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Rettifica transfer price senza effetti sul penale-tributario

Sono irrilevanti sotto il profilo penale gli accertamenti di maggiori imponibili conseguenti a rettifiche di transfer pricing, in quanto basate per definizione su metodi meramente valutativi e, pertanto, connotati da margini di discrezionalità.

L’importante principio è affermato nella sentenza 3674/18/2018 della Ctr della Lombardia depositata il 4 settembre scorso, che ha negato l’applicabilità della normativa (oggi abrogata) sul raddoppio dei termini a seguito della denuncia del reato di dichiarazione infedele, basata sul mero scostamento dei redditi dichiarati rispetto a quelli presuntivamente accertati in applicazione di una diversa metodologia di transfer pricing.

La controversia scaturiva da una serie di avvisi di accertamento con cui l’Ufficio aveva riqualificato il profilo funzionale di una società italiana da «agente» a «distributore» della consociata francese, rideterminando il reddito della società in base al principio di libera concorrenza (articolo 110 del Tuir). La rideterminazione avveniva individuando un set di soggetti distributori ritenuti comparabili e applicando il metodo del margine netto della transazione (Tnmm).

Gli avvisi di accertamento venivano emessi anche in relazione ad annualità i cui termini ordinari di accertamento erano decaduti, ma per i quali l’Agenzia aveva ritenuto applicabile la normativa sul raddoppio dei termini in presenza di reato di dichiarazione infedele (articolo 4 del Dlgs 74/2000). L’Agenzia si era avvalsa del raddoppio dei termini nonostante le modifiche introdotte all’istituto dalla riforma del 2015, ritenendo applicabile il regime transitorio previsto dal Dlgs 128/2015, che faceva salvi gli avvisi già notificati.

I giudici regionali, pur accettando la tesi, peraltro molto discussa, dell’operatività del regime transitorio (in linea con la sentenza della Cassazione 26037/2016), ritenevano non applicabile il raddoppio dei termini nel caso specifico, in quanto la denuncia di dichiarazione infedele in applicazione di una diversa metodologia di transfer pricing era da ritenere strumentale ed illegittima.

Infatti, a seguito delle modifiche introdotte alla disciplina dei reati tributari, è previsto che per determinare la sussistenza delle soglie che fanno scattare il delitto di dichiarazione infedele (articolo 4) non si tenga conto della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali (tipicamente la documentazione sul Tp).

L’irrilevanza penale dei fatti basati su valutazioni giuridico-tributarie, secondo i giudici lombardi, è tipicamente applicabile alle rettifiche reddituali effettuate in applicazione della disciplina del transfer pricing, fondata per definizione su valutazioni discrezionali e su metodologie non certe e codificate dal punto di vista normativo.

Peraltro, nel caso specifico, l’applicazione della diversa metodologia di Tp proposta dall’Agenzia era ritenuta non corretta, essendo errato il presupposto su cui si fondava l’accertamento, ovvero la riqualificazione dell’impresa italiana da agente a distributore. La società, infatti, non stipulava contratti con i clienti e non operava con i rischi tipici del distributore (rischio magazzino e rischio credito).

di Giacomo Albano

Fonte “Il sole 24 ore”

Rateazione ammessa anche per una singola cartella

di Massimo Romeo

La rateazione di un debito tributario richiesta dal contribuente non deve necessariamente riguardare l’intero suo debito ma può essere presentata anche per una singola o per specifiche cartelle e la mancata regolarizzazione di precedenti cartelle non è ostativa alla concessione di dilazioni che riguardano altre cartelle diverse da quelle non regolarizzate o comunque non oggetto di rateazione. Questo il principio che emerge dalla sentenza della Ctp Milano n. 3490/2018 depositata il 27 Luglio.

La questione controversa aveva ad oggetto l’impugnazione da parte di una società di capitali di alcuni provvedimenti con cui l’agenzia della Entrate/Riscossione (di seguito Ader) aveva rigettato nuove istanze di rateazione del debito tributario in conseguenza della mancata regolarizzazione di precedenti piani revocati per decadenza. La ricorrente eccepiva l’illegittimità del diniego opposto sostenendo che l’articolo 19 del Dpr 602/1973 subordinerebbe l’accoglimento dell’istanza di dilazione solo alla presenza di temporanee obiettive difficoltà e non anche alla regolarizzazione , dedotta da Ader, in quanto la decadenza dal beneficio si porrebbe solo per il carico già rateizzato per il quale si sia verificata la decadenza e non quando, come nel caso di specie, la rateizzazione riguardi altre cartelle non oggetto di precedenti dilazioni.

Il Collegio provinciale decide di accogliere le doglianze della contribuente così legittimandone il diritto alla nuova rateazione. La motivazione del collegio giudicante, in ossequio al principio di non contestazione ( articolo 115 cpc), prende le mosse dal fatto , non contestato da Ader, che le due istanze di rateazione , oggetto dei dinieghi impugnati, riguardavano cartelle di pagamento non ricomprese nelle precedenti rateazioni concesse; quindi interpreta il dettato normativo di riferimento (articolo 19) come non ostativo, in presenza di temporanea situazione di obiettiva difficoltà del contribuente, (da quest’ultimo provata e da controparte non contestata) alla concessione di dilazioni che si riferiscono ad altre cartelle , diverse da quelle non regolarizzate o comunque non oggetto di rateazione.

La Ctp altresì specifica che la rateazione «non deve necessariamente riguardare l’intero debito ma può essere presentata anche per una singola o per specifiche cartelle», ferma restando la facoltà per l’agente di attivare, per il debito relativo a piani di rateazione decaduti, tutti gli strumenti a tutela del credito (dal fermo all’ipoteca, dal pignoramento alla vendita forzata).

 Fonte “Il sole 24 ore”

Il pagamento non consente di dedurre il costo per un’operazione soggettivamente inesistente

di Andrea Taglioni

Non è deducibile il costo relativo a un’operazione soggettivamente inesistente semplicemente adducendone il pagamento della fattura. Quest’ultimo, infatti, rappresenta solamente la movimentazione finanziaria sottostante al documento cartolare. Di conseguenza, il costo per l’acquisizione del bene o servizio, sebbene documentato da fattura per operazioni soggettivamente inesistenti e purché non utilizzato per commettere reati, è deducibile se il contribuente dimostra la certezza del componente negativo e l’inerenza con l’esercizio dell’attività d’impresa. È quanto emerge dall’ordinanza 17788/2018 della Cassazione (clicca qui per consultarla ).

L’agenzia delle Entrate notificava ad una società un avviso di accertamento a fini Iva e delle imposte dirette fondato sul disconoscimento di costi derivanti da fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti. L’avviso veniva impugnato dalla contribuente e la Commissione rigettava il ricorso.

In sede di appello la Commissione tributaria regionale accoglieva parzialmente il ricorso limitatamente alla detraibilità dei costi ai fini delle dirette, confermando l’indetraibilità dell’Iva. In particolare, i giudici ritenevano che l’intervenuto pagamento dell’importo fatturato fosse sufficiente ai fini della deducibilità del costo. Di diverso avviso è stata la Cassazione che, a seguito dell’impugnazione della sentenza, ha accolto il ricorso dell’ufficio.

Prima di esaminare la questione attinente la deducibilità dei costi i giudici ricordano come, nel caso di fatture soggettivamente inesistente, anche nell’ipotesi in cui il cessionario sia consapevole della frode, l’indeducibilità opera unicamente quando i costi e le prestazioni di servizio siano stati direttamente utilizzati per il compimento dell’attività delittuosa.

Tuttavia, secondo la Cassazione, l’accertamento del pagamento della fattura non poteva essere l’elemento determinante, in assenza dei presupposti di legge, per confermare la deducibilità.

Ai fini del rispetto dei criteri generali per la determinazione del reddito d’impresa è necessario, quindi, verificare la concreta deducibilità dei costi con riferimento, non tanto all’esborso finanziario, quanto, piuttosto, ai requisiti di certezza, inerenza, effettività, competenza, determinatezza o determinabilità, del costo sostenuto.

Pertanto, se ai fini Iva risulta pacifica l’indetraibilità dell’imposta afferente l’inesistenza sia essa oggettiva che soggettiva dell’operazione, per le imposte dirette la deducibilità del costo, anche se la fattura è soggettivamente falsa, è comunque subordinata alla sussistenza dei presupposti previsti per la corretta determinazione del reddito.

Fonte “Il sole 24 ore”

 

Il Fisco riconosce il trasferimento all’estero solo a partire dalla cancellazione in Comune

di Francesco Avella

 

La Corte di cassazione nella sentenza n.16634/18 ribalta il verdetto della Ctr Puglia n. 64/07/2017 (si veda il Qf del 31 marzo 2017) affermando che ai sensi dell’articolo 2, comma 2, Tuir le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente dovrebbero considerarsi «in ogni caso residenti» con la conseguenza che, ai fini delle imposte sui redditi, «il trasferimento della residenza all’estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano».
La Ctr Puglia, al contrario, aveva giudicato non decisivo il mantenimento dell’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente (e la mancata iscrizione all’Aire), posto che la situazione fattuale mostrava un chiaro trasferimento della dimora abituale e del centro degli interessi vitali all’estero: nel caso di specie, il contribuente persona fisica si era infatti trasferito da anni nel Regno Unito e ivi svolgeva la sua attività lavorativa. La Ctr Puglia era giunta a tale conclusione senza far leva sulla tie-breaker rule contenuta nella Convenzione Italia-Regno Unito, ma semplicemente interpretando la norma interna valorizzando i principi costituzionali: «L’applicazione di qualsivoglia strumento presuntivo non può avvenire in maniera asettica e automatica, dovendo esso, per converso, avere riguardo necessariamente alla reale capacità contributiva ex articolo 53 Costituzione, nonché evitare una inammissibile duplicazione d’imposta».
La chiusura della Corte di cassazione – che con la sentenza n.16634/18 ribadice peraltro una posizione già espressa nelle precedenti sentenze 21970/2015, 677/2015 e 9139/2006 – continua a non convincere.
Nel caso di specie (Regno Unito), così come nella maggior parte dei casi precedenti (Svizzera, Romania), il trasferimento era avvenuto in uno Stato con il quale era in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni che avrebbe comunque consentito di superare il dato normativo nazionale, posto che riveste carattere di specialità rispetto alle corrispondenti norme nazionali e dovendo la potestà legislativa essere comunque esercitata, ai sensi dell’articolo 117 Costituzione, nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (da ultimo, in tal senso, Cassazione 13 ottobre 2017, n. 24112). La Cassazione avrebbe cioè potuto superare il dato meramente formale dell’iscrizione nelle anagrafi della popolazione valorizzando la tie-breaker rule contenuta nella Convenzione Italia-Regno Unito (sebbene dalle sentenze non si comprenda se il contribuente ne avesse invocato i benefici) e i criteri ivi contenuti, in particolare il centro degli interessi vitali che, nel merito, la Ctr Puglia aveva stabilito essere nel Regno Unito e non in Italia.
Inoltre, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 2, comma 2, Tuir come quella fornita dalla Ctr Puglia pare più rispondente al canone della capacità contributiva e più rispettosa dei vincoli posti dal diritto dell’Unione Europea in termini di libertà fondamentali (almeno ogni qual volta, come nel caso di specie, il trasferimento avvenga verso uno Stato membro dell’Ue) e, pertanto, sarebbe stata preferibile anche prescindendo dalla Convenzione Italia-Regno Unito.
La sentenza della Cassazione impone quindi ai contribuenti particolare attenzione e cautela, affinché non sottovalutino un adempimento – quello della cancellazione dalle anagrafi della popolazione residente e della conseguente iscrizione all’Aire – che, pur avendo carattere formale, rischia di avere un impatto drammaticamente sostanziale.

Fonte “Il sole 24 ore”

L’indennità di buonuscita a carico del lavoratore non sfugge a prelievo ordinario

di Romina Morrone

La quota di indennità di buonuscita afferente al periodo riscattato con somme interamente a carico del lavoratore è soggetta a tassazione ordinaria, trattandosi di contributi non correlati ad un rapporto previdenziale riferibile al datore di lavoro. Lo ha affermato la Cassazione nell’ordinanza 16560/2018 del 22 giugno.

Un ufficiale dell’aeronautica militare ha impugnato il silenzio-rifiuto dell’agenzia delle Entrate, formatosi a seguito dell’istanza di rimborso della maggiore trattenuta Irpef 2004, effettuata sulla liquidazione dell’indennità di buonuscita per cessazione dell’attività lavorativa. A parere del contribuente, l’imponibile fiscale del Tfr erogato dall’Inpdap doveva essere calcolato detraendo la quota parte riferibile ai contributi da lui versati. Altalenante l’esito del giudizio nei gradi di merito. L’agenzia ha impugnato la sentenza della Ctr in Cassazione, sostenendo che il giudice di appello aveva erroneamente ritenuto applicabile l’articolo17 del Tuir ad una fattispecie di contribuzione volontaria totalmente a carico del lavoratore e sottolineando che il periodo di riscatto (e cioè quello corrispondente ad anni e a mesi che il dipendente decide volontariamente di aggiungere al periodo di servizio, versando quote contributive per rendere tali annualità, altrimenti non valutabili, utili ai fini del calcolo della buonuscita) doveva essere tassato per intero poiché non era correlato ad un rapporto previdenziale riferibile al datore di lavoro.

La Corte ha accolto il ricorso ribadendo che, se la formazione di una parte dell’indennità di buonuscita viene alimentata con contributi interamente ed esclusivamente a carico del dipendente (come nel caso delle anzianità convenzionali e per i servizi pre-ruolo ammessi a riscatto), da lui versati volontariamente, tale parte dell’indennità non va sottratta ad imposizione fiscale ordinaria Irpef, poiché, in tal caso, la funzione del versamento consegue il riconoscimento normativo dell’anzianità convenzionale. Tali conclusioni sono conformi alla giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza 178/86), secondo la quale la non tassabilità pro parte (non è applicabile nelle ipotesi di contribuzione volontaria totalmente a carico del lavoratore, come quella in esame, poiché) è determinata sulla base del rapporto, alla data in cui è maturato il diritto alla percezione, fra l’aliquota del contributo previdenziale posto a carico dei lavoratori dipendenti e quella complessiva dello stesso contributo.

Fonte “Il sole 24 ore”

Concordato con obbligo di transazione fiscale

di Giulio Andreani

La proposta di definizione dei debiti fiscali disciplinata dall’articolo 182-ter della legge fallimentare (la “transazione fiscale”) è obbligatoria, nell’ambito di un concordato preventivo di qualsiasi tipo, qualora il piano concordatario non preveda il pagamento integrale e senza dilazione di questi debiti (quindi sostanzialmente sempre). Pertanto la mancata presentazione della stessa costituisce un vizio del ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato.

Ma che cosa accade, ai fini dell’ottenimento delle falcidie e delle dilazioni richieste, se la proposta, una volta presentata, non è approvata dal Fisco?

Posizione paritaria per il Fisco

All’Erario non sono attribuiti diritti diversi e maggiori di quelli spettanti agli altri creditori e pertanto, se le maggioranze previste dalla legge vengono comunque raggiunte, il suo rigetto della proposta di transazione fiscale non impedisce l’approvazione della domanda di concordato e la produzione degli effetti previsti da tale proposta.

Lo ha affermato da tempo la Cassazione (sentenza 22931/2011 ), stabilendo che la omologazione del concordato obbliga tutti i creditori, indipendentemente dal loro voto favorevole o contrario, poiché è da escludere la sussistenza di un particolare statuto per il Fisco, non essendo dubbio che un’eccezione al principio maggioritario, se fosse stata voluta, sarebbe stata espressamente prevista dal legislatore. In assenza di una previsione di tale natura, vale quindi anche nei confronti dell’amministrazione finanziaria il disposto dell’articolo 184 L.f. ai sensi del quale «il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso di cui all’articolo 161».

È vero che la Suprema corte ha affermato questo principio prima delle modifiche apportate al citato articolo 182-ter dalla Legge di bilancio 2017, quando la transazione fiscale era facoltativa, ma non vi è ragione per non ritenerlo applicabile tuttora, perché il principio traeva origine dal menzionato articolo 184 e non dall’articolo 182-ter. Va da sé che, indipendentemente dalle considerazioni che precedono, per effetto dell’entità dei debiti fiscali il voto del Fisco può anche risultare decisivo, così come può esserlo quello di qualsiasi altro creditore; ma ciò è, semmai, l’effetto di una situazione di fatto e non di un particolare diritto attribuito all’Erario.

Gli effetti del «no»

Nel concordato in continuità gli effetti della mancata approvazione della proposta di transazione fiscale sono più incerti, perché l’articolo 186-bis, comma 2, lettera c), della L.f stabilisce che il piano può prevedere «una moratoria fino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni sui quali sussiste la causa di prelazione».

L’incertezza nasce dal fatto che la dottrina e la giurisprudenza interpretano diversamente questa norma. Infatti, secondo un primo orientamento, essa avrebbe natura precettiva solo ai fini della esclusione del diritto di voto da parte dei creditori prelatizi di cui sia previsto il soddisfacimento entro un anno dalla omologazione, ma non impedirebbe un pagamento ultrannuale, a condizione che i creditori prelatizi cui esso è offerto vengano ammessi al voto, essendo in tal caso il loro trattamento equiparabile a un pagamento non integrale.

In base, invece, a un secondo orientamento, la norma testé citata impedirebbe in assoluto al debitore di prevedere una moratoria oltre l’anno per il pagamento dei creditori prelatizi, tra i quali rientra il Fisco, salvo il caso in cui il creditore vi abbia acconsentito attraverso la stipula di un apposito patto. La prima tesi è prevalente ed è stata avallata dalla Cassazione, ma la seconda ha trovato conforto nelle pronunce di alcuni tribunali, come quelli di Roma e di Milano.

I dubbi sullo stop oltre l’anno

Adottando questo secondo indirizzo, l’accoglimento della proposta di transazione fiscale da parte dell’agenzia delle Entrate risulta decisiva ai fini della possibilità di pagare i debiti fiscali oltre un anno dalla omologazione; infatti, in base a questo orientamento, l’obbligo di pagamento infrannuale stabilito dal citato articolo 186-bis può essere derogato solo in presenza del consenso dei creditori prelatizi interessati, da esprimere mediante un patto paraconcordatario, che, per quanto attiene i rapporti con il Fisco, dovrebbe essere costituito dalla transazione fiscale.

Questo consenso è ritenuto necessario anteriormente alla domanda di concordato, ma relativamente ai crediti fiscali ciò non è possibile, visto che la proposta di transazione fiscale viene approvata mediante il voto della proposta di concordato, che può essere espresso solo successivamente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Via libera alla deduzione dei costi per i lavori su immobili di terzi

di Gianfranco Ferranti

La decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione in merito alla detraibilità dell’Iva relativa alle spese di ristrutturazione o manutenzione straordinaria degli immobili di terzi consente di dare soluzione anche alla questione concernente la deducibilità dei relativi costi ai fini delle imposte sui redditi.

La Suprema corte ha affermato, nella sentenza a Sezioni unite 11533 dello scorso 11 maggio , che va riconosciuto il diritto alla detrazione dell’Iva per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche in ipotesi di immobili di proprietà di terzi, purché sia presente un nesso di strumentalità con l’attività d’impresa o professionale, anche se quest’ultima risulti soltanto potenziale o di prospettiva. E ciò anche se, per cause estranee al contribuente, tale attività non abbia poi potuto concretamente esercitarsi.

La sentenza della Corte riguarda l’Iva ma la soluzione adottata è destinata, come detto, ad esplicare effetto anche rispetto all’analoga questione della deducibilità per il conduttore degli stessi costi ai fini delle imposte sui redditi.

La questione Iva

La problematica oggetto del giudizio di legittimità ha riguardato l’inerenza delle spese di ristrutturazione degli immobili detenuti in locazione ai fini sia del diritto ad esercitare la detrazione dell’Iva (nel caso in cui l’attività d’impresa non avesse ancora avuto inizio) sia del rimborso della stessa imposta, riconosciuto, dall’articolo 30, terzo comma, lettera c), del Dpr 633/1972 , in presenza di costi ammortizzabili.

La Corte, dopo aver ricordato il contrasto interpretativo emerso nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, ha ricordato che le sentenze “negative” erano fondate sul timore che il contratto di locazione fosse stato predisposto allo scopo di consentire alla conduttrice una detrazione di cui la proprietaria dell’immobile in quanto «consumatrice finale» non avrebbe avuto diritto, «al di là della giustificazione giuridica fornita, che con riguardo alla detrazione è stata anche quella del divieto previsto per i beni non ammortizzabili».

Tale tesi non è stata, però, condivisa alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenze C-672/16 del 2018 , C-132/16 del 2017, C-124/12 del 2013 e C-29/08 del 2009) che, in base al principio di neutralità dell’imposta, ha riconosciuto il diritto alla detrazione dell’Iva «purché sia presente un nesso di strumentalità con l’attività d’impresa o professionale, anche se quest’ultima sia potenziale o di prospettiva. E ciò pur se – per cause estranee al contribuente – la predetta attività non abbia poi potuto concretamente esercitarsi».

Effetti sulle imposte sui redditi

Il locatario può dedurre, ai fini delle imposte sui redditi, i costi sostenuti per la ristrutturazione o la manutenzione straordinaria dell’immobile nel quale lo stesso svolge l’attività d’impresa, essendo gli stessi inerenti all’esercizio dell’impresa. A tale conclusione è possibile pervenire alla luce della sentenza 11533/2018, nella quale viene fatto un breve cenno anche alle precedenti incertezze della giurisprudenza della Cassazione in merito alla «simmetrica questione della deduzione dei costi».

In alcune sentenze era stata negata la deducibilità dei costi in esame per difetto del requisito dell’inerenza, perché il locatore sarebbe risultato il beneficiario ultimo dei miglioramenti apportati all’immobile. In altre pronunce era stata, invece, sostenuta la tesi opposta, ritenendo che la deducibilità degli stessi costi non potesse essere subordinata al diritto di proprietà dell’immobile, essendo sufficiente che fossero sostenuti nell’esercizio dell’impresa, al fine del migliore svolgimento dell’attività imprenditoriale da parte del locatario.

Quest’ultima soluzione è senz’altro condivisibile, anche perché altrimenti la deduzione degli stessi costi non spetterebbe né al conduttore né al locatore (in quanto non sostiene la spesa).

Fonte “Il sole 24 ore”

L’avvenuto pagamento determina le modalità dell’impugnazione

Il contribuente, che dichiara ma omette di versare una determinata imposta, può attendere, senza incorrere in alcuna decadenza, di opporsi in sede contenziosa all’iscrizione a ruolo della pretesa tributaria (nel caso di specie, Irap dichiarata e non versata da un avvocato). Viceversa, se l’imposta viene versata, non si potrà più ricorrere contro l’iscrizione a ruolo, bensì dovrà instaurarsi un contenzioso sul silenzio-rifiuto nei termini decadenziali previsti, perché la dichiarazione dei redditi è sempre emendabile e la natura del processo tributario è di tipo impugnatorio.

Cassazione ordinanza 14541/2018

 

Finanziamenti, oneri presunti solo per i soci

di Luca Benigni e Ferruccio Bogetti

Illegittimo l’avviso che presume la fruttuosità dei finanziamenti erogati a favore di società commerciali da coloro che non rivestono la qualifica di soci. Così afferma la Ctp Varese 126/2/2018 (presidente Petrucci, relatore Ferrari).

La guardia di Finanza contesta movimentazioni di capitali verso l’estero a favore di un istituto di credito bulgaro, rispettivamente per 3 milioni di euro nel 2010 e per altri 3 milioni di euro nel 2011. Il contribuente si giustifica, sottolineando che le operazioni si riferiscono alla costruzione di un immobile strumentale, così come emerge dal preliminare siglato nel 2010 con una società di costruzioni bulgara a cui è stato effettuato il primo bonifico a titolo di caparra. Le successive difficoltà finanziarie del costruttore estero hanno imposto, per completare l’intervento, la successiva erogazione nel 2011 del secondo bonifico, questa volta a titolo di finanziamento, in realtà mai restituito. I chiarimenti forniti nella fase istruttoria non sono ritenuti convincenti e per il 2011 l’ufficio notifica al contribuente un maggior reddito di capitale di 7.500 euro, conteggiato in base alla consistenza finanziaria media di 500mila euro al tasso legale dell’1,5 per cento.

Il contribuente sottolinea che l’onerosità del mutuo (articolo 1815 del Codice civile), in assenza di diversa volontà delle parti, rappresenta una presunzione semplice superabile, anche ai fini fiscali, con qualsiasi mezzo di prova; e ricorda che non emerge alcun riferimento alla fruttuosità delle somme trasferite nelle causali dei bonifici effettuati alla società bulgara.

Secondo l’ufficio, però, la finalità realizzata in concreto è stata quella di riconoscere alla società estera la titolarità di denaro con obbligo alla restituzione insieme agli interessi pattuiti.

La Ctp accoglie il ricorso del contribuente, ricordando che la presunzione legale del Tuir, secondo cui le somme versate alle società commerciali dai loro soci si considerano date a mutuo se dai bilanci non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo, vale soltanto per coloro che rivestono tale qualifica. E comunque, se l’ufficio intende accertare i maggiori redditi di capitale, deve provarne la pretesa fruttuosità e il contribuente può replicare attraverso la prova contraria dei bilanci della società finanziata da cui emerge il mancato pagamento degli interessi accertati.

Fonte “Il sole 24 ore”

Dagli studi di settore all’eredità, tante liti senza speranza per l’Erario

di Salvina Morina e Tonino Morina

Sono frequenti le condanne a carico degli uffici che proseguono il contenzioso perdente, subendo una doppia beffa. L’erario non incassa nulla e l’ufficio è condannato a pagare le spese di giudizio. Sono diversi i casi in cui gli ufficipotrebbero evitare la prosecuzione del contenzioso. Ecco, di seguito, quelli più frequenti.

La rinuncia all’eredità «salva» dal Fisco
Per la Cassazione, ordinanza 13639/18, depositata il 30 maggio 2018, chi rinuncia all’eredità non ha alcuna responsabilità per i debiti del contribuente deceduto. Sbaglia perciò l’ufficio che insiste nella richiesta di pagamento agli eredi rinunciatari, e, quindi, deve essere accolto il ricorso dei contribuenti con condanna alle spese a carico dell’agenzia delle Entrate per 15mila euro, oltre rimborso forfetario ed accessori di legge.

L’ufficio deve provare che le operazioni sono inesistenti
Per la Cassazione, l’ufficio che nega la detrazione dell’Iva per presunte operazioni soggettivamente inesistenti, deve fornire la “prova” che le operazioni non sono mai state poste in essere. In mancanza di questa prova, l’accertamento del Fisco deve essere annullato, l’ufficio non incassa nulla ed è condannato a pagare le spese di giudizio, a favore del contribuente, per oltre 6mila euro.

Stop alle sanzioni sugli errori formali
Per i giudici di legittimità, ordinanza 14933 del giorno 8 giugno 2018, non è punibile il contribuente che presenta in ritardo le scritture contabili, a condizione che la violazione «sia priva di incidenza sulla determinazione della base imponibile dell’imposta e sul versamento del tributo e sia inidonea ad arrecare pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo». Il “guaio” è che, dopo quasi 13 anni di contenzioso, l’erario, dopo avere subìto una triplice bocciatura, primo grado, in secondo grado e in Cassazione, non incassa nulla e deve anche pagare le spese di giudizio per circa 5mila euro.

La media semplice non è ponderata
Per la Cassazione, è illegittimo il ricorso alla media semplice, anziché alla media ponderata, quando tra i vari tipi di merci esiste una notevole differenza di valore ed i tipi più venduti presentano una percentuale di ricarico inferiore a quella risultante dal ricarico medio (Cassazione, n. 13319 del 2011; n. 4312 del 2015). Sono diversi i contenziosi in materia di applicazione sbagliata della media aritmetica semplice, “scambiata” per media ponderata. Per giurisprudenza consolidata in materia, è costante l’accoglimento del ricorso dei contribuenti, con conseguente bocciatura dell’operato della Finanza e degli uffici delle Entrate che non applicano correttamente il ricarico medio ponderato.

Il rimborso Iva è soggetto alla prescrizione decennale
Per la Cassazione, sentenza n. 19510 del 19 dicembre 2003, il credito del contribuente per il rimborso dell’Iva si consolida decorsi due anni dal termine per la presentazione della dichiarazione annuale senza che l’amministrazione finanziaria abbia notificato alcun avviso di rettifica o di accertamento ed è esigibile alla scadenza dei successivi tre mesi. Pertanto, il termine di prescrizione decennale del diritto al rimborso decorre a partire da due anni e tre mesi dalla data di presentazione della dichiarazione annuale, non essendo il diritto medesimo esigibile prima del decorso di detto termine.

L’Inps chiede i contributi in base agli accertamenti
L’Inps non ha alcun titolo per chiedere i contributi che scaturiscono dagli accertamenti del Fisco definiti con la chiusura delle liti pendenti. È perciò priva di effetti la richiesta fatta dall’istituto previdenziale, con un avviso di addebito, sulla base dell’accertamento emesso dall’agenzia delle Entrate, direzione provinciale di Siracusa. Per il Tribunale di Siracusa, deve essere perciò accolto il ricorso del contribuente, e, per l’effetto, deve essere annullato l’avviso di addebito emesso dall’Inps (sentenza n. 108/2018, pubblicata il 5 febbraio 2018).

Stop agli studi di settore automatizzati
Proseguono le bocciature della Cassazione nei confronti degli uffici che emettono accertamenti standardizzati da studi di settore. Un esempio è nella sentenza 9755/17, depositata il 18 aprile 2017. Per la Cassazione, sbagliano gli uffici che considerano gli studi di settore uno strumento di accertamento.

Dopo 5 anni di silenzio il Fisco perde i soldi
Le richieste di pagamento, così come i fermi amministrativi notificati dopo i 5 anni dalla notifica della cartella di pagamento, sono prive di effetto. Per la Cassazione, sezioni unite civili, sentenza 23397/16, depositata il 17 novembre 2016, le pretese della Pubblica Amministrazione, agenzia delle Entrate, Inps, Inail, Comuni, Regioni, e altri enti impositori, si prescrivono nel termine “breve” di cinque anni, con l’eccezione dei casi in cui la sussistenza del credito non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato o a mezzo di decreto ingiuntivo.

I conti fittizi devono essere provati
Per la Cassazione, deve essere annullato l’accertamento dell’ufficio, relativo all’anno 2002, che non ha “provato” in alcun modo che i versamenti rilevati sui conti personali del socio e della figlia fossero effettivamente riferibili alla società (ordinanza 9212/2018, depositata il 13 aprile 2018). Dopo tre bocciature, primo grado, secondo grado e Cassazione, e dopo oltre 10 anni, il Fisco rimane con un pugno di mosche in mano e con una condanna al pagamento delle spese che la Cassazione liquida in 6mila euro per compensi, più 200 euro per esborsi e il 15% a titolo di spese forfettarie.

Contraddittorio preventivo obbligatorio
Gli atti emessi dal Fisco senza alcun confronto con il contribuente devono essere annullati. Per la Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sentenza 48/02/2018, depositata il 17 gennaio 2018, «la violazione del diritto del contribuente al contraddittorio preventivo, ossia antecedente all’emanazione dell’atto di accertamento, determina pertanto l’illegittimità dell’atto, e di conseguenza, il suo annullamento».

Fonte “Il sole 24 ore”

Omesse ritenute ante ottobre 2015, non basta il 770

di Antonio Iorio

Il reato di omesso versamento delle ritenute, prima delle modifiche in vigore dal 22 ottobre 2015, non può essere provato soltanto con la dichiarazione del sostituto di imposta, essendo necessarie le certificazioni rilasciate ai percipienti. A fornire questa importante interpretazione sono le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, con la sentenza 24782 depositata ieri.

La pronuncia dovrebbe definitivamente risolvere un contrasto interpretativo sorto all’interno della terza sezione penale sulla rilevanza della sola dichiarazione del sostituto di imposta per la configurazione del reato di omesso versamento delle ritenute, previsto dall’articolo 10 bis Dlgs 74/2000.

La versione iniziale del citato articolo 10 bis, (precedente alle modifiche introdotte con il Dlgs 158/2015) prevedeva la reclusione da sei mesi a due anni per chiunque non avesse versato, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, le ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo.

Di sovente, in passato l’accusa per provare al colpevolezza di questo reato si basava esclusivamente sui dati “autodichiarati” dal contribuente nel 770, trasmesso dall’Agenzia delle Entrate al Pm.

Inizialmente, la Suprema corte ha ritenuto soddisfatto l’onere probatorio con la mera allegazione del modello 770 all’interno del quale sono elencate le ritenute.

Successivamente la Cassazione ha mutato orientamento, fornendo un’interpretazione più aderente al dato letterale: il reato è collegato all’omesso versamento, non delle ritenute indicate nel 770, ma di quelle risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti e quindi la prova dell’illecito è rappresentata dalle certificazioni e non dalla dichiarazione.

Il Dlgs 158/2015 ha modificato anche questa fattispecie penale. In particolare il nuovo delitto ora concerne le omissioni risultanti anche dalla dichiarazione, non essendo più necessaria la prova delle certificazioni ai sostituiti. E quindi, con l’entrata in vigore (22 ottobre 2015) del predetto decreto, per la commissione del reato non sono più necessarie le certificazioni, ma è sufficiente l’indicazione nel modello 770 dell’importo poi non versato.

Secondo alcune pronunce della terza sezione penale, questa modifica doveva intendersi quale chiarimento della precedente norma: quindi anche per il passato si sarebbe potuta provare la sussistenza del delitto, mediante la semplice produzione della dichiarazione 770.

Da qui l’intervento delle Sezioni Unite, che ora hanno definitivamente chiarito che per il passato la dichiarazione 770 proveniente dal sostituto di imposta non può essere ritenuta di per sé sola sufficiente ad integrare la prova dell’avvenuta consegna al sostituito della certificazione fiscale.

Nonostante, come si è detto, il reato sia poi stato modificato a decorrere da ottobre 2015, per i delitti consumati fino a quella data (i cui procedimenti, anche numerosi, sono tuttora in corso), l’assenza di produzione da parte del Pm delle certificazioni (circostanza frequente in quanto l’agenzia delle Entrate in genere inviava il solo modello 770 del contribuente) comporterà l’assoluzione del’imputato.

Fonte “Il sole 24 ore”

Costi pluriennali, stop ai controlli «infiniti»

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Per i costi pluriennali la rettifica da parte dell’amministrazione è possibile solo se nell’esercizio di sostenimento, ossia il primo di imputazione, il potere di accertamento non è ancora decaduto, a nulla rilevando le successive imputazioni annuali. È questo l’importante orientamento assunto recentemente dalla Corte di cassazione.

La questione
I costi di «utilità pluriennale» non sono dedotti integralmente nell’esercizio di sostenimento, ma vengono imputati anche negli anni successivi.Ne consegue così che in un determinato periodo di imposta potrebbero esserci quote di ammortamento relative a beni acquistati in anni il cui potere di accertamento è già decaduto.

La circostanza ha suscitato dubbi nell’ambito dell’attività di controllo: secondo la prassi seguita dai verificatori, infatti, poiché “parte” di quel costo ha rilevanza in esercizi ancora accertabili, è possibile verificarne la congruità fin dall’origine e, quindi, è legittimo disconoscere parte o tutto del valore di acquisto.

Si pensi ad esempio a un macchinario acquistato al prezzo di 100mila euro nel 2010 (periodo di imposta per il quale è decaduto a fine 2015 il potere di rettifica da parte dell’amministrazione) e ammortizzato al 10% annuo, pari cioè a 10mila euro imputati in ciascun esercizio. Cosa succede se nel corso di una verifica nel 2018 e relativa al 2014 (anno ancora accertabile), nell’ambito del controllo dei beni strumentali, i verificatori ritengono per le più svariate ragioni che solo 20mila dei 100mila euro sostenuti siano deducibili?

Secondo l’interpretazione dell’amministrazione, poiché la quota di ammortamento ha rilevanza in anni ancora accertabili, è possibile recuperare a tassazione la parte ritenuta indeducibile rispetto al costo originario. E quindi, seguendo l’esempio, è legittimo il recupero di 8mila euro dei 10mila imputati in ammortamento.

Il principio della Cassazione
È stato richiesto alla Suprema corte di stabilire se per i costi che danno luogo a una deduzione frazionata in più anni la decadenza del potere di accertamento dell’amministrazione si realizzi al 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di ciascun periodo di imposta in cui è dedotto il costo ovvero a quello in cui è stato iscritto il costo originario.

Con la recente sentenza 9993/2018 i giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che in conformità dei principi affermati dalla Consulta (sentenza 352/2004), l’interpretazione della norma sulla decadenza non può lasciare il contribuente esposto all’azione esecutiva del fisco per termini eccessivamente dilatati. Ciò anche perché il contribuente è tenuto alla conservazione dei documenti per gli anni oggetto di possibile controllo.

Per non violare questi principi, secondo i giudici di legittimità nell’ipotesi di costi la cui deducibilità è frazionata nel tempo, il computo della decadenza decorre dall’anno in cui è stato iscritto in bilancio il valore da ripartire. Perciò, se il Fisco non ha disconosciuto tale originaria iscrizione, le relative quote imputate negli esercizi successivi divengono deducibili.

L’unica contestazione in tali periodi di imposta, può riguardare un’eventuale errata determinazione perché ad esempio imputata in misura superiore o malamente calcolata.

Gli acquisti non rettificabili
Alla luce di questo principio occorre individuare se l’acquisto del bene strumentale in ammortamento sia avvenuto in un anno non ancora decaduto:

fino al periodo di imposta 2015 (modello Unico 2016), gli uffici potevano notificare accertamenti entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione (o quinto in caso di omessa dichiarazione). Quindi, se la dichiarazione è stata presentata, nel 2018 risultano decaduti gli acquisti effettuati fino al 2012, a prescindere dal fatto che il relativo ammortamento sia ancora in corso. Inoltre, la norma prevedeva il raddoppio dei termini se la violazione comportava l’obbligo di denuncia di un reato tributario. È pertanto verosimile che in tale ipotesi, il maggior termine consenta all’ufficio di verificare gli acquisti di cespiti anche se avvenuti in periodi precedenti al 2012;

dal periodo d’imposta 2016 (modello Redditi 2017), invece, gli uffici possono notificare gli accertamenti entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (ovvero se omessa o nulla entro il 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui si sarebbe dovuta presentare). E quindi, ad esempio, il bene strumentale acquisito nel 2016, potrà essere verificato e nel caso contestato solo fino al 2022, senza peraltro alcuna possibile proroga anche in presenza di reato, dato che la modifica ha abrogato il raddoppio dei termini.

Fonte “Il sole 24 ore”

Pignoramenti, la Corte costituzionale apre all’opposizione

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Più tutele per i contribuenti nel pignoramento presso terzi dall’agente della riscossione. È stata infatti dichiarata incostituzionale la norma che non ammetteva nell’esecuzione esattoriale la tutela prevista dal codice di procedura civile in occasione delle esecuzioni ordinarie. A sancirlo è la Consulta con la sentenza 114, depositata ieri.

Ma vediamo, in estrema sintesi, i termini della questione. Nell’ipotesi in cui, a seguito della cartella di pagamento, il contribuente non adempia al proprio debito tributario richiesto dall’agente della riscossione, tra i vari poteri a disposizione di quest’ultimo vi è il pignoramento presso terzi.

In questi casi la controversia non riguarda il giudice tributario e il contribuente può solo opporsi all’esecuzione davanti al giudice ordinario. Tuttavia, rispetto alla normativa del codice di procedura civile, nell’esecuzione esattoriale e segnatamente nel pignoramento presso terzi, esistono alcune deroghe a favore del creditore (l’agente della riscossione) previste dal Dpr 602/73.

A norma dell’articolo 57 di questo decreto nel pignoramento presso terzi nelle esecuzioni esattoriali non sono ammesse: le opposizioni regolate dall’articolo 615 Cpc, fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni; le opposizioni regolate dall’articolo 617 Cpc relative alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo esecutivo.

Ne consegue che il contribuente interessato, una volta effettuato il pignoramento presso terzi dall’agente della riscossione, ha di fatto pochissimi strumenti di tutela proprio perché quelli previsti dal codice di procedura civile subiscono delle forti limitazioni.

In questo contesto i tribunali di Trieste e Sulmona rilevavano in opposizione ad atti di pignoramento dell’agente della riscossione la fondatezza sostanziale e processuale dell’impugnazione del contribuente. In particolare, nella vicenda sottoposta al vaglio dei giudici triestini, il contribuente lamentava la violazione da parte di Equitalia dell’articolo 7 del Dl 70/2011, relativo alla sospensione ex lege degli atti esecutivi esattoriali per la durata di 120 giorni.

Tuttavia, si trattava di circostanze che non potevano essere fatte valere né davanti alle commissioni tributarie, poiché gli atti dell’esecuzione esulano dalla giurisdizione tributaria, né davanti al giudice ordinario per le limitazioni poste dal ripetuto articolo 57. Vi sarebbe, così, un difetto assoluto di giurisdizione con conseguente violazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione. Da qui, in buona sostanza, la remissione alla Consulta.

La Corte ha ritenuto fondata la questione sollevata dal tribunale di Trieste. Secondo la Consulta, in estrema sintesi, la peculiarità dei crediti tributari, che può determinare una disciplina di favore per l’amministrazione fiscale, come già rilevato dalla Corte stessa anche recentemente (da ultimo, sentenza n. 90 del 2018), e che è a fondamento della speciale procedura di riscossione coattiva tributaria rispetto a quella ordinaria di espropriazione forzata, non è però tale da giustificare che, nelle ipotesi in cui il contribuente contesti il diritto di procedere a riscossione coattiva e sussista la giurisdizione del giudice ordinario, non vi sia una risposta di giustizia se non dopo la chiusura della procedura di riscossione ed in termini meramente risarcitori.

Per tali ragioni è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 57, comma 1 lettera a) del Dpr 602/73, nella parte in cui non prevede per le controversie relative agli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella le opposizioni regolate dall’articolo 615 codice procedura civile.

Fonte “Il sole 24 ore”

Accertamento, utilizzabili solo i dati «regolari»

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Se l’accesso presso i locali adibiti promiscuamente ad abitazione e a sede dell’attività non è autorizzato dalla Procura i dati acquisiti non sono utilizzabili a nulla rilevando la consegna spontanea ai verificatori da parte dell’interessato. Nessuna norma, infatti, subordina l’autorizzazione alla volontà del soggetto sottoposto a verifica. A fornire questo importante chiarimento è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 13711 depositata ieri.

L’agenzia delle Entrate rettificava a un contribuente un avviso di accertamento fondato sulla documentazione rinvenuta in occasione dell’accesso presso i locali adibiti promiscuamente ad abitazione e a sede dell’attività. Il contribuente impugnava l’atto impositivo evidenziando tra i diversi motivi di ricorso che l’accesso dei verificatori era avvenuto in assenza dell’autorizzazione (ex articolo 52 del Dpr 633/1972).

Entrambi i giudici di merito annullavano l’accertamento e l’agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione. In particolare, l’Ufficio evidenziava che la spontanea consegna della documentazione da parte del contribuente avrebbe escluso la necessità della predetta autorizzazione, potendosi utilizzare il materiale indiziario comunque raccolto.

I giudici di legittimità hanno premesso che non esiste nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, con la conseguenza che i verificatori devono solo rispettare le disposizioni dettate dalle norme tributarie. Tuttavia, proprio tali norme, prevedono la necessità di una preventiva autorizzazione del procuratore della Repubblica per procedere a specifici accessi diversi dalla mera sede dell’attività.

La giurisprudenza in proposito ha chiarito che la mancanza di tale autorizzazione, ove richiesta, determina la inutilizzabilità degli elementi probatori sui quali sia stato fondato l’accertamento solo nell’ipotesi di accesso domiciliare. Più precisamente, la norma dispone che se i locali sono adibiti anche ad abitazione (cosiddetto uso promiscuo) è necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica, quale mero atto amministrativo. Mentre se si tratta di un accesso presso la sola abitazione occorre un’autorizzazione con specifica indicazione degli indizi gravi indizi di violazione delle norme tributarie.

Tale inutilizzabilità, sebbene non espressamente prevista per legge, deriva sia dalla regola generale secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola, sia dal principio dell’inviolabilità del domicilio (articolo 14 della Costituzione). Il giudice deve così vagliare le prove offerte in causa solo se ritualmente acquisite.

La Cassazione, alla luce di queste premesse, ha rilevato che tali principi non possono essere derogati per effetto della consegna spontanea della documentazione da parte del contribuente. Ed infatti, l’accesso, effettuato senza la necessaria autorizzazione, in ogni caso non è legittimo; l’eventuale consenso o dissenso del contribuente è privo di rilievo giuridico non essendo richiesto e o preso in considerazione da nessuna norma di legge. Nella specie, quindi, poiché la sede era adibita sia ad attività sia ad abitazione, occorreva l’autorizzazione del procuratore della Repubblica a prescindere che il contribuente avesse spontaneamente consegnato i documenti richiesti.

La decisione è particolarmente importante poiché non di rado, in occasione dei controlli, i verificatori ritengono di poter bypassare le necessarie autorizzazioni solo perché il contribuente si mostra collaborativo, consegnando ciò che gli viene richiesto.

Fonte “Il sole 24 ore”

La rinuncia dei soci al credito cerca una via d’uscita dall’imposta di registro

di Giuseppe Carucci e Barbara Zanardi

Il finanziamento dei soci persone fisiche enunciato nel verbale di assemblea potrebbe essere a rischio di assoggettamento a imposta di registro proporzionale. Pertanto, in occasione della copertura delle perdite mediante rinuncia dei soci alla restituzione del finanziamento, alcuni accorgimenti operativi potrebbero scongiurare l’imposizione per enunciazione. Il tema è attuale per i soggetti che sono ancora alle prese con il bilancio 2017, ad esempio, perché hanno differito a 180 giorni il termine di approvazione.

L’origine del problema
Il rischio di enunciazione del finanziamento è connesso al contenuto della sentenza della Cassazione 15585/2010, che ha sancito l’obbligo di corrispondere l’imposta di registro del 3% per un finanziamento dei soci non registrato, ma richiamato in un successivo verbale di assemblea straordinaria nel quale, attraverso la rinuncia dei soci, si ricostituiva il capitale sociale eroso dalle perdite.

L’accertamento troverebbe fondamento nell’articolo 22 del Dpr 131/1986, che prevede l’applicazione dell’imposta alle disposizioni enunciate in un determinato atto e contenute in contratti verbali o atti scritti formati in precedenza e non registrati.

Soluzioni operative
Nonostante le critiche subite da tale decisione della Suprema corte, prudenzialmente, per cercare di evitare il rischio di una imposizione del finanziamento enunciato, è opportuno adottare le seguenti principali soluzioni operative individuate dalla prassi notarile, prescindendo da ulteriori valutazioni prettamente giuridiche (ad esempio, effetti di diluizione dei soci che non sottoscrivono l’aumento del capitale).

Conversione finanziamento in capitale
La prima soluzione consiste nel convertire preventivamente il finanziamento soci in versamento in conto capitale e, solo successivamente, di utilizzare, per l’aumento del capitale sociale, la riserva di patrimonio netto generata a seguito di tale conversione.
In tal modo, pertanto, prima si effettua la rinuncia al credito, ad esempio con lettera, e, poi, nel verbale, si da atto solo dell’esistenza della riserva che viene utilizzata per l’aumento del capitale.

Delibera aumento e successiva esecuzione
Un’altra soluzione consiste nel procedere con la sola delibera di aumento, riservando in un secondo momento, e con differenti modalità (ad esempio mediante scambio di corrispondenza), l’esecuzione materiale dell’aumento stesso, che, pertanto, non è parte della delibera assembleare. In tal modo si evita di eseguire in un unico contesto l’aumento e la sottoscrizione del capitale, nonché la liberazione della sottoscrizione mediante rinuncia del socio al credito derivante dal finanziamento effettuato a favore della società.

Restituzione finanziamento
Infine, si potrebbe procedere alla restituzione del finanziamento soci prima dell’adozione della delibera di aumento del capitale e, successivamente, al conferimento in società del denaro. Tale soluzione non è sempre percorribile, soprattutto quando il finanziamento non sia facilmente liquidabile e rimborsabile. In definitiva, come si evince dalle soluzioni operative sopra analizzate, al fine di cercare di sottrarre tali delibere di copertura perdite dal rischio di imposizione, è opportuno che la “rinuncia” al credito o il suo utilizzo per una ricapitalizzazione si perfezioni al di fuori di un verbale notarile o comunque non in atti sottoposti a registrazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Nullo l’avviso con firma digitale notificato per raccomandata

di Rosanna Acierno

È nullo l’avviso di accertamento, sottoscritto digitalmente mediante l’indicazione a stampa del nominativo del capo ufficio (o del funzionario delegato), inviato a mezzo posta raccomandata e non tramite Pec. È questa la conclusione cui è giunta la sezione 1 della Ctp di Pescara, con la sentenza 926/01/2017 (presidente Albano, relatore Papa).

La pronuncia trae origine da un avviso di accertamento notificato tramite posta raccomandata a un libero professionista con cui la Direzione provinciale di Pescara-Ufficio controlli rettificava l’omessa fatturazione di alcune pratiche Docfa e Pregeo e, conseguentemente, maggiori compensi per l’anno di imposta 2011.

Impugnato l’atto, il contribuente ne eccepiva in via preliminare l’illegittimità per violazione dell’articolo 42 del Dpr 600/73, perché non solo sottoscritto digitalmente e non mediante firma autografa, ma anche perché inviato in formato cartaceo a mezzo raccomandata e non tramite Pec.

Costituitosi in giudizio, l’ufficio insisteva per l’infondatezza della eccezione preliminare, depositando a tal fine un’autorizzazione conferita al sottoscrittore dell’atto impugnato valido anche per gli atti digitali.

Accogliendo l’eccezione preliminare di nullità dell’avviso di accertamento per mancata sottoscrizione, la Ctp di Pescara ha innanzitutto precisato che «l’invalidità di un atto tributario, essendo quest’ultimo a formazione procedimentale progressiva, può derivare non solo da questioni sostanziali, ma anche da aspetti procedurali la cui mancanza o indeterminabilità può determinare l’illegittimità del provvedimento amministrativo».

Lo stesso collegio ha poi richiamato l’articolo 15, comma 7, Dl 78/2009 secondo cui la firma autografa prevista sugli atti di liquidazione, accertamento e riscossione può essere sostituita dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile dell’adozione dell’atto, in tutte le ipotesi in cui gli atti medesimi siano prodotti da sistemi informativi automatizzati, individuati dal provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate approvato il 2 novembre 2010, tra i quali gli atti di accertamento di violazione e irrogazione di sanzioni in materia di tasse automobilistiche.

Pertanto, a parere della Ctp di Pescara, per gli accertamenti ordinari, quale quello sotteso alla odierna controversia, la sottoscrizione necessaria ai fini della validità può essere solo autografa o dal 1° luglio 2017 anche digitale, in vigenza della possibilità per l’ufficio di inviare gli atti via Pec, sempre a condizione che il contribuente riceva documenti informatici a mezzo posta certificata e non cartacei.

Ne consegue che, nel caso di specie, recando soltanto la stampa del nominativo del responsabile e non la firma autografa ed essendo stato notificato in modalità cartacea tramite posta ordinaria, l’atto impugnato è di fatto privo di sottoscrizione e, dunque, nullo, atteso il chiaro tenore della norma di cui all’articolo 42, comma 3 del Dpr 600/73 secondo cui l’accertamento è nullo qualora l’avviso sia privo di firma.

Fonte “Il sole 24 ore”

Fatture per operazioni inesistenti, la prova grava sul contribuente

di Massimo Romeo

L’onere della prova circa la legittima deduzione dei costi ed il diritto alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto, in relazione ad importi fatturati per operazioni qualificate dal fisco come oggettivamente inesistenti, grava sul contribuente, il quale deve dimostrarne la non fittizietà, non essendo sufficiente la mera esibizione delle fatture, né la sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, normalmente utilizzati per far apparire reale un’operazione fittizia. Questo il principio che emerge dalla sentenza della Ctp Milano n. 2081/2018 depositata il 14 maggio.

Il focus della controversia milionaria finita all’attenzione dei giudici tributari milanesi traeva origine dalle risultanze di un’ indagine della Gdf, culminata in un pvc, a cui facevano seguito avvisi di accertamento per la presunta inesistenza oggettiva di prestazioni di servizi rese a favore della ricorrente da imprese operanti nel settore della logistica e dei trasporti, definite dal fisco “fantasma”, cioè prive di personale e di mezzi sufficienti a generare un così alto volume d’affari.

La ricorrente eccepiva la ricostruzione fatta dai verificatori già nella fase di presentazione delle osservazioni al pvc , contestandone l’omessa motivazione nei successivi avvisi di accertamento e ritenendo carente l’impianto probatorio offerto dall’Ufficio che avrebbe determinato a suo carico una grave ingiustizia per essersi tramutata l’infedeltà dei singoli prestatori ( accertata in esito ad un’indagine penale dinanzi al tribunale) in uno strumento per aggredirla attraverso mere «allusioni e illazioni>; a conforto produceva contestazioni da parte dell’Inps, verbali d’infrazione al codice della strada nonché emessi dalla Polizia stradale a carico di automezzi di una delle ditte fornitrici dei servizi, dichiarazioni dei dipendenti che facevano riferimento ad attività espletata in outsourcing, tutti elementi che, a suo parere, dovevano condurre a presupporre l’esistenza di strutture operanti sul territorio.

L’ufficio considerava inconfutabili le situazioni emerse dalle indagini del Nucleo di polizia tributaria ritenendo altresì incontestabile l’esosità dei prezzi esposti nelle fatture, assolutamente fuori mercato e pertanto antieconomici i servizi pretesi dalla ricorrente come espletati; ne faceva quindi discendere il disconoscimento dei costi ai fini delle dirette e la non deducibilità dell’Iva, spostando l’onere della prova sulla contribuente in virtù della rilevanza e gravità degli elementi emersi.

Preliminarmente ed in punto di diritto i giudici ambrosiani rigettano le eccezioni della contribuente richiamando a supporto alcuni principi espressi dai giudici di legittimità:

•sul mancato rispetto dell’articolo 12 comma 7 dello Statuto, in ordine all’omessa motivazione dell’avviso sulle osservazioni prodotte, in quanto le parti si sono contrapposte con articolate argomentazioni e repliche che non consentono di ipotizzare una potenziale limitazione dell’esercizio del diritto di difesa;

•sull’onere della prova, in quanto in presenza di operazioni oggettivamente inesistenti grava sul contribuente ( articolo 1 lettera a Dlgs 74/2000) l’onere di dimostrare che le operazioni fatturate siano state effettivamente eseguite ed all’Ufficio contestarne l’effettività anche sulla base di presunzioni;

•sulla prova, che non può consistere nella mera esibizione delle fatture, né nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, normalmente utilizzati per far apparire reale un’operazione fittizia ( Cassazione 23550 novembre 2014 – Cassazione 11155 del 21 maggio 2014).

Nel merito il Collegio, a parte rigettare tutte le varie eccezioni sullo “sforzo” compiuto dalla ricorrente di dimostrare l’effettiva operatività delle imprese fornitrici, considera dirimente e decisivo, «per sgombrare il campo da qualsiasi incertezza» e smentire l’asserita diligenza invocata dalla ricorrente nei rapporti con le imprese prestatrici di servizi ( esibizione Durc), l’analisi dei “mastrini contabili”, di cui ne ha appositamente richiesto il deposito con ordinanza, nonché l’assenza assoluta di documentazione di dettaglio in soccorso della laconicità della descrizione delle fatture disconosciute.

In particolare i giudici osservano che l’analisi di congruità dei movimenti riportati nelle sopracitate schede contabili non può prescindere dalle rilevazioni dei verificatori in merito alla consistenza patrimoniale (alquanto modesta) dei prestatori nonché dalla natura delle prestazioni (che richiedono molta manodopera); pertanto, in siffatto contesto, emergeva una sostanziale incongruenza in quanto le varie imprese avrebbero dovuto pagare la forza lavoro al massimo mensilmente, rendendo non possibile la concessione di un credito così ampio e duraturo nel tempo, in considerazione della rilevata modesta inconsistenza patrimoniale delle imprese che avrebbero eseguito i lavori fatturati. Non avendo pertanto assolto l’onere della prova la Ctr decide di respingere i ricorsi riuniti.

Fonte “Il sole 24 ore”

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Promosse le soglie di rilevanza penale per le omissioni Iva

di Giovanni Negri

La Corte di giustizia europea promuove le soglie di rilevanza penale per l’omesso versamento dell’Iva. Anche dopo la riforma che le ha sensibilmente elevate da 50mila a 250mila euro.

Con la sentenza depositata ieri nella causa 574 C-574/15, i giudici europei sottolineano innanzitutto che, sebbene le sanzioni che gli Stati membri approvano per contrastare le violazioni in materia di Iva rientrino nella loro autonomia procedurale e istituzionale, quest’ultima è tuttavia limitata, oltre che dal principio di proporzionalità, da un lato, dal principio di equivalenza, che implica che tali sanzioni siano analoghe a quelle applicabili alle violazioni del diritto nazionale simili per natura e importanza e lesive degli interessi finanziari nazionali e, dall’altro, dal principio di effettività, il quale impone che dette sanzioni siano effettive e dissuasive.

Così, la sentenza precisa che la legislazione italiana prevede, per l’omesso versamento dell’Iva (sotto i 250mila euro), una sanzione amministrativa pari al 30 % dell’imposta dovuta, che sono previsti degli interessi di mora da versare all’amministrazione fiscale, che il contribuente può beneficiare di una riduzione della sanzione in funzione del momento in cui regolarizza la propria situazione: tutti elementi che portano a ritenere che il principio di effettività appare rispettato. Conclusione valida anche se le sanzioni sono inflitte soltanto alla persona giuridica (società) e non ai suoi amministratori o dirigenti.

Quanto al principio di equivalenza, la Corte osserva che il reato di omesso versamento Iva (reato lesivo degli interessi dell’Unione) non è paragonabile all’omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d’imposta (reato lesivo degli interessi dell’Italia). Infatti, il sostituto d’imposta può rilasciare a favore del contribuente una certificazione di avvenuto pagamento dell’imposta alla fonte, consentendogli di farla valere davanti all’amministrazione fiscale. Il contribuente è liberato dall’obbligo di pagamento anche se la certificazione non risponde al vero (e cioè persino se il sostituto d’imposta non ha in realtà versato le ritenute all’Erario).

In queste condizioni, è evidente ai giudici che l’omesso versamento dell’imposta sui redditi, reato commesso dal sostituto d’imposta è più difficile da accertare rispetto all’omesso versamento dell’Iva, reato commesso direttamente dal contribuente. Pertanto, il principio di equivalenza non è di ostacolo a una normativa, come quella italiana, che fissa soglie di punibilità diverse per l’omesso versamento Iva (250mila euro) e per l’omesso versamento delle ritenute (150mila euro).

I giudici hanno considerato superata l’altra questione posta, a sua volta centrata sulla legittimità dell’estinzione del procedimento penale in caso di pagamento tardivo, sanzioni comprese.

Fonte “Il sole 24 ore”

Falso in bilancio, serve il dolo

di Giovanni Negri

Per contestare il reato di falso in bilancio non è sufficiente che la violazione di norme contabili sia stata rilevante. Serve il dolo. E poi, l’omissione di dati contabili imposti dalla legge e suscettibili di incidere sulla consistenza del patrimonio dell’impresa può dare luogo a singoli reati istantanei di falso in bilancio, con ripercussioni sui termini prescrizione. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 21672 della Quinta sezione penale depositata ieri. La Corte ha così respinto il ricorso presentato contro la condanna ai soli effetti del risarcimento delle parti civili emessa nei confronti del legale rappresentante di una società di costruzioni dalla Corte d’appello, in relazione alla mancata rappresentazione dell’importo del ricavato della vendita di una serie di unità immobiliari.

Rispetto al motivo di ricorso che si concentrava sul riconoscimento della prescrizione e sul fatto che il falso in bilancio, nell’ipotesi contravvenzionale prevista dall’articolo 2621 del Codice civile, sia un reato istantaneo suscettibile di essere consumato in relazione a ciascun esercizio al momento del deposito del bilancio, senza trascinamento nel tempo, la Cassazione prende una linea diversa. Mette in evidenza cioè come una violazione, anche di natura contravvenzionale, che ha la capacità di incidere sulla consistenza del patrimonio dell’impresa nel tempo, e quindi anche negli esercizi successivi rispetto all’esercizio in cui i valori economici sono venuti ad esistenza, può andare a realizzare singoli reati istantanei di falso in bilancio riferiti a ciascun anno di esercizio, fino al momento in cui la condotta non viene a cessare.

Quanto all’elemento psicologico, poi, la Cassazione, avverte che la prova del dolo non può essere individuata nella rilevanza dell’importo contabile oggetto dell’omissione. Il dolo non può essere ritenuto provato nella sola violazione di norme contabili sulla esposizione delle voci in bilancio e non può neppure essere individuato nello scopo di fare vivere artificiosamente la società; l’accusa deve invece trovare elementi specifici e incontestabili in grado di mettere in evidenza nel redattore del bilancio la consapevolezza della sua azione irragionevole attraverso la realizzazione di artifizi contabili.

 Fonte “Il sole 24 ore”

L’estratto di ruolo basta a provare entità e natura dei debiti

L’estratto di ruolo è da solo idoneo a provare sia l’entità che la natura dei crediti vantati dall’Agente della Riscossione, essendo in esso elencati, in maniera dettagliata e non discrezionale, tutti i debiti del contribuente nei confronti dei diversi Enti impositori. Come tale, esso inoltre consente agevolmente l’individuazione, ad opera del contribuente, del Giudice fornito di giurisdizione in caso di ricorso contro la cartella di pagamento che si assume non notificata.
Sono queste le principali conclusioni cui è giunta la Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la ordinanza n. 11028 del 9 maggio 2018 .
La pronuncia trae origine da una opposizione da parte di una società in accomandita semplice alla procedura di pignoramento mobiliare che l’allora Equitalia aveva avviato a seguito del mancato pagamento di 28 cartelle esattoriali a causa della loro presunta irregolare notifica. A fronte della predetta doglianza di irregolare notifica, rilevando tra gli atti prodotti da Equitalia (che a sua volta si era costituita in giudizio) soltanto l’estratto di ruolo e non anche gli originali delle cartelle originali, il Tribunale di Taranto che con sentenza n. 2103 del 2016 accoglieva l’opposizione della società e, conseguentemente, annullava il pignoramento mobiliare e tutti gli atti presupposti, ritenendo l’estratto di ruolo non idoneo a provare il credito dell’Agente della Riscossione.

Trattandosi di opposizione a ruoli ormai esecutivi, Equitalia impugnava direttamente la sentenza di primo grado dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo peraltro la violazione e falsa applicazione degli articoli 26 e 57 del DPR 602/73 per aver il Tribunale di Taranto negato l’idoneità probatoria degli estratti di ruolo. La società non presentava alcuna difesa.
Nell’accogliere il ricorso e rinviando al Tribunale di Taranto in nuova composizione, i Giudici della Corte Suprema hanno precisato innanzitutto che nell’estratto di ruolo, rilasciato dal funzionario dell’Agente della riscossione su richiesta del contribuente, sono fedelmente indicati i dati risultanti dal ruolo, che sono stati poi trasfusi nella cartella di pagamento.

In particolare, secondo la Corte Suprema, la cartella esattoriale non è altro che la stampa del ruolo in unico originale notificata alla parte, e, al contrario di quanto affermato dal Tribunale di Taranto, l’estratto di ruolo è una riproduzione fedele ed integrale degli elementi essenziali contenuti nella cartella esattoriale: esso, infatti, riporta tutti i dati essenziali per consentire al contribuente di identificare a quale pretesa dell’Amministrazione esso si riferisca, oltreché tutti i dati necessari ad identificare in modo inequivoco il contribuente, ovvero nominativo, codice fiscale, data di nascita e domicilio fiscale.

L’estratto di ruolo riporta, inoltre, tutti i dati indispensabili necessari per individuare la natura e l’entità delle pretese iscritte a ruolo, ovvero il numero della cartella, l’importo dovuto, l’importo già riscosso e l’importo residuo, l’aggio, la descrizione del tributo, il codice e l’anno di riferimento del tributo, l’anno di iscrizione a ruolo, la data di esecutività del ruolo, gli estremi della notifica della cartella di pagamento, l’ente creditore (indicazioni obbligatoriamente previste dall’art. 25 del DPR n. 602 del 1973, oltre che dagli artt. 1 e 6 del DM n. 321 del 1999). L’estratto del ruolo non è quindi una sintesi del ruolo, operata a discrezione dell’Agente della Riscossione, ma è la riproduzione fedele dei ruoli che si riferiscono alle pretese impositive che si fanno valere nei confronti di quel singolo contribuente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Rimanenze, l’elenco blocca i ricavi induttivi

Accertamento e contenzioso
di Fabio Mazzoleni

Non è legittima la ricostruzione induttiva pura del reddito di una società di persone che, non avendo tenuto la contabilità di magazzino (in quanto esonerata), aveva regolarmente predisposto il prospetto di dettaglio delle rimanenze. È quanto affermato dalla Ctp di Vicenza con la sentenza 678/2/2017 (presidente Block, relatore Spadaro).

L’agenzia delle Entrate, sulla scorta di una segnalazione della Guardia di finanza che evidenziava una serie di irregolarità contabili, procede alla ricostruzione induttiva dei ricavi dichiarati dalla società per l’anno 2012. In particolare, l’ufficio ritiene che il presupposto per l’accertamento condotto con il metodo induttivo puro (articolo 39, comma 2 del Dpr 600/1973) sia da individuarsi nell’assenza della tenuta della contabilità di magazzino.

Il contribuente – presumibilmente in contabilità semplificata – impugna l’avviso di accertamento lamentando che non aveva alcun obbligo di tenere le scritture di magazzino ex articolo 18 del Dpr 600/1973. Inoltre, precisa il contribuente, l’ufficio non ha tenuto conto della documentazione prodotta in sede di verifica, dalla quale risultava il dettaglio delle rimanenze.

I giudici vicentini hanno in primo luogo ribadito il principio di diritto secondo il quale il discrimine tra l’accertamento condotto con il metodo analitico-induttivo (articolo 39, comma 1 lettera d) e l’accertamento induttivo puro (articolo 39, comma 2) risiede, rispettivamente, nella “parziale o assoluta” inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili. Nel primo caso, poiché le violazioni non sono tali da sconfessare la contabilità nel suo complesso, l’ufficio può soltanto colmare le lacune riscontrate accertando specifici ricavi non dichiarati o costi non deducibili; nel secondo caso, invece, poiché le omissioni sono talmente gravi da rendere inattendibile la contabilità, l’ufficio procede alla quantificazione del reddito in base a dati e notizie comunque raccolti.

In secondo luogo, nel comportamento della società, si legge nella sentenza, non si ravvisa alcuno degli elementi che giustificano il legittimo ricorso alla ricostruzione induttiva del reddito. Ed infatti, affermano i giudici, la società – che non aveva alcun obbligo di tenuta della contabilità – ha regolarmente redatto l’inventario e fornito le schede contabili e il dettaglio delle rimanenze di magazzino (rispettando dunque il disposto normativo di cui all’articolo 9, Dl 69/1989 e articolo 2, Dm 2 maggio 1989).

La pronuncia si inserisce nel consolidato solco della giurisprudenza di legittimità che ritiene applicabile il metodo induttivo nei confronti delle imprese in contabilità semplificata – esonerate dalle registrazioni di magazzino – solamente allorquando tali soggetti non siano in grado di fornire prospetti di dettaglio delle rimanenze tali da consentire all’amministrazione finanziaria di effettuare i dovuti controlli (Cassazione 15863/2001, 9912/1996, 7763/1990).

Rimane da chiarire se nel nuovo regime di contabilità semplificata improntato al criterio di cassa – con irrilevanza delle rimanenze ai fini della determinazione del reddito – il prospetto di dettaglio delle rimanenze richiesto dal citato articolo 9 (peraltro non espressamente abrogato) sia ancora obbligatorio anche alla luce della compilazione degli indici sintetici di affidabilità fiscale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Niente obbligo di avviso bonario per omessi o carenti versamenti

L’invio dell’avviso bonario (comunicazione di irregolarità) a seguito di controlli automatizzati sulla liquidazione delle imposte (articoli 36-bis del Dpr 600/1973 e 54-bis del Dpr 633/1972) non è necessario in caso di omissione o carenza di versamenti. Con questo principio, affermato dalla Cassazione con l’ordinanza 8318/2018 (presidente Chindemi, relatore De Masi), è stata legittimata la cartella di pagamento emessa a seguito di diretta iscrizione a ruolo dei versamenti mancanti.

La vicenda trae origine dal ricorso contro la cartella non preceduta da avviso bonario, emessa a seguito di un controllo formale del modello Unico 2005. L’amministrazione finanziaria aveva proceduto alla diretta iscrizione a ruolo delle imposte indicate in dichiarazione ma non correttamente liquidate.

Nel ricorso in Ctp, il contribuente aveva ottenuto una riduzione delle sanzioni, nonostante i giudici di primo grado si fossero pronunciati a favore della regolarità della cartella impugnata. Successivamente, nel giudizio di appello, la Ctr ha poi ristabilito l’iniziale pretesa erariale indicata nella cartella di pagamento. I giudici regionali, in linea con il disposto dell’articolo 6, comma 5, della legge 212/2000 (Statuto del contribuente), hanno ritenuto l’invio dell’avviso bonario doveroso solo al sussistere di incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, ipotesi non ricorrente in caso di omessi versamenti.

Il contribuente ha presentato ricorso per Cassazione, lamentando che nel caso esaminato l’esclusione dell’obbligo di invio dell’avviso bonario era in contrasto con il principio di collaborazione fra cittadino e amministrazione finanziaria. Inoltre, l’assenza della comunicazione di irregolarità aveva precluso il pagamento delle sanzioni nella misura agevolata prevista dell’articolo 2, comma 2, del Dlgs 462/1997.

La Cassazione, nel condividere la decisione della Ctr, ha giudicato legittima la cartella di pagamento e infondate le doglianze della parte ricorrente sulla perdita dell’opportunità di pagare in misura ridotta le sanzioni. Il collegio di legittimità ha negato la sussistenza di un obbligo generalizzato in capo all’amministrazione finanziaria di comunicare gli esiti dei controlli automatici. Ha, invece, ritenuto necessario l’invio dell’avviso bonario solo in caso di determinazione di un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione.

La Suprema corte ha ribadito nelle proprie motivazioni dei principi già esposti in precedenti giudizi di legittimità. La comunicazione di irregolarità prevista dall’articolo 36-bis del Dpr 600/1973 non persegue lo scopo di realizzare un’interlocuzione fra amministrazione finanziaria e contribuente, ma è finalizzata ad evitare la reiterazione di errori e consentire la regolarizzazione di inesattezze materiali e formali (fra le altre, sentenze 13759/2016 e 8342/2012).

Infine, nei casi in cui il legislatore ha previsto la necessità dell’avviso bonario, i giudici di legittimità hanno comunque ritenuto la sua omissione una mera irregolarità, tale da non comportare la nullità dell’iscrizione al ruolo e degli atti successivi (sentenze 13759/2016, 12023/2015 e 3366/2013). In questo caso, la Suprema corte ha riconosciuto al contribuente il diritto alla definizione agevolata delle sanzioni prevista dall’articolo 2, comma 2, del Dlgs 462/1997, esercitabile al ricevimento della cartella di pagamento non preceduta da comunicazione d’irregolarità.

Fonte “Il sole 24 ore”

Le regole formali non frenano il diritto alla detrazione Iva

Il diritto alla detrazione non può essere scalfito da eventuali formalismi. In quanto cardine del sistema comune dell’Iva, il rispetto delle norme che disciplinano gli aspetti formali del suo esercizio non può minare al suo riconoscimento in capo al contribuente, sussistendo i requisiti sostanziali.

La Corte di Giustizia Ue ha ancora una volta l’occasione di ribadire la centralità del diritto alla detrazione dell’Iva, che sul piano fattuale potrebbe essere compromesso laddove al contribuente sia negata la possibilità di rettificare le proprie dichiarazioni relative all’Iva per i periodi d’imposta che sono già stati sottoposti a verifica dagli organi fiscali (si veda la sentenza C-81/2017 depositata ieri). Una siffatta limitazione, che troverebbe giustificazione nella necessità di tutelare l’unicità della verifica fiscale, darebbe luogo a ben altre, e più gravi, conseguenze in termini di lesioni dei principi che sono alla base della disciplina dell’imposta sul piano unionale.

Ad essere compromesso sarebbe innanzitutto il principio di effettività: un ordinamento (come quello rumeno) che preveda in caso di verifica fiscale un termine di decadenza dall’esercizio del diritto più breve (fino a negarlo del tutto) rispetto a quello ordinario (in Romania è di cinque anni) priva di fatto il contribuente della possibilità di rettificare le sue dichiarazioni relative al periodo d’imposta interessato dall’eventuale verifica, anche se il termine di decadenza previsto non è ancora decorso.

Risulterebbe, inoltre, violata la neutralità dell’Iva, principio che esige, invece, che la detrazione a monte dell’imposta sia concessa qualora i requisiti sostanziali siano soddisfatti, anche se alcuni requisiti formali sono disattesi.

Ed infine sarebbe pure violato il principio di proporzionalità. In questo senso, i giudici unionali legittimano sì gli interventi del legislatore domestico diretti ad introdurre delle sanzioni nel caso in cui non siano rispettati gli obblighi formali connessi al sistema dell’Iva, ma la sanzione non può tradursi nel diniego assoluto del diritto a detrarre (cosa che invece può verificarsi nelle ipotesi di rischio di frode o di danno all’Erario).

A questo punto non si può fare a meno di evidenziare che, in tal caso, la norma italiana sembra essere perfettamente allineata con la pronuncia dei giudici europei. Considerando la facoltà, concessa ai fini Iva dall’articolo 8, commi da 6-bis a 6-quinquies del Dpr 322/1998 al contribuente, di ritrattare sia a suo favore che sfavore il contenuto della dichiarazione entro i termini di decadenza dell’azione di accertamento, è chiaro che né un’eventuale verifica fiscale prima che sia decorso in termine né addirittura un contenzioso potrebbe ostacolare l’esercizio del diritto a detrarre, in quanto «resta ferma in ogni caso per il contribuente la possibilità di far valere, anche in sede di accertamento e i giudizio, gli eventuali errori, di fatto e di diritto, che abbiano inciso sulla sua obbligazione tributaria».

Fonte “Il sole 24 ore”

Società estinta in pendenza del giudizio. Il Fisco si rivolge agli ex soci

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 19 aprile 2018

In tema di contenzioso tributario, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9672/2018, ha ribadito che, qualora l’estinzione della società di capitali, all’esito della cancellazione dal Registro delle imprese, intervenga in pendenza del giudizio di cui la stessa sia parte, l’impugnazione della sentenza resa nei riguardi della società deve essere rivolta agli (ex) soci, in quanto il limite di responsabilità degli stessi di cui all’art. 2495 C.c. non incide sulla loro legittimazione processuale ma, al più, sull’interesse ad agire del Fisco, interesse che, tuttavia, non è di per sé escluso dalla circostanza che i soci non abbiano partecipato utilmente alla ripartizione finale, potendo, ad esempio, sussistere beni e diritti che, sebbene non ricompresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, si sono trasferiti ai soci.

La controversia riguarda una cartella di pagamento ex art. 36-bis d.P.R. n. 600/73 emessa nei confronti di una S.r.l. che è cessata dopo l’emissione della sentenza che ha chiuso il secondo grado di giudizio. Poiché tale sentenza ha dato integralmente torto all’Agenzia delle entrate, la difesa erariale ha proposto impugnazione presso la Suprema Corte, notificando il ricorso sia al liquidatore sia agli (ex) soci, i quali si sono tutti costituiti nel giudizio di legittimità eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva.

Ebbene, gli Ermellini hanno accolto l’eccezione soltanto rispetto al liquidatore. Mentre, per la parte riguardante gli (ex) soci, il ricorso del Fisco è stato dichiarato ammissibile (oltreché fondato nel merito).

  • I Massimi giudici non hanno ritenuto di alcuna rilevanza la prova fornita dai soci di non aver percepito nulla in sede di bilancio finale di liquidazione.

Gli Ermellini, con la sentenza in esame, prendono le distanze dal loro precedente orientamento (fra le altre, Cass. 23916/2016) secondo il quale «gli ex soci possono ritenersi subentrati nel lato passivo nel rapporto d’imposta solo se e nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione» e, inoltre, «l’accertamento di tali circostanze costituisce presupposto della assunzione, in capo al socio, della qualità di successore e, correlativamente, della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo».

Al contrario, è corretto ritenere – come evidenziato dal più recente indirizzo giurisprudenziale in materia (Cass. n. 9094/2017, seguita da Cass. 15035/2017) che rinvia all’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenze nn. 6070 e 6072 del 2013) – che:

  • «i soci sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata (ma non definiti all’esito della cancellazione) a prescindere dall’aver goduto o meno di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione». E difatti la possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio «non consentono di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statistiche allo stato degli atti. E l’esistenza di questi beni o crediti comporta, come pure rilevato dalle Sezioni Unite, che tra i soci medesimi s’instauri “un regime di contitolarità e di comunione indivisa”».

Alla luce di questi rilievi, dunque, il ricorso di legittimità dell’Agenzia fiscale, nei confronti degli (ex) soci, è stato dichiarato ammissibile dal Supremo Collegio ed esaminato nel merito; esame che si è chiuso con il rinvio della causa alla CTR della Puglia, per nuovo giudizio, salvo che per le sanzioni irrogate. Gli Ermellini soltanto su questo punto hanno ritenuto di non poter condividere gli assunti dell’Amministrazione finanziaria, posto che, ex art. 8 D.lgs. n. 472/1997, le sanzioni non sono trasmissibili ai soci della società estinta«e ciò, a maggior ragione, a fronte del principio della riferibilità esclusiva alla persona giuridica delle sanzioni amministrative tributarie introdotto dall’art. 7, comma 1, d.l. n. 269 del 2003, conv. nella l. n. 326 del 2003».

Autore: Paola Mauro
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Induttivo, va provato che la contabilità non è attendibile

Illegittima l’applicazione del metodo induttivo se l’ufficio non prova l’inattendibilità della contabilità e la correttezza dei dati utilizzati per la ricostruzione dei ricavi. Questi i principi contenuti nella sentenza 36/2/2018 della Ctp Reggio Emilia (presidente e relatore Montanari), depositata lo scorso 3 aprile.

La vicenda trae origine dall’impugnazione da parte di una società di un avviso di accertamento con il quale l’ufficio rideterminava induttivamente i ricavi della contribuente. Tale modalità era stata utilizzata in quanto i verificatori contestavano la non coerenza agli studi di settore e una bassa redditività dell’impresa.

La società e i soci, tassati per trasparenza, presentavano distinti ricorsi, poi riuniti, eccependo fondamentalmente l’irrazionalità ed erroneità della metodologia ricostruttiva seguita dall’ufficio.

I giudici hanno ritenuto fondate le doglianze dei contribuenti. Innanzitutto è stato evidenziato come più volte la Cassazione ha confermato la possibilità di procedere ad accertamento induttivo anche in presenza di contabilità formalmente corretta ma complessivamente inattendibile, potendosi, in tale ipotesi, evincere l’esistenza di maggiori ricavi o minori costi in base a presunzioni semplici, purchè qualificate.

Nella specie l’ufficio aveva però completamente eluso l’onere probatorio su di esso gravante, non avendo dato dimostrazione dell’inattendibilità della contabilità della società, elemento ritenuto essenziale per l’applicabilità della metodologia induttiva. L’unico presupposto che si rinveniva in proposito nell’accertamento riguardava infatti la non coerenza rispetto a un indice (coefficiente di ricarico medio) dello studio di settore di riferimento: si trattava però di un unico elemento, che peraltro faceva riferimento ad uno scostamento minimo tra il dato dichiarato e quello prospettato dagli studi di settore. Secondo il collegio, era troppo poco per poter ritenere sostanzialmente inattendibile la contabilità della contribuente.

In ogni caso, ha proseguito la Ctp, anche ritenendo legittima l’applicazione della metodologia induttiva, la pretesa erariale risultava non provata.

La ricostruzione che aveva portato all’individuazione di maggiori ricavi non dichiarati era infatti basata su due elementi in particolare: la percentuale di sfrido e quella di invenduto. L’ufficio assumeva di averle determinate utilizzato una logica equitativa e facendo riferimento a riscontri di altri esercizi similari operanti nella medesima provincia.

Tale comportamento non ha però convinto i giudici, i quali hanno ritenuto che non potessero essere considerate sufficienti delle mere enunciazioni, senza che vi fosse la prova delle stesse né un riscontro sulla loro fonte. In sintesi l’ufficio avrebbe dovuto dimostrare che le percentuali applicate fossero realmente corrette e comunque attendibili, al fine di poter adeguatamente contrastare i valori dichiarati dalla contribuente.

In proposito anche recentemente la Cassazione (7003 del 21 marzo 2018) ha ribadito che, in tema di presupposti per l’accertamento induttivo, la prova presuntiva può essere fondata anche su un solo elemento, purché fornito degli requisiti di gravità, precisione e concordanza: spetta poi al giudice di merito la valutazione dell’effettiva sussistenza di tali presupposti.

Fonte “Il sole 24 ore”

Bocciato il «pdf» allegato alla Pec

Sono sempre più numerose le pronunce di merito che censurano le modalità digitali utilizzate dal Fisco per la formazione e la notificazione degli atti impositivi. Così, la Ctr Liguria (sentenza 1745/3/2017, presidente Canepa e relatore D’Avanzo) e la Ctp Treviso (sentenza 93/1/2018, presidente Chiarelli e relatore Fadel) ribadiscono ancora una volta che è inesistente la notifica di un atto impositivo se avviene tramite messaggio Pec contenente in allegato il file dell’atto non firmato digitalmente. E ancora, per la stessa Ctp Treviso (sentenza 55/1/2018, presidente Bazzotti, relatore Fadel) è inesistente l’avviso di accertamento notificato al contribuente in formato cartaceo, ma che non reca alcuna sottoscrizione autografa del dirigente dell’ufficio (o di un suo delegato) ma la sola dicitura «firmato digitalmente».

La notifica tramite Pec

Le prime due sentenze riguardano il caso di cartelle di pagamento notificate al contribuente in formato “pdf” allegato a un messaggio Pec. I contribuenti impugnano le cartelle di pagamento sotto svariati profili, evidenziando tra l’altro che il formato “pdf” del file allegato alla Pec non garantisce l’immodificabilità e l’integrità del documento informatico.

I giudici condividono questa tesi difensiva, in particolare richiamando l’articolo 21, comma 1-bis, del Dlgs 82/2005 (Codice dell’amministrazione digitale, Cad), secondo cui «l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità».

Da questa disposizione i giudici traggono il convincimento che, in base al Cad, solamente il documento informatico su cui è apposta la firma digitale, formato secondo le specifiche tecniche di cui al Dpcm 13 novembre 2014 (recante «Regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici» in attuazione del Cad), è munito delle oggettive caratteristiche di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità, oltre a consentire l’identificazione della paternità dell’atto, tali da renderne valida la notifica a Pec.

In mancanza di tali requisiti, non c’è nessuna certezza legale che l’atto inviato telematicamente sia identico al provvedimento in originale e che esso sia giunto integro al suo destinatario. Pertanto, l’atto non è idoneo a manifestare la volontà dell’amministrazione di incidere nella sfera del destinatario (come anticipato, questa linea è stata sposata da molte altre pronunce di merito; solo per citarne alcune: Ctr Campania 9464/11/2017, Ctp Milano 1023/1/2017, Ctp La Spezia 420/1/2017, Ctp Vicenza 615/2/2017).

Atto cartaceo e firma digitale

La terza sentenza citata riguarda il caso di un avviso di accertamento notificato al contribuente in forma cartacea, ma recante la sola stampigliatura del nominativo del funzionario dell’ufficio seguita dalla dicitura «firmato digitalmente».

Anche in questo caso, a fronte di una specifica doglianza avanzata dal contribuente, i giudici hanno annullato l’atto, sottolineando che la normativa rilevante (articolo 15, comma 7, Dl 78/2010 e provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate del 2 novembre 2010) consente di sostituire la firma autografa con l’indicazione a stampa del nominativo del responsabile nei soli casi in cui l’atto:

sia prodotto da sistemi informativi automatizzati;

e sia il risultato di attività a carattere seriale effettuate con modalità di lavorazione accentrata (è il caso degli accertamenti delle tasse automobilistiche, delle concessioni governative, dell’imposta di registro annuale sui canoni di locazione pluriennali).

Ne consegue che per gli accertamenti ordinari notificati in formato cartaceo, la firma deve essere autografa. Anche in questo caso, in difetto di tale elemento, non può ritenersi formata alcuna volontà del Fisco idonea ad incidere nella sfera del contribuente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Confisca del patrimonio per l’imputato di evasione anche se non condannato

Chi trae proventi con continuità e sistematicità dall’evasione fiscale e dalle truffe in danno alla pubblica amministrazione espone il patrimonio così costituito al rischio della confisca, applicabile, anche a distanza di tempo, dal tribunale sezione misure di prevenzione. È quanto emerge dalla sentenza 11846 della seconda sezione della Corte di cassazione depositata il 15 marzo scorso.

La vicenda riguarda un imprenditore calabrese che, tra il 1995 e il 2010, era stato coinvolto in diversi procedimenti penali che lo avevano visto indagato o imputato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (reato previsto dall’articolo 640-bis del Codice penale) o di condotte di false fatturazioni ed evasione fiscale per ingenti volumi di affari. Tuttavia, nessuno dei procedimenti si era concluso con una condanna passata in giudicato; ciò in quanto in alcuni si era verificata la prescrizione del reato in grado di appello dopo una condanna di primo grado e in altri erano mancate le condizioni di procedibilità anche prima dell’inizio del dibattimento.

Nel 2016 il Procuratore aveva inoltrato al Tribunale di Reggio Calabria una richiesta di applicazione della misura di prevenzione personale e patrimoniale a carico dell’imprenditore. Egli veniva ritenuto soggetto pericoloso abitualmente dedito a traffici delittuosi, che viveva anche in parte con i proventi di attività delittuose.

Veniva così invocata una ipotesi di «pericolosità generica», prevista dall’articolo 4, lettera c), del decreto legislativo 159/2011.

Il Tribunale aveva ritenuto che dai vari fatti accertati nei procedimenti penali a carico dell’imprenditore, pur conclusi per lui favorevolmente, era emersa una sua stabile dedizione ad attività illecite che gli avevano consentito di acquisire ingenti capitali. Tuttavia, questa sua condotta risultava solo fino al 2010 e, in assenza di altri elementi a suo carico per il periodo successivo, la sua pericolosità non poteva essere ritenuta attuale. Per questo il Tribunale non aveva applicato la misura di prevenzione personale, ma aveva egualmente disposto la confisca dei beni dell’imprenditore che risultavano essere stati da lui acquistati nel periodo in cui si era manifestata la sua pericolosità.

La Cassazione quindi si è trovata ad affrontare un’ipotesi di confisca senza condanna e senza pericolosità attuale del titolare dei beni, ma ha considerato legittimo il provvedimento.

Secondo la Cassazione, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) «De Tommaso contro Italia» del 23 febbraio 2017, che ha censurato la carenza di previsioni dettagliate nel Codice antimafia sul tipo di condotta da considerare espressiva di pericolosità sociale, non costituisce né sentenza pilota né diritto consolidato. Sicché non può avere conseguenze sui giudizi in corso. In altri precedenti della Cedu, poi, l’applicazione delle misure di prevenzione è stata ritenuta legittima purché ancorata a elementi certi e provati. E tali erano quelli raccolti nei procedimenti penali conclusi con dichiarazione di prescrizione, di per sè non preclusiva della valutazione della pericolosità.

La confisca si deve considerare giustificata dall’articolo 1, comma 2, del Protocollo addizionale 1 della Convenzione che salvaguarda le norme interne sull’uso dei beni in conformità all’interesse generale e che quindi consente le procedure che accertino la pericolosità soggettiva e la presumibile origine illecita dei patrimoni. E ciò vale anche quando il patrimonio abbia origine illecita seppur il suo titolare non sia più dedito ad attività illecite. La sua origine, infatti, rende il patrimonio antisociale e altera la concorrenza sul mercato.

Fonte “Il sole 24 ore”

Responsabilità solidale

Il prestito amicale non giustifica le movimentazioni sul conto corrente
È legittima la ripresa dell’Amministrazione, fondata sulle movimentazioni risultanti dal conto corrente bancario del contribuente, se questi si limita ad indicare che tali somme si riferiscono a prestiti amicali tramite dichiarazioni rese dai beneficiari, ma di fatto non dimostra in maniera analitica che le somme versate si riferiscono ad operazione. Infatti possono essere poste a base dell’accertamento i singoli dati ed elementi risultanti dal conto corrente, come previsto dal comma 7 dell’articolo 32 del Dpr 600 del 1973. Viceversa, non bastano le dichiarazione prodotte dal contribuente per dimostrare le restituzioni di prestiti amicali, perché sono:
a) giustificazioni delle movimentazioni generiche e non analitiche;
b) dichiarazioni sono prive di autenticità, da trattare come qualsiasi scrittura privata poiché non è certa né la data in esse apposta né l’identità del sottoscrittore.
Nel caso esaminato, l’Amministrazione accerta un contribuente sulla scorta delle movimentazioni risultanti dal conto corrente relative al 2006 ed al 2007. Il contribuente si oppone e sostiene che le somme si riferiscono a prestiti effettuati da propri amici.
Ctr Lazio, sentenza 569/3/2018

Il contante accumulato in cassaforte e poi versato giustifica l’importi superiori agli incassi
Stop all’accertamento bancario emanato dall’Amministrazione nei confronti del professionista fondato sulla circostanza che in determinati periodi dell’anno gli importi versati sono superiori alle ricevute emesse se il contribuente giustifica la provenienza di tali somme. È infondata la tesi del fisco secondo cui tali somme afferiscono a somme sottratte a tassazione siccome in determinati periodi dell’anno i versamenti sono superiori agli importi risultanti dalle parcelle emesse. Per contro, è valida la tesi del contribuente che dimostra la provenienza di tali somme, ed in particolare che le stesse:
a) afferiscono a prestazioni relative a periodi pregressi e conservate in cassaforte, somme che poi solo in seguito il contribuente ha deciso di versare sul conto;
b) nel complesso, la ripresa erariale non trova fondamento dato che, su base annua, gli ammontari versati risultano comunque inferiori ai compensi dichiarati.
Nel caso esaminato, l’Amministrazione notifica nel 2006 ad un medico-legale un accertamento fondato sulle movimentazioni di conto corrente inerente gli anni 2003 e 2004 tramite cui accerta maggiori compensi rispettivamente pari a euro 917 e oltre 7mila euro per il 2004. Secondo l’Amministrazione, nei periodi compresi dall’ottobre 2003 al 22 dicembre 2003 le somme versate superano le prestazioni fatturate di oltre 8mila euro. Mentre nel periodo compreso tra il 23 dicembre 2003 e 19 marzo 2004, la differenza è oltre 11mila euro. Il contribuente si oppone e sostiene che trattasi di somme relative a prestazioni professionali già fatturate ma relative a periodi pregressi conservate in cassaforte e solo in seguito versate.
Ctr Sardegna, sentenza 56/5/2018

Fonte “Il sole 24 ore”

Responsabilità solidale

Stop all’appello notificato all’indirizzo corretto del procuratore ma fuori termine
Nel processo tributario, la denuncia di variazione del domicilio eletto opera esclusivamente nei confronti della parte, e non nei confronti del suo difensore, che non è tenuto a comunicare alla parte resistente la variazione dell’indirizzo. Questo perché la parte elegge domicilio presso il proprio procuratore e non presso il suo indirizzo. Pertanto è inammissibile l’appello dell’amministrazione qualora questa abbia tentato invano la notifica al vecchio indirizzo, e successivamente abbia si notificato l’atto di gravame presso l’indirizzo (nuovo) corretto del procuratore, ma oltre il termine lungo per promuovere l’azione. Dal punto di vista prettamente processuale:
a) il difensore del contribuente non è gravato dal comunicare alla controparte del giudizio la variazione di indirizzo del proprio studio;
b) per contro, è l’Amministrazione che, utilizzando l’ordinaria diligenza, deve individuare, tramite consultazione online dell’Albo professionale, l’indirizzo esatto presso cui notificare l’atto di gravame, essendo l’Albo fonte legale di conoscenza del domicilio degli iscritti, ed è solo a tale ente che il procuratore deve comunicare i mutamenti della sede.
Nel caso esaminato, l’Amministrazione perde il contenzioso nel giudizio, con sentenza depositata in data 11 gennaio 2016. Essa notifica il ricorso in appello all’indirizzo del difensore del contribuente risultante dagli atti processuali, notifica che però non va a buon fine e, a seguito di istanza rinnovazione della notifica, ri-notifica il gravame presso l’indirizzo nuovo del difensore il 19 luglio 2016.
Ctr Lombardia, sentenza 970/1/2018

Fonte “il sole 24 ore”

Responsabilità solidale

Per i soggetti residenti all’estero le notifiche non vanno più eseguite in Italia
Il coniuge, regolarmente separato e residente in Svizzera, non deve dichiarare gli assegni di mantenimento percepiti dal coniuge perché non è più soggettivo passivo d’imposta in Italia come dispone il secondo comma dell’articolo 2 del Tuir. L’assoggettamento all’imposizione elvetica si fonda sia sul certificato di residenza storico sia all’iscrizione ad un Albo professionale. Nel caso esaminato, una contribuente nel 2009 percepisce assegni di mantenimento dall’ex coniuge e nel medesimo anno si trasferisce in Svizzera dove svolge anche l’attività professionale di Avvocato regolarmente iscritto all’Ordine di Ginevra. Ma secondo l’Amministrazione tali somme avrebbero dovuto essere dichiarate in Italia, e ridetermina il reddito 2009 di oltre 73mila euro e ricupera maggiore Irpef per oltre 24mila euro e addizionale regionale per oltre 600 euro. Né tanto meno è valida la notifica della cartella di pagamento nei confronti di un contribuente residente all’estero il cui indirizzo è pienamente conoscibile dall’Amministrazione tramite consultazione degli indirizzi esteri dell’iscritto all’Aire, se questa è effettuata tramite semplice affissione alla casa comunale con le modalità della irreperibilità assoluta, senza invio della raccomandata presso l’indirizzo estero.
Nel caso esaminato, il concessionario nel 2009 notifica un’iscrizione a ruolo tramite cartella concernente imposte di registro e bollo auto presso l’ultima residenza italiana del contribuente, risultato poi trasferitosi all’estero nel medesimo anno tramite deposito dell’atto presso la casa comunale e affissione dell’avviso.
Ctr Lombardia, sentenza 473/11/2018
Ctr Lombardia, sentenza 502/06/2018

Fonte “Il sole 24 ore”

Responsabilità solidale

L’errata indicazione del Paese d’origine rende il dichiarante responsabile dei maggiori dazi accertati
In caso di accertamento di maggiori dazi doganali per errata indicazione del paese di origine della merce resa in sede doganale, il soggetto responsabile è il dichiarante, anche se questi agisce per conto dell’importatore effettivo titolare della merce, che ne risponde in solido, in base alle norme stabilite dal regolamento Cee. È infatti infondata la tesi del dichiarante che eccepisce il proprio difetto di legittimazione passiva siccome la merce – di provenienza da un paese di origine difforme da quello indicato in sede doganale – è di proprietà dell’importatore che ha dato mandato al dichiarante di espletare le formalità in dogana. È invece valida la tesi dell’agenzia delle Dogane che individua nel dichiarante il soggetto tenuto al pagamento dei maggiori dazi accertati dato che:
a) a mente dell’articolo 4 del regolamento Cee il dichiarante è colui il quale rilascia, e quindi sottoscrive, la dichiarazione in dogana;
b) in base all’articolo 201 del regolamento Cee soggetto passivo dei dazi è il dichiarante, anche se questi agisce per conto dell’importatore, e quindi non rileva la circostanza che il dichiarante non coincida con il soggetto acquirente della merce.
Nel caso esaminato, una Srl esercente attività di commercio di all’ingrosso di materiale elettrico, importa nel 2014 pannelli solari formalmente provenienti dal Taiwan e conferisce mandato ad altra Srl per l’espletamento delle formalità doganali. Quest’ultima, in sede doganale, conferma il paese di provenienza della merce. Successivamente l’agenzia delle Dogane scopre che la merce in realtà proviene dalla Cina e notifica avviso nel 2016 all’importatore ed al dichiarante tramite cui ricupera maggiori dazi per oltre 34mila euro comprensivo di sanzioni ed interessi.
Ctp Treviso, sentenza 88/04/2018

Fonte “Il sole 24 ore”

Responsabilità solidale

Nessuna responsabilità solidale con il sostituto d’imposta
Il contribuente, sostituito d’imposta, che percepisce un reddito al netto della ritenuta a titolo d’acconto, non è responsabile in solido col sostituto del mancato pagamento dell’imposta da questi trattenuta ma non versata. A livello normativo, il sostituito non è coobbligato solidale col sostituto, perché il soggetto, tenuto al pagamento, è il solo sostituto, obbligato al versamento per conto di altri a titolo di acconto in base al primo comma dell’articolo 64 del Dpr 600 del 1973. Inoltre in caso di mancato versamento da parte del sostituto di somme a titolo d’acconto, il debito non può essere iscritto a ruolo anche nei confronti del sostituito, in quanto la norma (articolo 35 del Dpr 602 del 1973) si applica solo a redditi sui quali il sostituto non ha effettuato alcuna ritenuta. A livello sostanziale, non si può considerare il sostituito soggetto coobbligato col sostituto per somme da questi trattenute e non versate. Diversamente questi si troverebbe nella paradossale situazione di versare somme che non gli sono state nemmeno erogate siccome trattenute dal sostituto, in violazione del principio di capacità contributiva, cioè in pratica il sostituito verrebbe di fatto assoggettato a tassazione due volte.
Nel caso esaminato, un contribuente impugna un’iscrizione a ruolo scaturente dal controllo sul modello Unico 2013, relativo all’anno 2012, e notificato nel 2016 tramite cui l’ufficio ricupera maggiore Irpef per oltre 17mila euro, ripresa fondata sulla circostanza che il sostituto non aveva versato le ritenute applicate.
Ctp Sondrio, sentenza 18/02/2018

Fonte “Il sole 24 ore”

Responsabilità solidale, notifiche

L’omessa compilazione di Rw ostacola il rimborso dell’euroritenuta. Nessuna responsabilità solidale con il sostituto d’imposta. L’errata indicazione del Paese d’origine rende il dichiarante responsabile dei maggiori dazi accertati. Per i soggetti residenti all’estero le notifiche non vanno più eseguite in Italia. Stop all’appello notificato all’indirizzo corretto del procuratore ma fuori termine. Il prestito amicale non giustifica le movimentazioni sul conto corrente. Il contante accumulato in cassaforte e poi versato giustifica l’importi superiori agli incassi. Sono questi gli argomenti trattati dalla rassegna di questa settimana delle principali pronunce delle Commissioni tributarie di primo e secondo grado.

L’omessa compilazione di Rw ostacola il rimborso dell’euroritenuta
Il contribuente, che detiene attività finanziarie estere non dichiarate, non ha diritto al rimborso della ritenuta eurounitaria effettuata dall’istituto di credito presso il quale transitano tali somme. A maggior ragione se il contribuente ha definito, tramite la voluntary disclosure, gli inviti notificati dall’Amministrazione per l’omessa dichiarazione di tali attività, ove tra l’altro non veniva riconosciuta la ritenuta operata dall’istituto di credito. In primo luogo, dal punto di vista processuale, il ricorso introduttivo avverso il diniego di rimborso è inammissibile per aver il contribuente riconosciuto, tramite adesione volontaria, la correttezza dell’operato dell’ufficio, e quindi la richiesta di rimborso dell’euroritenuta non può più essere oggetto di contestazione, come disposto dall’articolo 2 del Dlgs 218 del 1997. In secondo luogo, dal punto di vista normativo, l’omessa compilazione del Quadro Rw non consente alla contribuente di detrarre l’imposta estera trattenuta dall’istituto di credito, come previsto dall’articolo 165, comma 8 del Tuir, norma avente finalità sanzionatoria.
Nel caso esaminato, l’Amministrazione notifica degli inviti inerenti gli anni dal 2010 al 2013 tramite cui accerta attività estere non dichiarate e disconosce la ritenuta eurounitaria operata dall’istituto di credito pari ad oltre 24mila euro. La contribuente si avvale della voluntary disclosure. Successivamente, nel gennaio 2017 la contribuente presenta richiesta di rimborso dell’euroritenuta, richiesta respinta dall’Amministrazione nel giugno 2017 e impugnata dalla contribuente nel settembre 2017.
Ctp Mantova, sentenza 12/1/2018

Fonte “Il sole 24 ore”

Abuso del diritto, gli uffici non arretrano

Non è abuso del diritto scegliere fra la cessione delle quote di partecipazione e la cessione dei beni posseduti dalla società. Sul punto si stanno talvolta creando, in seno all’amministrazione finanziaria, dei fraintendimenti anche di fronte alle scelte che il contribuente può effettuare per conseguire un legittimo risparmio d’imposta.

Il comma 4 dell’articolo 10-bis dello Statuto del contribuente stabilisce che «resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale». La norma, in sostanza, disciplina il principio del legittimo risparmio d’imposta.

Proprio in relazione a tale principio, consideriamo il caso di una società che possiede dei beni immobili plusvalenti.

Anziché procedere con la cessione di tali beni, i soci possono optare legittimamente per la cessione delle partecipazioni, anche previa rideterminazione del valore tramite il pagamento di un’imposta sostitutiva e la redazione – da parte di un professionista – di una relazione di stima, come permesso dalle norme fiscali. Sempreché, ben inteso, il cessionario accetti l’acquisto di beni di secondo grado anziché beni di primo grado.

È un’operazione che certamente comporta un diverso e favorevole carico fiscale in capo al singolo socio, ma che è liberamente utilizzabile quale alternativa alla cessione diretta dei beni, comportando, peraltro, dei differenti effetti giuridici.

Invece alcuni uffici periferici delle Entrate, di fronte a simili operazioni, tendono ancora oggi a rincorrere il tentativo di riclassificarle come elusive puntando il dito sulla mancanza di sostanza economica con la presenza, invece, di un vantaggio fiscale indebito quale unico effetto essenziale dell’operazione.

Si tratta però di un’impostazione che non tiene conto del principio – ora codificato nel comma 4 citato in precedenza – secondo cui il contribuente può legittimamente perseguire un risparmio di imposta esercitando la propria libertà di iniziativa economica e scegliendo tra gli atti, i fatti e i contratti quelli meno onerosi sotto il profilo impositivo. Così che il contribuente, al di là della sostanza economica o meno o delle ragioni extrafiscali, può scegliere una condotta semplicemente perché la stessa determina un vantaggio fiscale lecito. Questo perché quando è il sistema stesso che offre “l’alternativa” fiscalmente più vantaggiosa, la scelta del contribuente non può essere censurata. Questi principi, peraltro, ora sono stati recepiti pienamente a livello centrale dall’Agenzia. Paradigmatica risulta la risoluzione 93/E/2016 nella quale, in tema di assegnazione agevolata, è stato affermato che non si realizza ipotesi di abuso del diritto (ma di legittimo risparmio d’imposta) se una società, di fronte a dei promissari acquirenti di un immobile di proprietà della società stessa, anziché vendere il bene, conseguendo delle rilevanti plusvalenze, lo assegna prima ai soci, fruendo della tassazione agevolata sostitutiva dell’8%, e poi gli stessi soci provvedono alla cessione ai precedenti promissari acquirenti della società al valore “di carico” conseguente all’assegnazione. Questo in quanto i soggetti in questione utilizzano i percorsi giuridici e i conseguenti vantaggi fiscali (legittimi) previsti dall’ordinamento tributario.

Altrettanto significativa è la risoluzione 97/E/2017, in tema di scissione parziale proporzionale e successivo trasferimento (previo affrancamento agevolato) delle azioni della società scissa, in cui l’Agenzia ha ribadito che, se il sistema fiscale offre più percorsi giuridici, il contribuente può scegliere quello fiscalmente meno oneroso. In sostanza, gli stessi documenti delle Entrate implicano che se il contribuente, attraverso operazioni legittime, si pone nelle condizioni di fruire di un vantaggio fiscale previsto dalla legge, si configura ipotesi di legittimo risparmio d’imposta. E questo anche quando la scelta risulta motivata da esclusive ragioni fiscali.

Fonte “Il sole 24 ore”

Vendite dei beni-garanzia a rischio reato

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Le contestazioni del reato di sottrazione fraudolenta, negli ultimi tempi, sono decisamente aumentate: si tratta di un illecito particolarmente grave che deriva spesso da operazioni imprenditoriali straordinarie e/o di disposizione del proprio patrimonio che gli organi accertatori ritengono compiute simulatamente in frode all’Erario.

Reato e presupposti
L’articolo 11 del Dgs 74/2000 punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque simuli la vendita o compia altri atti fraudolenti per privarsi di ogni bene che l’amministrazione potrebbe aggredire in caso di riscossione coattiva, per il recupero di imposte sui redditi, Iva, interessi o sanzioni di ammontare superiore a 50mila euro, con un’aggravante di pena (da uno a sei anni) per debiti maggiori di 200mila euro.

VEDI IL GRAFICO: Gli esempi

La fattispecie costituisce una tutela nei confronti dell’Erario, diretta non solo alla riscossione dei tributi, ma alla conservazione delle garanzie patrimoniali sulle quali potrebbe rivalersi in caso di inadempimento.

Si tratta di un reato di pericolo, per il quale non è necessaria la preesistenza del debito tributario, con la conseguenza che per ritenersi integrato è sufficiente che gli atti fraudolenti posti in essere siano idonei a vanificare un’ipotizzabile futura procedura di riscossione coattiva.

In altre parole, non è necessario che sussista un tentativo di riscossione in corso o un’iscrizione a ruolo, poiché va verificato se sia stato commesso un atto simulato per occultare i propri o altrui beni al fisco. Peraltro la Cassazione con la sentenza n. 15133 del 5 aprile 2018 ha chiarito che il valore dei beni sottratti fraudolentemente al pagamento delle imposte può essere inferiore a 50mila euro. L’offensività della condotta va infatti parametrata all’attitudine di ridurre o eliminare la garanzia patrimoniale, secondo un giudizio ex ante.

Inoltre è stato anche precisato che il reato di sottrazione fraudolenta non richiede l’accertamento di un delitto tributario presupposto (Cassazione 7177/2017 ).

Tuttavia, sebbene la giurisprudenza sul punto non sia univoca, è verosimile che per integrare il delitto sia necessaria quanto meno la conoscenza da parte del contribuente di un’attività di controllo dell’amministrazione. Se così non fosse si verificherebbe il reato in presenza di qualsiasi atto, ritenuto a posteriori simulato, cui poi seguirebbe la contestazione di una norma tributaria. Così, in assenza di qualsivoglia attività di controllo, appare difficile ipotizzare la sussistenza dell’illecito.

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità, anche con una recente sentenza (la 10161/2018), ha confermato che per il perfezionamento del delitto occorrono due condotte alternative:
– vendita simulata dei beni;
– compimento di atti fraudolenti.

Vendita simulata e frode
La vendita simulata è il negozio caratterizzato da una divergenza tra la volontà dichiarata e la volontà reale. Il programma contrattuale, quindi, non corrisponde alla effettiva volontà dei contraenti.

La nozione di atto fraudolento, invece, non è così univoca. Secondo la giurisprudenza di legittimità esso sussiste quando si tratta di:

– un’alienazione che sebbene effettiva, sia idonea a rappresentare una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero;

– uno stratagemma artificioso finalizzato a sottrarre garanzie in favore dell’erario;

– una condotta atta a vanificare l’esito dell’eventuale esecuzione tributaria coattiva.

Il concetto di frode richiamato dalla norma presuppone così non soltanto la lesione del diritto (di garanzia) dell’Erario, ma che la condotta sia attuata con l’inganno volto a configurare una situazione di apparenza diversa dalla realtà. In altre parole occorre che sembri ridotto il patrimonio, ma in realtà non lo sia. Non è pertanto sufficiente una vendita in sé e per sé, poiché è necessario che sia simulata o attuata con fraudolenza.

Va da sé, ad esempio, che la cessione di beni a un prezzo di mercato e il successivo incasso di denaro non integrano la fattispecie delittuosa, nemmeno se le somme riscosse siano destinate al soddisfacimento di debiti diversi dall’Erario.

Il soddisfacimento di altri creditori, infatti, non costituisce la fraudolenza richiesta dalla norma, se la cessione avviene senza alcuna simulazione o altri atti ingannevoli (sentenza 10161/2018).

Peraltro, è stato chiarito (Cassazione 13223/2016) che in ogni caso la presenza di tale attività simulatoria e/o fraudolenta non è sufficiente a integrare la condotta illecita, poiché occorre che la pretesa erariale non possa essere altrimenti garantita dal patrimonio del contribuente.

La prescrizione
Circa i termini prescrizionali si ricorda, che, rispetto alla maggior parte dei delitti tributari la sottrazione si prescrive in sei anni da quando viene commesso l’illecito ovvero in sette anni e sei mesi se, nel frattempo, sia intervenuta una causa interruttiva.

Il raddoppio dei termini segue le regole vigenti all’epoca dei fatti

Il raddoppio dei termini, disciplinato dall’articolo 43, comma 3, del Dpr 600/1973 e dall’articolo 57, comma 3, del Dpr 633/1972, nei testi applicabili all’epoca dei fatti, contempla esclusivamente l’obbligo della denuncia penale, ai sensi dell’articolo 331 del Codice di procedura penale, per uno dei reati regolati dal Dlgs 74/2000 e non anche la sua effettiva presentazione. A tale conclusione è giunta la Cassazione attraverso l’ordinanza 5126/2018 .

La Ctr della Lombardia ha accolto l’appello proposto da un contribuente avverso una sentenza della Ctp di Varese che ne aveva respinto il ricorso contro un avviso di accertamento per imposte dirette e Iva. La Ctr ha osservato, in particolare, che l’atto impositivo impugnato risultava essere illegittimo in quanto emesso ben oltre il termine decadenziale ordinario previsto dalla legge, non potendosi applicare, nel caso di specie, l’evocata disciplina del raddoppio dei termini contemplata per il caso di rilevanza penale della fattispecie concreta, in quanto la denuncia era stata proposta allorché tale termine ordinario risultava essere già scaduto ed essendo peraltro ciò previsto, quale limite temporale, dalla nuova normativa disciplinante la materia de qua (Dlgs 128 del 2015).
Contro la decisione l’agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione in opposizione al quale ha resistito con controricorso il contribuente. Con l’unico mezzo dedotto (articolo 360 del Codice di procedura civile, comma 1, n. 3) le Entrate hanno lamentato la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 43, comma 3, del Dpr 600/1973 e dell’articolo 57, comma 3, del Dpr 633/1972.

A parere del collegio di legittimità la censura è risultata essere fondata in quanto, in tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dall’articolo 43, comma 3 del Dpr 600/1973 e dall’articolo 57, comma 3, del Dpr 633/1972, nei testi applicabili “ratione temporis”, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’articolo 331 del Codice di procedura penale, per uno dei reati previsti dal Dlgs 74 del 2000 e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte Costituzionale nella sentenza 247 del 2011.

Inoltre, il raddoppio dei termini, disciplinato dall’articolo 43 del Dpr 600/1973 e dall’articolo 57 del Dpr 633/1972, non integra un’ipotesi di proroga dei termini ordinari, trattandosi di fattispecie distinte, disciplinate direttamente e autonomamente dalla legge in relazione a presupposti diversi, costituiti dal riscontro di elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale (per i primi) e dalla sussistenza di violazioni tributarie per le quali, invece, tale obbligo di denuncia non sussiste (per i secondi).

Quanto alla retroattività dello jus superveniens all’articolo 1, commi 130-132, della legge 208/2015, oggetto della relativa eccezione proposta dal contro ricorrente, pacifico che l’atto impositivo in questione sia stato notificato il 24 aprile 2014, la Suprema corte ha ribadito che, in tema di accertamento tributario, i termini previsti dall’articolo 43 del Dpr 600/1973 e dall’articolo 57 del Dpr 633/1972, nella versione applicabile ratione temporis, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, incidano le modifiche introdotte dalla legge 208 del 2015, tra le quali l’articolo 1 comma 132 ha inserito un regime transitorio che si occupa delle sole fattispecie non ricomprese nell’ambito applicativo del precedente regime transitorio – non oggetto di abrogazione – all’articolo 2, comma 3 del Dlgs 128/2015, in virtù del quale la nuova disciplina non si applica né agli avvisi notificati entro il 2 settembre 2015 né agli inviti a comparire o ai processi verbali di constatazione conosciuti dal contribuente entro il 2 settembre 2015 e seguiti dalla notifica dell’atto recante la pretesa impositiva o sanzionatoria entro il 31 dicembre 2015.

Fonte “Il sole 24 ore”

Omessi versamenti: per l’Ue possibile il cumulo di sanzioni amministrative e penali

La Corte di Giustizia con la sentenza di ieri nella causa C- 524/15 (si veda anche la pagina precedente) ipotizza la possibilità del cumulo delle sanzioni amministrative e penali nel caso di omesso versamento di imposte, ma condiziona tale cumulo alla verifica che gli effetti che si determinano non risultino eccessivi rispetto alla gravità del reato commesso e che, perseguendo un interesse generale, non violi il principio di proporzionalità. La domanda che ci dobbiamo porre (ovvero a cui devono rispondere i giudici nazionali) è se le fattispecie di omesso versamento e le relative sanzioni amministrative e penali previste rispondono effettivamente alle condizioni richieste.

Le norme unionali che informano le scelte del legislatore nazionale sono l’articolo 2 della direttiva 2006/112/CE, che prevede tutte le operazioni che sono soggette ad Iva, e l’articolo 273, che consente agli Stati membri di introdurre degli obblighi supplementari necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’Iva e ad evitare le evasioni.

Sul piano delle violazioni concorrenti bisogna far riferimento, da una parte, all’articolo 13 del Dlgs 471/97 e, dall’altra, all’articolo 10 ter del Dlgs 74/2000. La prima fattispecie prevede, in caso di ritardati o omessi versamenti, una sanzione amministrativa (definita dalla corte di natura penale) pari al 30% dell’importo non versato o versato in ritardo. In caso di versamento in ritardo la norma prevede, in presenza di un ritardo non superiore a 90 giorni, che la sanzione edittale sia ridotta alla metà (15%). Inoltre, nel caso di ritardo nel versamento non superiore a 15 giorni, tale sanzione è ulteriormente ridotta a un importo pari a un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo.

La fattispecie di reato di cui all’articolo 10 ter del Dlgs 74/2000, invece, prevede la reclusione da 6 mesi a 2 anni per chi, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, nn versa l’imposta dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a 250.000 euro per ciascun periodo d’imposta. Tale sanzione penale in base all’articolo 13 dello stesso Dlgs non si applica (rectius: il reato non è punibile) se prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti.

Le sanzioni considerate perseguono, come chiede la Corte, l’interesse generale di assicurare la riscossione integrale dell’Iva. Questo interesse però, seppure importante, non è di per sé sufficiente a consentire la cumulabilità delle sanzioni. In effetti, come specificato al punto 44 della sentenza, le sanzioni concorrenti devono riguardare scopi complementari vertenti su aspetti differenti della medesima condotta di reato interessata. Circostanza questa che nel caso di specie sembra non essere presente poiché entrambe le fattispecie sono dirette a sanzionare l’omesso versamento Iva, anche se con tempistiche differenziate. Al contrario, sul piano della proporzionalità delle sanzioni e dell’esistenza di norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni sia adeguato, è la stessa Corte che sembra individuare nelle norme e nei meccanismi attenuanti elementi sufficienti perché le condizioni siano soddisfatte. Ciononostante, la Corte evidenzia che i giudici sono chiamati a verificare se, in concreto, il cumulo sanzionatorio sia in linea con la gravità del reato commesso. E su questo punto, l’indagine è molto più complessa e solleva in concreto più di un dubbio.

Fonte “Il sole 24 ore”

L’iscrizione all’Aire non basta a provare la residenza fuori dall’Italia

È legittimo l’avviso di accertamento che attrae a tassazione in Italia i redditi accertati in capo al contribuente che, nonostante il trasferimento della residenza all’estero, mantiene in Italia i propri interessi familiari, sociali ed economici. La sola iscrizione all’Aire non esclude, pertanto, che il contribuente sia fiscalmente non residente in Italia. È questo il principio pronunciato dalla Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia, con la sentenza 28/03/2018 .

La vicenda, da cui trae origine la pronuncia, fa seguito alla notifica di un avviso di accertamento con cui venivano accertati maggiori imponibili in capo ad un contribuente ritenuto fiscalmente residente in Italia. A seguito del rigetto del ricorso il contribuente presentava appello censurando la sentenza impugnata nella parte in cui i Giudici avevano ritenuto insufficiente la mera iscrizione all’Aire per non essere considerato fiscalmente non residente.

I giudici della Ctr hanno respinto l’appello precisando che l’iscrizione del cittadino nell’anagrafe dei residenti all’estero non è elemento risolutivo per escludere la residenza fiscale in Italia quando è incontrovertibile che il contribuente ha mantenuto nel territorio dello Stato i propri interessi affettivi, sociali ed economici.

Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta (183 giorni) sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente. Sono considerati fiscalmente residenti anche tutti coloro i quali abbiano nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.

I giudici convergono quindi che è sufficiente, affinché un soggetto sia considerato fiscalmente residente in Italia, che si verifichi uno solo di essi essendo il requisito temporale e quello della sede principale dei suoi affari o interessi (domicilio) ovvero quello della dimora abituale (residenza), alternativi e non concorrenti.

I giudici hanno ritenuto determinanti, ai fini della configurabilità della soggettività passiva del contribuente, gli elementi offerti dall’Ufficio consistenti nella presenza, nel territorio italiano, dei familiari, di un’abitazione, della detenzione di quote di partecipazioni e la titolarità di rapporti di conto corrente con istituti nazionali. Oltretutto la Commissione sottolinea come nella fattispecie era onere del contribuente dimostrare la sua presenza all’estero per la maggior parte del periodo d’imposta al fine di soddisfare il requisito temporale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Abuso del diritto: il divieto non scatta quando le operazioni possono essere motivate

In ambito tributario, rappresenta condotta abusiva l’operazione che abbia, quale fattore preponderante e assimilante, la mira di eludere il fisco, così che il divieto alle menzionate operazioni non si manifesta nel caso in cui le stesse possano essere motivate differentemente rispetto al mero intento di conseguire un risparmio di imposta illegittimo, ferma restando l’incombenza, gravante sull’amministrazione finanziaria, di fornire la prova del disegno elusivo e delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, reputati irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel determinato risultato tributario. A tale conclusione è giunta la Suprema Corte attraverso l’ordinanza n. 4148/2018 , depositata in cancelleria il 21 febbraio 2018.

L’agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione nei confronti di una sentenza emessa dalla Ctr che ha confermato la decisione di primo grado nel giudizio introdotto da Alfa Spa attraverso l’impugnazione dell’avviso di rettifica della dichiarazione Irpeg con il quale era stato contestato il carattere elusivo di alcune operazioni collegate, determinando una maggiore imposta, conseguente ai maggiori ricavi derivanti dalla cessione di un’azienda.

La contestazione concerne la menzionata cessione, a opera della ricorrente (al prezzo di 100 milioni di lire), alla società Beta spa alla quale in precedenza, risultando quest’ultima neocostituita, la medesima azienda era stata affittata al canone di 7,5 miliardi di lire, elevato qualche settimana dopo a 9,5 miliardi. Due mesi dopo la cessione dell’azienda, i beni strumentali e le attrezzature, erano state vendute alla stessa Beta Spa per due miliardi.

L’ufficio ha ritenuto che l’accordo fosse stato stipulato in frode alla legge o quanto meno in modo elusivo, accertando induttivamente, ai sensi dell’articolo 37 bis del Dpr n. 600/1973, un maggiore valore del bene e determinando, conseguentemente, l’imposta mediante atto di accertamento.

Il giudice d’appello ha sostenuto che è onere dell’ufficio «provare che tra le parti sono “transitati” prezzi effettivi maggiori di quelli praticati, con conseguenti maggiori ricavi e dunque maggiori imposte», osservando che è necessario stabilire se, al di là del valore dichiarato o accertato, siano passate tra le parti somme superiori a quelle ricavate dalla lettura degli atti.

Avverso la sentenza di appello l’ufficio ha denunciato «la violazione e falsa applicazione del Dpr 29 settembre 1973, n. 600, articolo 37 bis in relazione all’articolo 360 Cpc, n. 3».
A parere del Collegio di Legittimità le censure risultano essere fondate. A norma dell’articolo 37 bis del Dpr n. 600/1973, infatti, sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti i fatti e i negozi, anche collegati fra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e a ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti.

Secondo il principio in più occasioni affermato dalla Corte, infatti, «in materia tributaria, costituisce condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, sicchè il divieto di siffatte operazioni non opera qualora esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando che incombe sull’amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale».

Fonte “Il sole 24 ore”

L’indebita compensazione allarga i confini

Il reato di indebita compensazione si realizza anche quando l’omesso versamento riguarda tributi differenti da imposte dirette e Iva. A confermare questa rigorosa interpretazione è la Corte costituzionale nella sentenza 21 febbraio 2018, n. 35 .

Il delitto di indebita compensazione previsto e punito dall’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000 prevede la reclusione da sei mesi a due anni nei confronti di chiunque non versi le somme dovute, utilizzando in compensazione crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a 50mila euro. È poi punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni se la compensazione riguarda crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai 50mila euro.

Tale differenziazione, introdotta dal Dlgs 158/2015, è giustificata dal fatto che l’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti, rispetto a quelli non spettanti, rappresenta una fattispecie estremamente offensiva. L’inesistenza presuppone, infatti, che il soggetto abbia agito con un intento fraudolento sicuramente maggiore, creando artatamente e ad hoc crediti mai esistiti al solo fine di non versare le imposte dovute.

Entrambe le condotte sono caratterizzate dal dolo generico consistente nella mera consapevolezza di utilizzare in compensazione crediti tributari inesistenti o non spettanti.

La Consulta, intervenuta su sollecitazione del Tribunale di Busto Arsizio in merito ad un possibile profilo di incostituzionalità del reato rispetto alla dichiarazione infedele (per le differenti soglie di punibilità), illustrando la fattispecie illecita sembra confermare l’orientamento rigoroso e prevalente della Corte di cassazione in base al quale il delitto in questione si presta a reprimere l’omesso versamento di somme attinenti a tutti i debiti – sia tributari, sia di altra natura – per il cui pagamento deve essere utilizzato il modello di versamento unitario.

Secondo i giudici di legittimità, infatti, risponderebbe del delitto contenuto nell’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000 non solo chi omette di versare le imposte dirette o l’Iva utilizzando indebitamente in compensazione crediti non spettanti o inesistenti concernenti altre imposte (anche regionali) o di natura previdenziale, ma anche chi si avvalga di analogo artificio per evitare di corrispondere tali ultime imposte ovvero contributi dovuti ad enti di previdenza (Cassazione, sezione III penale, 5177/2015; sezione II penale, 35968/2009). E questo anche se la disposizione risulta inserita nel Dlgs 74/2000, che, come emerge anche dal suo titolo, è posto a presidio unicamente delle imposte dirette e dell’Iva.

In altre parole è stato sempre condiviso, in dottrina come in giurisprudenza che il reato in esame sicuramente ricorre nei casi in cui attraverso l’indebita compensazione non siano versate le imposte sui redditi e l’Iva e ciò per almeno due ragioni:

– la fattispecie penale è stata introdotta per completare l’apparato repressivo di tutela degli omessi versamenti delle due imposte (e infatti venne previsto cronologicamente l’articolo 10-bis sugli omessi versamenti delle ritenute, l’articolo 10-ter sull’Iva e quindi il 10-quater ove tali omissioni siano consumate mediante indebite compensazioni);

– il reato è stato introdotto nel Dlgs 74/2000, emanato a seguito di specifica legge delega per l’introduzione di reati in materia di imposte sui redditi e Iva.

Più controverso e varie volte dibattuto, invece, se la fattispecie possa ritenersi integrata anche quando l’indebita compensazione non sia finalizzata a omettere il versamento di tali imposte (penalmente tutelate dal Dlgs 74/2000) ma altri tributi (si pensi all’Irap, ai tributi locali, eccetera) o i contributi previdenziali.

La principale motivazione addotta dai sostenitori di questa seconda e più restrittiva interpretazione circa l’ambito di applicazione del delitto si basa proprio su eventuali profili di incostituzionalità dell’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000 in caso di estensione a qualsivoglia tributo o contributo. In particolare, si sarebbe potuto configurare un eccesso di delega da parte del Governo che poteva disciplinare esclusivamente fattispecie penali in materia di imposte sui redditi e Iva e non anche riferite ad altri tributi o addirittura contributi previdenziali.

Ora la Consulta – pur non intervenendo specificamente sulla questione in quanto la sentenza era riferita a profili di incostituzionalità rispetto alla nuova soglia prevista per la dichiarazione infedele – nel descrivere la fattispecie ha ammesso, senza alcuna obiezione, che la giurisprudenza di legittimità ritiene estensibile alla fattispecie di indebita compensazione a qualunque tributo e contributo.

Fonte “Il sole 24 ore”

La seconda-prima casa sfida il Fisco

La Cassazione apre probabilmente una nuova era nella storia dell’agevolazione per l’acquisto della «prima casa». La sentenza 2565/2018 (si veda «Il Sole 24 Ore» del 3 febbraio) proclama infatti, a chiare lettere, che la proprietà di una casa «non idonea» a uso abitativo non ostacola l’acquisto agevolato di un’altra abitazione (senza dover necessariamente alienare la casa «preposseduta»). Si consolida così l’orientamento inaugurato con la sentenza 18128/2009 e l’ordinanza 100/2010.

Pertanto, quando la legge sull’agevolazione (la nota II-bis all’articolo 1, Tariffa parte I, allegata al Dpr 131/1986) dispone che non può comprare la «prima casa» il contribuente nella situazione di «prepossidenza» di un’altra casa, si dovrebbe interpretare tale normativa (secondo la Cassazione) come se dicesse che è impedito l’acquisto della «prima casa» al contribuente che abbia:

• nel medesimo Comune, la piena proprietà (o il diritto di uso, usufrutto o abitazione) di altra casa idonea all’uso abitativo;

• in qualsiasi parte del territorio nazionale, la piena o nuda proprietà (o il diritto di uso, usufrutto o abitazione) di altra casa, acquistata con l’agevolazione «prima casa».

Il ragionamento della Cassazione è che quando la legge prescrive l’«impossidenza» di altre case nel medesimo Comune, tale situazione vi sarebbe anche nell’ipotesi di «possidenza» di case che non si prestino a essere atte all’uso abitativo del contribuente. Si aprono però almeno tre problemi.

Il primo è che l’amministrazione non è mai stata d’accordo di dar rilievo alla pretesa inidoneità dell’abitazione preposseduta: con toni diversi, correlati alla legislazione tempo per tempo vigente, il Fisco ha espresso contrarietà a questo ragionamento nella risoluzione 86/E del 2010, nella circolare 1/E del 1994, nella risoluzione n. 311657 del 1989 e nella circolare 29/9/1449 del 1982.

Il secondo problema è che la legge impone, per ottenere l’agevolazione «prima casa», che il contribuente dichiari, nell’atto di acquisto di essere in una situazione di «impossidenza»; e sanziona la dichiarazione mendace pretendendo l’imposta ordinaria e la pena pecuniaria pari al 30% della differenza tra l’imposta agevolata e l’imposta ordinaria: in soldoni, il 9,1% della base imponibile se l’atto è tassato con il registro (e, quindi, sulla rendita catastale moltiplicata per 126) oppure il 7,8% della base imponibile se l’atto è a Iva (e, quindi, sul prezzo della compravendita). Chi si fida a sfidare il fisco rischiando la contestazione della dichiarazione mendace?

Il terzo problema è come tradurre in pratica il concetto di «inidoneità» della casa preposseduta: la Cassazione chiaramente dice che può trattarsi sia di una situazione oggettiva (e cioè attinente allo stato dell’immobile), sia di una situazione soggettiva (cioè inerente alle condizioni personali del contribuente). Inidonea potrebbe dunque essere una casa divenuta troppo piccola (per l’aumento del numero dei famigliari del contribuente in questione) o troppo grande (a causa della loro diminuzione); oppure, una abitazione prima tranquillamente utilizzabile ma che poi si renda inaccessibile (perché ubicata in un piano elevato non servito da un ascensore) a chi resti vittima di un incidente che ne comprometta la deambulazione; oppure, una casa posizionata in un luogo insalubre per il mutamento delle condizioni di salute del suo proprietario o che si renda inutilizzabile a causa della distanza dal suo luogo di studio o di lavoro; oppure, l’abitazione sulla quale il contribuente non abbia un diritto che non ne comporti «il potere di disporne come abitazione propria» (la Cassazione con sentenza 21289/2014 ha giudicato inidonea l’abitazione di cui il contribuente era comproprietario solo per il 5%); oppure una casa priva di impianti o servizi o resasi pericolante o fatiscente; eccetera. Insomma, si finisce per discutere (Cassazione 2278/2016) se sia idonea la casa in cui ogni bambino, di diverso sesso, non abbia la sua stanza.

Fonte “Il sole 24 ore”

Per la Cassazione sono irricevibili i ricorsi «assemblati»

La metodologia di redazione dei supposti ricorsi «assemblati» o «imbottiti», che racchiudono una pluralità di documenti integralmente riprodotti all’interno del singolo ricorso, in carenza di una distinzione sintetica dei loro contenuti, non soddisfa la richiesta di schematica rielaborazione degli avvenimenti processuali contenuta nel codice di rito per il giudizio di cassazione, infrange il principio di sinteticità che deve uniformare l’intero processo e impedisce di intendere le problematiche della circostanza, comportando da dissimulazione delle informazioni concretamente rilevanti per le argomentazioni sviluppate, tanto da risolversi in un difetto di autosufficienza del ricorso stesso. A tale conclusione è giunta la Corte di cassazione attraverso la sentenza n. 4155/2018, depositata in cancelleria il 21 febbraio 2018.

Con istanza risalente al 2008 una Spa ha richiesto all’agenzia delle Entrate il rimborso dei crediti di imposta Irap e Iva che l’ufficio, tuttavia, ha ritenuto di rigettare. Avverso il provvedimento di diniego di rimborso la Spa ha proposto ricorso dinanzi alla Ctp al quale l’agenzia delle Entrate si opposta.

La Ctp, con sentenza n. 19 del 29 gennaio 2010, ha accolto il ricorso dell’istante. Avverso la suddetta pronuncia l’agenzia delle Entrate ha proposto appello dinanzi alla Ctr al cui accoglimento si è opposta la Spa, la quale ha contestualmente richiesto la conferma della sentenza impugnata. La Ctr, tuttavia, ha respinto l’appello e di conseguenza l’amministrazione finanziaria ha ritenuto di proporre ricorso per Cassazione al quale la Spa ha resistito mediante controricorso.

A parere del collegio di legittimità, è risultata essere infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di sinteticità sollevata in udienza dal pubblico ministero, il quale ha rilevato che il ricorso è stato compilato con la tecnica del “conglomerato”, cioè con la riproduzione, senza alcuna selezione specifica dei contenuti rilevanti, di diversi documenti accolti nel fascicolo di merito in quanto, come statuito dalla Corte suprema, la tecnica di redazione dei cosiddetti ricorsi “assemblati” o “farciti” o “sandwich”, che implica una pluralità di documenti integralmente riprodotti all’interno del ricorso, in assenza di selezione sintetica dei loro contenuti, non soddisfa la richiesta di concisa rielaborazione delle vicende processuali contenuta nel codice di rito per il giudizio di cassazione, viola il principio di sinteticità che deve uniformare l’intero processo e impedisce di cogliere le problematiche della vicenda, comportando il “mascheramento” dei dati effettivamente rilevanti per le argomentazioni svolte, tanto da risolversi in un difetto di autosufficienza del ricorso stesso (Cassazione sentenza n. 18363 del 18/09/2015).

Nel caso di specie, tuttavia, i documenti riprodotti nel corpo del ricorso sono risultati facilmente individuabili e separabili dal restante contenuto del ricorso, che è pertanto riconducibile a dimensioni e contenuti rispettosi del canone di sinteticità previsto per il giudizio per Cassazione, e i motivi sono risultati adeguatamente formulati mediante la chiara enunciazione delle censure proposte (Cassazione Sentenza n. 12641 del 19/5/2017).

 Fonte “Il sole 24 ore”

Omesse ritenute, il liquidatore non risponde sempre

Il liquidatore risponde del reato di omesso versamento delle ritenute solo se ha violato le regole di riparto delle attività di liquidazione, previste dalla norma fiscale, e ha assegnato ai soci beni pur in presenza di debiti tributari. A fornire questo importante chiarimento è la Cassazione con la sentenza 8995/2018 depositata ieri.

Il legale rappresentante di una società ed il liquidatore succeduto nell’incarico per la procedura di concordato preventivo venivano indagati per il reato di omesso versamento di ritenute, per due periodi di imposta differenti.

Il Gip disponeva il sequestro preventivo diretto delle somme depositate sul conto corrente della società, finalizzato alla eventuale successiva confisca. Gli indagati ricorrevano al Tribunale del riesame, che annullava la misura cautelare. La procura ricorreva così in Cassazione.

La Suprema corte, confermando la decisione del Tribunale del riesame, ha innanzitutto precisato che il liquidatore non è escluso dalla responsabilità penale nell’ipotesi di omesso versamento di ritenute, ma tale responsabilità è espressamente delimitata dall’articolo 36 del Dpr 602/1973.

Essa sussiste solo riguardo alle imposte dovute per il periodo della liquidazione e per quelle anteriori, se il liquidatore non prova di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci e creditori ovvero di aver soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari.

Il reato si configura, in sostanza, se i soggetti preposti alla liquidazione distraggono l’attivo della società finalizzato al pagamento delle imposte e lo destinano a scopi differenti. Ne consegue che non è sufficiente ai fini della rilevanza penale, il mero inadempimento fiscale. Una diversa lettura della norma porterebbe alla conclusione che il liquidatore da un lato dovrebbe seguire un certo ordine per il riparto delle liquidità, dall’altro che proprio l’osservanza di tale regola possa comportare la commissione di un reato.

Circa il sequestro, la Cassazione ha rilevato che le somme non potevano rappresentare il profitto poiché erano stata accreditate successivamente alla commissione del reato su un conto creato per la procedura di concordato e che non erano correlate ai precedenti omessi versamenti di ritenute.

Fonte “Il sole 24 ore”

Avviso di mora, doppia strada per l’impugnativa

In caso di impugnazione di un avviso di mora o di altro atto della riscossione per omessa notifica della cartella di pagamento presupposta, il contribuente può agire, indifferentemente, sia nei confronti dell’ente impositore che ha proceduto all’iscrizione a ruolo, sia nei confronti dell’Agente della riscossione, non essendo in tal caso configurabile alcun litis consorzio necessario.

È questa la principale precisazione fornita dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 4578 depositata il 28 febbraio 2018 , pronunciandosi su una questione che, sempre più spesso, i professionisti, in qualità di difensori del contribuente, si trovano a dover affrontare.
Accade di frequente, infatti, che il contribuente venga a conoscenza dell’emissione di un atto impositivo presupposto nei suoi confronti solo a seguito, ad esempio, della notifica di una cartella di pagamento o di una lettera di presa in carico delle somme o, come nel caso di specie, di un avviso di mora da parte dell’Agente della riscossione.

In tale ipotesi, l’articolo 19, comma 3 del Dlgs n. 546/92 stabilisce che «la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo».

Pertanto, in caso di vizi di notifica dell’atto presupposto, che ne hanno comportato la mancata ricezione e la conseguente omessa impugnazione, in forza dell’articolo 19, comma 3 del Dlgs n. 546/1992, il contribuente può proporre ricorso avverso l’atto successivo nei termini ordinari (60 giorni più l’eventuale sospensione dei termini feriali), facendo innanzitutto valere le proprie ragioni in merito al vizio di notifica e poi eventualmente difendendosi sulla pretesa tributaria contenuta nell’atto presupposto.

La Corte Suprema ha, infatti, più volte sancito che al contribuente è data facoltà di contestare “alla radice” la pretesa, impugnando, in via cumulativa, l’atto “successivo” e l’atto “presupposto” e, con quest’ultima pronuncia in commento, che egli può agire in modo indifferente, sia nei confronti dell’ente impositore sia dell’agente della riscossione ed è ininfluente un litisconsorzio.

Detto ciò, è evidente che, nella maggior parte delle situazioni, il contribuente avrà interesse ad impugnare l’atto “successivo” eccependo l’omessa notifica dell’atto “presupposto”, in quanto, eccettuato il caso in cui l’ente creditore sia ancora nei termini per la notifica dell’atto in precedenza omessa, egli avrà buone possibilità di ottenere una sentenza favorevole che “chiuda” la questione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Procedure esecutive, sui limiti alla difesa parola alla Consulta

Quale tutela e quali limiti incontra il contribuente per opporsi all’esecuzione dei crediti tributari? Alla domanda dovrà rispondere la Corte costituzionale a seguito dell’ordinanza del 24 ottobre 2017 del Tribunale di Trieste (pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» numero 8 del 21 febbraio 2018) emessa dal giudice dell’esecuzione che dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 57 del Dpr 602/73 , in quanto limiterebbe l’opposizione all’esecuzione qualora la natura del credito sia di carattere tributario.

L’origine della controversia nasce dall’opposizione al pignoramento eseguito dall’Agenzia delle entrate-Riscossione per un credito Ici nei confronti di un creditore dell’opponente. Il presupposto del credito (Ici), su cui l’agente della riscossione basava il pignoramento, era stato precedentemente contestato dal contribuente in sede tributaria.

La questione che si pone il giudice remittente è rivolta a verificare l’effettiva corrispondenza al dettato costituzionale dell’articolo 57 del Dpr 602/73 nella parte in cui, in ambito tributario, non è ammessa l’opposizione all’esecuzione salvo per la pignorabilità dei beni.

Le giustificazioni per il rinvio alla Consulta nascono dal fatto che dalla lettera della norma il contribuente può proporre opposizione solamente per far valere le eccezioni concernenti la pignorabilità dei beni, venendo meno, per i rapporti di carattere tributario, ogni possibilità di contestare l’illegittimità e la carenza dei presupposti per l’esecuzione. Non è quindi ammessa l’opposizione per difetto di titolo esecutivo o per ragioni di merito. Infatti il contribuente, che decidesse di impugnare il provvedimento esattivo, si troverebbe nella condizione di vedersi probabilmente compromessa la possibilità di tutela laddove si consideri, da un lato, l’incompetenza del giudice tributario a dirimere le questioni inerenti gli atti dell’esecuzione forzata e, dall’altro, le limitazioni, anche in sede civile, derivanti proprio dall’articolo 57 del Dpr 602/73 che, in particolar modo, vieta espressamente l’eventuale opposizione.

Il giudice dell’esecuzione ritiene, quindi, che l’articolo 57 del Dpr 602/72 non sia conforme al dettato costituzionale sia sotto l’aspetto della disparità di trattamento tra contribuenti, sia perché limita il diritto di difesa, sia perché non permette al giudice dell’opposizione di entrare nel merito ed infine, perché limita e impedisce al contribuente, in modo indiscriminato ed ingiustificato, ogni difesa contro tutti gli atti dell’esecuzione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Omesso versamento, risponde il legale rappresentante in carica per l’acconto Iva

Il reato di omesso versamento di Iva oltre soglia è fattispecie a struttura mista, commissiva ed omissiva. In caso, però, di mancata coincidenza tra l’amministratore che sottoscrive e presenta la dichiarazione Iva e quello che successivamente gli subentra, il reato viene imputato soltanto a chi risulta in carica quale legale rappresentante al momento del termine ultimo per il versamento, coincidente con quello della corresponsione dell’acconto Iva del periodo d’imposta successivo. E questo per due ragioni.

Intanto la responsabilità a titolo di dolo eventuale è sempre in capo a chi deve ottemperare al controllo di natura contabile sugli adempimenti fiscali. Poi la configurabilità del dolo è intesa a tutelare l’interesse dell’Erario alla riscossione delle somme dovute in base alla dichiarazione Iva. Così la Cassazione, sezione terza penale, sentenza n. 8040/2018 depositata ieri.

La controversia

Un uomo, già legale rappresentante di una Snc, viene rinviato a giudizio per il reato di omesso versamento di Iva, che secondo l’accusa egli ha commesso con riferimento all’anno 2008 per oltre 322mila euro.

L’uomo si difende. In primo luogo, la condotta attiva del reato, consistente nella predisposizione e sottoscrizione della dichiarazione annuale Iva, non può essergli ascritta, in quanto, all’epoca dei fatti, egli non era legale rappresentante della società. In secondo luogo, non vi è prova del fatto che il potere di sottoscrivere in sua vece la dichiarazione Iva sia stato conferito al precedente amministratore.

Il Pm insiste nella reità della condotta e per la sua condanna. Il precedente amministratore ha agito in qualità dì rappresentante firmatario della dichiarazione mentre l’attuale imputato, in qualità di legale rappresentante subentrato, era tenuto al pagamento del risultante debito d’imposta.

Il Tribunale riconosce l’uomo colpevole e lo condanna a quattro mesi di reclusione, pena che viene poi confermata in appello. Neppure il ricorso per Cassazione dell’uomo riesce a ribaltare l’esito del giudizio e la condanna viene confermata.

La Cassazione

Secondo la Corte, trattandosi di fattispecie di reato a struttura mista, commissiva per la presentazione della dichiarazione e omissiva per il mancato versamento, anche in caso di mancata coincidenza tra chi presenta e sottoscrive la dichiarazione e chi poi gli subentra, il disvalore penale della condotta è sempre attribuibile a chi risulta in carica quale legale rappresentante al momento del termine ultimo per il versamento, coincidente con quello del versamento dell’acconto Iva per il periodo d’imposta successivo.

Questo perché:

•nei casi in cui il debito fiscale risultante dalla dichiarazione, ancorché sottoscritta da un terzo, non risulta versato, colui che è onerato dell’obbligo del controllo preventivo di natura contabile sugli adempimenti fiscali è anche investito della responsabilità a titolo di dolo eventuale;

•la configurabilità del dolo normativamente richiesto per la punibilità dell’imputato, riferita alla condotta omissiva penalmente rilevante, è volta a tutelare l’interesse dell’Erario alla riscossione delle somme dovute per Iva in base alla dichiarazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Credito Iva detraibile anche in assenza della dichiarazione annuale

Il contribuente può portare in detrazione l’eccedenza Iva anche in assenza della dichiarazione annuale finale, purché siano rispettati i requisiti sostanziali per poter fruire della detrazione.

Con la sentenza di ieri, n. 4392 , la Suprema Corte applica il principio cristallizzato dalla Sezioni Unite nel 2016 (sentenza n. 17757/16) per cui la neutralità dell’Iva non può essere messa in discussione per la mancanza o la non correttezza di una formalità. Pertanto, pur in mancanza della dichiarazione annuale, il credito Iva risultante da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti e detratto nei termini, va riconosciuto qualora tutti i requisiti sostanziali sono rispettati.

D’altronde non potrebbe essere altrimenti, dato che il diritto alla detrazione, costituendo parte integrante e fondamentale del meccanismo dell’imposta, in linea generale, non può essere soggetto a limitazioni, salvo specifiche deroghe. Si ricorda al riguardo l’orientamento dei giudici europei (ad es. Cgue, sentenza Idexx Laboratories Italia oppure sentenza Ecotrade) quale monito per l’amministrazione finanziaria a non imporre condizioni supplementari che potrebbero ostacolare l’esercizio della detrazione, laddove essa sia già in possesso delle informazioni necessarie a dimostrare che la sostanza del diritto è certa.

Restando su questa linea la sentenza di ieri è un riferimento in più per i contribuenti contro quei formalismi che potrebbero in qualche modo pregiudicare un principio cardine della detrazione e quindi della neutralità, minando alla natura stessa dell’imposta, cioè quella di evitare che, nelle fasi intermedie del ciclo economico, l’operazione possa essere, anche solo in parte, tassata.

Fonte “Il sole 24 ore”

Il compenso per la relazione giurata non va tarato sul valore della pratica

di Romina Morrone

L’onorario da corrispondere al commercialista per la relazione giurata ex articolo 161 della legge fallimentare deve essere ammesso al passivo fallimentare tenendo conto della sua determinazione con riferimento non al valore della pratica ma utilizzando i criteri individuati dall’articolo 31, lettera e), del Dpr 645/1994 a seconda che abbia stimato beni, diritti, aziende, partecipazioni sociali. Lo ha chiarito la Cassazione con l’ordinanza 3599/2018.

Il Tribunale di Livorno ha accolto l’opposizione di un commercialista allo stato passivo di una Srl, relativa al credito vantato per le sue prestazioni professionali, e ha ritenuto che le quattro relazioni giurate ex articolo161 della legge fallimentare, dovessero essere ricondotte tra quelle ex articolo 31, comma1, lettera a), del Dpr 645/1994, predisposte non solo a fini valutativi (per la determinazione del valore dell’azienda, dell’immobile e di beni conferiti nella società), ma anche come pareri motivati per fornire indicazioni sulla fattibilità del piano.

La curatela ha impugnato il decreto in Cassazione. Dopo aver evidenziato la mancata previsione, nella tariffa dei dottori commercialisti (Dpr 645/1994), della relazione giurata ex articolo 161, comma 3, della legge fallimentare (introdotto dal Dlgs 169/1997), a causa dello sfasamento temporale tra le due fonti, la Suprema corte ha accolto il motivo di ricorso, ritenendo adeguata la collazione dellarelazione tra le prestazioni indicate nella lettera e), articolo31 del Dpr 645/1994.

Ciò sia per il ruolo rilevante del professionista nelle procedure di crisi, vista la sua posizione di terzietà e di indipendenza rispetto al debitore, sia per l’affinità della prestazione professionale con le altre relazioni di stima previste (ex articoli 2343, 2343-bis, 2501-quinquies del Codice civile), sia infine perché la stessa norma non esclude affatto, da parte del tecnico, un apporto cognitivo ulteriore al mero conteggio. Conclusioni avvalorate anche dalla distinzione, nel Dm 169/2010, tra perizie, motivati pareri e consulenze tecniche di parte, da un lato, e valutazione di singoli beni, diritti, aziende o rami di azienda, patrimoni, partecipazioni sociali non quotate, e relazioni di stima previste dalla legge, dall’altro.

Fonte “Il sole 24 ore”

Sede in Lussemburgo, l’assenza di addetti non la rende fittizia

Ogni imprenditore è libero di scegliere il luogo di collocazione della propria sede, a prescindere che ciò dipenda da vantaggi fiscali. Tale comportamento è illegittimo, infatti solo se costituisce una costruzione fittizia e non effettiva, ma tale circostanza va provata dall’amministrazione in modo adeguato. A fornire questa interpretazione è la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza 2/2/2018 depositata il 20 gennaio scorso (presidente e relatore Montanari).

Una società con sede in Lussemburgo ricorreva dinanzi al giudice tributario contro degli avvisi di accertamento emessi dall’agenzia delle Entrate. Secondo l’ufficio, la società, che gestiva semplicemente partecipazioni, era “esterovestita” e aveva collocato la sede in Lussemburgo solo per i vantaggi fiscali determinati dalla tassazione locale.

Per di più, l’Agenzia contestava la veridicità degli amministratori di diritto, ritenendo fosse in realtà amministrata da soggetti residenti in Italia e in ogni caso, presso la sede non esisteva personale dipendente.

Tra i diversi motivi di ricorso, la società eccepiva la violazione della libertà di stabilimento della sede, previsto dal Trattato Ue. La scelta di un Paese per porre la sede, anche se finalizzata ad ottenere un minor carico fiscale, non integra un abuso del principio della libertà di stabilimento, fatta salva l’ipotesi in cui si tratti di una costituzione di puro artificio, ma che nella specie non risultava provata.

La Ctp di Reggio Emilia ha ritenuto fondata l’eccezione. Innanzitutto, ha richiamato i principi stabiliti dalla Cassazione (sentenza 43809/2015) secondo i quali l’imprenditore può decidere di collocare le proprie strutture dove meglio ritiene e dotarle secondo le proprie insindacabili valutazioni. L’eventuale vantaggio fiscale non è indebito solo perché vengono sfruttate le opportunità offerte dal mercato o da una più conveniente legislazione fiscale, contributiva e/o previdenziale, ma lo diventa se è ottenuto attraverso situazioni non corrispondenti alla realtà, ossia di puro artificio.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha costantemente affermato che è irrilevante se la scelta della sede dipende solo da ragioni di convenienza fiscale, poiché occorre accertare se il trasferimento è stato realmente effettuato, e che non è stata creata una posizione meramente giuridica e non effettiva. A tal fine, il domicilio fiscale va individuato nel centro effettivo di direzione e di svolgimento dell’attività, ossia dove risiedono gli amministratori e vengono convocate le assemblee.

Nel caso in esame, la Ctp ha rilevato che gli elementi indiziari indicati nell’accertamento dall’Agenzia erano privi di forza probatoria. La gestione di partecipazioni è un’attività di per sé esercitabile in qualunque Stato e non è necessaria la presenza di personale dipendente. Quanto poi al disconoscimento degli amministratori di diritto rispetto a quelli di fatto residenti in Italia, la Ctp ha ritenuto che non ci fossero prove a sostegno di tale tesi. Anzi, a ben vedere, in atti emergeva che il soggetto ritenuto presidente del consiglio di amministrazione, aveva partecipato ad una assemblea presso la sede in Lussemburgo, così smentendo la tesi erariale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Stop all’appello che non critica la sentenza di primo grado

Il mancato svolgimento di tutte le fasi previste dalla procedura per presentare il ricorso in appello può rivelarsi pericoloso per il contribuente che può vedersi dichiarare inammissibile l’azione proposta.

In caso di consegna diretta alla parte appellata, occorre farsi consegnare una ricevuta recante un numero di protocollo e la sottoscrizione e/o una sigla in grado di riferire la consegna al soggetto incaricato. Entro 30 giorni dalla sua proposizione, è necessario inoltre depositare in segreteria della commissione tributaria adita l’originale dell’appello notificato o copia dello stesso insieme alla ricevuta di consegna. Il gravame non può infine limitarsi a riportare il ricorso iniziale senza opporre critiche alla sentenza di primo grado e neppure in caso di accoglimento parziale ci si può dolere del fatto che la Ctp, pur essendo stato richiesto in primo grado l’integrale annullamento dell’atto impugnato, non si sia conformemente pronunciata in tal senso. Lo ricorda la Ctr Sardegna con la sentenza 204/5/2017 (presidente e relatore Corradini).

Il caso riguardava una contribuente che, dopo avere ricevuto un accertamento Ici per il 2004 relativo a un’area fabbricabile, ricorre in Ctp contestandone l’illegittimità. A suo giudizio, il valore determinato con la delibera adottata dal Comune deve essere ridotto alla metà in quanto solo il 50% dell’area è edificabile mentre il restante, essendo destinato ad edilizia pubblica ed economica/popolare, ha valore pressoché nullo.

Il Comune non si costituisce in giudizio e il giudice di primo grado il 26 gennaio 2011 accoglie parzialmente il ricorso della ricorrente dichiarando non dovute le sole sanzioni.

La contribuente non demorde e propone appello. Ma dopo averlo consegnato il 18 novembre 2011 al Comune non deposita il relativo fascicolo in Ctr. Il Comune non si costituisce, ma la Ctr dichiara inammissibile il ricorso sulla base delle seguenti considerazioni:

• l’appellante, in caso di consegna diretta dell’appello all’ente appellato, a pena di inammissibilità deve sempre farsi consegnare una ricevuta idonea a provare l’avvenuta notifica recante un numero di protocollo e la sottoscrizione e/o una sigla in grado di riferire la consegna al soggetto incaricato;

• l’appellante, entro 30 giorni dalla proposizione dell’appello, a pena di inammissibilità, deve depositare nella segreteria della commissione tributaria adita, l’originale dell’appello notificato o copia dello stesso insieme alla ricevuta di consegna e fatte salve le notifiche avvenute a mezzo di ufficiale giudiziario o messo notificatore, se avvenute prima del 13 dicembre 2014, era altresì tenuto al deposito della copia presso la segreteria della Ctp, obbligo poi eliminato dall’articolo 36 del Dlgs 175/2014 con efficacia non retroattiva;

• l’appellante, a pena di inammissibilità, non può limitarsi a trascrivere il ricorso iniziale senza opporre alcuna critica alla sentenza di primo grado e neppure può dolersi, in caso di accoglimento parziale, del fatto che la Ctp, pur essendo stato chiesto l’annullamento dell’atto impositivo, sarebbe stata obbligata a pronunciarsi in tal senso, in quanto il giudice tributario non può limitarsi ad annullare la pretesa ma deve sempre decidere nel merito.

Fonte “Il sole 24 ore”