenza 6743/2015, 18385/2015, 19142/2016) ha cassato il ricorso depositato dall’amministrazione finanziaria. I Giudici del Palazzaccio hanno infatti chiarito che «l’articolo 28, comma 4, del Dlgs 21 novembre 2014, n. 175, recante disposizioni di natura sostanziale sulla capacità delle società cancellate dal registro delle imprese, non ha valenza interpretativa, neppure implicita, e non ha, quindi, alcuna efficacia retroattiva. Ne consegue che il differimento quinquennale (operante nei confronti soltanto dell’amministrazione finanziaria e degli altri enti creditori o di riscossione indicati nello stesso comma, con riguardo a tributi e contributi) degli effetti dell’estinzione della società derivanti dall’articolo 2495, comma 2, Codice civile, si applica esclusivamente ai casi in cui la richiesta di cancellazione della società dal registro delle imprese (che costituisce il presupposto di tale differimento) sia presentata nella vigenza della nuova disciplina di detto Dlgs, ossia il 13 dicembre 201, o successivamente”.
In buona sostanza l’Ufficio può contare su un intervallo di tempo superiore per incassare i propri crediti maturati nei confronti delle società (di capitali e di persone), il cui liquidatore ha presentato un’istanza di cancellazione in quanto, seguendo il disposto del comma 4, articolo 28, l’efficacia della cessazione di una società, qualora scaturisca da un’istanza di estinzione volontaria dal registro delle imprese, risulta essere differita di cinque anni dalla richiesta di depennamento limitatamente a comparti tributario e contributivo. Pertanto la cancellazione presentata, per tutta la durata del menzionato quinquennio non inertizza la validità e l’efficacia degli avvisi di accertamento, liquidazione e riscossione afferenti ai tributi e ai contributi e alle relative sanzioni e interessi oltre che degli atti processuali.
Una parte della dottrina è dell’avviso che l’enunciazione contenuta nel comma 4 dell’articolo 28 del Dlgs 175/2014 fosse funzionale a soddisfare l’esigenza di sanare gli atti invalidi notificati, in passato, dall’agenzia delle Entrate nei confronti delle società cancellate dal registro delle imprese. A conferma di tale tesi l’amministrazione finanziaria, attraverso le circolari n. 31/E/2014 e 6/E/2015, ha avuto modo di articolare, asserendo la natura di norma “procedimentale” della disciplina, al fine di ascrivere una valenza retroattiva in grado di “accomodare” il passato. La tesi sostenuta dall’Ufficio risulta essere però inammissibile, considerata la manifesta valenza sostanziale della disposizione, tenuto conto che la medesima influisce palesemente sulla sedicente capacità giuridica della società cancellata.
Il nostro convincimento è tuttavia che la disposizione contenuta nel Dlgs 175/2014, risultando illegittima, non possa trovare applicazione nemmeno nei confronti delle società cancellate a far data dal 13/12/2014 in quanto, alle irresolutezze evidenziate dagli Ermellini attraverso la sentenza n. 6743/2015, secondo la quale la disciplina genererebbe una ingiustificata disuguaglianza di trattamento tra i differenti creditori della società, la medesima disposizione apparirebbe promulgata travalicando gli ambiti di competenza attribuiti agli articoli 1 e 7 della Legge di Delegazione n. 23/2014 e tutto ciò condurrebbe a qualificarla come illegittima. Risulta infatti evidente che una società cancellata dal registro delle imprese non è in grado di intraprendere un giudizio e, di conseguenza, la disciplina contenuta nell’articolo 28 del Dlgs 175/2014 non consente al soggetto chiamato in causa di esercitare il proprio diritto di difesa, tutelato dall’articolo 24 Costituzione. Tale considerazione è stata condivisa anche dai Giudici del Palazzaccio che, nella menzionata sentenza n. 6743/2015, hanno sostenuto che il ricorso proposto da una società estinta risulta essere inammissibile in conseguenza del difetto di capacità della società e dell’improponibilità del ricorso stesso.
Fonte “Il fisco”

Una sanzione per ogni omissione

Marcia indietro della Cassazione sull’applicazione del cumulo giuridico alle sanzioni relative agli omessi versamenti. Con l’ordinanza n. 27068 depositata la scorsa settimana (si veda questo articolo ), i giudici di legittimità hanno escluso il cumulo per questa tipologia di violazione giungendo a conclusioni opposte rispetto a quanto espresso nella sentenza 21570/2016. Un cambio di orientamento rilevante perché, dopo la pronuncia del 2016, molti contribuenti hanno impugnato gli atti dell’amministrazione sugli omessi o ritardati versamenti di imposta senza applicazione del cumulo. Secondo l’interpretazione dell’amministrazione finanziaria, infatti, è da escludersi una simile possibilità.
Da notare che in presenza di omessi o tardivi versamenti, salvo errori dell’ufficio (in genere ravvedimenti non considerati) o difetti di notifica dell’agente della riscossione, difficilmente ci sono validi motivi da eccepire nell’impugnazione trattandosi di violazioni abbastanza evidenti.
Il precedente orientamento della Cassazione aveva così consentito, in presenza di plurime violazioni, la contestazione dell’operato dell’amministrazione almeno sul calcolo della sanzione irrogata.
Il precedente orientamento
Nella vicenda affrontata lo scorso anno, a una società era notificata una cartella di pagamento per omesso versamento di imposte liquidate dal contribuente, nella specie si trattava di Iva, Irpef, Irap, ritenute, oltre interessi e sanzioni. Il provvedimento veniva impugnato lamentando, tra i diversi motivi, l’omessa applicazione del cumulo giuridico sulle sanzioni. I giudici di merito di entrambi i gradi di giudizio accoglievano la tesi favorevole al contribuente.
L’agenzia delle Entrate ricorreva allora in Cassazione contestando, in estrema sintesi, un’errata interpretazione della norma. La Suprema Corte, respingendo i motivi dell’Ufficio, rilevava che il cumulo giuridico prevede in linea generale, l’applicazione di una sanzione unica e ridotta (cosiddetto cumulo giuridico) in luogo di quella derivante dalla somma delle sanzioni relative ai singoli illeciti (cosiddetto cumulo materiale).
Nell’ipotesi di omessi versamenti la sanzione è disciplinata dall’articolo 13 del Dlgs 471/97, il quale si limita a determinarne l’ammontare nella misura del 30% (la norma riformata prevede anche misure differenti in relazione a pagamenti tardivi). Tuttavia, la disposizione non esclude espressamente l’applicazione dell’istituto del cumulo giuridico, con la conseguenza che può ritenersi applicabile anche per tali violazioni. Si tratta, infatti, di un istituto la cui funzione è di attenuare il maggior rigore delle sanzioni che potrebbero derivare dal cumulo materiale. La sua applicazione non è facoltativa per gli uffici, poiché questi ultimi devono verificare in concreto la sanzione meno gravosa per il contribuente; non rileva peraltro né l’ambito temporale, non essendo cioè limitato allo stesso periodo di imposta, né oggettivo, potendosi applicare alla generalità dei tributi ed anche tra violazioni riguardanti lo stesso tributo.
Il revirement
Anche nel procedimento posto a base dell’ordinanza della Cassazione depositata ieri, a una società erano stati contestati con cartella di pagamento ripetuti tardivi omessi versamenti di imposta. Nella specie però la Suprema Corte ha ritenuto che per tali violazioni non sia possibile determinare le sanzioni considerando la continuazione.
Nella circostanza i giudici di legittimità hanno evidenziato che l’istituto del cumulo concerne le violazioni potenzialmente incidenti sulla determinazione dell’imponibile o sulla liquidazione del tributo. Il ritardo o l’omissione del pagamento è, invece, una violazione che attiene all’imposta già liquidata contenuta nella dichiarazione presentata dal contribuente, per la quale la norma disciplina un trattamento sanzionatorio proporzionale e autonomo per ciascun mancato pagamento.
Fonte “Il fisco”

Concorso in bancarotta per i sindaci che omettono i controlli

Sì alla condanna per concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale a carico dei sindaci che, malgrado fosse evidente che le condotte degli amministratori potevano determinare il fallimento della società, non hanno impedito l’evento omettendo i controlli. La Cassazione, con la sentenza 52433/2017 , afferma la corresponsabilità nel reato del presidente del collegio sindacale e di un componente del collegio di una Spa i cui amministratori, in un separato giudizio, avevano patteggiato una pena per una vasta gamma di operazioni illegali, dall’eccesso abusivo al credito all’eccessivo accantonamento delle indennità di infortunio dei lavoratori, dall’illegittima contabilizzazione dei costi per lo smaltimento dei rifiuti ai finanziamenti alle società a loro riconducibili.
Secondo la corte d’appello le azioni dei vertici erano così macrospiche da non poter “sfuggire” al controllo dei sindaci, per questo i fatti reati andavano imputati anche a loro. I ricorrenti contestano la lettura dei giudici di merito, condivisa invece dalla Cassazione, per la parte in cui, alla contestazione del reato per aver determinato il fallimento, per effetto delle operazioni dolose (articolo 223, comma 2 n.2 della legge fallimentare), sia seguita una condanna per bancarotta distrattiva o dissipativa (articolo 223 comma 1 della legge fallimentare). Per i giudici però il rimando alle distrazioni è coerente con le fattispecie contestate e la conclusione raggiunta in linea con la giurisprudenza di legittimità che ha definito i contorni del reato di determinazione del fallimento per effetto di operazioni dolose. Una fattispecie – precisano i giudici – che si distingue dalle ipotesi generali di bancarotta fraudolenta patrimoniale in quanto la nozione di “operazione” presuppone una modalità di pregiudizio patrimoniale che non dipende direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione) «bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante in procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato».

I giudici respingono poi anche l’appunto secondo il quale i giudici di merito avrebbero dedotto la responsabilità dei sindaci una volta appurate le “colpe” degli amministratori grazie al patteggiamento fatto da questi ultimi. La Cassazione però precisa che i giudici di merito non hanno fondato il loro giudizio solo sul fatto storico della dell’applicazione della pena da parte dei membri del board, ma hanno ricostruito le loro condotte, presupposto della responsabilità dei sindaci, specificando tutti gli elementi di prova.
Fonte “Il fisco”

Bonus prima casa anche se l’abitazione non è idonea

La titolarità del diritto di proprietà di un’abitazione “inidonea” sia per circostanze oggettive (casa inabitabile) sia per circostanze soggettive (allargamento della famiglia) non impedisce l’acquisto di un’altra abitazione con l’agevolazione “prima casa”: lo ha stabilito la Cassazione con l’ordinanza 27376 del 17 novembre 2017.
La questione non è nuova perché la Cassazione ha recentemente affermato (ordinanza 14740 del 13 giugno 2017, si veda questo articolo ) che la casa divenuta soggettivamente inidonea è di ostacolo all’agevolazione “prima casa” se il contribuente in questione ne voglia acquistare un’altra. C’è però da rammentare che questa pronuncia n. 14740 fece scalpore perché, con essa, la Cassazione ha invertito la sua precedente giurisprudenza di segno contrario (le sentenze 18128/2009, 100/2010 e 3931/2014), nella cui scia si era accodata anche la giurisprudenza di merito: Ctp Alessandria, 22/2010, Ctp Matera, 820/2011, Ctr Lombardia 2970/2014, Ctr Lombardia 4272/2015, Ctp Milano 5888/2016.
In passato, per un breve periodo (dal 24 gennaio 1993 al 31 dicembre 1995), la legge sull’agevolazione “prima casa” aveva concesso il beneficio a chi avesse dichiarato «di non possedere altro fabbricato … idoneo ad abitazione» (Dl 16/1993 e Dl 155/1993). Prendendo però atto del fatto che il giudizio di “idoneità” di un’abitazione comportava una forte discrezionalità nella osservazione dei singoli casi concreti (dovendosi tener conto sia delle caratteristiche del fabbricato sia delle esigenze personali del contribuente e della sua famiglia) il legislatore eliminò ben presto (con la legge 549/1995) il riferimento all’idoneità della abitazione preposseduta, viceversa stabilendo (con norma ancor oggi vigente) che l’agevolazione fiscale è impedita per il solo fatto della titolarità di una abitazione, senza più riferimento alla sua idoneità, o meno, per le esigenze abitative del contribuente.
Cosicchè, dal 1° gennaio 1996 alla sentenza di Cassazione 7 agosto 2009 n. 18128 nessuno ha mai più dubitato che, per l’ottenimento dell’agevolazione “prima casa”, occorresse considerare anche il requisito della idoneità dell’abitazione preposseduta. Nel 2009 invece la Suprema Corte ha improvvisamente ritenuto che «il requisito della “impossidenza di altro fabbricato … sussista nel caso di carenza di un altro alloggio concretamente idoneo a sopperire ai bisogni abitativi». Non è dato sapere se questa sentenza fu il frutto di un errore (e cioè di ritenere applicabile al caso oggetto del giudizio una normativa invece abrogata). Il fatto è che la giurisprudenza successiva, sopra menzionata (almeno, stando alle pronunce pubblicate), si è adeguata pedissequamente, nonostante l’Agenzia delle Entrate abbia cercato di fare argine con la risoluzione 86/E del 20 agosto 2010, nella quale ha negato la rilevanza dell’inidoneità soggettiva della casa preposseduta.
C’è infine da notare, peraltro, che l’Agenzia delle Entrate, nella risoluzione n. 107 del 1° agosto 2017 (nonché nella predetta risoluzione 86/2010), ha sancito che la proprietà di una casa divenuta oggettivamente inidonea ad essere abitata (ad esempio, a causa del terremoto) non impedisce al contribuente di comprarne un’altra, avvalendosi dell’agevolazione “prima casa”.
Fonte “Il fisco”

OMESSA IVA CON SOGLIA PIÙ ALTA. SCONTO DI PENA PER IL PASSATO

Cassazione Penale, sentenza depositata il 10 marzo 2016

Nel procedimento penale per l’omesso versamento di IVA può essere accordato uno sconto di pena al contribuente che è stato condannato sulla base della vecchia soglia di punibilità, vale a dire quella di € 50 mila elevata a € 250 mila dal D.Lgs. n. 158 del 2015, in vigore dal 22 ottobre dello stesso anno. 
È quanto emerge dalla sentenza n. 9936/16 della Terza Sezione Penale della Cassazione.

Ricorre per cassazione un legale rappresentate di società che la Corte D’Appello – a differenza del Tribunale – ha ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 10-ter del D.Lgs. n. 74 del 2000 per il mancato accantonamento dell’IVA dovuta all’Erario, con un’evasione di oltre 550 mila euro.
La Corte territoriale non ha ritenuto rilevanti, ai fini della dimostrazione della mancanza di dolo per grave crisi di liquidità, né la circostanza della perdita di un assegno di 600 mila euro né un mancato incasso di quasi 2 milioni di euro né il finanziamento “personale” da parte dell’imputato alla società né, infine, la chiusura delle linee credito; e ciò perché, a fronte di tali vicissitudini (tra l’altro non tutte fornite di prova secondo i giudici di secondo grado), è mancata la giustificazione da parte del ricorrente dell’impiego di liquidità per oltre 900.000 euro a titolo di IVA incassata.

Detta somma avrebbe dovuto essere accantonata per provvedere al pagamento del tributo alla scadenza prevista (28/12/2009); tenuto peraltro conto che la società non aveva dipendenti, né locali per cui corrispondeva un affitto (avendo sede nell’abitazione del prevenuto) né, infine, risultando prodotte fatture passive atte a fornire elementi di prova in ordine al fatto che le somme incassate fossero state utilizzate per pagare altri creditori.

Insomma, dal mancato accantonamento dell’IVA incassata la Corte D’appello ha tratto la prova del dolo nel mancato assolvimento dell’obbligazione tributaria. Le somme da versare all’Erario sono state distratte dalla loro destinazione naturale poiché utilizzate per tutt’altri fini.
Ebbene, il ragionamento decisionale che ha sorretto il giudizio di responsabilità penale pronunciato dal Collegio territoriale è stato pienamente condiviso dagli ermellini, che tuttavia hanno ravvisato l’opportunità di rivedere la pena inflitta al ricorrente (fissata dalla Corte D’Appello in sei mesi e venti giorni di reclusione). E ciò alla luce del mutato quadro legislativo.

In proposito in sentenza si legge: “può ritenersi che, effettivamente, alla stregua della novella del 2015 con cui è stata elevata la soglia di punibilità per il reato di omesso versamento Iva ad € 250 mila, rispetto alla soglia che, in relazione al periodo di imposta in contestazione, attribuiva rilevanza penale al fatto (pari ad € 103.291,18, in relazione alla declaratoria di incostituzionalità operata dalla sentenza n. 80 del 2014), il disvalore complessivo del fatto debba essere rivalutato, posto che la soglia svolge la propria funzione sul piano della selezione categoriale, incidendo quindi la sua elevazione, ai fini della rilevanza penale del fatto, sul complessivo e oggettivo disvalore penale del fatto medesimo, donde ciò giustifica la necessità di una rivalutazione della congruità complessiva del trattamento sanzionatorio alla luce del predetto ius superveniens”.

Pertanto la sentenza impugnata è stata annullata con rinvio, limitatamente al trattamento sanzionatorio.

Da segnalare che la difesa ha invocato anche la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui la Corte ha però escluso la ricorrenza.

Sulla compatibilità tra i reati per cui è prevista una soglia di punibilità e il giudizio di particolare tenuità del fatto è pendente la relativa questione davanti alle Sezioni Unite. Ciononostante i supremi giudici hanno richiamato un loro precedente pronunciamento secondo cui, quando si procede per il reato di omesso versamento dell’IVA, la non punibilità per particolare tenuità del fatto è applicabile solo se l’ammontare dell’imposta non corrisposta è di pochissimo superiore a quello fissato dalla soglia di punibilità, poiché la previsione di quest’ultima evidenzia che il grado di offensività della condotta ai fini della configurabilità dell’illecito penale è stato già valutato dal legislatore. Nel caso di specie l’ammontare dell’IVA non versata – a seguito della novella del 2015 – è pari al doppio di quella prevista dalla legge quale soglia di punibilità ai fini della rilevanza penale del fatto.

AUTORE: REDAZIONE FISCAL FOCUS

 

  • Sentenza n. 9936/16 della Terza Sezione Penale della Cassazione (820 kB)

Medici e attività intramoenia. Illegittime le trattenute dell’Asl

Illegittime le trattenute dell’Asl – Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Lavoro, sentenza depositata il 7 gennaio 2016

In tema di Irap, sono illegittime le trattenute dell’ASL al medico ospedaliero che svolge anche attività libero-professionale intramuraria.

L’azienda sanitaria può trasferire sui pazienti l’onere relativo all’Irap attraverso l’adeguamento delle tariffe del servizio.

È quanto emerge dalla sentenza 7 gennaio 2016, n. 79, della Corte di Cassazione – Sezione Lavoro.

La Corte d’Appello di L’Aquila ha condannato la locale azienda sanitaria a
restituire a un medico, svolgente attività libero-professionale intramoenia, le
somme trattenute a titolo di IRAP.

La condanna è stata motivata dalla Corte territoriale nel senso che il reddito inerente all’ALPI è assimilabile al reddito da lavoro dipendente e che il soggetto passivo dell’imposta regionale sulle attività produttive è unicamente l’ASL.

Pertanto, nel caso di specie, non potendo sopportare i costi per l’ALPI, l’ASL avrebbe dovuto determinare le tariffe del servizio, e così traslare gli oneri dell’imposta sui pazienti e non sui medici. L’Asl, dunque, non poteva pretendere che fossero i medici stessi a trasferire sui pazienti l’onere economico relativo all’IRAP.

Ebbene, la Sezione Lavoro della Suprema Corte ha mantenuto ferma la statuizione del giudice di secondo grado.

Gli ermellini hanno rilevato che soggetto passivo dell’imposta è L’ASL; inoltre è
incontroverso che l’ALPI è attività rientrante nello schema generale del lavoro subordinato.

I supremi giudici hanno aggiunto che, se anche il contratto collettivo decentrato prevede che l’onere del pagamento dell’imposta debba gravare sui pazienti, le tariffe del servizio sono nella disponibilità dell’ASL e non dei medici, i quali, per rispettarle, non possono in alcun modo trasferire l’Irap sui pazienti.

Resta poi esclusa, per i giudici di Piazza Cavour, la possibilità giuridica di trasferire la qualità di sostituto d’imposta dall’ASL ai medici, essendo questi ultimi estranei al rapporto tributario poiché “meri subordinati del
sostituto d’imposta IRAP”.

Infine in sentenza si legge: “né può dirsi violato il canone ermeneutico dell’art. 1363 c.c. in relazione al comportamento, anche successivo, delle parti sol perché nel successivo accordo integrativo aziendale dell’area dirigenza medica del 2007 è stata espressamente pattuita la suddetta traslazione: si tratta di una anfibologia perché, nel succedersi delle fonti collettive, una specificazione
non presente in quelle precedenti può essere intesa tanto come mera
interpretazione autentica quanto come innovazione rispetto al precedente
assetto negoziale”.

Accertamento nullo se firmato da soggetto non qualificato

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione tributaria, sentenza depositata il 16 dicembre 2015

L’accertamento fiscale è nullo se l’Ufficio non prova che è stato firmato da un funzionario della carriera direttiva, ancorché non necessariamente un dirigente.

È quanto ha sostenuto la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione nella sentenza 16 dicembre 2015, n. 25280.
Ricorre per cassazione l’Agenzia delle Entrate, ma senza successo.
Gli ermellini hanno confermato – e quindi reso definitivo – il verdetto della CTR di Venezia relativamente a un avviso di accertamento per imposte di cui il contribuente aveva sostenuto – sin dal ricorso introduttivo della lite – la nullità per difetto di sottoscrizione.
E, in effetti, secondo il giudice dell’appello, “l’Ufficio non ha mai provato che chi ha firmato l’atto avesse la nona qualifica funzionale richiesta dalla normativa”.
Nel caso di specie la CTR ha ravvisato il mancato assolvimento dell’onere probatorio gravante sull’Amministrazione finanziaria, nel senso che questa avrebbe dovuto provare i poteri del funzionario sottoscrittore oppure l’esistenza di una valida delega al medesimo; mentre è risultato pacifico che l’atto impugnato non era stato sottoscritto dal direttore dell’ufficio, né da un funzionario della carriera direttiva (nona qualifica) dallo stesso validamente delegato. Peraltro l’atto dispositivo non poteva essere considerato valida delega solo sulla base del suo tenore letterale. In esso, infatti, non si parlava “di una delega in caso di accertamento, nemmeno in favore del ‘Capo Area accertamento’, al quale la delega di firma è conferita solo per le ‘richieste di atti e notizie o segnalazioni di elementi di accertamento’”.
Da quanto sopra la CTR ha tratto l’illegittimità dell’atto in contestazione, per mancanza del requisito di sottoscrizione previsto, a pena di nullità, dall’art. 42, commi 1 e 3, del D.P.R. n. 600/73.
Ebbene, la Cassazione ha reputato corretta la conclusione della Commissione.
Innanzitutto perché la ricorrente Agenzia ha ammesso che l’eccezione di nullità per omessa sottoscrizione di un funzionario qualificato era stata dedotta dal contribuente fin dal ricorso introduttivo di primo grado, poi, effettivamente, l’Ufficio non ha mai provato che chi ha firmato avesse la nona qualifica funzionale richiesta dalla normativa, cioè fosse un funzionario della carriera direttiva (ancorché non necessariamente un dirigente).
Insomma, il ricorso prodotto dalla difesa erariale è stato respinto. Nulla sulle spese.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Commercialisti e dichiarazione fraudolenta: assoluzione per la registrazione delle fatture

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 16 dicembre 2015

Affinchè si configuri il reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 del D.Lgs. 74/2000 è indispensabile la presentazione della dichiarazione fiscale nella quale vi sia stato l’effettivo inserimento di elementi passivi fittizi, mentre le condotte prodromiche di acquisizione e registrazione nelle scritture contabili di fatture o altri documenti falsi restano del tutto irrilevanti, sul piano penale, non potendo essere punite neppure a titolo di tentativo.

Deve pertanto essere mandato assolto, “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, il commercialista che ha registrato le fatture false per conto dei clienti se non è dimostrato l’inserimento delle stesse nelle varie dichiarazioni fiscali presentate.

È quanto emerge dalla sentenza n. 49570/15 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Un commercialista è stato riconosciuto responsabile dalla Corte d’Appello, a titolo di concorso, del reato previsto dall’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 per avere, secondo le accuse, fatto da tramite tra una società estera che emetteva fatture false e i destinatari delle stesse, suoi clienti (precisamente dei promotori finanziari per i quali teneva la contabilità), così consentendo loro di evadere le imposte.

Ebbene, il giudizio di responsabilità è stato annullato senza rinvio dalla Suprema Corte, in accoglimento del motivo difensivo centrato sulla violazione di legge, posto che l’addebito contestato non contemplava l’avvenuta presentazione di alcuna delle necessarie dichiarazioni annuali, riportanti le fittizie componenti passive enunciate, limitandosi genericamente a contestare l’utilizzazione delle fatture per operazioni inesistenti. Da qui, fra l’altro, la mancanza di accertamento, da parte del giudice di merito, del momento consumativo del reato contestato.

Gli Ermellini hanno argomentato che il reato in questione si consuma all’atto della presentazione della dichiarazione. In tal senso depone, infatti, il dato testuale dell’art. 2 D.lgs. 74/2000, norma rimasta immodificata anche a seguito del D.L. n. 158 del 2015.

Occorre poi evidenziare come l’art. 6 dello stesso decreto abbia previsto che il delitto in questione non sia comunque punibile a titolo di tentativo; ed è significativo che la stessa relazione ministeriale al D.Lgs. 74/00 spieghi che la ratio della norma è appunto quella di evitare che il trasparente intento del legislatore delegante di bandire il modello del reato prodromico risulti concretamente vanificato dall’applicazione dell’art. 56 del codice penale: si potrebbe sostenere, difatti, ad esempio, che le registrazioni in contabilità di fatture per operazioni inesistenti o sottofatturazioni, scoperte nel periodo d’imposta, rappresentino atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere una successiva dichiarazione fraudolenta o infedele, come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato. Da qui dunque la conseguenza, da un lato, che solo con la presentazione della dichiarazione il reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. 74/00 può dirsi perfezionato e, dall’altro, che, a differenza di quanto in precedenza stabiliva l’art. 4, lett. g), della L. 516/82, le condotte ad essa pregresse restano, sul piano penale, del tutto irrilevanti, non potendo essere punite neppure a titolo di tentativo.

E allora il supremo collegio ha ravvisato giusti motivi per ritenere errato il verdetto di responsabilità pronunciato dalla Corte territoriale, poiché “il fatto contestato al professionista non ha disvalore penale, mancando in esso qualunque riferimento alla necessaria e imprescindibile indicazione in dichiarazione delle fatture emesse: nel capo d’imputazione riportato in sentenza, ed esattamente corrispondente al contenuto dell’addebito indicato nel decreto che dispone il giudizio, si è contestato infatti all’imputato di aver, in concorso con altre sessantanove persone, aver consentito a queste di evadere le imposte avvalendosi di fatture inesistenti, avendo in particolare fatto da tramite tra detti soggetti e la struttura della (omissis) s.a. che, attraverso società estere, curava l’emissione delle fatture ‘registrate nelle scritture contabili obbligatorie o tenute a fini di prova nel confronti dell’amministrazione finanziaria, a fronte di una provvigione sugli importi fatturati’. Ed è del resto significativo che la motivazione della sentenza impugnata, in qualche modo ‘accontentandosi’, ai fini della utilizzazione illecita, del dato invece neutro rappresentato dalla registrazione delle fatture nelle scritture contabili, non dia conto per nulla dell’avvenuta indicazione delle stesse nelle varie dichiarazioni”.

In definitiva, per la Suprema Corte il commercialista in questione non ha commesso alcun reato.

Autore: redazione fiscal focus

Notifica agli eredi. La costituzione in giudizio sana il vizio

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Sentenza della Cassazione in tema di notifica irregolare agli eredi

L’eventuale vizio di notifica dell’avviso di accertamento intestato a soggetto deceduto può dirsi sanato dall’impugnazione dell’atto da parte dei suoi eredi.

È quanto emerge dalla sentenza 4 novembre 2015, n. 22476, della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione.

La CTR della Lombardia confermava l’accoglimento del ricorso proposto dagli eredi di un contribuente divenuto destinatario – in ragione del maggior reddito accertato nei confronti della Snc della quale era socio – di un avviso di accertamento a titolo di IRPEF e ILOR.

Il giudice d’appello ha ritenuto la nullità insanabile del suddetto avviso a causa della “irregolarità” della notificazione, poiché effettuata impersonalmente e collettivamente agli eredi nell’ultimo domicilio del defunto, laddove tale modalità di notifica è possibile quando, diversamente dal caso di specie, non è stata data comunicazione all’AdE dei nomi e degli indirizzi degli eredi.

Ebbene, la Cassazione ha accolto il ricorso prodotto dall’Agenzia delle Entrate, con rinvio della causa al giudice di secondo grado.

In motivazione gli ermellini riaffermano il principio secondo il quale, in tema di atti d’imposizione tributaria, la notificazione non è un requisito di giuridica esistenza e perfezionamento dell’atto, ma una condizione integrativa d’efficacia, sicché la sua invalidità (o anche inesistenza) non determina in via automatica l’inesistenza dell’atto, quando ne risulti inequivocabilmente la piena conoscenza da parte del contribuente entro il termine di decadenza concesso per l’esercizio del potere all’Amministrazione finanziaria (da ultimo, Cass. n. 8374 del 2015).

In particolare, quindi, nel caso di atto impositivo intestato a soggetto deceduto, l’esecuzione della notifica, ai sensi dell’articolo 65 comma 4 del D.P.R. n. 600 del 1973, presso il suo ultimo domicilio, impersonalmente e collettivamente agli eredi, nonostante questi abbiano effettuato, almeno trenta giorni prima, la comunicazione all’Ufficio delle proprie generalità e del domicilio fiscale, configura anch’essa una ipotesi di nullità della notificazione stessa, soggetta quindi al regime della sanatoria ex art. 156 c.p.c.,laddove la insanabile inesistenza della notificazione deve ritenersi limitata alla sola ipotesi di notifica dell’atto indirizzata al soggetto deceduto, perché essa, in tal caso, va ad incidere in realtà sul momento strutturale del rapporto tributario (e quindi sull’atto), che non è evidentemente configurabile nei confronti di un soggetto non più esistente (tra le altre, Cass. n. 18729 del 2014).

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

 

Accertamenti e sottoscrizione. La delega “impersonale” annulla l’atto

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza pubblicata l’11 dicembre 2015

In tema di sottoscrizione dell’avviso di accertamento tributario, devono considerarsi nulli gli atti firmati in forza di una delega che reca la sola qualifica professionale del destinatario, senza alcun riferimento alle sue generalità. Per rendere legittima la delega non è sufficiente, ad esempio, l’indicazione come delegato del “capo team”.

È quanto emerge dalla sentenza 11 dicembre 2015, n. 25017, della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione.

Accogliendo il ricorso proposto da un contribuente Siciliano – raggiunto da un avviso di accertamento a fini IRPEF, e che ha lamentato la nullità dell’atto per violazione dell’art. 42 del D.P.R. 600/73, in quanto sottoscritto, a suo dire, da soggetto che non era in possesso della qualifica richiesta e senza l’annotazione della delega ricevuta -, i supremi giudici hanno osservato, a beneficio del giudice del rinvio, che non è indifferente che un atto complesso come l’accertamento tributario sia emesso da un funzionario privo della necessaria qualifica, quindi – deve presumersi – della necessaria capacità tecnica.

E infatti, in base all’art. 42 citato, l’avviso di accertamento è nullo se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Tale delega, ha precisato il supremo collegio, può essere conferita o con atto proprio o con ordine di servizio purché siano indicati, unitamente alle ragioni della delega (ossia le cause che ne hanno resa necessaria l’adozione, quali carenza di personale, assenza, vacanza, malattia, etc.):

  • il termine di validità
  • ed il nominativo del soggetto delegato.

Non è sufficiente, perciò, sia in caso di delega di firma sia in caso di delega di funzione, l’indicazione della sola qualifica professionale del destinatario della delega, senza alcun riferimento nominativo alle generalità di chi effettivamente rivesta la qualifica richiesta.

E allora sono “illegittime le deleghe impersonali, anche ‘ratione offici’, prive di indicazione nominativa del soggetto delegato. E tale illegittimità si riflette sulla nullità dell’atto impositivo. Non è dunque sufficiente l’indicazione come delegato del capo team per rendere legittima la delega”.

Autore: redazione fiscal focus

Liti fiscali. La sentenza favorevole alla società blocca l’accertamento nei confronti del socio

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza pubblicata il 4 dicembre 2015

In tema di società a ristretta base sociale, l’accertamento negativo, con sentenza passata in giudicato, dell’utile extracontabile della società rimuove il presupposto da cui dipende l’accertamento del maggior utile da partecipazione del socio.

È quanto emerge dalla sentenza 24793/15, pubblicata il 4 dicembre dalla Sesta Sezione Civile – T della Cassazione.

La controversia è scaturita da un avviso di accertamento per IRPEF 1995, con cui l’Agenzia delle Entrate aveva ripreso a tassazione i redditi di partecipazione del contribuente a una Srl, società a propria volta destinataria di un avviso di accertamento per il medesimo anno d’imposta, atto poi divenuto oggetto d’impugnazione.

Ebbene, l’annullamento, con sentenza passata in giudicato, dell’accertamento nei confronti della società ha determinato anche l’annullamento dell’atto impositivo inviato al socio e impugnato con ricorso autonomo.

L’Agenzia delle Entrate, nel giudizio di cassazione, ha sostenuto che il presupposto della pretesa nei confronti del socio non è la formazione di un accertamento definitivo nei confronti della società, ma il fatto storico dell’esistenza di redditi della società non dichiarati; sicché l’accertamento nei confronti della società potrebbe vincolare quello nei confronti del socio solo quando la pretesa nei confronti della società sia ritenuta inesistente nel merito e non, come nella specie, per un vizio procedurale. Infatti, nel caso di specie, il ricorso per cassazione contro la sentenza della CTR favorevole alla società era stato dichiarato inammissibile per mancato deposito dell’avviso di ricevimento della relativa notifica per posta.

I giudici del Palazzaccio non hanno ritenuto di poter condividere gli assunti della ricorrente Agenzia.

In tema di effetti del giudicato è già stato chiarito (Cass. n. 6788/13 e 2137/14), in via generale, che la sentenza passata in giudicato, oltre ad avere un’efficacia diretta tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, ne ha anche una riflessa, poiché, quale affermazione oggettiva di verità, produce conseguenze giuridiche anche nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo nei quali sia stata resa qualora essi siano titolari di diritti dipendenti dalla situazione definitiva in quel processo, o comunque subordinati a questa.

Sulla scorta di quanto sopra (nonché dei principi affermati in Cass. n. 24049/11), i giudici della Sesta Sezione del Palazzaccio hanno ritenuto di poter enunciare il principio secondo cui, nel giudizio avente a oggetto l’avviso di accertamento relativo al socio di una società di capitali a ristretta base sociale, deve riconoscersi l’efficacia riflessa del giudicato, formatosi nel giudizio intercorso tra l’Agenzia delle Entrate e la società, con cui è stata accertata la insussistenza di utili extracontabili della società. L’accertamento negativo dell’utile extracontabile della società rimuove, infatti, il presupposto da cui dipende l’accertamento del maggior utile da partecipazione del socio.

I giudici del Palazzaccio (in risposta all’assunto del fisco secondo cui il giudicato favorevole alla società farebbe stato nei confronti del socio “solo quando la pretesa nei confronti della società viene ritenuta inesistente nel merito”) hanno aggiunto che nel caso di specie il giudicato esterno vincolante non è la sentenza – effettivamente tutta in rito – con cui la Cassazione ha rigettato il ricorso contro la sentenza d’appello favorevole alla società, ma proprio la sentenza d’appello che ha annullato l’avviso di accertamento emesso nei confronti dalla società non per ragioni di legittimità formale degli atti o del procedimento impositivo, bensì sulla scorta di un giudizio che ha portato la CTR a ritenere che l’Amministrazione finanziaria non avesse adempiuto all’onere di dimostrare i fatti costitutivi della pretesa fiscale.

Per gli ermellini, dunque, la sentenza ottenuta dalla società ha operato un accertamento negativo del credito tributario di cui ha potuto beneficiare il socio: cioè essa sentenza, dopo il suo passaggio in giudicato, ha fatto stato anche nel giudizio intrapreso dal socio. Dal che il rigetto del ricorso dell’Agenzia delle Entrate.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

 

Iscrizione ipotecaria nulla senza preavviso

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 4 dicembre 2015

Equitalia deve comunicare preventivamente l’iscrizione ipotecaria per i debiti erariali non pagati, altrimenti il provvedimento è illegittimo per violazione del diritto del debitore alla partecipazione al procedimento, garantito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 41,47 e 48).

In ipotesi di omessa attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, l’iscrizione mantiene la sua efficacia fino alla declaratoria giudiziale dell’illegittimità, attesa la natura reale dell’ipoteca.

È quanto emerge dalla sentenza n. 24794/15 della Sesta Sezione Civile – T della Cassazione.

La controversia è originata da una comunicazione d’iscrizione ipotecaria ex art. 77 D.P.R. 602/73, provvedimento confermato dalla Commissione Tributaria Regionale di Venezia-Mestre, il cui verdetto è stato prontamente impugnato in Cassazione dal debitore.

Ebbene, la Suprema Corte ha ribaltato le sorti del giudizio decidendo la causa nel merito alla luce dell’insegnamento delle Sezioni Unite secondo cui, anche in materia d’iscrizione ipotecaria, s’impone il rispetto del contraddittorio endoprocedimentale.

Gli ermellini hanno accolto il motivo di ricorso concernente la violazione di legge per avere la CTR ritenuto legittima l’ipoteca esattoriale oggetto d’impugnazione sebbene questa fosse stata iscritta senza alcun preventivo avviso finalizzato a indurre il debitore ad adempiere.

Il diritto al contraddittorio preventivo è sancito negli articoli 41, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e, secondo la Corte di Giustizia, deve trovare applicazione ogniqualvolta l’amministrazione di uno Stato membro si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto a esso lesivo. Ed è per questa ragione che le Sezioni Unite (sentenze n. 19667 e 19668 del 2014) hanno sostenuto che, in tema di riscossione coattiva delle imposte, l’amministrazione finanziaria, prima di iscrivere ipoteca ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, articolo 77, deve comunicare al contribuente che intende procedere alla predetta iscrizione sui suoi beni immobili, concedendo a quest’ultimo un termine – che, per coerenza con altre analoghe previsioni normative presenti nel sistema, può essere fissato in trenta giorniperché egli possa esercitare il proprio diritto di difesa, presentando opportune osservazioni, o provveda al pagamento del dovuto.

L’iscrizione di ipoteca non preceduta dalla comunicazione al contribuente è nulla, in ragione della violazione dell’obbligo che incombe all’amministrazione di attivare il “contraddittorio endoprocedimentale”, mediante la preventiva comunicazione al contribuente della prevista adozione di un atto o provvedimento che abbia la capacità di incidere negativamente, determinandone una lesione, sui diritti e sugli interessi del contribuente medesimo.

Tuttavia, in ragione della natura reale dell’ipoteca, l’iscrizione eseguita in violazione del predetto obbligo conserva la propria efficacia fino a quando il giudice non ne abbia ordinato la cancellazione, accertandone l’illegittimità.

Alla stregua di questi rilievi, la Suprema Corte ha cassato senza rinvio la sentenza della CTR veneta disponendo, per l’effetto, la cancellazione dell’iscrizione ipotecaria impugnata.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Sottoscrizione accertamenti. Da dimostrare la validità della delega

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria sentenza depositata il 2 dicembre 2015

Sono affetti da nullità, per violazione dell’art. 42 del D.P.R. 600/73, gli avvisi di accertamenti sottoscritti da soggetto diverso dal Capo dell’ufficio in assenza d’indicazione alcuna in ordine alla qualifica e ai poteri a esso conferiti e in mancanza di prova circa l’esistenza di un provvedimento di delega da parte del Capo dell’ufficio.

A fronte della tempestiva eccezione formulata dal contribuente/ricorrente, l’Ufficio finanziario è tenuto a fornire la prova del corretto esercizio del potere di delega.

È quanto emerge dalla sentenza 2 dicembre 2015, n. 24492, della Quinta Sezione Civile della Corte di Cassazione.

La controversia è originata da un accertamento per il recupero a tassazione di ricavi non contabilizzati. L’Agenzia delle Entrate ha agito sulla base dei rilievi operati dalle Fiamme gialle e la società interessata dalla ripresa ha proposto tempestivamente impugnazione, senza tuttavia avere successo nei primi due gradi di giudizio.

Nel giudizio di legittimità, invece, gli ermellini hanno ritenuto fondata l’eccezione involgente la sottoscrizione degli atti impugnati, per essere questi stati firmati da soggetto diverso dal capo dell’Ufficio e senza che l’amministrazione resistente abbia fornito elementi sufficienti a far ritenere l’esistenza di una valida delega di firma in capo all’impiegato firmatario.

Da tempo la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la sottoscrizione dell’avviso di accertamento da parte di funzionario diverso da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo, oppure da parte di un soggetto da detto funzionario non validamente ed efficacemente delegato, non soddisfa il requisito di sottoscrizione prescritto, a pena di nullità, dall’art. 42 (commi 1 e 2) del D.P.R. 600 (cfr. Cass. 14195/2010).

È pacifico, poi, l’orientamento secondo cui, nell’individuazione del soggetto legittimato a sottoscrivere l’avviso di accertamento, in forza dell’art. 42 sopra citato, incombe all’Agenzia delle entrate l’onere di dimostrare il corretto esercizio del potere e la presenza di eventuale delega (cfr. Cass. n. 14942/2013).

Sempre la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che l’onere probatorio posto in capo all’amministrazione è effetto diretto dell’espressa previsione della tassativa sanzione legale della nullità dell’avviso di accertamento; previsione che trova la sua ragion d’essere nel fatto che gli avvisi di accertamento costituiscono la più complessa espressione del potere impositivo e incidono con particolare profondità nella realtà economica e sociale. Le qualità professionali di chi emana l’atto, quindi, costituiscono un’essenziale garanzia per il contribuente (da ultimo, Cass. n. 22800/2015).

Solo in diversi contesti, ha precisato la Quinta Sezione del Palazzaccio – quali ad esempio la cartella esattoriale, il diniego di condono, l’avviso di mora e l’attribuzione di rendita -, e in assenza di una sanzione espressa, opera la presunzione generale di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio è adottato; mentre in materia di IVA l’art. 56 del D.P.R. 633/72 richiama implicitamente l’art. 42 del D.P.R. 600/73; pertanto vale anche per gli avvisi di accertamento IVA la sanzione prevista (nullità) per il vizio di sottoscrizione.

I giudici del Palazzaccio, infine, hanno ritenuto opportuno sottolineare che i superiori principi non sono stati contraddetti dall’orientamento recentemente espresso dalla sentenza n. 22800 del 9 novembre scorso in tema di interpretazione del concetto di “impiegato della carriera direttiva” che può essere delegato.

Detta sentenza è giunta all’approdo che per le Agenzie fiscali la vecchia carriera direttiva deve oggi essere individuata nella terza area, che ha assorbito la nona qualifica funzionale, la quale è stata ritenuta idonea da diverse pronunce a determinare la validità della delega, con conseguente rigetto della tesi secondo cui il delegato dovrebbe essere un dirigente vero e proprio.

Resta dunque fermo il principio secondo cui, ove sia contestato l’esistenza di uno specifico atto di delega da parte del capo dell’ufficio e/o l’appartenenza dell’impiegato delegato alla carriera direttiva come sopra definita, spetta all’Amministrazione finanziaria fornire la prova della non sussistenza del vizio dell’atto; e tanto si deve sia al principio di vicinanza della prova (in quanto si discute di circostanze che coinvolgono direttamente la parte pubblica, mentre per il contribuente sarebbe difficile l’accesso ai documenti) sia a quello di leale collaborazione che grava sulle parti processuali (soprattutto quella pubblica). Non è, dunque, nemmeno consentito al giudice tributario attivare d’ufficio i poteri istruttori.

Ebbene, nel caso in esame, la CTR Lombardia non ha fatto buongoverno di questi principi. Di qui la decisione dei supremi di giudici di cassare la sentenza di secondo grado, con rinvio.

Autore: redazione fiscal focus

Il professionista “zelante” ed “efficiente” non dovrà mai risarcisce il cliente

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Civile, sentenza del 27 novembre 2015

In tema di risarcimento danni per responsabilità professionale, il professionista non è in colpa, ai sensi dell’articolo 1176 comma 2 del Codice civile, qualora non abbia tenuto una condotta difforme da quella che avrebbe tenuto, al suo posto, un ideale professionista “medio”. Per tale si deve intendere non un “professionista mediocre” bensì uno “professionista bravo”: ossia serio, preparato, zelante, efficiente.

È quanto emerge dalla sentenza 27 novembre 2015, n. 24213, della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione.

La Suprema Corte – trattando un caso di responsabilità medica – ha osservato che il diritto al risarcimento presuppone la causazione di un danno attraverso la violazione di norme giuridiche o di comune prudenza. E per capire se siano state violate norme giuridiche o di comune prudenza è necessario compiere un apprezzamento alla stregua dell’art. 1176 del Codice civile, che è applicabile anche alle ipotesi di responsabilità extracontrattuale.

L’articolo 1176 citato, al comma 1, chiarisce che il debitore deve adempiere l’obbligazione usando la diligenza del buon padre di famiglia, mentre al comma 2 la norma afferma che, “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”. La nozione di “diligenza” rappresenta l’inverso logico della nozione di “colpa”; ragion per cui è in colpa chi non è diligente. Viceversa, chi tiene una condotta diligente non può essere ritenuto in colpa.

Ebbene, gli ermellini hanno precisato che le norme di comune prudenza dalla cui violazione può scaturire una colpa civile non sono uguali per tutti.

Nel caso di obbligazioni comuni, ovvero di danni causati da chi non svolga un’attività professionale, l’art. 1176 impone di assumere, a parametro di valutazione della condotta del responsabile, il comportamento che avrebbe tenuto, nelle medesime condizioni, il “cittadino medio”, vale a dire “la persona di normale avvedutezza, formazione e scolarità”.

Nel caso invece di inadempimento di obbligazioni professionali, ovvero di danni cagionati nell’esercizio di una attività professionale in senso ampio, il secondo comma dell’art. 1176 prescrive un criterio più rigoroso.

Il professionista, infatti – ci dice la Cassazione – è in colpa non solo quando tenga una condotta difforme da quella che, idealmente, avrebbe tenuto nelle medesime circostanze il bonus pater familias, ma anche quando abbia tenuto una condotta difforme da quella che avrebbe tenuto, al suo posto, un ideale “professionista medio”.

Nella giurisprudenza di legittimità, l’ideale “professionista medio” ex art. 1176, comma 2, cod. civ., , non è un professionista “mediocre”, ma è un “professionista bravo”: vale a dire serio, preparato, zelante efficiente.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Beni sequestrati al manager che sa del giro di fatture false emesse a monte e a valle dalla cartiera

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 26 novembre 2015

I beni personali (mobili e immobili) del legale rappresentante di società sono passibili di sequestro preventivo, funzionale alla confisca, se risulta il suo coinvolgimento attivo nella frode carosello. È quanto emerge dalla sentenza 26 novembre 2015, n. 46857, della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Gli ermellini hanno respinto il ricorso prodotto da un legale rappresentante di società nei confronti del quale è stata ipotizzata la fattispecie di reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 con un’evasione d’IVA per oltre 2mln di euro; importo fino alla concorrenza del quale è stato disposto il sequestro preventivo, ai fini di confisca, di beni immobili e mobili, polizze assicurative e somme depositate su conto corrente.

La decisione impugnata, pronunciata dal Tribunale del riesame, è sembrata alla Suprema Corte corretta giuridicamente, oltreché congruamente motivata.

Il giudice di merito ha ricostruito la vicenda evidenziando come la guardia di finanza, con accertamenti e verifiche, avesse acquisito la documentazione e denunciato il ricorrente quale autore di una c.d. frode carosello che coinvolgeva almeno tre società, una della quali – che era situata in un altro Paese U.E. – emetteva come cartiera, “a monte”, fatture di acquisto e, “a valle”, fatture di vendita tra le aziende coinvolte nella transazione, svolgendo la funzione di “cartiera” e interponendosi tra gli effettivi soggetti della negoziazione, conseguendosi con tale meccanismo, il vantaggio patrimoniale di lucrare l’importo relativo all’IVA non versata e consentendo anche all’effettivo destinatario della merce (cioè la società del ricorrente) di acquistarla a un prezzo ridotto. Il Tribunale ha quindi evidenziato, da un lato, i rapporti commerciali esistenti tra la società del ricorrente e la “cartiera” e, dall’altro, come alla fine dei vari passaggi e operazioni la società del ricorrente lucrasse un risparmio di spesa di più dell’8 per cento, non pagando peraltro l’IVA.

Ebbene, la Suprema Corte, nell’avallare il verdetto del giudice di merito, ha osservato, fra l’altro, che la previsione del D.P.R. n. 633/72 (articolo 21, comma 7) – secondo la quale, “se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura” – è esplicita nel senso di imporre il versamento dell’imposta, ma di precluderne la detrazione. La disposizione viene infatti letta nel senso che il tributo viene a essere considerato “fuori conto” e la relativa obbligazione, conseguentemente “isolata” dalla massa di operazioni effettuate, “estraniata”, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra Iva “a valle” e Iva “a monte”, che presiede alla detrazione d’imposta di cui al decreto 633 (articolo 19). E ciò per il rilievo che il versamento dell’Iva a un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada a un indebito recupero dell’imposta, è evento dirompente, nell’ambito del complessivo sistema Iva. Il diritto alla detrazione dell’imposta non può infatti prescindere dalla regolarità delle scritture contabili e in particolare dalla fattura che è considerata documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa.

Nella specie, poi, la Suprema Corte ha ritenuto escludibile qualsiasi inconsapevolezza da parte del ricorrente circa l’esistenza del meccanismo fraudolento. Infatti è stato possibile ricavare dal testo dei provvedimenti impugnati come il meccanismo criminoso fosse strutturato su più livelli per cui la merce, prima di giungere definitivamente alla società rappresentata dall’indagato, “è stata fatta oggetto di numerose operazioni di compravendita, solo cartolari, finalizzate esclusivamente alla creazione in capo alle simulate alienanti, assetti societari riconducibili al ricorrente, di un credito Iva non spettante, mai versato all’erario e al quale va perciò parametrato il profitto conseguito con l’evasione”.

Al ricorrente non resta che pagare le spese del giudizio di legittimità.

Autore: redazione fiscal focus

La congruità agli Studi di settore blocca l’induttivo coi parametri

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il dato di congruità dei ricavi o compensi dichiarati dal contribuente, rispetto allo studio di settore approvato con riferimento all’attività svolta, rende illegittimo l’accertamento basato sull’applicazione dei parametri.

È quanto ha sostenuto la Sezione Tributaria della Cassazione con la sentenza 23554 del 18 novembre 2015.

I giudici tributari del Palazzaccio hanno accolto il ricorso proposto da un contribuente esercente attività di trasporto merci su strada.

All’autotrasportatore, in applicazione dei parametri di cui al D.P.C.M. 29/01/1996, l’Ufficio finanziario aveva contestato maggiori ricavi, con conseguente rideterminazione di quanto dovuto a fini IRPEF e contributo SSN, nonché IVA per l’anno d’imposta 1996.

La rettifica del reddito d’impresa sulla base dei presunti maggiori ricavi è stata avvalorata dalla CTR del Lazio perché, a suo parere, il contribuente, né in sede di contraddittorio endoprocedimentale né in sede processuale, aveva fornito elementi sufficienti a screditare l’operato dell’Ufficio finanziario.

Ebbene, ad avviso della Suprema Corte il contribuente ha lamentato a buon diritto la violazione e falsa applicazione di legge laddove la CTR, nonostante le specifiche doglianze mosse sin dal primo grado di giudizio, non ha ritenuto, a fronte della pacifica congruità dell’attività agli studi di settore, “precluso o comunque superato” l’accertamento induttivo dell’Ufficio.

Il contribuente aveva evidenziato di essere congruo secondo i risultati degli studi di settore e tale circostanza non è stata smentita dall’Ufficio. In proposito gli ermellini hanno osservato che “il risultato di congruità emergente dall’applicazione dello studio di settore, stante la natura procedimentale di quest’ultimo, non può essere escluso ove applicato ad un anno anteriore, tanto più, come precisato da Cass. 8311/2013, a fronte di situazioni ordinarie, non essendo emerse situazioni contingenti, cioè correlate solo a determinate annualità d’imposta o eccezionali, cioè ad esempio di tipo economico”. E allora, secondo la S.C.: “Il dato di congruità dei ricavi o compensi dichiarati dal contribuente, rispetto allo studio di settore approvato con riferimento all’attività svolta, dato questo non contestato dall’Agenzia delle Entrate (come accertato in sentenza dalla CTR), valeva pertanto a rendere illegittimo l’accertamento basato sull’applicazione dei parametri”.

La Cassazione ha quindi deciso la causa nel merito, accogliendo il ricorso introduttivo del contribuente. Il fisco dovrà pagare le spese processuali del grado.

Autore: redazione fiscal focus

Sì alle ritenute per la concessione di locali uso foresteria

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 25 novembre 2015

La concessione a titolo gratuito di un locale a uso foresteria concorre a formare il reddito da lavoro dipendente come “fringe benefits” – con conseguente necessità di operare le ritenute alla fonte – se la società non dimostra che il dipendente lo utilizza solo saltuariamente, ossia in occasione delle trasferte di lavoro.

È quanto emerge dalla sentenza n. 24007/15 della Sezione Tributaria della Cassazione.

La controversia ha riguardato un avviso di accertamento con cui l’Ufficio finanziario ha contestato a una società le omesse ritenute alla fonte – per circa 4mila euro – su pretesi compensi in natura e, segnatamente, per la concessione a titolo gratuito di locali uso foresteria in favore di un dipendente che rivestiva, nel periodo considerato, la carica di amministratore e legale rappresentate.

La contribuente società ha spiegato che l’immobile oggetto di controversia si trovava nel Comune di ubicazione della sede legale/amministrativa, mentre l’amministratore risiedeva in un’altra città; quindi lo stesso immobile era utilizzato dall’amministratore e legale rappresentate non in modo permanente, ma unicamente quando era necessaria la sua partecipazione alle riunioni o assemblee societarie.

Ebbene, le suddette argomentazioni difensive non hanno fatto breccia né presso i giudici di merito né presso la Suprema Corte, la quale infatti ha reso definitivo l’accertamento oggetto di controversia.

Nel caso di specie, la ripresa a tassazione per omesse ritenute alla fonte su compensi in natura (c.d. fringe benefits) si è fondata sul disposto dell’art. 48, comma 4, lett. c), del vecchio TUIR. Dal primo comma di detta disposizione emerge chiaramente l’esistenza di un principio di (sia pure tendenziale) onnicomprensiva riconducibilità alla sfera reddituale delle erogazioni a qualsiasi titolo corrisposte al dipendente, stante l’esplicito riferimento a “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”, cui nel successivo quarto comma, lett. c), segue, in particolare, il riferimento appunto all’ipotesi di “fabbricati concessi in locazione, in uso o in comodato”.

E allora, secondo la Suprema Corte, “contrariamente a quanto opinato dal ricorrente, spetta non già all’amministrazione finanziaria, bensì al contribuente, l’onere di provare che, in concreto, le specifiche modalità di utilizzo a titolo gratuito di un immobile, in connessione al rapporto di lavoro, comportino una eccezione a quella previsione normativa generale”.

La CTR, nel caso in esame, ha correttamente fondato la decisione impugnata sulla mancanza di prova in ordine al concreto utilizzo dell’appartamento tenuto a disposizione dell’amministratore nella città di ubicazione della sede legale della società. Precisamente è mancata la prova in merito alla “specifica frequenza dell’utilizzo, per documentate necessità di trasferta del dipendente, nel periodo d’imposta in esame”, le quali sono rimaste in atti come meramente assertive e del tutto imprecisate”.

Insomma, nulla da fare per la società ricorrente, cui non resta che pagare le spese del giudizio di legittimità.

Autore: redazione fiscal focus

Reato di omessa dichiarazione. L’incarico al commercialista non evita la condanna

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 24 novembre 2015

Affidare al commercialista il compito di predisporre e presentare la dichiarazione annuale non esonera l’imprenditore dalla responsabilità penale per il reato di omessa dichiarazione. Non solo. Laddove si proceda per detto reato, il giudice può ritenere superata la soglia monetaria fissata dalla norma incriminatrice sulla base dell’accertamento induttivo dell’imponibile compiuto dagli organi dell’amministrazione finanziaria.

È quanto emerge dalla sentenza n. 46500/15 della Terza Sezione Penale della Cassazione.

I giudici penali del Palazzaccio hanno esaminato il ricorso di un legale rappresentate di società riconosciuto responsabile del reato previsto dall’art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000 in relazione a due annualità: il 2006 e il 2007. Va precisato che per quanto riguarda la prima annualità, gli ermellini hanno rilevato l’estinzione del reato per prescrizione, con conseguentemente eliminazione della relativa pena. Il giudizio di responsabilità della Corte d’appello è invece stato confermato per l’anno 2007.

Nel respingere le numerose censure operate dai difensori dell’imputato, la Suprema Corte ha ribadito l’orientamento secondo cui, in tema di reati tributari, l’accertamento induttivo compiuto dagli uffici finanziari può rappresentare un valido elemento di indagine per stabilire, in sede penale, se vi sia stata evasione e se questa abbia raggiunto le soglie di punibilità previste dalla legge, a condizione che il giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in essi evidenziati, ma proceda a specifica autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti “aliunde” (cfr. Cass. n. 1904/99, n. 40992/13, fra le altre).

Di questi principi, secondo gli ermellini, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione assumendo – si legge – “che a) l’accertamento era fondato su dati obiettivi, derivando dalla sommatoria degli importi portati dalla fatture emesse dalla società e non contabilizzate; b) non erano state fornite dall’imputato fatture passive; c) era ininfluente la presenza di eventuali operazioni esenti iva, dal momento che la condotta omissiva in contestazione riguardava esclusivamente l’imposta diretta sul reddito (IRES); d) la base imponibile determinata in sede di accertamento era stata accettata dallo stesso imputato che aveva provveduto al pagamento della imposte dovute; e) la soglia di punibilità risultava pertanto ampiamente superata”.

Quanto all’elemento soggettivo del reato, la difesa ha sostenuto che la prova del dolo di evasione, richiesto dalla norma, non può essere fatto discendere da un comportamento colpevole come quello di non aver verificato la trasmissione telematica della dichiarazione da parte del professionista incaricato.

Ebbene, gli ermellini hanno ribattuto che l’affidamento a un professionista dell’incarico di predisporre e preparare la dichiarazione annuale dei redditi non esonera il soggetto obbligato dalla responsabilità penale per il reato di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 74, “in quanto, trattandosi di reato omissivo proprio, la norma tributaria considera come personale e non delegabile il relativo dovere”. Ciò vale a maggior ragione in un caso come quello di specie in cui è rimasta indimostrata la negligenza del professionista incaricato e in cui è stata ritenuta irrilevante la circostanza della presentazione delle dichiarazioni per gli anni precedenti perché, come osservato dal giudice di merito, “il dolo specifico richiesto dalla norma, oltre che dalla mancata presentazione della denuncia, era desumibile anche dalla mancata esibizione delle fatture emesse dalla società e dall’effettuazione del pagamento delle imposte solo dopo la contestazione”.

Autore: redazione fiscal focus

Perdite e riflessi sull’avviamento

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il valore di avviamento non può essere aprioristicamente escluso, né dall’esistenza né dall’ammontare delle perdite intervenute negli anni precedenti e in quello di cessione. È ben possibile che un’impresa, benché in perdita, possieda un avviamento consistente.

È quanto emerge dalla sentenza n. 22506/2015 della Sezione Tributaria della Cassazione.

La controversia è originata da un avviso di accertamento che rettificava il valore della cessione di un complesso aziendale con rivalutazione in oltre 21 mld delle vecchie lire della voce “avviamento – marchio – testata”, che le parti avevano invece dichiarato pari a una lira (valore simbolico).

A intraprendere il giudizio di cassazione è stato l’Ufficio finanziario dopo che la CTC, a conferma del verdetto della CTR, aveva sostenuto l’illegittimità della rettifica nella misura in cui non aveva tenuto conto della persistente inattitudine dell’azienda a produrre reddito, testimoniata dai risultati economici negativi anteriori e successivi, tali da far ritenere corretta la riduzione dell’avviamento a valore simbolico, praticamente corrispondente al suo annullamento.

Ebbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate ritenendo fondate le censureinvolgenti, rispettivamente, la violazione e falsa applicazione di legge (artt. 48 D.P.R. n. 634/72; 51 D.P.R. n. 131/86) e l’insufficiente motivazione in punto di determinazione del valore di avviamento.

La CTC ha desunto dal mero fatto delle perdite intervenute negli anni precedenti e in quello di cessione la “persistente inattitudine dell’azienda alla produzione di un reddito”, quindi l’esclusione di un valore di avviamento superiore a quello simbolico dichiarato dalle parti (1 £).

Ad avviso della CTC, quindi, la circostanza delle perdite intervenute negli anni precedenti nonpoteva comportare, di per sé, un valore positivo dell’avviamento, stante la persistenza delle stesse anche dopo la vendita. Tuttavia una simile affermazione, secondo la S.C., rappresenta un errore giuridico, in quanto, costituendo una qualità dell’azienda, l’avviamento possiede un valore che si somma a quello degli altri beni che compongono l’azienda stessa e tale operazione, anche considerando il testo della norma applicata, deve precedere la detrazione delle passività. Sicché il valore di avviamento non può essere aprioristicamente escluso, né dall’esistenza né dall’ammontare delle perdite.

In altre parole, per la S.C., tanto l’art. 51 del D.P.R. n. 131, quanto la previgente norma del D.P.R. n. 634 del 1972 sono “nel senso che per gli atti che hanno per oggetto aziende o diritti reali rileva il valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento, al netto delle passività. Il che traduce un dato coerente con la natura stessa dell’avviamento, che è un valore patrimoniale e che, come tale, non configura un valore dell’attività d’impresa ma dell’azienda (obiettivamente considerata); un valore che non necessariamente risente dell’esito (in termini di utili o di perdite) dell’attività d’impresa. Consegue che la circostanza che un’impresa abbia prodotto delle perdite negli anni precedenti alla cessione dell’azienda, pur potendo esser rilevante e meritevole di attenta considerazione ai fini della determinazione dell’avviamento commerciale, non esaurisce (non può esaurire) l’oggetto dell’indagine perché è ben possibile che l’impresa sia in perdita per ragioni che nulla hanno a che fare con l’avviamento aziendale (l’insufficiente liquidità, il peso degli oneri finanziari, le consistenza di perdite su crediti e così via), sebbene l’azienda – correttamente gestita – persista nel possesso di un considerevole valore di avviamento”.

Dunque il ricorso del Fisco è stato ritenuto fondato circa la questione della determinazione dell’avviamento; il che ha determinato la cassazione con rinvio dell’impugnata sentenza.

Autore: redazione fiscal focus

Le valutazioni nel falso in bilancio secondo il Massimario della Cassazione

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Con l’entrata in vigore della Legge 27/05/2015, n. 69, recante “Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio”, le false comunicazioni sociali hanno cambiato radicalmente impostazione.

Trattasi, in sostanza, di una riforma epocale che introduce un regime punitivo assai più severo, configurando tutte le fattispecie di mendacio come delitti, in aperta antitesi rispetto al falso in bilancio risultante dalla precedente riforma del 2002.

La condotta punita.L’art. 2621 c.c., come sostituito dall’art. 9, comma 1 della Legge 69/2015, disciplina il delitto di false comunicazioni sociali; la nuova previsione, che opera in via residuale al di fuori delle fattispecie disciplinate dalla disposizioni successive, prevede due diverse configurazioni nella condotta criminosa:

  • esposizione nelle comunicazioni sociali fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero;
  • omissione nei medesimi documenti fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene.

Secondo una lettura “tradizionale” della disposizione in commento, nella nozione di “fatto materiale” (oggetto dell’esposizione nelle comunicazioni sociali) dovrebbero rientrare i dati oggettivi che attengono alla realtà economica, patrimoniale e finanziaria della società o del gruppo cui essa appartiene.

In antitesi con tale categoria di elementi, emergono le “valutazioni” che, stando alla lettera della norma, resterebbero escluse dall’ambito penale; in tale categoria si ricomprendono di norma le scelte soggettive riconducibili entro parametri certi. La revisione operata dal D.Lgs n. 69/2015 sembrerebbe pertanto escludere definitivamente la rilevanza penale delle valutazioni, che sfuggono alle logiche della materialità di un fatto non rispondente al vero.

Le valutazioni secondo l’Ufficio del Massimario. Nella relazione n. 3 redatta il 15 ottobre scorso per la V Sezione Penale, l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione affronta il tema nelle “nuove” false comunicazioni sociali, fornendo una chiave di lettura in controtendenza rispetto all’orientamento espresso nella sentenza n. 33774 del 16/06/2015 della medesima sezione penale (citata al punto 2.3 della relazione); in tale ultima pronuncia, la Suprema Corte ritiene prive di rilevanza penale le valutazioni, alla luce del revisionato sistema del mendacio societario, che ha comportato la soppressione dell’inciso (presente nella precedente versione della norma) “ancorché oggetto di valutazioni”.

La relazione, in particolare, evidenzia come, secondo la dottrina predominante, “il bilancio è costituito quasi del tutto da valutazioni e si basa su un metodo convenzionale di rappresentazione numerica dei fatti attinenti alla gestione dell’impresa; la maggior parte dei numeri che devono essere appostati in bilancio si riferisce non a grandezze certe, bensì solo stimate; è quindi ineludibile la rilevanza penale della valutazione degli elementi di bilancio, essendo la sua funzione principale quella di indicare il valore del patrimonio sociale al fine di proteggere i terzi che entrano in rapporto con la società, e costituendo il patrimonio sociale la garanzia per i creditori (e più in generale la misura di questa garanzia per i terzi); nonché per i soci (soprattutto di minoranza) lo strumento legale di informazione contabile sull’andamento della compagine sociale”.

In conclusione, l’Ufficio del Massimario appare confermare la rilevanza penale delle valutazioni anche nella revisionata formulazione della norma, nei termini precisati nella relazione in commento; di conseguenza, la decisione circa la falsità di una valutazione di bilancio dovrà basarsi sul rispetto o meno dei criteri legali di redazione del bilancio; a corollario dell’interpretazione formulata nella medesima relazione, viene richiamata la pronuncia della Sezione V del 16/12/1994, n. 234, per la quale la veridicità o la falsità delle componenti del bilancio va valutata in relazione alla loro corrispondenza ai criteri di legge e non alle enunciazioni “realistiche” con le quali vengono indicate.

Autore: Marco Brugnolo

Finanziamenti dei soci

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 20 novembre 2015

In tema di determinazione della base imponibile ai fini dell’IRES, qualora l’erogazione di una somma a titolo di finanziamento infruttifero sia eseguita dai soci mediante compensazione con un credito da loro vantato nei confronti della società, il relativo importo non può costituire sopravvenienza attiva, in quanto, se il finanziamento ha la sostanza del mutuo, l’obbligo di restituzione che lo accompagna esclude che esso determini nuova ricchezza, mentre se il finanziamento è in conto capitale, la configurabilità della sopravvenienza è esclusa dall’articolo 88 del TUIR.

È il principio di diritto enunciato dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione con la sentenza 20 novembre 2015, n. 23782.

Il verdetto dei giudici dell’appello (CTR Milano) è stato parzialmente annullato dalla Suprema Corte, in accoglimento del ricorso proposto nell’interesse di una SRL. Nei confronti di quest’ultima l’Ufficio aveva accertato un maggiore imponibile a fini IVA, IRES e IRAP sulla base dei rilievi di un PVC.

In particolare, il fisco ha contestato sopravvenienze attive non dichiarate inerenti alla contabilizzazione di una somma di circa 500mila euro. Ma è stato accertato che tale somma era stata corrisposta dai soci, mediante compensazione, e a titolo di finanziamento infruttifero. Il che ha fatto ritenere fondata la doglianza formulata in proposito dalla ricorrente società, con enunciazione, da parte dei giudici di legittimità, del principio di diritto di cui si è detto e del quale ora dovrà tenere contro il giudice del rinvio.

La Suprema Corte, in relazione a un’altra doglianza della società, che però non è stata accolta, ha fornito chiarimenti in tema di detrazione IVA nel caso in cui il contribuente invochi l’applicazione di abbuoni e sconti previsti contrattualmente. L’applicazione dell’art. 26 del D.P.R. 633/72 richiede, secondo la Corte, che venga praticato al cessionario uno sconto sul prezzo della vendita effettuato e che la riduzione del corrispettivo al cliente sia il frutto di un accordo, il quale può essere documentale, o verbale, e persino successivo, purché del medesimo sia fornita la prova, da parte dei soggetti interessati, mediante la trasfusione del patto stesso in note di accredito, emesse da una parte in favore dell’altra, con l’allegazione della causale che, volta per volta, abbia giustificato gli sconti medesimi. Onere probatorio che, secondo la CTR, non è stato assolto dalla ricorrente società, anche “perché la dichiarazione via e-mail, nonché la successiva attestazione, riguardate come documenti, non sarebbero idonee a documentare l’accordo, in base al principio secondo il quale in forza dell’art. 2704 c.c., non e opponibile all’amministrazione finanziaria, ai fini della prova dei presupposti per l’applicazione dell’art. 26 del D.P.R. 633/72, una scrittura privata priva di sottoscrizione autenticata in data certa(cfr. Cass. 8535/2014).

Autore: redazione fiscal focus

Frode fiscale e aggravante della transnazionalità

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 19 novembre 2015

La Corte di Cassazione (Sez. 3. Pen.), con la sentenza n. 45935/15 pubblicata ieri, si èespressa in merito alla circostanza aggravante speciale prevista dall’art. 4 della Legge n. 146 del 2006, nell’ambito di un procedimento nel quale le imputazioni provvisorie hanno riguardato i reati di associazione a delinquere per commettere una serie indeterminata di reati contro la pubblica amministrazione e fiscali, corruzione di funzionari esteri, evasione fiscale.

I giudici penali di legittimità hanno “bacchettato” il giudice di merito per aver applicato l’aggravante della transnazionalità malgrado la genericità sul punto delle imputazione provvisorie. Di conseguenza è stato parzialmente accolto il ricorso proposto da uno dei soggetti coinvolti nel suddetto procedimento. Precisamente l’ordinanza gravata è stata annullata relativamente all’applicazione dell’art. 4 L. 146 del 2006, con rinvio per nuovo esame.

La Sezione Terza Penale di Piazza Cavour ha evidenziato – a beneficio del giudice del rinvio – che la transnazionalità non è un elemento costitutivo di un’autonoma fattispecie di reato, ma una qualità riferibile a qualsiasi delitto, a condizione che sia punito con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro annie sia riferibile a un gruppo criminale organizzato, anche se operante solo in ambito nazionale, e ricorra, in via alternativa, una delle seguenti situazioni:

  • il reato sia commesso in più di uno Stato;
  • il reato sia commesso in uno Stato, ma con parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo in un altro Stato;
  • il reato sia commesso in uno Stato, con implicazione di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato;
  • il reato sia commesso in uno Stato, con produzione di effetti sostanziali in altro Stato.

Il Supremo Collegio ha poi ricordato:

  • che il riconoscimento del carattere transnazionale, di per sé, non comporta alcun aggravamento di pena, ma produce gli effetti sostanziali e processuali previsti dalla legge n. 146 del 2006 agli articoli 10 (Responsabilità amministrativa degli enti), 11 (Ipotesi speciali di confisca obbligatoria e confisca per equivalente), 12 (Attività di indagine a fini di confisca)e 13 (Attribuzione di competenze al procuratore distrettuale antimafia).
  • che l’aggravante per i reati transnazionali è applicabile anche al delitto di associazione per delinquere se alla commissione del reato ha contribuito un gruppo criminale organizzato in attività criminali in più di uno Stato, il quale è configurabile in presenza: di stabilità di rapporti tra gli adepti; minimo di organizzazione senza formale definizione di ruoli; non occasionalità o estemporaneità della stessa; costituzione in vista anche di un solo reato o per il conseguimento di un vantaggio finanziario o di altro vantaggio materiale;
  • che il gruppo criminale organizzato è un quid pluris rispetto al mero concorso di persone, ma si diversifica anche dall’associazione a delinquere ex art. 416 c.p. perché può trattarsi di un insieme di persone legate da rapporti stabiliti che abbia costituito un’organizzazione autonoma e distinta da quella alla quale è riferibile il reato, impegnata in attività illecite in più di uno Stato, anche minimale e priva di una formale definizione di ruoli, sebbene con occasionale o estemporanea.
Autore: redazione fiscal focus

Tardiva dichiarazione sganciata dalle violazioni sui versamenti

Ma la Cassazione ritiene necessario ravvedere sia la tardività che le violazioni sui versamenti

Recupero credito d’imposta. Avviso “sprint” nullo, salvo urgenza

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza pubblicata il 18 novembre 2015

Salvo comprovati motivi d’urgenza, è nullo l’avviso di accertamento emesso prima del decorso del termine di sessanta giorni di cui all’art. 12 comma 7 dello Statuto dei contribuenti (L. 212/00).

È il principio di diritto ribadito dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (sentenza n. 23547/15, depositata ieri) nel decidere il caso di una società alla quale l’Amministrazione finanziaria, dopo la verifica esperita presso i locali dell’azienda, aveva contestato l’indebita fruizione del credito d’imposta per incremento occupazionale (art. 7 L. n. 388/2000).

La CTR ha ritenuto non sanzionabile con la nullità l’avviso di accertamento emesso senza rispettare, come nel caso di specie, il termine di 60 giorni previsto dall’art. 12 comma 7 della legge 212 del 2000; ma si è trattato di un assunto opportunamente censurato nel giudizio di legittimità.

Anche per l’avviso di recupero del credito d’imposta (v. Cass. n. 19561/2014), valgono i principi espressi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte in materia di diritti e garanzie dei contribuenti sottoposti ad accessi, ispezioni o verifiche da parte degli organi di controllo dell’Amministrazione finanziaria.

Le Sezioni Unite (sentenza n. 18184/2013) hanno chiarito che la violazione del termine dilatorio di 60 giorni per l’emissione dell’avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del verbale di chiusura delle operazioni di verifica – determina di per sé l’illegittimità dell’atto impositivo emesso anticipatamente, salvo che non ricorrano specifiche ragioni d’urgenza (con onere probatorio sul punto in capo all’Ufficio procedente).

Ebbene, nella sentenza di ieri si legge: “manca nel caso di specie sia l’enunciazione sia la prova dei motivi d’urgenza che avrebbero consentito la notifica del recupero del credito d’imposta prima dei sessanta giorni dalla chiusura delle operazioni di verifica, non essendo sufficiente, come affermato dalla CTR, che il pvc fosse noto al contribuente in quanto notificato prima dell’avviso impugnato. Detto termine è infatti posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi di buona fede e collaborazione tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositivo”.

E allora l’impugnata sentenza della CTR è stata cassata, con decisione della causa nel merito. Per l’effetto, il ricorso introduttivo della società contribuente è stato accolto.

Autore: redazione fiscal focus

 

Bancarotta. Il “nero” non salva l’imprenditore

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 17 novembre 2015

All’imprenditore accusato di bancarotta fraudolenta non giova invocare la circostanza dei pagamenti “in nero” ai dipendenti se la somma “distratta” è molto ingente, tanto che il lavoro si sarebbe dovuto svolgere pure di notte.

È quanto emerge dalla sentenza n. 45665/2015 della Quinta Sezione Penale della Cassazione.

La Suprema Corte si è occupata del caso di tre soggetti processati per fatti di bancarotta fraudolenta per avere, secondo l’accusa, tenuto libri e scritture contabili in maniera da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del volume d’affari della fallita (della quale erano stati pure distratti beni strumentali), nonché per aver sottratto un’ingente somma (circa un miliardo delle vecchie lire) registrata in contabilità sotto il conto “finanziamento ai soci”.

I giudici di merito hanno sposato le tesi dell’accusa e quindi inflitto la pena della reclusione a tutti i coimputati. Ne è conseguito il giudizio di cassazione, che però è terminato con la conferma del giudizio di responsabilità penale.

La Corte territoriale, ad avviso degli ermellini, non ha commesso nessuno degli errori denunciati dagli imputati. In particolare, il giudice di secondo grado ha giustamente ritenuto poco credibile l’asserzione difensiva concernente la destinazione della somma indicata come “distratta” al pagamento in nero degli operai.

In sentenza sul punto si legge: “per quanto concerne la destinazione della somma indicata come distratta al pagamento in nero degli operai, i quali in dibattimento hanno confermato di essere stati pagati fuori busta paga, non si presenta illogica la motivazione fornita dalla Corte territoriale circa la non plausibilità di tale versione, per essere davvero ingenti le somme in questione, tali che i dipendenti avrebbero dovuto lavorare anche di notte per giustificare importi sì elevati e comunque nell’anno contestato, erano stati già tutti licenziati, dunque non c’era necessità di corrispondere straordinari in nero”.

I ricorrenti dovranno pagare le spese processuali del grado.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

La delega “in bianco” blocca l’accertamento

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Sentenza della CTP di Caserta che fa proprio il più recente orientamento della SC in materia di sottoscrizione degli atti di accertamento

La Sezione Tributaria della Cassazione con le sentenze n. 22810 e 22803 del 9 novembre 2015 ha enunciato importanti principi in tema di sottoscrizione degli avvisi di accertamento. Per la Suprema Corte, se da un lato sono validi gli atti sottoscritti dai funzionari delle Agenzie fiscali decaduti dall’incarico dirigenziale per effetto della sentenza n. 37/2015 della Corte costituzionale, dall’altro deve ritenersi affetto da nullità l’avviso di accertamento firmato sulla base di una delega “in bianco”, cioè priva del nominativo del soggetto delegato dal capo dell’ufficio.

In Cass. n. 22810/2015 si legge che l’art. 42 del D.P.R. 600/73 impone sotto pena di nullità che l’atto sia sottoscritto dal “capo dell’ufficio” o “da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato e che la norma quindi non richiede che il capo dell’ufficio o il funzionario delegato abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale. E allora, essendo la materia tributaria governata dal principio di tassatività delle cause di nullità degli atti fiscali e non occorrendo, ai meri fini della validità di tali atti, che i funzionari (delegati o deleganti) possiedano qualifiche dirigenziali, ne consegue che la sorte degli atti impositivi formati anteriormente alla sentenza della Corte costituzionale n. 37/2015, sottoscritti da soggetti al momento rivestenti funzioni di capo dell’ufficio, ovvero da funzionari della carriera direttiva appositamente delegati, e dunque da soggetti idonei ai sensi dell’art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973, non è condizionata dalla validità o meno della qualifica dirigenziale attribuita per effetto della censurata disposizione di cui art. 8, 24° comma, del D.L. n. 16/2012.

In Cass. 22803/15, invece, si precisa che non è decisiva la modalità di attribuzione della delega di firma – che può essere conferita o con atto proprio o con ordine di servizio – purché vengano indicate:

  • le ragioni della delega (ad esempio carenza di personale, assenza, vacanza o malattia)
  • il termine di validità
  • il nominativo del soggetto delegato.

Conseguentemente deve essere considerata nulla la cosiddetta delega in bianco (priva del nominativo soggetto delegato)non essendo possibile verificare agevolmente da parte del contribuente se il delegatario avesse il potere di sottoscrivere l’atto impugnato e non essendo ragionevole attribuire al contribuente una tale indagine amministrativa al fine di verificare la legittimità dell’atto”.

Ebbene, questi principi hanno trovato immediata applicazione presso i giudici di merito. È il caso della CTP di Caserta che, con la sentenza n. 7443/14/15 (pubblicata l’11 novembre), ha annullato alcuni avvisi di accertamento per imposte (Irpef, Iva, Irap per il 2008) avendo rilevato il difetto di sottoscrizione lamentato in ricorso dal contribuente.

Nel caso di specie è risultato che gli atti impugnati non erano stati sottoscritti dal Capo dall’Ufficio ma un funzionario che, per effetto della sentenza n. 37/15 della Consulta, era decaduto dalla posizione di dirigente. Alla luce dell’interpretazione secondo la quale l’art. 42 del D.P.R. 600 non richiede la qualifica di dirigente in capo al soggetto che ha apposto la firma, per la CTP di Caserta si è trattato di indagare se il soggetto sottoscrittore fosse o meno in possesso di una valida delega di firma. Profilo che ha portato all’accoglimento del ricorso del contribuente, posto che l’Amministrazione non ha provato, com’era suo onere, che il soggetto sottoscrittore fosse munito di una delega “non in bianco”, bensì con la precisa indicazione del funzionario legittimato a firmare l’atto.

La CTP osserva, per un verso, che “per la sottoscrizione degli atti impositivi non è richiesto da alcuna norma, tanto più a pena di nullità, che il soggetto apponente la firma sia un dirigente, essendo sufficiente che costui sia il capo dell’ufficio o un funzionario, delegato da questi, appartenente alla terza area”, e per l’altro che, “in buona sostanza, ai fini di un valido conferimento, la delega deve contenere le ragioni e le cause che l’hanno resa necessaria, il termine di validità, il nominativo del delegato. Orbene, nessuna prova, in questa fase di giudizio, viene offerta da parte resistente, per cui l’atto tributario deve ritenersi nullo per difetto di sottoscrizione”.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Accertamento. Quando il fisco sbaglia con il “ricarico”

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Sentenza della Cassazione in tema di accertamento induttivo dei ricavi

Quanto le scritture contabili non presentano irregolarità, l’Ufficio non può contestare maggiori ricavi sol perché il contribuente ha applicato una percentuale di ricarico molto bassa per il settore di appartenenza.

È quanto emerge dalla sentenza n. 22464/15 della Corte di Cassazione – Sezione Tributaria.

Un contribuente, esercente attività di installazione di impianti idraulici e sanitari e di commercio dei relativi articoli, ha ottenuto dalla Cassazione il definitivo annullamento dell’atto impositivo con cui l’Agenzia delle Entrate gli aveva contestato maggiori ricavi, quindi maggiori imposte, in virtù della rettifica con metodo induttivo della dichiarazione dei redditi.

La rettifica, nella specie, è scaturita dall’applicazione di una percentuale di ricarico diversa da quella dichiarata poiché quest’ultima è risultata di oltre 20 volte inferiore a quella di settore.

Nel giudizio dinanzi alla Suprema Corte la difesa erariale ha lamentato la violazione dell’art. 39 del D.P.R. 600/73 e degli artt. 2727 e 2697 C.c., in quanto la CTR, alla luce di un ricarico dichiarato molto basso rispetto al settore di appartenenza, avrebbe dovuto ravvisare una legittima presunzione di maggiori ricavi e quindi non dichiarare l’illegittimità della ripresa.

Ebbene, la Suprema Corte ha respinto la doglianza del fisco avendo ritenuto corretto il ragionamento decisionale del giudice di secondo grado.

In tema di accertamento delle imposte dirette, hanno ricordato i supremi giudici, “per presumere l’esistenza di ricavi superiori a quelli contabilizzati e assoggettati ad imposta, non bastano semplici indizi, ma occorrono circostanze gravi, precise e concordanti. Ne consegue che non è legittima la presunzione di ricavi, maggiori di quelli denunciati, fondata sul raffronto tra prezzi di acquisto e di rivendita operato su alcuni articoli anziché su un inventario generale delle merci da porre a base dell’accertamento, né si rende legittimo il ricorso al sistema della media semplice, anziché a quello della media ponderale, quando tra i vari tipi di merce esiste una notevole differenza di valore ed i tipi più venduti presentano una percentuale di ricarico inferiore a quella risultante dal ricarico medio”.

L’Ufficio ha sostenuto di aver proceduto alla determinazione del ricarico in base alla “media ponderata”, ma la CTR ha messo in luce le numerose falle di questo procedimento.

Il giudice d’appello ha rilevato che la determinazione del ricarico è stata “tutt’altro che puntuale e precisa” per avere l’Ufficio “erroneamente attinto i prezzi di vendita da confrontare con i prezzi di acquisto dalle fatture emesse a carico di enti pubblici; per aver, talvolta, rapportato il prezzo di vendita con Iva al prezzo di acquisto senza l’imposta; per essere ‘troppo disomogenei’ i beni raggruppati per categorie omogenee, in realtà non coerenti, con conseguente troppo elevato scarto fra prezzo minimo e prezzo massimo”; per essere stato falsato, inoltre, il rapporto tra prezzo d’acquisto di oltre 7000 articoli e i prezzi di vendita oltre 2000 articoli; per aver l’Ufficio considerato nei prezzi d’acquisto sconti e abbuoni di competenza dell’anno precedente, e per non aver tenuto conto che nei prezzi di vendita era compresa la posa in opera degli articoli acquistati, con evidente incidenza del costo della mano d’opera sul prezzo di vendita praticato.

A fronte di questi rilievi, la CTR ha giustamente ritenuto inficiato il risultato ottenuto, poi posto a base dell’accertamento impugnato, anche perché, con riguardo all’oggetto dell’attività del contribuente, attività di fatto rappresentata da merci molto disomogenee, non può dirsi legittimo un accertamento che non sia basato sul rigoroso calcolo della media ponderata. Pertanto la CTR ha affermato, trovando l’avallo dei Supremi Giudici, che “in presenza di scritture contabili corrette e quindi non contestate dall’ufficio, il solo rilievo che il contribuente abbia applicato una percentuale di ricarico diversa dal settore di appartenenza non è sufficiente a legittimare una presunzione di maggior reddito, come nel caso di specie”.

L’Agenzia delle entrate è stata condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Autore: redazione fiscal focus

Sequestro in caso di pegno regolare

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

La Cassazione si è pronunciata sul ricorso di una Banca

In tema di reati fiscali, il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, può investire anche i beni costituiti dall’indagato in pegno regolare in favore della Banca, ma in tale ipotesi al giudice è richiesto di operare un bilanciamento fra l’interesse pubblico alla non dispersione definitiva dei beni nella disponibilità dell’indagato e la tutela delle ragioni del terzo creditore estraneo al reato.

È quanto emerge dalla sentenza n. 44010/15 della Terza Sezione Penale della Suprema Corte.

Gli ermellini hanno esaminato il ricorso prodotto da una Banca, nell’ambito di un procedimento a carico di un cliente della stessa, accusato del reato di omesso versamento di IVA ex art. 10-ter D.Lgs. 74/2000.

Precisamente, il ricorso ha avuto a oggetto il provvedimento di sequestro preventivo delle quote di un Fondo per oltre 2milioni e mezzo di euro, quote costituite in pegno regolare dall’indagato.

La gravata decisione del giudice della cautela è stata cassata con rinvio poiché, a giudizio dei supremi giudici, non conforme all’orientamento prevalente in tema di misure cautelari su titoli costituiti dall’indagato in pegno a favore di un istituto di credito.

Le Sezioni Unite Penali della Suprema Corte, con la sentenza n. 9 del 1994 – poi ripresa da pronunce successive (Cass. nn. 47400/2003 e 45400/2008) – hanno chiarito che il sequestro preventivo può avere ad oggetto anche i beni che siano stati costituiti dall’indagato in pegno regolare, e ciò in quanto la disponibilità di questi, da parte del creditore, pur penetrante, non può essere considerata assoluta né esaustiva di tutte le facoltà spettanti al debitore garante, il quale, oltre all’eventuale recupero dell’eccedenza di pegno, può sempre alienare il bene o attivarsi per l’estinzione dell’obbligazione e ottenere la restituzione della eadem res fornita in garanzia. Le S.U. hanno però precisato che “il giudice di merito che dispone la misura può limitare l’estensione del vincolo alle facoltà spettanti al debitore indagato o imputato, lasciando impregiudicate le facoltà di esclusiva pertinenza del creditore pignoratizio estraneo all’illecito penale; ed anzi tale scissione delle rispettive sfere di disponibilità, ai fini di una diversa diversificazione dell’ambito di efficacia del vincolo, è da considerarsi doverosa quando le esigenze cautelari che fondano la misura consistono nel pericolo di commissione di nuovi reati, o di aggravamento di quelli già commessi, derivante soltanto dal comportamento del debitore indagato”.

Pertanto, compete al giudice che sequestra o, in caso di ricorso, al giudice del riesame, valutare se sia il caso di limitare il vincolo per scindere la posizione del creditore rispetto a quella dell’indagato ai fini dell’efficacia della cautela; ragion per cui, nel caso esaminato, non corrisponde all’insegnamento nomofilattico “l’asserto del Tribunale di Trieste per cui comunque è sempre necessario dare prevalenza all’interesse pubblico anche se il terzo ne patisce conseguenze pregiudizievoli. Quello che il giudice deve operare, invero, non è un automatico e totale assoggettamento del terzo all’interesse pubblico, bensì un bilanciamento, per quanto possibile ovvero nella misura ottimale, tra quest’ultimo e l’interesse privato” (si veda Cass. n. 36293/2011).

Autore: redazione fiscal focus

Agenzie fiscali. La Cassazione “salva” gli atti dei dirigenti illegittimi

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 9 novembre 2015

Sono validi ed efficaci gli atti riferibili ai funzionari delle Agenzia delle Entrate ai quali è stato conferito l’incarico dirigenziale senza concorso pubblico. È quanto emerge dalla sentenza n. 22810/15 della Sezione Tributaria della Cassazione che ha affrontato la questione degli effetti della pronuncia della Corte Costituzionale n. 37 del 2015 la quale ha sancito l’illegittimità della norma che ha consentito i ripetuti conferimenti di incarichi dirigenziali ai funzionari delle Agenzia fiscali senza l’indizione di concorsi pubblici.

Nel caso di specie, una società di persone ha invocato la ben nota sentenza della Corte costituzionale nella speranza di ottenere l’annullamento di tre avvisi di accertamento per imposte. Tali atti, infatti, erano stati firmati da un funzionario delegato dal direttore provinciale delle Entrate il quale aveva assunto la posizione dirigenziale senza il superamento delle procedure di accesso alla dirigenza necessarie per legge.

Ebbene, tale doglianza inerente alla “carenza di potere” del soggetto delegante non ha sortito l’effetto sperato. Innanzitutto, il suo esame è rimasto precluso nel giudizio di legittimità trattandosi di eccezione nuova. A tal proposito gli ermellini hanno sostenuto che le forme di invalidità dell’atto tributario, ove anche dal legislatore indicate sotto il nome di nullità, non sono rilevabili d’ufficio, né possono essere fatte valere per la prima volta nel giudizio di cassazione (tra le altre, Cass. n. 18448/2015).

La conversione delle ipotesi di nullità in mezzi di gravame avverso l’atto fiscale è una conseguenza, ha spiegato la S.C., della struttura impugnatoria del processo tributario, che vede la contestazione della pretesa fiscale suscettibile di essere prospettata solo attraverso specifici motivi di impugnazione dell’atto che la esprime. Il giudizio tributario, difatti, è caratterizzato da un meccanismo d’instaurazione di tipo impugnatorio circoscritto alla verifica della legittimità della pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati, e avente un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo di primo grado (Cass. n. 25756/2014).

Dopo questo chiarimento gli ermellini hanno espresso, ai sensi dell’art. 363 cod. proc. civ., i seguenti principi di diritto:

  • In ordine agli avvisi di accertamento in rettifica e agli accertamenti d’ufficio, il d.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, impone sotto pena di nullità che l’atto sia sottoscritto dal “capo dell’ufficio” o “da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”, senza richiedere che il capo dell’ufficio o il funzionario delegato abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale; ciò ancorché una simile qualifica sia eventualmente richiesta da altre disposizioni.
  • In esito alla evoluzione legislativa e ordinamentale, sono impiegati della carriera direttiva, ai sensi della norma appena evocata, i “funzionari di area terza” di cui al contratto del comparto Agenzie fiscali fissato per il quadriennio 2002-2005. In questo senso la norma sopra citata, individua l’agente capace di manifestare la volontà della Amministrazione finanziaria negli atti a rilevanza esterna, identificando quale debba essere la professionalità per legge idonea a emettere quegli atti.
  • Essendo la materia tributaria governata dal principio di tassatività delle cause di nullità degli atti fiscali e non occorrendo, ai meri fini della validità di tali atti, che i funzionari (delegati o deleganti) possiedano qualifiche dirigenziali, ne consegue che la sorte degli atti impositivi formati anteriormente alla sentenza n. 37 del 2015 della Corte costituzionale, sottoscritti da soggetti al momento rivestenti funzioni di capo dell’ufficio, ovvero da funzionari della carriera direttiva appositamente delegati, e dunque da soggetti idonei ai sensi dell’art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973, non è condizionata dalla validità o meno della qualifica dirigenziale attribuita per effetto della censurata disposizione di cui art. 8, 24° comma, del d.l. n. 16 del 2012.
Autore: redazione fiscal focus

Sull’applicabilità del “nuovo” redditometro per il passato

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, ordinanza depositata il 6 novembre 2015

Con disposizione di diritto transitorio, l’art. 22, comma 1, del D.L. n. 78 del 2010 statuisce che le modifiche apportate all’art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 producono effetti “per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto“, ossia per l’accertamento del reddito relativo a periodi d’imposta successivi al 2009.

È quanto ha evidenziato la Sesta Sezione Civile – T della Suprema Corte nell’ordinanza n. 22744/15 con cui è stata rimessa davanti al giudice di secondo grado, in accoglimento del ricorso prodotto dall’Agenzia delle entrate, la causa concernente un avviso di accertamento conseguente alla rettifica, ex art. 38 comma 4 del D.P.R. 600/73, della dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente per l’anno d’imposta 2008.

La Commissione Tributaria Regionale del Veneto aveva parzialmente accolto l’impugnazione del contribuente avendo ritenuto applicabile alla fattispecie, in luogo dei parametri previsti dal D.M. 10 settembre 1992 quelli del D.M. del 24 dicembre 2012 (intervenuto in corso di causa), e ciò in ragione della natura procedimentale delle norme regolamentari e della necessità di applicare la disciplina più favorevole al contribuente.

Ebbene, il ragionamento decisionale della CTR è stato censurato dalla Suprema Corte che ha dato ragione alla difesa erariale in punto di applicabilità del “nuovo redditometro” di cui al D.M. 24/12/2012.

La giurisprudenza di legittimità ha evidenziato “che il richiamo alla retroattività è inconferente, giacché la giurisprudenza della Corte, nell’affermare l’applicabilità degli indici previsti dai decreti ministeriali del 10 settembre e 19 novembre 1992 ai periodi d’imposta precedenti alla loro adozione, non sulla retroattività ha fatto leva, bensì sulla natura procedimentale delle norme dei decreti, che ne comporta l’applicabilità in rapporto al momento dell’accertamento (vedi, fra varie, Cass. 19 aprile 2013, n. 9539)”.

Del pari inconferente è l’invocazione del principio del favor rei, “perché l’applicazione di tale principio è predicabile unicamente al cospetto di norme sanzionatorie, non già allorquando si tratti dei poteri di accertamento oppure della formazione della prova, che sono appunto i piani coinvolti dal redditometro. Ed ancor prima, ad ogni modo, va rilevato che la questione su quale sia la norma applicabile è questione di diritto intertemporale che, appunto, va a identificare, nella successione fra più norme, quella da dover applicare; ma il diritto intertemporale necessariamente recede a fronte di esplicita previsione di diritto transitorio, che esso stesso identifica la norma applicabile. E nel nostro caso, con disposizione di diritto transitorio, il D.L. n. 78 del 2010, art. 22, comma 1, statuisce che le modifiche apportate al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, producono effetti ‘per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto’, ossia per l’accertamento del reddito relativo a periodi d’imposta successivi al 2009 (Cass. n. 21041 del 06/10/2014)”.

Di questi rilievi dovrà ora tenere conto il giudice del rinvio.

Autore: redazione fiscal focus

Cartella dopo controllo formale: la motivazione dev’essere chiara

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

In tema di controllo formale della dichiarazione dei redditi, è nulla la cartella di pagamento dalla quale non si evincono le ragioni logico-giuridiche che hanno portato l’Ufficio accertatore a iscrivere a ruolo gli importi asseritamente dovuti dal contribuente.

È quanto emerge dalla sentenza n. 22489/15 della Corte di Cassazione – Sezione Tributaria.

La controversia ha riguardato una cartella di pagamento emessa nei confronti di un contribuente, a seguito del controllo formale, ex art. 36 ter D.P.R. 600/73, della dichiarazione dei redditi per l’anno d’imposta 2002.

L’Ufficio finanziario ha avuto da ridire sulle somme portate in deduzione/detrazione relativamente all’assegno divorzile e al figlio a carico.

La CTR della Lombardia ha annullato la ripresa avendo ritenuto, da un lato, il vizio di motivazione, dall’altro lato, che l’indagine interpretativa compiuta dall’Ufficio erariale non rientrasse nell’attività propria del controllo formale ex art. 36 ter del D.P.R. 600, poiché esso attiene alla correzione di errori materiali e di calcolo, cosicché si sarebbe dovuto procedere con l’emissione di un avviso di accertamento.

Il giudizio di cassazione intrapreso dal fisco è terminato con la conferma della statuizione pro-contribuente pronunciata dalla CTR meneghina.

Quanto al vizio di motivazione, l’Ufficio ha difeso il proprio operato evidenziando come al contribuente fosse stata inviata, prima della cartella di pagamento, la comunicazione ai sensi del comma 4 dell’art. 36 ter. Pertanto, dalla considerazione congiunta dei due atti si sarebbero potuti tranquillamente evincere i motivi della ripresa.

Ebbene, la Suprema Corte non si è potuta pronunciare circa la fondatezza o meno della tesi erariale perché nel ricorso di legittimità è stato trascritto solo il contenuto della comunicazione riguardante l’esito del controllo e non anche quello della cartella esattoriale.

Gli ermellini scrivono: “non essendo stato descritto il contenuto della cartella, al fine di verificare, quanto meno, la presenza di un rinvio alla ragioni espresse dall’Ufficio nella previa comunicazione ex art. 36 comma 4, questa Corte non è messa in grado di vagliare la fondatezza del motivo. Peraltro la CTR ha affermato che, dall’esame della cartella, non emerge quale sia stato l’iter logico-giuridico che ha determinato l’Ufficio accertatore ad iscrivere a ruolo gli importi asseritamente dovuti dal contribuente”. Pertanto il gravame dell’Ufficio è stato rigettato, con addebito delle spese del grado.

Nell’occasione, la Sezione Tributaria del Palazzaccio ha ribadito che la cartella di pagamento deve essere preceduta dalla comunicazione dell’esito del controllo ex art. 36-ter del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, a pena di nullità, poiché tale comunicazione assolve a una funzione di garanzia e realizza la necessaria interlocuzione tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente prima dell’iscrizione al ruolo. Al comma 4 del citato articolo è previsto che l’esito del controllo formale è comunicato al contribuente o al sostituto d’imposta con l’indicazione dei motivi che hanno dato luogo alla rettifica degli imponibili e delle ritenute alla fonte, e ciò per consentire anche la segnalazione di eventuali dati ed elementi non considerati o valutati in sede di controllo formale. La procedura prevista dall’art. 36 ter del D.P.R. n. 600/73, infatti, diversamente da quella delineata nell’art. 36 bis, si connota per l’effettuazione di controlli su dati e documenti esterni rispetto al mero contenuto cartolare della dichiarazione, che si risolvono sovente nell’accertare la veridicità di quanto in essa riportato e non la mera sussistenza di errori di calcolo o di omissioni. La previa comunicazione d’irregolarità rappresenta, quindi, un atto amministrativo istruttorio e relativo a somme non ancora iscritte a ruolo.

Autore: redazione fiscal focus

IRAP. Quando all’ingegnere spetta il rimborso

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 4 novembre 2015

Svolgere l’attività senza il controllo e il coordinamento di terzi non legittima, di per sé, l’assoggettabilità all’IRAP dei redditi professionali. È quanto emerge dalla sentenza n. 22468/15 della Corte di Cassazione – Sezione Tributaria.

In Cassazione è approdato il caso di un ingegnere che ha chiesto all’Agenzia delle Entrate – ma senza fortuna – il rimborso di quanto versato a titolo di IRAP per gli anni dal 2000-2003.

Il silenzio-rifiuto dell’amministrazione è divenuto oggetto d’impugnazione davanti ai giudici tributari pugliesi, i quali si sono espressi per ben due volte a favore dell’Agenzia. Di qui il ricorso di legittimità nel quale l’ingegnere ha ribadito di aver svolto, negli anni considerati, la propria attività privo dell’ausilio di dipendenti e senza beni strumentali consistenti (come risultante dal quadro RE e dal registro dei beni ammortizzabili), quindi in assenza del presupposto impositivo consistente nella presenza di un’autonoma organizzazione.

Ebbene, la Suprema Corte ha disposto l’annullamento del verdetto pro-fisco pronunciato dalla CTR della Puglia, avendo questo Giudice fatto discendere la sussistenza dell’automa organizzazione dal mero svolgimento dell’attività professionale in questione “senza il controllo e il coordinamento di terzi”.

La Commissione pugliese ha ravvisato il requisito dell’autonoma organizzazione in virtù della capacità del ricorrente di “porre in essere scelte autonome di organizzazione di lavoro rispetto al mondo esterno”. Per la suprema Corte, però, si tratta di una conclusione che non soddisfa il principio per cui l’IRAPcoinvolge una capacità produttiva impersonale e aggiuntiva rispetto a quella propria del professionista e colpisce un reddito che contenga una parte aggiuntiva di profitto, derivante da una struttura organizzativa ‘esterna’, cioè da un complesso di fattori che, per numero, importanza e valore economico, sono suscettibili di creare un valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al know-how del professionista (dal lavoro di collaboratori e dipendenti, dal numero e grado di sofisticazione dei supporti tecnici e logistici, dalle prestazioni di terzi, da forme di finanziamento diretto e indiretto etc.), cosicché è il surplus di attività agevolata dalla struttura organizzativa che coadiuva ed integra il professionista a essere interessato all’imposizione che colpisce l’incremento potenziale, o quid pluris, realizzabile rispetto alla produttività auto organizzata del solo lavoro personale”.

Ebbene, ad avviso dei giudici del Palazzaccio la CTR ha erroneamente rinvenutola sussistenza della autonoma organizzazione nella attività svolta “in totale discrezionalità, senza soggiacere a limitazioni, condizionamenti e controlli formalmente e legittimamente imposti da altri soggetti che ne deteriorino l’intrinseca natura”, ritenendo soggetto d’imposta il ricorrente, “in quanto non emergente dagli atti la presenza degli indicati limiti e condizionamenti, affermando altresì, senza alcun concreto riferimento agli atti del giudizio, ‘che l’attività di ingegnere viene esercitata dal ricorrente con apprezzabile ed autonoma struttura organizzativa’”.

E allora la CTR dovrà riesaminare il caso tenendo bene a mente i rilievi della Suprema Corte.

Autore: redazione fiscal focus

Dichiarazione emendabile in giudizio

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, ordinanza depositata il 3 novembre 2015

La dichiarazione dei redditi è emendabile anche in sede contenziosa. Lo ha ribadito la Corte Cassazione (Sez. 6-T) nell’ordinanza 22443/15, pubblicata ieri.

A giudizio della Suprema Corte, la dichiarazione è ritrattabile anche in sede contenziosa, “quando dalla medesima possa derivare l’assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della legge, devono restare a suo carico”.

Il contribuente ha quindi la possibilità di emendare la dichiarazione dei redditi anche oltre il termine previsto per l’integrazione della stessa – fissato in quello prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo dal D.P.R. 322/98 (articolo 2, comma 8 bis) – anche se “solo nell’ipotesi in cui si tratti di correzione di errori o omissioni di carattere meramente formale, che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito, o comunque di un maggior debito d’imposta”.

Di questi principi, secondo la Sesta Sezione del Palazzaccio, non ha fatto buongoverno l’impugnata sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania.

È stato pertanto accolto il ricorso del contribuente che aveva lamentato il vizio di violazione di legge per avere il giudice di secondo grado confermato la legittimità della cartella di pagamento oggetto di controversia.

A detta della CTR, la dichiarazione integrativa (ex art. 8-bis, D.P.R. n. 322/98) finalizzata alla correzione di alcuni errori commessi nella compilazione, doveva intervenire entro il termine di presentazione della dichiarazione per il periodo d’imposta successivo. Gli ermellini, però, non hanno condiviso tale assunto, poiché il termine annuale per la dichiarazione integrativa non esplica alcun effetto sul procedimento contenzioso instaurato dal contribuente per contestare la pretesa tributaria – quand’anche fondata su elementi o dichiarazioni forniti dal contribuente medesimo.

Il diverso piano sul quale operano le norme in materia di accertamento e riscossione, rispetto a quelle che governano il processo tributario, nonché il principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.) comportano l’inapplicabilità, in sede processuale, di decadenze relative alla sola fase amministrativa (v. Cass. n. 10775/2015).

La parola, concludendo, è tornata al giudice di secondo grado.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Omesso versamento di IVA. La crisi economica non salva dal reato

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 29 ottobre 2015

Non risponde del reato di omessa IVA il legale rappresentante di società che, in presenza di una crisi di liquidità dell’impresa, ha fatto tutto quanto era in suo potere per reperire le risorse necessarie a far fronte all’obbligazione tributaria non essendovi tuttavia riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e comunque a lui non imputabili.

È quanto si ricava dalla sentenza n. 43599/15 della Corte di Cassazione – Terza Sezione Penale.

Gli ermellini, nel confermare il verdetto di condanna per il reato di cui all’art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000 pronunciato dalla Corte d’appello nei confronti del legale rappresentante di una società cooperativa, ha sostenuto che l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a “forza maggiore” solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio.

Nel caso in esame, l’imputato ha ammesso che i mancati accontamenti dell’IVA erano risalenti a un’epoca precedente alla data di assunzione della carica societaria e ha pure rivendicato di aver optato per il mancato versamento dell’imposta per una sua scelta imprenditoriale. Ebbene, tanto è bastato agli ermellini per ritenere sussistente la responsabilità del ricorrente.

Nella sentenza 43599/15 si legge: “la consapevolezza dell’attuale stato di dissesto dell’impresa comporta l’accettazione delle relative conseguenze quando, come nel caso in esame, esse siano responsabilmente valutate da chi, subentrando nella carica, dimostra in tal modo di poterne avere il dominio finalistico, anche se si tratta di dissesto imputabile alla precedente gestione. È lo stesso imputato ad affermare di aver chiesto rassicurazioni alla società controllante, unico debitore della cooperativa, affinchè provvedesse a saldare il conto, ma non ha mai dedotto di essersi attivato, pur avendo a disposizione il lungo periodo che lo separava dalla scadenza del termine per il versamento annuale, per cercare di onorare l’impegno alla scadenza; aldilà delle generiche indicazioni sulla crisi finanziaria dell’impresa e della spiegazione delle relative cause, non risultano allegazioni circa richieste di finanziamenti, avvio di ingiunzioni giudiziarie nei confronti del debitore o altre iniziative per cercare di tamponare la mancanza di liquidità. La pura e semplice indicazione di dati macroeconomici dell’impresa non costituisce prova rigorosa dell’assoluta impossibilità di adempiere derivante da causa a lui non imputabile, essendo peraltro principio incontroverso, nella dottrina e nella giurisprudenza civilistica, che la crisi di liquidità salvo casi eccezionali non manda esente da colpa il debitore pecuniario inadempiente”.

Nulla da fare, quindi, per il legale rappresentante della cooperativa, che dovrà pagare le spese processuali e la somma di mille euro in favore della Cassa delle ammende.

Inquilino moroso. Niente fattura per i canoni

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 23 ottobre 2015

Per le locazioni, ai fini IVA, rileva l’incasso del corrispettivo e, pertanto, in caso di morosità del conduttore, la società locatrice non è tenuta a emettere fattura. Diversamente, ai fini dell’imposizione diretta, i canoni vanno dichiarati anche quando non percepiti ed essi non concorrono più alla formazione del reddito d’impresa solamente dopo la risoluzione del contratto e/o convalida di sfratto. Per quanto concerne i canoni maturati per competenza, possono essere dedotti come perdite su crediti se sia dimostrata la certezza della perdita, non essendo a tal fine sufficiente il semplice sfratto o l’accertamento giudiziale della morosità del conduttore.

È quanto ha chiarito, in tema di reddito d’impresa, la Sezione Tributaria della Cassazione con la sentenza 23 ottobre 2015, n. 21621.

Gli ermellini hanno parzialmente accolto il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate nell’ambito di una controversia instaurata da una società che non ha percepito i canoni relativi a un locale commerciale.

La CTR, non facendo distinzione tra imposizione diretta e indiretta, ha ritenuto che la società dovesse dichiarare i canoni solamente al momento del pagamento, mentre per l’Ufficio la società avrebbe dovuto fatturare i canoni maturati a carico dell’inquilino, perché, nelle locazioni commerciali, i locatori sono soggetti a imposizione fiscale secondo il sistema normale del reddito ordinario medio, con conseguente obbligo di dichiarazione e fatturazione.

Ebbene, con riguardo alla dedotta violazione di legge (artt. 109 e 23 – ora 26 – del TUIR e 6 del D.P.R. 633/72), la Suprema Corte ha osservato che “per le locazioni, vere e proprie prestazioni di servizi nell’imposizione indiretta e armonizzata sul valore aggiunto, il momento impositivo coincide con l’incasso del corrispettivo. Perciò, in caso di morosità del conduttore, il locatore non è tenuto a emettere fattura”.

Ai fini dell’imposizione diretta, invece, per le locazioni d’immobili non abitativi, il legislatore tributario ha previsto la regola generale di cui all’art. 23 [ora 26] del TUIR secondo cui i redditi fondiari sono imputati al possessore indipendentemente dalla loro percezione. Sicché anche per il reddito da locazione non è richiesta, ai fini dell’imponibilità del canone, la materiale percezione del provento. Dunque, il relativo canone va dichiarato, anche se non percepito, nella misura in cui risulta dal contratto di locazione fino a quando non intervenga una causa di risoluzione del contratto medesimo. Fra l’altro, la Corte costituzionale, pronunziando sull’art. 23 (ora 26) citato ha ritenuto che il sistema di tassazione delle locazioni non abitative non è irragionevole dato che il locatore può avvalersi di tutti i rimedi apprestati dall’ordinamento per conseguire la risoluzione della locazione in modo da riportare sollecitamente la tassazione dell’imponibile sotto la normale regola del reddito fondiario secondo rendita catastale. Con la risoluzione del contratto e/o la convalida di sfratto, la locazione cessa e i canoni non possono più concorrere alla formazione del reddito d’impresa.

Inoltre, con riferimento ai redditi di società, i canoni maturati per competenza possono essere dedotti come perdite su crediti se sia dimostrata la certezza della perdita, non essendo a tal fine sufficiente il semplice sfratto o l’accertamento giudiziale della morosità del conduttore (v. Cass. nn. 651/12 e 11158/13).

In conclusione la Suprema Corte ha cassato la sentenza della CTR limitatamente alle imposte dirette. Sul punto il giudice del rinvio dovrà applicare i principi enunciati dagli ermellini.

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti