La notifica del ricorso chiude la lite con il 5%

Le Entrate a Telefisco: se l’avviso è pervenuto entro il 19 dicembre 2018
A Telefisco 2019 le Entrate hanno chiarito alcuni dubbi sulla definizione delle liti pendenti in Cassazione. Il Dl fiscale, in caso di vittoria del contribuente in entrambi i giudizi di merito, ha previsto la chiusura della lite con il pagamento del solo 5% delle imposte pretese. Circa il periodo temporale di riferimento, la norma lasciava qualche dubbio parlando dei ricorsi «pendenti innanzi alla Corte di cassazione», non chiarendo se fosse sufficiente la pendenza dei termini per l’impugnazione, la notifica del ricorso o la costituzione in giudizio da parte dell’Avvocatura dello Stato. L’Agenzia ha precisato che per definire la lite con il 5%, oltre alla soccombenza dell’Ufficio in tutti i precedenti gradi, occorre la notificazione del ricorso per cassazione entro il 19 dicembre 2018. Quindi beneficiano del pagamento del 5% delle imposte pretese, senza interessi e sanzioni, chi ha sentenza favorevole in Ctp e in Ctr e ha già ricevuto la notifica del ricorso in Cassazione da parte dell’Avvocatura entro il 19 dicembre 2018. Conseguentemente, chi si trova nella medesima situazione, ma ha ricevuto il ricorso dell’Avvocatura dal 20 dicembre in poi, potrebbe definire la lite con il pagamento del 15%.
Nel caso invece di giudizi intermedi in entrambi i gradi di merito, e ricorso pendente in cassazione, la definizione per la parte che ha dato ragione al contribuente va effettuata con il pagamento del 15% (resta fermo il 100% sulla quota di soccombenza).
Il momento rilevante per l’individuazione del dovuto coincide con il 24 ottobre 2018 e pertanto pronunciamenti successivi sono irrilevanti. L’unica eccezione attiene la decisione della Cassazione senza rinvio, una pronuncia definitiva che pregiudica la possibilità di definizione. La norma, infatti, consente di aderire alla sanatoria solo a condizione che alla data di presentazione della domanda non sia intervenuta pronuncia definitiva. In ogni caso, tale ipotesi può riguardare solo una decisione della Cassazione, poiché per le sentenze di merito (Ctp e Ctr) i termini di impugnazione sono automaticamente sospesi, con la conseguenza che, nelle more della presentazione della domanda, non possono divenire definitive.
Sussiste ancora qualche perplessità per l’importo da versare in caso di sentenza di rinvio della Cassazione. La norma dispone che le controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte l’Agenzia, aventi ad oggetto atti impositivi, pendenti in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello in Cassazione e anche a seguito di rinvio, possono essere definite con il pagamento del 100% del valore di lite. Ne consegue così che anche per il rinvio, secondo la regola generale, è dovuto il 100%. Il dubbio sorge perché la relazione al Dl 119/2018 precisava che con una sentenza della Cassazione con rinvio, la controversia si considera pendente in primo grado senza decisione. Il nuovo comma 1-bis ha previsto che per i ricorsi pendenti in primo grado, la definizione possa avvenire con il pagamento del 90% (non più 100%) del valore della controversia. Occorre comprendere se, in caso di rinvio, sia dovuto il 100% o il 90%.
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Antonio Iorio

Nella definizione dei Pvc soltanto i maggiori imponibili

Nella dichiarazione solo elementi che derivano dal processo verbale
Per la definizione agevolata dei Pvc occorre presentare una particolare dichiarazione nella quale vanno indicati esclusivamente i maggiori imponibili (e le maggiori imposte dovute) derivanti dal processo verbale.
L’articolo 1 del Dl 119/2018 prevede che, ai fini della definizione dei processi verbali di constatazione, il contribuente deve presentare la «relativa dichiarazione per regolarizzare le violazioni constatate». In pratica, il contribuente deve inviare, per ciascun periodo d’imposta e per ciascuna imposta oggetto di constatazione, la relativa dichiarazione nella quale vanno indicati gli imponibili e le conseguenti imposte derivanti dal Pvc. La norma non la definisce espressamente come dichiarazione integrativa, anche perché la definizione agevolata può essere utilizzata anche da chi originariamente ha omesso di presentare la dichiarazione.
Nel Provvedimento delle Entrate del 23 gennaio scorso viene stabilito (punto 3.2) che occorre barrare nel frontespizio della dichiarazione relativa all’annualità oggetto di definizione la casella “correttiva nei termini” anche nel caso in cui è stata omessa la dichiarazione originaria. Probabilmente, tale modalità di indicazione si deve alla necessità di contraddistinguerla dalle altre dichiarazioni integrative (ad esempio, da quelle da ravvedimento operoso). Tuttavia, quello che risulta un po’ criptico, al di là della barratura della casella, è il fatto che nel Provvedimento (punto 3.1) si specifica che nella dichiarazione «a rettifica e integrazione di quanto originariamente dichiarato, sono indicati esclusivamente i maggiori imponibili, le maggiori imposte e gli elementi derivanti dalle violazioni constatate nel processo verbale». Sembrerebbe, in prima battuta, che a fronte di un reddito di 100 dichiarato originariamente e, ad esempio, di spese constatate come non inerenti per 60, il contribuente debba indicare nella dichiarazione solamente 60 e non 160. La cosa lascerebbe davvero perplessi perché sarebbero evidenti le difficoltà di calcolo, ad esempio, per i soggetti Irpef.
Il Provvedimento, sempre al punto 3.1, stabilisce che la modalità di indicare esclusivamente i maggiori imponibili e le maggiori imposte vale anche nel caso di omessa presentazione della dichiarazione. Da qui, forse, si comprende il significato di quanto stabilito dal Provvedimento. È chiaro, infatti, che se un contribuente ha omesso di presentare la dichiarazione non ha senso prevedere che lo stesso deve indicare esclusivamente i maggiori imponibili derivanti dalle violazioni constatate. Evidentemente, tutto ciò che andrà a dichiarare risulterà un maggiore imponibile. Così che l’affermazione contenuta nel Provvedimento va interpretata nel senso che il contribuente, nella dichiarazione che presenta a seguito dell’adesione agevolata al Pvc, dichiara “esclusivamente” ciò che deriva dal processo verbale stesso. In sostanza, nella specifica dichiarazione non possono trovare luogo altre vicende che non derivano dal verbale. Ad esempio, il contribuente non potrà indicare nuovi componenti negativi di reddito non riconosciuti dal verbale e non indicati nella dichiarazione originaria, così come non potrà indicare altri componenti positivi non derivanti dal verbale (che fruirebbero della non sanzionabilità).
Questo appare il significato da attribuire alla previsione contenuta nel Provvedimento. Va ad ogni modo rilevato che la volontà sembra essere quella di non assegnare la natura di vera e propria dichiarazione integrativa alla dichiarazione che si presenta in seguito alla definizione agevolata dei Pvc. Anche se tale lettura determina più di qualche perplessità.
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Dario Deotto

Coperto chi denuncia i contributi evasi

In merito al principio di automaticità delle prestazioni, derivanti dallo stralcio delle cartelle fino a mille euro importanti precisazioni sono state fornite dal presidente dell’Inps, Tito Boeri (si veda il Sole 24 Ore di ieri).

Nel caso dei lavoratori dipendenti, il diritto alle prestazioni previdenziali sussiste comunque, anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro. Tuttavia, tale diritto sussiste a condizione che il lavoratore denunci l’evasione (o l’omissione) contributiva entro i termini di prescrizione quinquennali all’istituto previdenziale, così da garantirsi la valutabilità di tale periodo ai fini pensionistici. In questi casi, i termini di prescrizione si protraggono a dieci anni, al fine di permettere all’Inps di procedere ad effettuare il recupero dei crediti.

Nell’ipotesi in cui il lavoratore si dovesse invece accorgere del buco contributivo oltre i termini di prescrizione quinquennali, egli potrà ricorrere alla costituzione di rendita vitalizia, cioè riscattare il periodo, con onere a proprie spese. Così facendo il periodo diventa utile sia fini del diritto, sia ai fini della misura del trattamento pensionistico. Rimane salva la facoltà del lavoratore di rivalersi sul datore di lavoro al fine di vedersi riconosciuta la restituzione dell’onere sostenuto, anche mediante chiamata in giudizio.

Il riscatto dovrà essere supportato da documentazione di data certa, come ad esempio il libretto di lavoro, le buste paga ed eventuali dichiarazioni rese all’epoca dal datore di lavoro. Il riscatto è ammesso, altresì, a favore dei familiari di artigiani e commercianti e dei coltivatori diretti, mentre rimane preclusa la possibilità di riscattare i periodi quando il soggetto obbligato al versamento contributivo coincide con il beneficiario della contribuzione stessa.

Anche gli iscritti alla Gestione separata dell’Inps possono procedere al riscatto dei periodi evasi, sempreché l’inadempimento dell’obbligo contributivo non coincida con la stessa figura tenuta al pagamento (committente/associante).

Il principio di automaticità delle prestazioni segna il passo all’altro principio indisponibile in materia previdenziale. Il Codice civile dispone, infatti, la nullità di qualsiasi patto finalizzato ad eludere gli obblighi relativi alla previdenza, al fine di salvaguardare gli interessi e la posizione dei lavoratori dipendenti. In pratica, lo stralcio delle cartelle, potrebbe comportare – nel lungo periodo – la mancata correlazione che intercorre tra la contribuzione versata e la prestazione pensionistica calcolata, tipica dei sistemi contributivi. Si tratta di un discorso simile ai periodi di contribuzione figurativa, per i quali non sussiste una provvista finanziaria, ma che risultano comunque utili ai fini del diritto e della misura di determinate prestazioni pensionistiche, come ad esempio, la pensione di vecchiaia.

di Fabio Venanzi – Fonte “Il sole 24 ore”

Saldo e stralcio sui debiti dall’attività di liquidazione

Disco rosso al saldo e stralcio per gli avvisi bonari. Possono invece senz’altro rientrare nella nuova sanatoria tutti i debiti derivanti dalla liquidazione delle dichiarazioni, eseguite in base agli articoli 36 bis, Dpr 600/1973, e 54 bis, Dpr 633/1972. Si tratta delle prime significative risposte dell’agenzia delle Entrate, fornite nel corso di Telefisco, sulla nuova definizione agevolata della legge di Bilancio 2019.
La prima risposta era abbastanza scontata ma lascia ugualmente insoddisfatti. Non si può fare a meno di notare che da tutte le sanatorie della pace fiscale restano sempre fuori gli avvisi bonari. Il contribuente che, magari con fatica, è riuscito a tenere in piedi la rateazione degli avvisi, anche con un Isee basso, non potrà fruire dello stralcio, solo perché non si è in presenza di importi affidati all’agente della riscossione.
La seconda risposta presenta, invece, alcuni profili di interesse. La liquidazione delle dichiarazioni può determinare l’emersione sia di imposte dichiarate e non versate sia la richiesta di maggiori imposte per il disconoscimento, ad esempio, di oneri deducibili. Detto in altri termini, la procedura di cui all’articolo 36 bis può essere meramente liquidatoria, quando si limita al recupero dei tributi evidenziati in denuncia, oppure accertativa, quando si risolve nella rettifica dei dati dichiarati. Occorre stabilire se le iscrizioni a ruolo conseguenti possano, in entrambi i casi, beneficiare dello stralcio.
A ben vedere, nella normativa di riferimento si richiamano i debiti rinvenienti sia dall’omesso versamento di imposte risultanti dalla dichiarazione sia dalle attività di liquidazione sopra indicate. La formulazione di legge potrebbe prestarsi ad una duplice lettura. Da un lato, potrebbe arguirsi che i due requisiti debbano coesistere. Se così fosse, sarebbero ammessi allo stralcio gli omessi versamenti delle imposte dichiarate purché questi emergano dalle procedure liquidatorie, in base agli articoli 36 bis/600 e 54 bis/633.
Si ritiene, tuttavia, che non sia questo il senso della legge e che la particella «e» che connette le due fattispecie (omesso pagamento di imposte dichiarate, da un lato, e iscrizioni da 36 bis, dall’altro) abbia la funzione di ammettere entrambe, separatamente considerate, ai benefici di legge. Questo, se si vuole, anche per motivi di semplificazione, poiché non sarebbe stato sempre agevole riscontrare con precisione le ragioni del recupero. Si pensi, ad esempio, alla correzione di errori materiali di riporto di somme commessi dal contribuente: la liquidazione che ne scaturisce come sarebbe stata interpretata ai fini dello stralcio?
La risposta dell’Agenzia sembra confermare la lettura estensiva dell’ambito della definizione agevolata, poiché si riferisce a tutti i tributi rivenienti dalle ridette attività di liquidazione, senza distinzione alcuna.
È di interesse anche l’ulteriore precisazione in ordine ai tributi ammessi alla sanatoria. La norma, in effetti, non detta alcuna elencazione tassativa delle imposte definibili. Ciò che conta è che il debitore sia una persona fisica e che l’affidamento derivi dalla liquidazione delle dichiarazioni annuali. Ne consegue che nulla osta a che lo stralcio includa anche tutte le imposte sostitutive dell’Irpef che, in quanto tali, sono oggetto delle medesime procedure di controllo. Si pensi ad esempio alla cedolare secca sulle locazioni immobiliari. L’agenzia delle Entrate ha confermato l’esattezza di questa conclusione.
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Luigi Lovecchio

Niente regime forfettario per i medici «intramoenia»

Le prestazioni svolte nelle strutture ospedaliere assimilate a lavoro dipendente

Compensi fatturati dall’ente e poi liquidati all’interno della busta paga

Le prestazioni mediche intramoenia ospedaliera hanno natura di reddito di lavoro dipendente e quindi non rilevano ai fini del regime forfettario. Questa in sintesi la risposta fornita dal Mef al question time in commissione Finanze alla Camera presentato da Giulio Centemero (Lega).
L’interpellante aveva posto il problema dell’applicazione del regime forfettario (legge 190/2014, articolo 1 comma 57 come risulta dopo le modifiche di cui alla legge n. 145/2018) per i medici lavoratori autonomi che hanno avviato l’attività con partita Iva prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni, i quali potrebbero essere penalizzati da un’interpretazione retroattiva della norma.
Lucida la risposta ministeriale, secondo cui la nuova causa ostativa al regime forfettario relativa ai rapporti con il proprio datore di lavoro non può avere effetti retroattivi; anzi, dal 2019 è più facile rientrarvi. Infatti, in passato un lavoratore dipendente o assimilato con reddito annuo di importo superiore a 30mila euro non poteva applicare il regime forfettario, mentre dal 1° gennaio 2019 questo è consentito, a condizione che con la partita Iva operi prevalentemente con soggetti diversi dal proprio datore di lavoro.
Ma la precisazione ministeriale riguarda in particolare la prestazione medica intramoenia che nulla ha a che fare con il regime forfettario. Infatti, i compensi percepiti dai medici del Servizio sanitario nazionale in relazione all’attività intramoenia (quindi nella sede del servizio medesimo) costituiscono redditi assimilati ai redditi di lavoro dipendente e quindi non possono rientrare nel regime forfettario.
Infatti, le prestazioni professionali svolte dai medici all’interno della struttura ospedaliera oltre l’impegno di servizio vengono fatturate dall’ente ospedaliero e vengono liquidate nella busta paga del medico dopo aver trattenuto una quota per le spese di struttura. Quindi, il medico non fattura nulla al paziente che ha chiesto la visita medica. Anche ai fini dell’Irap, l’articolo 2 del Dlgs n. 446/1997 dispone che per i medici che hanno sottoscritto specifiche convenzioni con le strutture ospedaliere per lo svolgimento delle attività all’interno delle predette strutture non sussista l’autonoma organizzazione e quindi l’imposta regionale non sia dovuta.
La nuova norma prevede che il contribuente non possa accedere al regime forfettario se, in aggiunta al rapporto subordinato, questo operi con partita Iva prevalentemente con il proprio datore di lavoro o con chi lo è stato nei due periodi di imposta precedenti o con soggetti ad esso riconducibili.
Quindi, i medici ospedalieri se sono autorizzati ad operare anche privatamente possono applicare il regime forfettario qualora i compensi percepiti nel 2018 per le attività professionali siano risultati non superiori 65mila euro, fatturando le prestazioni ai clienti privati.
Invece, non possono essere forfettari se fatturano direttamente all’ente ospedaliero da cui dipendono o presso il quale erano dipendenti nei due periodi di imposta precedenti, a meno che il fatturato con l’ente non risulti inferiore a quello fatto con altri clienti.
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Gian Paolo Tosoni

L’acconto 2018 blocca il bonus Il costo extra con i nuovi scaglioni

Le Entrate sul meccanismo dell’iperammortamento dopo la legge di Bilancio

Si applica il 150% alla parte di investimento correlata all’anticipo
Spetta l’iperammortamento del 150% anche se il costo a consuntivo supera la quota coperta dall’acconto del 20% pagato entro fine 2018. Il chiarimento è stato fornito dall’agenzia delle Entrate durante Telefisco 2019. L’eccedenza di costo sostenuto nel 2019, rispetto a quello prenotato, potrà comunque usufruire nella nuova agevolazione a scaglioni introdotta dalla legge 145/2018.
Le interrelazioni tra il nuovo iperammortamento con percentuali decrescenti per scaglioni di costo degli investimenti e quello vigente nel 2018, che prevedeva una maggiorazione unica del 150%, stanno sollevando più di un dubbio negli operatori. Molte domande poste dai lettori, durante l’appuntamento di Telefisco del 31 gennaio, hanno riguardato infatti la possibilità di scegliere, per gli investimenti del 2019, tra l’una e l’altra agevolazione.
Il nuovo iperammortamento a scaglioni – lo ricordiamo – è più vantaggioso di quello precedente solo quando gli investimenti realizzati nel 2019 (nonché nella coda temporale del 2020, prevista per ordini e acconti del 20% entro la fine di quest’anno) siano complessivamente inferiori a 3,5 milioni di euro. Per costi al di sotto di questa soglia, infatti, l’importo che si ottiene cumulando il 170% del primo scaglione (primi 2,5 milioni) e il 100% del secondo è superiore al 150% complessivo.
Le due agevolazioni (quella prevista dal comma 30 della legge 205/2017 e quella nuova, strutturata a scaglioni), anche se possono entrambe interessare costi per investimenti 4.0 sostenuti nel 2019, sono però autonome e si applicano in base alle precise condizioni di legge, senza possibilità di scelta. Chi ha confermato l’ordine al fornitore e pagato l’acconto del 20% entro la fine del 2018 utilizza obbligatoriamente, per i costi del 2019, la maggiorazione del 150% e non intacca gli scaglioni.
Durante Telefisco è stato, allora, chiesto alle Entrate cosa accade se, dopo aver fatto un ordine e un acconto alla fine del 2018, il costo dell’investimento 4.0 realizzato entro il 31 dicembre 2019 risulta superiore, rendendo apparentemente incapiente l’acconto. Si ipotizzi, ad esempio, un ordine per un macchinario iperammortizzabile effettuato a dicembre 2018 per un milione di euro, con pagamento dell’acconto di 200 mila euro, che viene realizzato nel 2019 con un costo a consuntivo (a seguito di revisione o migliorie in corso d’opera) di 1,1 milioni.
L’Agenzia ha stabilito che, in questo caso, il costo della macchina andrà ripartito tra quello sotto l’ombrello del 150% e quello che sfrutta l’iperammortamento a scaglioni. Innanzitutto, è confermato che l’importo contrattualizzato (un milione) usufruisce comunque della maggiorazione del 150% e non deve né può entrare in quella nuova. Al costo eccedente (100 mila) si applicherà invece la nuova maggiorazione a scaglioni, cumulando l’importo con gli altri eventuali investimenti effettuati nel 2019 (o nella coda del 2020).
L’Agenzia non ha invece trattato un ulteriore caso che si potrebbe presentare nell’intreccio tra i due incentivi: l’investimento prenotato (con acconto del 20%) nel 2018 che viene realizzato nel 2020. In questa situazione, la prenotazione del 2018 e il relativo acconto dovrebbero valere anche per sfruttare la coda 2020 del nuovo iper a scaglioni, ma risulterà opportuno, entro la fine di quest’anno, procedere a confermare nuovamente l’ordine al fornitore, dando atto che l’acconto già versato nel 2018 resta valido ed efficace anche per la realizzazione 2020.
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Luca Gaiani

Processo tributario telematico: attestano anche i difensori privati

Anche i difensori dei contribuenti potranno autenticare i documenti estratti dal fascicolo processuale e, in caso di spese di lite compensate, il contributo unificato rimane tutto a carico della parte privata. Sono questi i chiarimenti forniti dal Mef in occasione di Telefisco 2019 e pubblicati per la prima volta in questa pagina.
Attestazione di conformità
Tra le novità introdotte dal decreto fiscale (Dl 119/2018) in tema di processo tributario telematico c’è il potere di certificazione della conformità.
L’attestazione di fatto “garantisce” che la copia informatica (anche per immagine) di un atto processuale di parte, di un provvedimento del giudice o di un documento sia “identica” al suo originale o alla sua copia conforme su supporto analogico.
Il nuovo articolo 25-bis del processo tributario (Dlgs 546/1992) prevede che tale attestazione possa essere eseguita da «il difensore e il dipendente di cui si avvalgono l’ente impositore, l’agente della riscossione e i soggetti iscritti nel citato Albo per la riscossione degli enti locali» (secondo le modalità previste dal Codice dell’amministrazione digitale, Dlgs 82/2005).
La copia informatica o cartacea munita dell’attestazione di conformità equivale all’originale o alla copia conforme dell’atto o del provvedimento detenuto o presente nel fascicolo informatico. Nel compimento dell’attestazione, per espressa previsione normativa, i difensori e i dipendenti assumono a ogni effetto la veste di pubblici ufficiali.
Da una prima lettura della norma sembrava che tale possibilità di attestazione fosse riservata ai difensori della parte pubblica. Per questo motivo è stato posto un quesito in occasione di Telefisco 2019. Il Mef ha precisato che il nuovo articolo 25-bis è riferito ai difensori di tutte le parti, e quindi anche del contribuente, i quali potranno così estrarre copie e attestarne la conformità della copia. È stato altresì precisato che le attestazioni sono in esenzione del pagamento di eventuali diritti.
È un chiarimento utile alla vigilia del processo tributario telematico obbligatorio, infatti, dal prossimo 1° luglio: unitamente ad altre novità introdotte, come ad esempio le udienze in videoconferenza, consentirà effettivamente di gestire l’intero processo anche a distanza, con evidente beneficio in termini di spese per i contribuenti.
Spese di lite compensate
Un’altra questione controversa riguardava l’obbligo di restituzione da parte dell’ente impositore della metà del contributo unificato nelle ipotesi in cui il giudice tributario dispone la compensazione delle spese di lite. Il Mef ha innanzitutto precisato che il contributo unificato per il processo tributario è regolato da una specifica disciplina all’interno della quale non possono trovare applicazione, neanche in via analogica, le disposizioni previste per i processi civile e amministrativo.
Per il rito tributario, la Corte di cassazione ha individuato la natura di obbligazione ex legge del contributo unificato tributario gravante sulla sola parte soccombente, soltanto nel caso di espressa sua condanna alle spese del giudizio nelle statuizioni della sentenza (Cassazione 2691/2016 e 23830/2015). A ciò consegue che la restituzione del contributo unificato a carico del contribuente può avvenire solo in ipotesi di condanna alle spese di giudizio dell’ente impositore. Quando è invece disposta la compensazione, rimangono interamente a carico della parte privata, compreso il contributo unificato.
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Laura Ambrosi
Antonio Iorio

Omesso RW, sì all’integrativa lunga con pena fissa

L’omessa compilazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi può essere sanata mediante la presentazione di una dichiarazione integrativa a favore, come disposto dall’articolo 5, comma 1, del Dl 193/2016, al quale deve essere riconosciuta un’efficacia retroattiva in quanto norma di carattere interpretativo. In questo caso, la presentazione della dichiarazione tardiva è sanzionata in misura fissa. Questo è il principio espresso dalla Ctr della Sardegna 1143/4/2018 (presidente e relatore Rosella).
Nel caso esaminato l’ufficio notificava al contribuente un atto di irrogazione sanzioni per l’omessa compilazione del quadro RW del modello Unico 2005 (anno 2004) di attività finanziarie estere in violazione dell’articolo 4 del Dl 167/1990. In particolare, veniva applicata una sanzione in misura proporzionale (dal 3% al 15% delle attività omesse, in base all’articolo 5 del Dl 167/1990).
Nell’irrogare questa sanzione, l’ufficio non riconosceva la validità della dichiarazione integrativa mediante la quale, in data 8 maggio 2008, il contribuente aveva indicato in corrispondenza del quadro RW gli importi relativi ai trasferimenti da/verso l’estero, così come richiesto dagli articoli 2 e 4 del Dl 167/1990.
La Ctp di Cagliari ribadiva la legittimità dell’accertamento ed evidenziava l’impossibilità di escludere l’applicazione delle sanzioni connesse alla compilazione del modulo RW, in quanto l’integrativa era stata presentata oltre il termine previsto dall’articolo 2, comma 8, del Dpr 322/1998, vigente al momento della violazione (corrispondente al termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo). In senso conforme si veda la sentenza 13378/2016 delle Sezioni unite.
In appello la Ctr Sardegna ha ribaltato il primo grado, accogliendo parzialmente le ragioni del contribuente. Ha ricordato che i termini di presentazione dell’integrativa sono stati modificati dall’articolo 5, comma 1, del Dl 193/2016 (convertito nella legge 255/2016). Questo provvedimento ha modificato i commi 8 e 8-bis dell’articolo 2 del Dpr 322/1998 e ha riconosciuto la possibilità di integrare la dichiarazione dei redditi (sia a favore che a sfavore) fino alla scadenza dei termini con cui l’ufficio può procedere all’accertamento.
Pertanto l’integrativa a favore deve ritenersi valida non solo se presentata entro il termine previsto per la dichiarazione relativa all’anno successivo, ma anche oltre e fino alla scadenza dei termini di accertamento. Anche in caso sia stata presentata prima dell’entrata in vigore dell’articolo 5 del Dl 193/2016, in quanto norma di natura interpretativa e, come tale, con efficacia retroattiva. In ogni caso, la presentazione dell’integrativa, seppur valida, non esclude l’applicazione delle sanzioni, ma è soggetta alla pena in misura fissa (da 258 a 1.032 euro) prevista in caso di dichiarazione dei redditi tardiva.
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Marco Nessi
Roberto Torelli

Salvo il socio di minoranza della Srl che prova di non conoscere il Pvc

È Illegittimo l’avviso di accertamento notificato al socio di minoranza di una Srl «a ristretta base» che può dimostrare di non conoscere il processo verbale di constatazione (Pvc) da cui scaturisce l’accertamento societario, nel frattempo divenuto definitivo. Lo afferma la Commissione tributaria regionale delle Marche, con la sentenza 515/06/2018 (presidente Boretti, relatore Nitri).
La decisione valorizza l’effettiva conoscenza degli atti prodromici all’emanazione degli avvisi di accertamento, quale indispensabile elemento alla base del principio del contraddittorio e del diritto di difesa del contribuente (in senso contrario, si vedano la Ctp Caltanissetta 1176/01/2016 commentata sul Il Sole 24 Ore del 12 dicembre 2016).
L’avviso di accertamento (basato su un Pvc della guardia di Finanza) notificato alla società (Srl composta da due soci) si era reso definitivo per assenza di impugnazione, mentre quello notificato al socio di minoranza (non amministratore), secondo la Ctp, era da considerarsi illegittimo per violazione dell’articolo 42 del Dpr 600/1973. Tale disposizione prevede, a pena di nullità, che se la motivazione dell’atto di accertamento fa riferimento a un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama, salvo che non ne riproduca il contenuto essenziale. Il che, secondo i giudici di primo grado, non era avvenuto nel caso di specie.
L’agenzia delle Entrate obiettava sul punto, sostenendo che il Pvc doveva comunque ritenersi conosciuto da entrambi i soci, considerata la ristrettezza della base sociale.
La tesi non convince la Ctr, che conferma la decisione di primo grado dopo aver verificato che la motivazione dell’avviso di accertamento conteneva solo un breve riferimento al Pvc notificato alla società, senza alcuna ulteriore indicazione circa il fondamento del maggior reddito accertato. Ciò ha privato il contribuente della concreta possibilità di controdedurre nel merito dei maggiori ricavi imputati alla società e, conseguentemente, dei maggiori imponibili a lui attribuiti.
La «trasparenza sostanziale» delle piccole Srl – sconosciuta al legislatore ma costantemente affermata dalla giurisprudenza di legittimità (si veda Il Sole 24 Ore del 16 e del 30 ottobre 2017) – pone non pochi problemi sotto l’aspetto della tutela del diritto di difesa del socio minoritario, spesso completamente ignaro delle vicende societarie.
Sul punto la Cassazione (ordinanza 15542/2017) non ritiene applicabile a questa fattispecie l’istituto del litisconsorzio necessario (articolo 14, Dlgs 546/92), ritenuto inevitabile sia per i soci delle società di persone (Sezioni unite 14815/2008) che per le Srl che hanno optato per il principio di trasparenza in base all’articolo 116 del Tuir (pronunce 9751/2017 e 24472/2015).
Si è affermato, invece, il diverso principio del «rapporto di pregiudizialità necessaria», secondo cui il procedimento relativo al socio deve essere sospeso (in base all’articolo 295 del Codice di procedura civile e dell’articolo 39, comma 1-bis, Dlgs 546/92), in attesa che divenga definitivo quello relativo alla società (tra le altre, ordinanza 8988/2017). Nel caso di specie, tuttavia, tale rapporto non rilevava, essendosi oramai consolidato l’accertamento verso la società.
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Giorgio Gavelli

Fattura elettronica, da AssoSoftware un tracciato per la Gdo

Tra le grandi promesse della fatturazione elettronica, una in particolare ha contribuito alla sua recente entrata in vigore. Si tratta della possibilità di realizzare un’automazione completa dei processi amministrativi e gestionali grazie al trasferimento tra cedente e cessionario dei dati elaborabili presenti nella fattura elettronica.

In questo approfondimento voglio fare alcune considerazioni su quanto è stato effettivamente finora realizzato e su quanto c’è ancora da fare affinché questa promessa possa davvero considerarsi concretamente e pienamente mantenuta.

L’automazione dei processi legati al ciclo attivo di fatturazione, che preveda non solo la contabilizzazione delle fatture emesse, ma anche la riconciliazione con gli ordini, i Ddt, il magazzino, eccetera, senza l’intervento dell’operatore è una delle grandi promesse della fatturazione elettronica. Cui si collega inevitabilmente l’automazione, lato ciclo passivo, dei processi di contabilizzazione delle fatture di acquisto, con tutti i risvolti gestionali connessi.

Nella spinta all’automazione, stanno giustamente entrando – forse in modo un po’ dispotico – le imprese più strutturate, in particolare quelle della grande distribuzione (Gdo) che, godendo della posizione privilegiata di “grandi clienti”, stanno imponendo ai propri fornitori l’inserimento di una serie di informazioni appositamente codificate nella struttura Xml, che rendono possibile l’automazione dei processi gestionali.

La domanda che quindi sorge spontanea è: a che punto siamo oggi – che siamo entrati pienamente nell’era della fatturazione elettronica – con la digitalizzazione di tutti i processi amministrativi e gestionali? In altre parole, è tutto già pronto e perfettamente automatizzato, oppure c’è ancora qualcosa da fare? E quanto resta ancora da fare?

Chiaramente molto è stato fatto, ma evidentemente la risposta a questa domanda è si può fare ancora tanto. Risposta che porta sempre con sé l’obiezione che ci siamo tutti fatti cogliere impreparati su questi aspetti, che da anni sono decantati come vantaggi assoluti della fatturazione elettronica. In proposito ci sentiamo però in dovere di fare alcune utili riflessioni, anche di tipo tecnico. Suddividiamo l’analisi per punti:
•l’attuale struttura della fattura elettronica non contempla, se non marginalmente, l’indicazione strutturata di tutte le informazioni utili ad automatizzare tutti i processi gestionali;
•l’attuale struttura della fattura elettronica prevede però la possibilità di inserire in un formato non codificato, ma codificabile convenzionalmente tra le parti, ulteriori informazioni sia di corpo che di rigo.

Ne conseguono alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che poter acquisire già dal 1° gennaio 2019 in modo automatico sui propri gestionali la maggior parte dei dati delle fatture di acquisto (importi, descrizioni di rigo, aliquote e nature Iva, eccetera) è un primo passo molto importante, che rende la registrazione delle fatture più rapida e sicura rispetto alla digitazione manuale dei dati, ancorché l’operatore debba per il momento continuare a effettuare alcune operazioni manuali per completare la registrazione.

La seconda è che non è del tutto vero che si siano fatti tutti cogliere tutti impreparati su questi aspetti. Il problema è esclusivamente di comunicazione. Gli addetti ai lavori, che da anni conoscono l’attuale tracciato, il medesimo che dal 2014 è utilizzato per la fatturazione alla Pa, hanno ben chiaro da sempre che un’automazione condivisa sarà possibile e si potrà raggiungere quando, all’interno delle fatture emesse, i fornitori inseriranno tutte le informazioni necessarie, in modo strutturato ed elaborabile.

Ma che cosa significa «in modo strutturato ed elaborabile»? Si può già fare qualcosa? E se sì, perché non è stato già fatto? La risposta a questo legittimo interrogativo è complessa e richiede un esame articolato dei fatti.

La fattura elettronica è nata come obbligo – com’è noto a tutti – per esigenze fiscali, in particolare di controllo delle frodi in ambito Iva. Per questo motivo tutta la sua gestione è stata affidata dal nostro legislatore all’agenzia delle Entrate, che si è concentrata su tutti gli aspetti che riguardavano l’ambito fiscale.

Gli aspetti gestionali sono stati quindi lasciati alla libera impostazione degli stakeholders (tra cui le Gdo), che però sono molti e finora non si sono ancora organizzati per concordare soluzioni comuni.

L’unico soggetto che da subito ha proposto un tracciato codificato valido per tutti è proprio AssoSoftware, che da quasi due anni ha ufficializzato una codifica comune che utilizza i campi dedicati agli aspetti gestionali contenuti all’interno dell’attuale schema Xml ufficiale dell’agenzia delle Entrate. Si tratta di un tracciato pubblico e libero, visionabile sul sito istituzionale www.assosoftware.it e utilizzabile da chiunque sia interessato, senza vincolo alcuno, cui hanno aderito i principali produttori di software associati che ne garantiscono l’elaborabilità.

AssoSoftware inoltre, in qualità di socio di Uninfo (Ente italiano di normazione sulle tecnologie informatiche federato all’Uni), ha intrapreso un percorso di sviluppo e standardizzazione del suo arricchimento informativo che dovrebbe portare dapprima alla pubblicazione del documento tecnico come «Prassi di riferimento Uni» e a seguire a proporre al Cen (Comitato Europeo di Normazione) tale prassi come estensione italiana del prossimo standard europeo sulla fatturazione elettronica.

Dunque, per rispondere al quesito, sì si può già fare, tuttavia ben pochi soggetti si sono fino a questo momento potuti dedicare e hanno potuto richiedere le necessarie implementazioni dei propri software (il che è naturale, visto che il rischio di una proroga ci ha accompagnato fino al 1° gennaio 2019), per cui ci aspettiamo nei prossimi mesi un’evoluzione dei processi da parte di molti stakeholders che porteranno via via a un’automazione sempre più spinta dei processi.

Il nostro suggerimento, soprattutto nei confronti delle Gdo che hanno necessità particolari e specifiche, è quello di non adottare soluzioni proprietarie la cui implementazione da parte dei produttori software che realizzano le procedure informatiche costituirebbe un costo addebitabile esclusivamente a un solo loro cliente (il fornitore della singola Gdo), ma è invece di adottare il tracciato integrato AssoSoftware, che è un tracciato nazionale.
Ma facciamo un caso specifico: supponiamo che la richiesta della Gdo al proprio fornitore sia di far inserire all’interno del tracciato il «Centro di Costo/Punto Vendita» a cui destinare la merce acquistata, come si dovrebbe implementare il contenuto della fattura Xml?

Leggendo le specifiche tecniche del tracciato AssoSoftware vediamo che è previsto il codice «AswCenCost» proprio per identificare il centro di costo da parte del mittente. A questo punto usando le indicazioni delle specifiche tecniche andremo a implementare il blocco [2.2.1.16] AltriDatiGestionali utilizzando i seguenti tipi dato convenzionali:
•[2.2.1.16.1] TipoDato = “AswCenCost” nel caso di Centro di costo/Punto Vendita
•[2.2.1.16.2] riportare il valore del Centro di costo/codice del punto vendita destinatario della merce.

In questo modo il software della Gdo potrà elaborare le fatture in arrivo e smistarle/contabilizzarle correttamente.

Nel caso in cui il tracciato AssoSoftware dovesse rivelarsi non idoneo a gestire determinate problematiche, l’Associazione si rende disponibile – su richiesta che pervenga per il tramite dei propri associati o anche direttamente nel caso di Gdo di grande rilevanza – a integrare tale tracciato, senza costo alcuno per il richiedente. La soluzione proposta da AssoSoftware è chiaramente una soluzione di mercato, nata per far fronte a esigenze gestionali, che – come dicevamo poc’anzi – non essendo di interesse dell’agenzia delle Entrate sono state implementate in modo non codificato nell’attuale schema Xml.

L’auspicio è che, partendo dall’iniziativa di AssoSoftware, si apra un confronto vivo con tutti gli stakeholders interessati che porti a condividere codifiche e convenzioni di carattere gestionale per giungere veramente a un’unica «estensione nazionale della fattura elettronica».

Fonte “Il sole 24 ore”

Cessazione di attività, rimborso Iva per i beni ceduti al valore inferiore di acquisto

In caso di cessazione dell’attività, il diritto al rimborso dell’Iva non può essere negato se il rifiuto si fonda su di un avviso di accertamento basato sull’incongruità che il corrispettivo dei beni ceduti fosse inferiore rispetto al costo di acquisto, soprattutto qualora l’operazione siano state considerate, dallo stesso Ufficio, come effettive ed esistenti. Va da se che, il diritto alla detrazione e, di conseguenza il rimborso dell’Iva, non possono essere negati in presenza del solo scostamento del corrispettivo rispetto al valore di mercato dei beni e in assenza di intenti fraudolenti o abusivi, come confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità in senso favorevole al contribuente.
A confermare tale orientamento è la Commissione tributaria provinciale di Caserta con le sentenze 6405 e 6406 del 21 dicembre 2018.

La vicenda tra origine, in sintesi, dal diniego di rimborso dell’Iva opposto dall’amministrazione a seguito della notifica di un avviso di accertamento. In pratica era accaduto che il contribuente, resosi conto che l’attività intrapresa non era remunerativa, provvedeva alla vendita dei beni aziendali ad un prezzo inferiore al costo e conseguentemente cessava l’impresa richiedendo il rimborso dell’Iva maturata nel corso del periodo d’imposta. Secondo l’Ufficio si trattava di operazioni prive dei requisiti di economicità e, pertanto, rettificava l’operazione sia ai fini Iva sia ai fini delle imposte dirette. Quest’ultime però, venivano annullate avendo l’Ufficio riconosciuto l’emersione di una minusvalenza in luogo della plusvalenza originarmene accertata.

La verifica degli atti in causa ha portato il collegio a rilevare la mancanza dei presupposti giuridici legittimanti l’avviso di accertamento poiché, la scelta di svendere i beni materiali era maturata a seguito della presa di coscienza dell’insussistenza della marginalità economica dell’impresa che l’Agenzia non aveva mai contestato. Quindi, il diniego del rimborso emergente a seguito della cessazione dell’attività d’impresa risultata improduttiva non poteva essere giustificato in assenza di elementi e altre circostanze finalizzate al risparmio fiscale.
Secondo i giudici, pertanto, la sola antieconomicità non può essere motivo sufficiente per negare la detrazione; quest’ultima, infatti, può essere contestata nel caso in cui il comportamento contrario ai canoni dell’economicità rilevi come ulteriore indizio di non veridicità dell’operazione o di non inerenza.
I giudici convergono nel ritenere che, negare il diritto alla detrazione, basandosi sul valore di mercato, senza tener conto dell’effettivo corrispettivo percepito, non solo contrasterebbe con i canoni del diritto unionale, ma lederebbe il principio cardine della neutralità dell’Iva in capo ai soggetti passivi.

Fonte “Il sole 24 ore”

Aliquota Iva ordinaria per le bevande proteiche

di Anna Abagnale e Benedetto Santacroce
Le cessioni di “gel energetici” e “bevande proteiche” sono soggette all’aliquota Iva ordinaria, e non a quella agevolata del 10% prevista al punto 80) della tabella A, parte III, allegata al Dpr 633/1972.

Con la risposta n. 12 di ieri, l’amministrazione finanziaria ritorna, dopo non appena dieci giorni (si veda risposta n. 8 del 18 gennaio 2019 e prima ancora risposta n.1 del 4 settembre 2018), sul tema del trattamento Iva applicabile agli integratori alimentari e ai prodotti nutrizionali.

La difficoltà del contribuente nello stabilire se prodotti di questo genere rientrino nella disciplina Iva agevolata, in quanto «preparazioni alimentari non nominate ne comprese altrove (v.d. ex 21.07) esclusi gli sciroppi di qualsiasi natura», è collegata alla diversa classificazione doganale che i prodotti in argomento possono subire in relazione alla loro composizione.

Nell’ultimo caso sollevato dal contribuente, l’agenzia delle Dogane aveva già classificato i prodotti con codice NC 2202 9919 e 2202 999, e non NC 21.06. Considerando che tale ultimo codice NC 21.06 corrisponde alla voce 21.07 della Tariffa doganale in vigore al 31 dicembre 1987, richiamata al punto 80) della Tabella A, parte III, allegata al DPR 633/1972, l’esclusione dalla stessa comporta di conseguenza l’esclusione dall’applicazione dell’Iva al 10%.

La correlazione fra i beni elencati nella tabella e le voci doganali non è sempre di facile interpretazione. In particolare, nei casi in cui non è menzionata né la relativa norma né la voce doganale, per stabilire la corretta aliquota Iva di un prodotto, occorre far riferimento alle comuni regole merceologiche di identificazione dei beni. Per questo motivo è necessario sempre verificare in dettaglio il caso concreto e rivolgersi alle amministrazioni finanziarie laddove sussistano delle difficoltà.

Fonte “Il sole 24 ore”

La Pec delle Entrate obbliga i sostituti d’imposta ad aggiornare i dati

La Pec con la quale l’agenzia delle Entrate rende noto al sostituto d’imposta che il suo consulente del lavoro, autorizzato alla ricezione dei risultati contabili dei modelli 730-4, ha comunicato la risoluzione del rapporto di delega, impone al datore di lavoro di provvedere all’aggiornamento dell’indirizzo telematico. Se non adempie, l’Agenzia cancella l’indirizzo e il sostituto è tenuto a compilare e a inviare entro il 7 marzo il quadro CT della certificazione unica. Lo precisa la circolare n. 3/E del 25 gennaio 2019 con la quale la Direzione centrale dei servizi fiscali sottolinea come diversi sostituti, nonostante l’invito formulato dall’Agenzia, non abbiano comunicato il nuovo indirizzo al quale devono essere inviate le risultanze dei modelli 730.

La questione trae origine dall’articolo 2 del decreto legislativo 175/2014 il quale, modificando l’articolo 16, comma 4-bis, lettera b), del Dm 164/1999, ha previsto che a partire dal 2015 i sostituti d’imposta devono comunicare, entro il 7 marzo, la sede telematica dove ricevere i modelli 730-4 attraverso il flusso informativo delle certificazioni uniche (Cu).

La comunicazione della sede telematica può essere effettuata con la Cu, attraverso la compilazione dell’apposito quadro CT, oppure con il modello “Comunicazione per la ricezione in via telematica dei dati relativi ai modelli 730-4 resi disponibili dall’Agenzia delle Entrate” (Cso). Il quadro CT è riservato ai sostituti d’imposta che trasmettono almeno una certificazione di redditi di lavoro dipendente e che non hanno presentato, a partire dal 2011, il modello Cso.

Tenuto conto che le Cu devono essere presentate entro il 7 marzo, e che sono considerate tempestive le Cu inviate entro 5 giorni dalla ricevuta di scarto, al fine di gestire i processi relativi all’acquisizione dei dati delle comunicazioni per la ricezione in via telematica dei modelli 730-4, dopo la prima metà del mese di marzo non è più consentito inserire all’interno della Cu il quadro CT. Ne consegue che l’Agenzia prenderà in considerazione solo i dati contenuti nell’ultimo invio effettuato entro la predetta data (circolare 4/E/2018). Il modello Cso è invece utilizzato dai sostituti d’imposta che non hanno presentato, a partire dal 2011, l’apposito modello Cso e che non hanno trasmesso il quadro CT, oppure nel caso in cui intendano variare i dati già comunicati a partire dal 2011 con il modello Cso o con il quadro CT della Cu. Detto modello deve pertanto essere utilizzato per modificare: la sede telematica propria o dell’intermediario già scelto; l’intermediario sostituito con altro intermediario; l’utenza telematica da Fisconline a Entratel; l’intermediario con il sostituto stesso o viceversa. Potrebbe però verificarsi che sia l’intermediario (normalmente il consulente del lavoro) a comunicare tramite Pec alle Entrate l’avvenuta risoluzione del mandato, a suo tempo conferitogli dal proprio cliente, per ricevere telematicamente i modelli 730-4. In tal caso l’Agenzia invia a quest’ultimo un messaggio Pec con il quale lo invita ad effettuare la variazione comunicando, con il modello Cso, il nuovo intermediario o la sostituzione dell’intermediario con se stesso.

Qualora il sostituto non adempia, l’Ade provvederà alla cancellazione dell’indirizzo telematico dell’intermediario che ha reso nota la cessazione del rapporto, con la conseguenza che il sostituto sarà tenuto in sede di trasmissione delle Cu, entro il 7 marzo, a compilare il quadro CT, per comunicare il nuovo indirizzo telematico non essendo più possibile avvalersi del modello Cso.

Fonte “Il sole 24 ore”

Interessi passivi, le modifiche sulla deduzione portano nuove penalizzazioni alle imprese

Modifiche a pioggia dal decreto di recepimento della direttiva antielusione, ma senza lo stravolgimento delle regole interne che erano in gran parte già allineate con i principi comunitari. Il Dlgs 142/2018 interviene su molte disposizioni del Tuir, ma non tocca la norma generale anti-abuso e neppure i principi base del sistema.

Fiscalità di vantaggio
Un’ampia area di modifiche ha riguardato le disposizioni sui paesi a fiscalità privilegiata e le relative ricadute in termini di imposizione di dividendi, capital gain e Cfc. Si tratta dell’ennesima riscrittura dei criteri di selezione dei paradisi fiscali, dopo l’abbandono delle «black list» sostituite appena tre anni fa da una analisi fai da te da parte dei contribuenti. Dal 2019, si cambia ancora per passare ad un doppio binario: test della tassazione effettiva per le partecipazioni di controllo e verifica della aliquota nominale per quelle sotto soglia, auspicando che le Entrate forniscano presto agli operatori istruzioni complete e, laddove possibile, modalità semplificate per svolgere i confronti richiesti dalla legge.

Gli interessi passivi
L’altro intervento correttivo si è focalizzato sulla disciplina degli interessi passivi. Il nostro Rol, in vigore da oltre 10 anni, era sostanzialmente adeguato ai criteri comunitari. Ciononostante, il legislatore ha inteso riscrivere l’intero articolo 96 del Tuir scardinando, tra l’altro, alcune regole poste a tutela dei contribuenti (il cui contenuto non pareva, peraltro, poter stimolare comportamenti “elusivi”) come l’esonero per gli interessi capitalizzati (da portare sotto Rol, con una forte penalizzazione per le imprese di costruzione) e quello per i mutui ipotecari delle immobiliari di gestione. Esonero, quest’ultimo, ripristinato a tempo di record dalla legge di Bilancio 2019. Si passerà inoltre dal semplice dato contabile a un parametro “fiscale”, cioè calcolato apportando alle voci del conto economico che rientrano nel Rol, le variazioni previste dal Tuir, con un effetto finale pressoché irrilevante, se non fosse per l’inutile complicazione nei calcoli dei contribuenti. Va invece nella giusta direzione di fornire regole chiare e certe, l’introduzione, dopo tanti anni di dubbi, di una definizione puntuale del concetto di intermediario finanziario ai fini fiscali.

Fonte “Il sole 24 ore”

E-fattura negli appalti Pa, poco spazio agli esoneri per il nuovo standard Ue

La pubblicazione del Dlgs 148/2018 (attuativo della direttiva Ue 2014/55) in «Gazzetta Ufficiale» segna il via allo standard europeo per la fattura elettronica negli appalti pubblici, a partire dal 18 aprile 2019, senza però interferire sulla disciplina Iva applicabile alle transazioni interessate, ma determinando ulteriori peculiarità al variegato sistema della fatturazione elettronica.

Le stazioni appaltanti dovranno pertanto ricevere ed elaborare fatture elettroniche conformi allo standard europeo per gli acquisti relativi a beni, servizi e lavori previsti nell’ambito del codice dei contratti pubblici. In particolare sono soggetti al rispetto dell’obbligo le stazioni appaltanti (articolo 1, comma 1, Dlgs 50/2016), nonché alle pubbliche amministrazioni (articolo 1, comma 2, della legge 196/2009). Quindi, in sostanza, non parrebbero sussistere esoneri soggettivi e dovranno adeguarsi tutti i soggetti tenuti all’osservanza delle procedure di acquisto stabilite dal Codice dei contratti pubblici secondo le relative definizioni di «amministrazioni aggiudicatrici», «autorità governative centrali», «amministrazioni aggiudicatrici sub-centrali», «organismi di diritto pubblico» ed «enti aggiudicatori». È tuttavia previsto il differimento di decorrenza dell’obbligo al 18 aprile 2020, per le amministrazioni aggiudicatrici sub-centrali, cioè le amministrazioni aggiudicatrici che non sono autorità governative centrali e non rientrano nelle altre categorie previste dal codice di cui sopra e menzionata dall’articolo 2 del Dlgs 148/2018.

Invece, dal punto di vista oggettivo, sono escluse dall’applicazione delle nuove regole le fatture elettroniche emesse in esecuzione di contratti pubblici relativi ai lavori, servizi e forniture nei settori della difesa e sicurezza, in attuazione della direttiva 2009/81/Ce.
Le fatture elettroniche “europee” dovranno risultare conformi a specifici requisiti:
•rispettare la Core invoice usage specification (Cius) per il contesto nazionale italiano (standard europeo En 16931-1:2017);
•integrarsi con la disciplina tecnica contenuta nel decreto 55/2013 in materia di fatturazione elettronica obbligatoria verso la Pa (articolo 1, comma 213, della legge 244/2007) e mantenere il flusso sulla base del Sistema d’interscambio (Sdi).

Entro il 3 marzo 2019, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, presso Agid è prevista la costituzione di un tavolo tecnico che si occupi dell’attuazione degli obblighi attraverso:
•l’aggiornamento delle regole tecniche esistenti nella disciplina della fatturaPa e delle modalità applicative e monitoraggio della corretta applicazione delle stesse;
•valutazioni degli impatti per la pubblica amministrazione e di quelli riflessi per gli operatori economici;
•raccordo e coinvolgimento, fin dalla fase di definizione, di tutte le iniziative legislative ed applicative in materia di fatturazione e appalti elettronici.

Le disposizioni in materia di fatturazione elettronica europea non potranno comunque costituire pregiudizio per l’applicazione delle disposizioni in materia di Iva adottate in attuazione della disciplina armonizzata vigente nella Ue.

Fonte “Il sole 24 ore”

Amministratori di condominio, rendiconto da inviare con gli allegati

Amministratori attenti : con il rendiconto non si scherza. Ecco un caso e una recente pronuncia della Cassazione che toglierà il sonno a qualcuno.

Un condomino impugna il consuntivo della trascorsa gestione ordinaria, sostenendo che l’amministratore non avesse allegato all’avviso di convocazione dell’assemblea il registro contabile, il riepilogo finanziario e la nota esplicativa della gestione.

Nei due gradi di giudizio di merito gli era stato dato torto: era infatti pacifico che l’amministratore, prima dell’assemblea, avesse posto a disposizione dei condomini, presso il suo studio, tutta la documentazione condominiale «per eventuale consultazione».

In Cassazione, però, avviene un totale cambiamento di rotta a suo favore.

La Corte di cassazione, infatti, con l’ordinanza 33038 del 20 dicembre 2018 (sezione II civile, consigliere relatore Antonio Scarpa) ha statuito che, in base all’articolo 1130 bis del Codice civile (introdotto dalla legge 220 del 2012, entrata in vigore il 18 giugno 2013), se il rendiconto non è composto da registro, riepilogo e nota, parti inscindibili di esso, e i condòmini non risultino perciò informati sulla reale situazione patrimoniale del condominio quanto ad entrate, spese e fondi disponibili, la delibera assembleare di approvazione è annullabile. E ciò indipendentemente dal possibile esercizio del concorrente diritto spettante ai condòmini di prendere visione ed estrarre copia dei documenti giustificativi di spesa presso lo studio dell’amministratore.

Infatti, secondo la Suprema Corte, il registro di contabilità, il riepilogo finanziario e la nota sintetica esplicativa della gestione, che compongono il rendiconto, perseguono certamente lo scopo di soddisfare l’interesse del condomino a una conoscenza concreta dei reali elementi contabili esposti nel bilancio consuntivo.

Solo in tal modo verranno dissipate le insufficienze, le incertezze e le carenze di chiarezza circa i dati del rendiconto e verrà consentito in assemblea l’espressione di un voto cosciente e meditato.

Pertanto, il consuntivo inviato ai condòmini in previsione dell’assemblea dove sarà discusso e approvato deve contenere anche il registro di contabilità, il riepilogo finanziario e la nota sintetica esplicativa della gestione.

In mancanza di tutto ciò, ciascun condomino, dopo aver esperito la prevista procedura di mediazione (che sospende i termini), può impugnare entro trenta giorni dall’assemblea (se presente personalmente o per delega) oppure entro trenta giorni dal ricevimento del relativo verbale (se assente), la delibera di approvazione del consuntivo in questione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Fondo di garanzia esteso ai professionisti

Nel forcing finale delle commissioni del Senato arriva il via libera a diverse norme che interessano le attività di imprese e professioni.
A partire dall’ammissione anche dei professionisti alla sezione speciale del Fondo di garanzia per le Pmi in crisi nella restituzione dei finanziamenti bancari a causa dei crediti con la Pa. Passa anche l’emendamento dei relatori che definisce gravemente inique le clausole che prevedono termini di pagamento superiori a 60 giorni nel campo delle transazioni commerciali tra privati, ma solo nel caso di rapporti tra grandi imprese e Pmi. Tempi più rapidi per la costituzione delle società di capitali (atto depositato dal notaio entro 10 giorni e non 20) e alleggerimento degli adempimenti per le startup e le Pmi innovative che potranno inserire le informazioni anagrafiche online su startup.registroimprese.it. Ritirato in extremis, invece, l’emendamento sulle Società di investimento semplice per il venture capital.
Digitale e banda ultralarga
Finirà il 31 dicembre 2019 l’era del Commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda digitale italiana e a quel punto le competenze e le linee di azioni faranno capo direttamente al presidente del consiglio o a un ministro delegato. La presidenza del consiglio si potrà avvalere di un team di esperti, anche esterni, con una spesa di 6 milioni di euro annui a partire dal 2020. Ok alle semplificazioni per la posa della banda ultralarga fissa. Sarà più facile avviare scavi a basso impatto ambientale nelle aree monitorate dalle sovrintendenze archeologiche.
Energia e altre norme
Via libera anche all’emendamento proposto da M5S per gli “sconti” a chi viola le regole sugli impianti rinnovabili. La decurtazione degli incentivi prevista in questi casi si riduce: fra il 10 e il 50%, mentre la norma in vigore prevede valori più alti: tra il 20 e l’80%. Uno sconto si applica anche per chi realizza impianti fotovoltaici di piccola taglia, tra 1 e 3 kw. Sempre sul fronte energia scattano, su proposta di Paolo Arrigoni (Lega), procedure abilitative semplificate per la messa in funzione di piccoli impianti geotermici. Tra gli altri emendamenti approvati, anche il divieto per tutti i nuovi docenti, di ogni ordine e grado, assunti con i prossimi concorsi, di cambiare la scuola a loro assegnata per i successivi 5 anni.
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Carmine Fotina

Rottamazione delle cartelle riaperta a chi non ha versato le rate 2018

La nuova rottamazione delle cartelle pronta ad accogliere anche chi non ha saldato entro il 7 dicembre scorso le somme dovute per il 2018. La riapertura dei termini è contenuta in un emendamento al Dl semplificazioni approvato dalle commissioni Lavori pubblici e Affari costituzionali del Senato. E non è la sola novità fiscale licenziata ieri. Tra queste, lo stop alla tassa sulla bontà con il ritorno dell’Ires agevolata al 12% per il non profit almeno fino a quando non saranno individuate «misure di favore», compatibili con le regole Ue, in linea con la riforma del terzo settore. Definito il perimetro di applicazione della web tax. C’è poi l’adeguamento alla direttiva Ue che semplifica l’Iva per l’e-commerce di prestazioni di servizi delle telecomunicazioni e teleradiodifussione offerti in forma digitale. Con lo stesso correttivo si prevede il rilascio della certificazione di regolarità fiscale per chi aderisce alla rottamazione delle cartelle. Mentre sul fronte contributivo viene concesso più tempo ai datori di lavoro per mettersi in regola e non essere sanzionati con il Durc: 24 mesi in luogo dei tre mesi attuali.
Riapertura rottamazione
Il correttivo consente l’accesso alla rottamazione-ter, introdotta dal Dl fiscale di fine anno, anche ai debitori che, dopo aver aderito alla rottamazione-bis (Dl 148/2017), non hanno versato entro il 7 dicembre 2018 le somme dovute in scadenza a luglio, settembre e ottobre 2018. Attenzione, però. I debitori che vorranno salire sul treno della nuova definizione agevolata avranno tre anni per versare a rate gli importi dovuti e non cinque come prevede la rottamazione ter. Dovranno, quindi, concludere i pagamenti entro il 30 novembre 2021, anziché entro il novembre 2023.
Saldo e stralcio
Modificato anche il «saldo e stralcio», la definizione agevolata delle cartelle per chi è in difficoltà economica con un Isee fino a 20mila euro. Si precisa che le persone giuridiche, in quanto escluse da questa tipologia di sanatoria, non possono beneficiare del transito automatico dalla rottamazione-ter allo stesso «saldo e stralcio». Al contrario potranno transitare automaticamente nella rottamazione-ter anche i soggetti che non hanno versato integralmente, entro il 7 dicembre 2018, le somme dovute per la rottamazione bis, a condizione che versino entro il 30 novembre 2019 il 30% del totale dovuto e completino il pagamento entro il 30 novembre 2021.
Web tax
Con un altro emendamento approvato ieri dalle Commissioni si chiarisce che non si considerano servizi digitali, e quindi sono esonerati dall’applicazione della nuova digital tax introdotta dalla legge di Bilancio, la messa a disposizione di un’interfaccia digitale il cui scopo principale è quello di fornire agli utenti dell’interfaccia contenuti digitali, servizi di comunicazione o servizi di pagamento. In questo modo, ad esempio, non rientrano tra le prestazioni oggetto di prelievo quelli forniti dalle imprese di telefonia, i servizi di pagamento digitali (Pay pal),il marketplace dei software, borsa italiana e borsa elettrica. Viene escluso anche lo svolgimento da parte di una sede di negoziazione o di un internalizzatore sistematico delle attività e dei servizi di investimento. Non sconteranno la web tax anche le attività e i servizi di investimento e i servizi di ausilio alla concessione di prestiti da parte di un soggetto che fornisce servizi di crowdfunding autorizzato.
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Marco Mobili

Flat tax per gli autonomi, sei motivi di contrasto con i principi costituzionali

La nuova flat tax per gli autonomi è conforme alla costituzione? Un tentativo di dare una risposta richiede alcune riflessioni sui principi della Carta:

1) il comma 2 dell’articolo 53 recita che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». La tassa prevista dalla legge di Bilancio 2019 prevede una sola aliquota al 15% fino a 65mila euro di ricavi, che si traduce in un tetto di poco inferiore ai 50mila euro, classe di reddito nel quale rientra il 95% della totalità dei contribuenti e l’80% dei titolari di partita Iva: il reddito di 500 euro e quello di 50mila sconterà la stessa incidenza impositiva;

2) un professionista con compensi annui di circa 64 mila euro aderente alla flat tax pagherà 5.309 euro di imposte in meno rispetto al titolare di partita Iva in tassazione ordinaria (violazione principi capacità contributiva e uguaglianza, articoli 53 e 3);

3) il professionista in regime ordinario (ricavi 64mila euro) conseguirà un reddito disponibile (39.497 euro) inferiore di 2mila euro rispetto a un altro lavoratore autonomo in regime forfettario i cui incassi si fermano a 60mila euro (41.585 euro) (violazione principi progressività e capacità contributiva, articolo 53, commi 1 e 2);

4) l’imposta sostitutiva assorbe non solo l’Irpef, ma le addizionali locali e l’Irap, con la conseguenza di sollevare, a parità di capacità contributiva, una parte dei contribuenti dalla partecipazione alle fonti di finanziamento degli enti locali per i servizi erogati (violazione principi capacità contributiva e uguaglianza, articoli 53 e 3);

5) nei settori di attività svolte da iscritti alla gestione artigiani e commercianti, i contribuenti forfettari, usufruendo dell’abbattimento del 35% dei contributi previdenziali obbligatori, beneficeranno di un irragionevole bonus (violazione principio di uguaglianza, articolo 3);

6) il regime forfettario prevede l’esonero dall’applicazione dell’Iva e dai relativi adempimenti; con la conseguenza di determinare, per tutti coloro che svolgono attività nei confronti di consumatori finali un ingiustificato vantaggio competitivo (violazione principio libera concorrenza, articolo 41).

Tutto quanto ciò premesso, cosa si può fare? Ogni contribuente, escluso da tale sistema, potrebbe ricalcolare il proprio reddito con la flat tax e presentare istanza di rimborso (articolo 38 Dpr 602/73) per le somme versate in eccedenza. Avverso il silenzio rifiuto all’istanza di restituzione, il contribuente si rivolgerà alla Commissione tributaria competente, sollevando la questione di illegittimità costituzionale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Valore ridotto alla comunicazione di notifica per posta

Se il contribuente contesta la mancata ricezione della raccomandata informativa, relativa alla precedente notifica di un atto impositivo, l’amministrazione non può limitarsi a esibire la cartolina compilata dall’ufficiale giudiziario e recante il numero di spedizione. Tale annotazione, infatti, non beneficia della fede privilegiata poiché il notificatore, essendosi avvalso del servizio postale, non può certificare fatti non avvenuti in sua presenza.

A fornire questo principio è la Corte di cassazione con l’ ordinanza n. 1699 che è stata depositata ieri.

Un contribuente impugnava un estratto di ruolo eccependo, tra i diversi motivi, anche un vizio di notifica della cartella di pagamento stante l’assenza della raccomandata informativa.

Entrambi i giudici di merito confermavano la regolarità della notifica, dal momento che dalla relata risultava l’invio tramite servizio postale della predetta raccomandata.

Avverso la decisione di appello il contribuente ricorreva in Cassazione, lamentando una violazione delle norme sulla procedura notificatoria.

Si ricorda che nel caso di irreperibilità relativa, ossia quando il contribuente è momentaneamente assente, in base all’articolo 140 del codice di procedura civile, se non è possibile eseguire la consegna, l’ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa comunale ed affigge avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, dandone notizia con raccomandata a/r (la cosiddetta “informativa”).

Il compimento delle formalità previste per il processo notificatorio deve risultare dalla relazione di notificazione che fa fede fino a querela di falso essendo attestata dall’ufficiale giudiziario operante (Cassazione 4844/93).

Nella specie, la Suprema corte ha rilevato che nella relata era indicato il numero della raccomandata inviata all’interessato.

Tuttavia, l’efficacia probatoria privilegiata degli atti pubblici è circoscritta ai fatti che il pubblico ufficiale attesti essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti.

Ne consegue che quando il notificatore si avvale del servizio postale per l’inoltro della raccomandata informativa, nella relata si potrà al più dare atto di aver consegnato alle poste l’avviso informativo da spedire per raccomandata A/R, ma non è evidentemente attestabile anche l’effettivo inoltro.

Si tratta infatti, di un’operazione non eseguita in sua presenza e pertanto priva del carattere “fidefaciente” tipico della relata di notifica.

I giudici di legittimità hanno così chiarito che in simili ipotesi, l’eventuale prova del mancato recapito potrà essere fornita dal destinatario senza necessità di impugnare la relata mediante querela di falso. Sarà poi l’ufficio notificante a dover dimostrare l’effettiva ricezione da parte del contribuente.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Vendita tramite e-commerce senza invio dei corrispettivi telematici

Vendite da canale e-commerce senza corrispettivi telematici. Con la risposta a interpello 9/2019 pubblicata ieri 22 gennaio, l’agenzia delle Entrate, nel fornire indicazioni sulla gestione dei diversi canali di vendita e sulla relativa certificazione fiscale, ha chiarito come le vendite a distanza vere e proprie, cioè quelle realizzate senza la presenza fisica e simultanea di venditore e consumatore attraverso l’uso esclusivo di uno o più mezzi di comunicazione a distanza, sono esentate dagli obblighi di certificazione trattandosi di commercio elettronico indiretto. Per la cessione dei propri prodotti l’interpellante, utilizzando molteplici canali di vendita, era interessato infatti a conoscerne le corrette modalità di certificazione. In particolare, per le vendite dirette al pubblico viene rilasciata fattura ovvero corrispettivi telematici dato l’esercizio dell’opzione per la trasmissione telematica degli stessi di cui al decreto legislativo n. 127 del 2015.

L’agenzia delle Entrate, riconfermando quanto indicato da ultimo con la risposta ad interpello 118/2018, ricorda come dal 1° gennaio 2019 le uniche modalità di certificazione dei corrispettivi sono quelle di rilascio di scontrini o ricevute fiscali ovvero la trasmissione dei corrispettivi giornalieri utilizzando i registratori telematici. Si possono a tal fine utilizzare anche Server-RT collocati per ciascun punto vendita in un unico idoneo locale centralizzato. Vengono invece escluse, con conseguente applicabilità di sanzioni, modalità alternative di comunicazione dei dati giornalieri, come quelle realizzate in base alla legge n. 311 del 2004 per la grande distribuzione organizzata, oppure con salvataggio dei dati in forme tali da garantirne l’immodificabilità come nel caso di utilizzo di sistemi di conservazione elettronica dei dati.

Al riguardo il contribuente istante risulta essere un soggetto che ha optato, a suo tempo, per la trasmissione telematica dei corrispettivi secondo le modalità previste per la grande distribuzione organizzata dalla legge n. 311 del 2004. Tale opzione è venuta meno lo scorso 31 dicembre 2018 ma, in sede di conversione in legge (atto Senato 989) del Dl semplificazioni 135/2018 è stato presentato un emendamento volto a prorogare l’opzione esercitata per la Gdo sino al 31 dicembre 2019 sanando così le posizioni di quanti non hanno rifiscalizzato i punti vendita con i registratori di cassa o non hanno esercitato l’opzione per la trasmissione telematica dei corrispettivi giornalieri.

Inoltre trattandosi del secondo interpello rilasciato sul medesimo a distanza di un mese, il che dimostra l’interesse generale alla specifica questione, e alla luce anche dell’imminente avvio dell’obbligo di trasmissione telematica dei corrispettivi previsto da luglio 2019 per i contribuenti con volume d’affari oltre i 400mila euro e dal 1 gennaio 2002 per tutti, sarebbe opportuno prevedere una moratoria sanzionatoria analogamente a quanto già a regime per l’obbligo di fatturazione elettronica.

Infine, le altre modalità di vendita utilizzate dall’interpellante sono quelle tramite vending machine, non presidiate da un operatore, o mediante altre apparecchiature funzionanti senza presidio fisso e con consegna realizzata presso punti vendita non di proprietà dell’istante: in entrambi i casi, per l’agenzia delle Entrate si è in presenza di installazioni che vanno censite come vending machine in quanto ritenute comunque distributori automatici.

Fonte (Il sole 24 ore)

Il committente è responsabile solidale per le retribuzioni non pagate

Il lavoratore si può rivolgere direttamente all’azienda ritenuta più solvibile
La garanzia a carico di chi ordina le opere è piena e non sussidiaria
Responsabilità solidale stretta per il committente nei confronti dei lavoratori dei dipendenti dell’appaltatore. Con la sentenza 444/2019, la Suprema corte si è pronunciata sul regime della responsabilità solidale tra appaltatore e committente in relazione ai trattamenti retributivi e contributivi dei lavoratori impiegati nell’appalto.
Nel caso specifico, il tribunale di Firenze aveva accolto il ricorso promosso da una lavoratrice nei confronti della società appaltante per il pagamento di somme retributive. La Corte d’appello ha confermato la pronuncia di primo grado ritenendo sussistente, nei confronti del committente, un’obbligazione solidale in senso stretto (e non una mera garanzia sussidiaria come dedotto dalla società committente), con conseguente irrilevanza di una preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore.
La Corte di legittimità – precisando che la fattispecie sottoposta al proprio vaglio era soggetta alla disciplina dell’articolo 29 del decreto legislativo 276/2003 nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dalle leggi 92/2012 e 35/2012 (che avevano introdotto il beneficio di preventiva escussione) – ha ribadito che «l’obbligazione del committente…pur avendo carattere accessorio, è solidale con quella del debitore principale e pertanto…non può essere considerata né sussidiaria né eventuale» e ciò in ragione del «tenore letterale dell’articolo 29 del Dlgs 276 del 2003 (nella versione precedente alle novelle del 2012)» nonché della «ratio perseguita dal legislatore (consistente nell’affidare al committente il controllo sulla corretta esecuzione del contratto di appalto da parte dell’appaltatore)».
Quanto statuito nell’occasione dalla Suprema corte, seppur fondato sull’interpretazione di una norma successivamente modificata da plurimi interventi legislativi, appare di estrema attualità.
Si rammenta, infatti, che il beneficio di escussione ha avuto nel nostro ordinamento una durata breve: introdotto nel 2012, è stato successivamente abolito dal legislatore con il decreto legge 25/2017, che ha riportato al 2003 le lancette del vincolo della solidarietà per quanto riguarda sia la posizione processuale del committente (che si vede ora privato del beneficio di preventiva escussione) sia la possibilità dei contratti collettivi nazionali di lavoro di derogare al regime legale della responsabilità solidale negli appalti.
Con il “dietro front” legislativo sul beneficio di preventiva escussione si sono pertanto prodotti due fondamentali effetti sul piano processuale: da una parte, come pure precisato nella sentenza 444/2019, è venuta meno la necessità del litisconsorzio tra committente, appaltatori ed eventuali subappaltatori; dall’altra, si è eliminata la gerarchia tra i debitori.
Con la conseguenza che, come avveniva anteriormente al 2012, tutte le imprese legate dal vincolo di responsabilità solidale si troveranno di fronte alla possibilità che, a seguito delle inadempienze del proprio datore di lavoro, i lavoratori scelgano di rivolgersi alle imprese ritenute più solide e solvibili (ossia, generalmente, al committente) per ottenere le retribuzioni e i versamenti contributivi non percepiti a fronte dell’opera prestata nell’appalto.
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Angelo Zambelli

Esportazioni, visto doganale sulla copia cartacea della fattura

Sufficiente la vidimazione «fisica» del documento che viene trasmesso allo Sdi
Nelle cessioni triangolari all’esportazione, il primo cedente nazionale deve emettere fattura elettronica nei confronti del promotore dell’operazione, anch’esso nazionale, mentre tale soggetto continua a emettere fattura cartacea al proprio cliente extracomunitario, destinatario dei beni al di fuori dell’Ue. Ma come si coordina la e-fattura con il regime delle prove dell’uscita dei beni dal territorio comunitario?
La prova dell’esportazione (alla base del regime di non imponibilità Iva) va fornita da ambedue gli operatori nazionali, ossia dal primo cedente (IT1) e dal cessionario/secondo cedente (IT2). Mentre per quest’ultimo soggetto – che è il vero esportatore – la prova è rappresentata dal messaggio elettronico «risultati di uscita», registrato sul sistema doganale Aida, per il primo operatore, come confermato al paragrafo 4 della nota delle dogane 3945/2007, restano invariate le modalità ordinarie e, quindi, è necessaria l’apposizione del visto doganale sulla fattura presentata all’atto dell’esportazione e la successiva integrazione con la menzione dell’uscita dei beni dal territorio dell’Ue.
Al posto dell’integrazione, il primo fornitore può esibire copia del documento doganale d’esportazione, intestato al promotore e contenente il riferimento alla triangolazione, unitamente alla stampa del messaggio di uscita; procedura che, però, presenta possibili problemi di riservatezza, visto che IT1 verrebbe a conoscenza del destinatario dell’esportazione (il cliente di IT2). In ogni caso, entrambi i procedimenti prevedono la presentazione in dogana della fattura del primo cedente il quale, tuttavia, dal primo gennaio, può presentare solamente una copia cartacea della fattura elettronica, copia che, però, non è la vera fattura che è quella in formato elettronico.
Per superare la problematica, è sufficiente estendere il concetto di documento utile quale prova dell’esportazione. Ammettere che la vidimazione della copia cartacea della fattura, trasmessa elettronicamente allo Sdi, equivale all’apposizione del visto sulla fattura (così come è stato fino a tutto il 31 dicembre 2018), non significa altro che aggiornare le istruzioni dell’amministrazione finanziaria. Si tratterebbe di estendere la valenza giuridica di tale documento, già riconosciuta nelle risposte alle Faq con riguardo alle copie delle fatture elettroniche ai condomini o agli enti non commerciali senza partita Iva, seppur al solo scopo di validare la procedura d’esportazione. Fermo restando che, in caso di discordanza fra i dati della fattura elettronica e della copia cartacea,prevalgono i primi.
Nella stessa logica, se la dogana appone il visto sulla copia cartacea di una fattura che risulti scartata dallo Sdi, al fine di attribuire valenza alla vidimazione del documento nell’ottica della prova dell’esportazione, è sufficiente che la fattura successivamente ritrasmessa al sistema (nei cinque giorni dallo scarto) ed emendata dell’errore che ha determinato il rifiuto, risulti conforme alla copia presentata in dogana.
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Matteo Balzanelli
Massimo Sirri

Il controllo di una Srl blocca l’adesione

Quando la società esercita un’attività riconducibile a quella svolta dal lavoratore
Deve essere definita la nuova incompatibilità per l’applicazione del regime forfettario prevista dalla lettera d) del comma 57 della legge 190/14, introdotta dalla legge 145/18. Si tratta della disposizione che prevede la causa di esclusione per i soggetti che «controllano direttamente o indirettamente società a responsabilità limitata o associazioni in partecipazione, le quali esercitano attività economiche direttamente o indirettamente riconducibili a quelle svolte dagli esercenti attività di impresa, arti o professioni». Le condizioni affinché scatti la causa ostativa devono essere due e cioè il controllo diretto ed indiretto della Srl e lo svolgimento di una attività similare.
I casi non sono frequenti ma quello tipico riguarda la professione del commercialista che partecipi a una Srl che svolga l’attività di elaborazione dati la quale venga utilizzata per la tenuta delle contabilità dei clienti. Ci si chiede se il socio della Srl, realizzando ricavi di importo non superiore a 65mila euro, possa applicare per la propria attività individuale di commercialista il regime forfettario.
Per stabilire il controllo viene spontaneo pensare all’articolo 2359 del Codice civile. Indubbiamente il controllo c’è se il professionista dispone della maggioranza assoluta dei voti esercitabili in assemblea. O tale controllo c’è se il commercialista aspirante forfettario possiede il 51% di una Srl la quale possiede il 51% di un’altra Srl che svolge l’attività di elaborazione dati.
Il comma 2 dell’articolo 2359 precisa che si computano anche i voti spettanti a persona interposta. A nostro parere non può essere automatico considerare ad esempio un familiare come persona interposta; cioè a dire che se le quote della Srl di elaborazione dati fossero possedute dai familiari dell’aspirante forfettario, sarebbe inibito a quest’ultimo il forfait. Ciò perchè quando il legislatore ha voluto considerare il familiare come un soggetto interposto lo ha detto espressamente.
Infatti nella medesima legge di bilancio al comma 70 in materia di credito di imposta per l’attività di ricerca e sviluppo, la norma esclude che tale attività, venga effettuata da società appartenenti al medesimo gruppo e cioè controllanti o controllate; aggiunge poi la norma che per le persone fisiche si tiene conto anche delle partecipazioni o diritti posseduti dai familiari dell’imprenditore individuati nell’articolo 5 del Dpr 917/86 (coniuge, parenti entro il terzo grado o affini entro il secondo). Quindi in questo caso la parentela è prevista espressamente.
La normativa in materia di antiriciclaggio (articolo 4 del Dl 167 /90) specifica che vengono coinvolti anche i titolari effettivi e cioè le persone fisiche che in ultima istanza possiedono o controllano la persona fisica per conto della quale è realizzata una determinata attività; la circolare delle Entrate 38/13 classifica fra questi soggetti anche i familiari sempre con il grado di parentela di cui all’articolo 5 del Tuir, ma nella norma in materia di regime forfettario manca qualsiasi riferimento alle persone della famiglia.
A nostro avviso pertanto la causa di esclusione sussiste soltanto quando, il contribuente forfettario possiede la maggioranza assoluta dei voti nella Srl, anche per il tramite di società controllata.
Altra questione è quella di stabilire se nella ipotesi in cui il contribuente si trova in questa condizione possa liberarsi della partecipazione in Srl nel 2019 e questo non comprometta il regime forfettario per il medesimo periodo di imposta. La circolare dell’Agenzia 10/16 precisa che questo è possibile, ma la fattispecie esaminata riguardava la partecipazione in una società trasparente il cui reddito cadeva nella dichiarazione dei redditi del forfettario: la fattispecie della srl è diversa e purtroppo la regola è che le cause di esclusione non devono sussistere nel periodo di imposta di applicazione del regime forfettario.
Infine c’è la questione della incompatibilità con la Srl controllante che svolga una attività riconducibile a quella del forfettario. In questo ambito il codice di attività è certamente una utile indicazione, ma non può essere il solo. A nostro parere la causa di esclusione scatta quando l’attività svolta dalla srl potrebbe essere svolta anche dal professionista e questo è proprio il caso del commercialista che controlla una società di servizi contabili.
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Gian Paolo Tosoni

Passaggi senza vincoli triennali tra semplificato e forfettario

Chi per il 2019 sceglie di restare semplificato può cambiare dal 2020
Le modifiche al forfettario sono tali da giustificare una nuova decisione
La possibilità di fare ingresso nel regime forfettario, come ridisegnato dalla legge di Bilancio 2019, non attende chiarimenti solo per quanto attiene alle due nuove cause di esclusione costituite dalla contemporanea partecipazione di controllo in una Srl dall’oggetto “riconducibile” e dalla provenienza prevalente dei ricavi/proventi da attuali o passati datori di lavoro.
Ci sono aspetti controversi anche riguardo alle opzioni, tali da condizionare tanto l’ingresso quanto il rientro nel regime. La prima questione degna di nota riguarda i contribuenti che negli ultimi due periodi d’imposta (2017 e 2018), pur avendo i requisiti allora previsti per il regime forfettario, hanno esercitato l’opzione per il regime ordinario o semplificato.
Nonostante si possa ipotizzare un vincolo di permanenza triennale nel regime prescelto, si è dell’avviso che i significativi mutamenti operati dalla legge 145/2018 al regime forfettario siano tali da rappresentare quel «caso di modifica del sistema in conseguenza di nuove disposizioni normative» che, in base all’ultimo periodo dell’articolo 1 del Dpr 442/1997 (disciplina generale delle opzioni), legittima la variazione di qualunque opzione e revoca.
Oggi il regime forfettario è molto differente, sotto più di un aspetto, da quello che molti contribuenti hanno valutato – e rifiutato con opzione – negli ultimi due anni, per cui è più che condivisibile rendere possibile una nuova decisione.
Se questa è l’unica strada percorribile per chi ha optato nel biennio passato per la contabilità ordinaria, altrettanto non dovrebbe essere per i contribuenti che, pur in presenza dei requisiti per il forfettario, hanno preferito scegliere il regime semplificato. Sia la norma di riferimento (articolo 1, comma 70, legge 190/2014) che la prassi (circolare 10/E/16, paragrafo 3.1) fanno riferimento a un vincolo triennale in presenza di opzione per il «regime ordinario» ovvero «per l’applicazione dell’Iva e delle imposte sul reddito nei modi ordinari».
Nonostante inizialmente queste locuzioni siano state lette come riferibili tanto al regime ordinario vero e proprio quanto a quello semplificato, questa interpretazione restrittiva è divenuta minoritaria a seguito della risoluzione 64/E/18 dell’agenzia delle Entrate.
In tale sede l’Agenzia, anche se non in modo cristallino, ha affermato che, relativamente ai contribuenti che presentano i requisiti per entrambi i regimi forfettario e semplificato, i “regimi naturali” sono concretamente due, il che giustificherebbe l’assenza di qualunque vincolo triennale nel passaggio dall’uno all’altro (nonostante tale situazione non sembra prevista al rigo VO33 della dichiarazione Iva).
Questa interpretazione – che le Entrate potrebbero avallare a Telefisco – è importante non solo per “smarcare” i contribuenti semplificati (tali per opzione resa nel 2017 o nel 2018) dalla necessità che l’ingresso nel forfettario sia reso più semplice grazie all’ultimo periodo dell’articolo 1 del Dpr 442/1997 (mutamenti normativi sensibili in grado di azzerare le opzioni precedenti), ma anche per il prossimo futuro.
È evidente che ove venisse confermata questa libertà di passaggio tra regime forfettario e regime semplificato, in presenza dei requisiti di legge, chi per il 2019 sceglie di restare semplificato, può transitare nel forfettario dal 2020 indipendentemente dalle scelte fatte nel triennio, così come chi inizia l’attività nel 2019 può iniziare in regime semplificato (ad esempio per la presenza di una causa di esclusione) salvo poi (eliminata tale causa) transitare dal 2020 nel forfait senza vincoli di durata. Si tratta, pertanto, di una conferma attesa a livello interpretativo da molti contribuenti.
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Giorgio Gavelli

La fattura elettronica «aggiorna» i registri Iva

di Fabio Giordano, comitato tecnico AssoSoftware

È stato un inizio d’anno duro per tutti. Per soggetti passivi Iva fatturanti che hanno dovuto cambiare abitudini e logiche consolidate da anni, per i loro consulenti che li hanno supportati in questa innovazione epocale, per le software house che hanno dovuto realizzare nuove piattaforme, e sicuramente ancor di più per i tecnici dell’agenzia delle Entrate e di Sogei, che hanno dovuto gestire un sistema molto complesso che da un giorno all’altro è stato letteralmente investito da milioni di fatture. Ed è stato ancora più duro per coloro che contavano su una possibile proroga, che hanno dovuto formarsi e attrezzarsi in pochi giorni, su un argomento che di semplice ha davvero poco.

Gli effetti dei ritardi con cui alcuni operatori hanno affrontato la problematica e la necessità di una messa a punto dei sistemi, li subiremo sicuramente ancora per qualche mese, però oramai il dado è tratto e indietro sicuramente non si torna più.

Tra gli argomenti che si stanno iniziando ad affrontare in questi giorni, in vista del cambio delle regole di emissione delle fatture che entreranno in vigore dal 1° luglio 2019 e di annotazione delle fatture stesse sui registri Iva, vi è quello di una rivisitazione dei registri Iva che potrebbe essere necessaria non tanto ai fini del mero espletamento degli obblighi di legge, quanto per consentire ai soggetti passivi Iva di verificare in modo più efficace i dati in essi presenti.

Di seguito proviamo a sintetizzare – distintamente per le fatture emesse e per le fatture di acquisto ricevute – le nuove regole stabilite dalla legge Iva in tema di annotazione sui registri Iva, con alcune esemplificazioni utili a inquadrare meglio alcuni degli scenari che stiamo per affrontare.

Registrazione delle fatture emesse
La registrazione delle fatture emesse è disciplinata dall’articolo 23 del Dpr 633/1972, come recentemente modificato dall’articolo 12 del Dl 119/2018.
La novità più importante che è stata introdotta è la possibilità di annotare tutte le fatture emesse entro il giorno 15 del mese successivo a quello di effettuazione delle operazioni, con riferimento al mese stesso di effettuazione delle operazioni.
In altre parole viene meno il precedente obbligo di annotare le fatture entro 15 giorni dalla loro emissione, ma si può godere di un più ampio intervallo temporale, purché si rimanga nel limite del giorno 15 del mese successivo.

La seconda novità, prevista dall’articolo 11 del Dl 119/2018 a partire dal 1° luglio 2019, è la possibilità di emettere la fattura entro 10 giorni dall’effettuazione dell’operazione, indicando all’interno della stessa – ai sensi dell’articolo 21, comma 2, lettera g-bis), del Dpr 633/1972 – la data in cui é stata effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi ovvero data in cui è stato corrisposto in tutto o in parte il corrispettivo, sempre che tale data sia diversa dalla data di emissione della fattura.

Alla luce di ciò, proviamo a fare un esempio pratico, con riferimento ad alcune fatture emesse da un soggetto passivo con periodicità mensile, nel corso del mese di luglio e del mese di agosto:
•fattura n.1, effettuazione dell’operazione ed emissione in data 1 luglio 2019;
•fattura n.2, effettuazione dell’operazione in data 31 luglio 2019 ed emissione in data 10 agosto 2019
•fattura n.3, differita con Ddt di luglio (con riferimento all’effettuazione), emissione in data 12 agosto 2019.

Partiamo dalla fattura n.2, sulla quale va fatta una riflessione preliminare e specifica, perché l’attuale norma (articolo 21, comma 2, lettera g-bis, del Dpr 633/1972) prevede l’indicazione, all’interno della fattura, della data in cui é effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi ovvero della data in cui é corrisposto in tutto o in parte il corrispettivo, quando tale data è diversa dalla data di emissione della fattura.

Poiché l’indicazione di una doppia data all’interno della fattura risulta oltremodo complessa da gestire, AssoSoftware ha proposto – nel corso di un confronto avvenuto nel mese di dicembre all’interno del Forum della fatturazione elettronica – la soluzione più semplice di utilizzare la data documento quale data di effettuazione dell’operazione, proposta che è stata condivisa e accettata e da tutti gli stakeholders partecipanti e che si auspica possa trovare conferma in una modifica dell’attuale articolo 21 del Dpr 633/1972, entro il 30 giugno 2019.
Se così sarà, la fattura n.2 dovrà essere di fatto datata 31 luglio 2019, con competenza Iva nel mese di luglio, ancorché emessa (ossia trasmessa) in data 10 agosto 2019. Quest’ultima data la si ritroverà esclusivamente nella ricevuta rilasciata dallo Sdi. L’annotazione della fattura sul registro Iva potrà essere fatta con data registrazione compresa tra il 10 agosto 2019 e il 15 agosto 2019, ossia pari o successiva alla data di trasmissione ovvero pari o precedente alla data limite di annotazione del 15 agosto 2019.

Per quanto riguarda le fatture n.1 e n.3, entrambe hanno quale competenza Iva il mese di luglio:
•la fattura n.1 dovrà essere annotata sul registro Iva con data registrazione compresa tra il 01 luglio 2019 e il 15 agosto 2019;
•fattura n.3 differita dovrà necessariamente essere datata successivamente all’ultimo Ddt prodotto (i cui estremi vanno riportati nel documento xml) ed entro la data di trasmissione del 12 agosto 2019 (ad esempio 31 luglio 2019) e annotata con data compresa tra il 12 agosto 2019 e il 15 agosto 2019.

Quindi tutte e tre le fatture confluiranno nella liquidazione del mese di luglio, ancorché siano state emesse sia nel mese di luglio (la n.1) che nel mese di agosto (la n.2. e la n.3).
Registrazione degli acquisti

La registrazione degli acquisti è disciplinata dall’articolo 25 del Dpr 633/1972, come modificato dall’articolo 13 del Dl 119/2018. La novità più rilevante è l’abrogazione – a partire dal 1° gennaio 2019 – dell’obbligo di protocollazione delle fatture, sia di quelle elettroniche che di quelle cartacee che possono continuare a essere emesse da alcune categorie di soggetti minori.

Ne consegue che nel registro Iva degli acquisti le fatture possono essere registrate in qualsiasi ordine, purché l’annotazione preceda comunque il momento della detrazione.
Va poi ricordato che l’articolo 14 del Dl 119/2018, nel modificare l’articolo 1, comma 1, del Dpr 100/1998, ha aggiunto il seguente periodo: «Entro il medesimo termine di cui al periodo precedente può essere esercitato il diritto alla detrazione dell’imposta relativa ai documenti di acquisto ricevuti e annotati entro il 15 del mese successivo a quello di effettuazione dell’operazione, fatta eccezione per i documenti di acquisto relativi a operazioni effettuate nell’anno precedente».

Ne consegue che il diritto alla detrazione spetta ora anche per le fatture di acquisto registrate entro il giorno 15 del mese successivo, con riferimento alla data di effettuazione dell’operazione, che di fatto coincide con la data del documento. Per poter fruire della detrazione e per poter essere annotata, la fattura deve comunque essere nella disponibilità dell’acquirente. Il contribuente, qualora richiesto dagli organi dell’Amministrazione finanziaria, deve fornire gli elementi in base ai quali ha operato la liquidazione periodica.
Dal punto di vista operativo, il risultato è di fatto analogo a quello sopra esemplificato per le fatture emesse, con in più però la variabile del tempo di recapito da parte dello Sdi, che dovrebbe essere contenuto in un massimo di 5 giorni.

Alla luce di ciò, proviamo anche in questo caso a fare un esempio pratico, con riferimento ad alcune fatture di acquisto ricevute da un soggetto passivo con periodicità mensile, nel corso del mese di ottobre e di novembre:
•fattura n.1, datata 1 ottobre 2019 con riferimento al momento di effettuazione, ricevuta e annotata sul registro Iva nella medesima data;
•fattura n.2, datata 31 ottobre 2019 con riferimento al momento di effettuazione, emessa (ossia trasmessa) il 10 novembre 2019, ricevuta e annotata sul registro Iva il 12 novembre 2019;
•fattura n.3, differita con Ddt di ottobre, datata 31 ottobre 2019, emessa il 12 novembre 2019, ricevuta e annotata sul registro Iva il 15 novembre 2019.

Poiché tutte e tre le fatture sono state ricevute entro il 15 novembre 2019 e tutte e tre hanno una data documento (ossia di effettuazione) compresa nel mese di ottobre, esse confluiranno nella liquidazione del mese di ottobre, ancorché siano state emesse sia nel mese di ottobre (la n.1) che nel mese di novembre (la n.2. e la n.3).

Le totalizzazioni
Cambiano le regole e probabilmente in qualche caso dovrà cambiare anche un po’ l’esposizione sui registri Iva. Ad esempio, a livello di riepilogo sui registri Iva, potrebbe risultare utile effettuare due tipologie di totalizzazioni:
•una totalizzazione per data di registrazione, utile ai fini contabili e gestionali;
•una totalizzazione per data documento, che è quella di riferimento ai fini dell’esigibilità, ossia della competenza Iva, in coerenza con le regole della liquidazione Iva.
In realtà molti software evidenziano già ora, in riepiloghi separati, le fatture di competenza del mese precedente, tuttavia sarà forse opportuno fare uno sforzo ulteriore e riepilogare nel mese precedente anche le fatture del mese successivo.

Ciò è sicuramente possibile, dal momento in cui la produzione del registro Iva quale documento informatico avviene normalmente in un unico momento, a fine anno ovvero entro il termine di tre mesi dal termine di trasmissione della dichiarazione dei redditi di competenza del periodo d’imposta interessato.

Tuttavia prima di effettuare qualsiasi modifica, le software house – come sempre supportate da AssoSoftware – attenderanno l’effettiva modifica dell’articolo 21 del Dpr 633/1972 e, dopo essersi confrontate sugli aspetti normativi, concorderanno ciascuna con i propri clienti le modifiche più utili da effettuare, stante che comunque l’ipotesi di una stampa minimale dei soli dati previsti dagli articoli 23 e 25 del Dpr 633/1972 in molti casi rimarrà la scelta migliore da fare.

Rimedi difficili per l’invio errato a un codice destinatario valido

L’errata indicazione dell’indirizzo telematico nel tracciato Xml può determinare lo scarto della fornitura da parte dello Sdi oppure, in alcuni casi, la trasmissione della fattura elettronica al soggetto sbagliato.

È questo quello che emerge dai primi giorni di operatività del nuovo sistema di trasmissione elettronica delle fatture attraverso lo Sdi. Una situazione che solleva, in particolare nel caso di trasmissione della fattura ad un soggetto sbagliato, non pochi interrogativi in termini di riservatezza delle informazioni e di procedura di regolarizzazione.

Lo Sdi non effettua analisi di merito sui dati inseriti nel file Xml della fattura, controllando esclusivamente l’avvenuta compilazione dei campi obbligatori ai fini della disciplina Iva. Gli unici controlli sostanziali effettuati dal sistema sono quelli sull’esistenza del codice fiscale e della partita Iva dei soggetti coinvolti nella transazione (attraverso una verifica di presenza nell’anagrafe tributaria) e sull’esistenza del codice destinatario del soggetto ricevente, laddove sia stato indicato nell’apposto campo del file Xml.

Questo significa che, se da un lato l’indicazione di un codice destinatario errato (vuoi perché erroneamente registrato in anagrafica, vuoi perché erroneamente comunicato dal cliente) determina lo scarto della fattura da parte dello Sdi, dall’altro l’errata indicazione di un codice destinatario valido determina invece la consegna della fattura al soggetto sbagliato. Quest’ultimo si limiterà con tutta probabilità semplicemente a cestinare la fattura, non avendo peraltro alcuna informazione immediata (indirizzo email, Pec) all’interno del tracciato Xml che gli permetta di contattare il soggetto trasmittente, che non avrà quindi modo di rendersi conto dell’errore, oppure lo scoprirà quando la fattura andrà insoluta, non avendo il cliente ricevuto la fattura. C’è però un altro aspetto ancor più sensibile: la riservatezza dei dati contenuti nella fattura consegnata all’indirizzo telematico sbagliato.

Sul piano, poi, della regolarizzazione della fattura inviata e ricevuta da un soggetto sbagliato, è chiaro che l’emittente, nel momento in cui si avvede dell’errore, vuoi per controlli interni, vuoi perché il cliente non paga, dovrà intervenire sulla precedente fattura emessa, senza variare ovviamente i termini di liquidazione dell’imposta, che deve seguire necessariamente l’effettuazione dell’operazione. Pertanto, quello che si ritiene possibile (anche perché la fattura è stata messa a disposizione nell’area riservata del cliente effettivo) è una comunicazione al cliente effettivo con cui si spiega l’errore e si rende noto che la fattura è a disposizione nell’area riservata. Inoltre, in relazione al soggetto che erroneamente ha ricevuto il documento (quando sarà possibile identificarlo), sarà necessario formalizzare, non tramite Sdi, l’errore al solo fine di lasciare agli atti di entrambi che il documento è stato ricevuto per un semplice errore di trasmissione.

Le riflessioni appena fatte danno quindi ancor più rilevanza alla possibilità fornita dall’agenzia delle Entrate di registrare l’indirizzo telematico attraverso il servizio web disponibile sul portale «Fatture e corrispettivi». In tal caso, infatti, lo Sdi invierà tutte le fatture all’indirizzo pre-registrato, indipendentemente dalla Pec o dal codice destinatario indicato nel file Xml della fattura, minimizzando pertanto non solo il rischio di scarto della fattura, ma anche il rischio che per errore la fattura venga trasmessa ad un soggetto sbagliato.

 Fonte “Il sole 24 ore”

CED, il difficile incrocio tra licenze software e scarico massivo e-fatture

Autore: Sandra Pennacini di Fiscalfocus
Talune strutture, ovvero i CED privi credenziali Entratel, in quanto non rientranti nei soggetti incaricati della trasmissione telematica delle dichiarazioni di cui all’articolo 3, comma 3, del Decreto del Presidente della Repubblica n. 322 del 1998, con l’avvento dell’obbligo di fatturazione elettronica stanno incontrando diverse difficoltà nel strutturare il flusso logico / pratico per l’elaborazione delle contabilità.

Primariamente occorre ricordare che al servizio di “Consultazione e acquisizione delle fatture elettroniche o dei loro duplicati informatici”, il contribuente può delegare esclusivamente un intermediario, intendendosi come tale solo un soggetto incaricato della trasmissione telematica delle dichiarazioni, di cui all’articolo 3, comma 3, del Decreto del Presidente della Repubblica n. 322 del 1998 (Provv. Prot. n.291241/2018).

Esiste quindi una differenza basilare tra la delega alla consultazione ed acquisizione delle fatture elettroniche (aspetto passivo) e la diversa delega alla gestione della fatturazione attiva (e conservazione digitale). La prima, infatti, è come si è detto riservata ad un intermediario abilitato alla trasmissione dei dichiarativi, la seconda invece è libera da tale restrizione.

Gli intermediari articolo 3 comma 3 D.P.R. 322/1998
Diviene quindi fondamentale richiamare brevemente quali sono gli intermediari di cui all’art. 3 c. 3 del 322/1998 e successivi provvedimenti intervenuti.

Ai soli fini della presentazione delle dichiarazioni in via telematica mediante il servizio telematico Entratel si considerano soggetti incaricati della trasmissione delle stesse:
a) gli iscritti negli albi dei dottori commercialisti, dei ragionieri e dei periti commerciali e dei consulenti del lavoro (e le Società tra professionisti iscritte all’albo dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, nonché le Società tra professionisti iscritte all’albo dei Consulenti del Lavoro);
b) i soggetti iscritti alla data del 30 settembre 1993 nei ruoli di periti ed esperti tenuti dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura per la sub-categoria tributi, in possesso di diploma di laurea in giurisprudenza o in economia e commercio o equipollenti o diploma di ragioneria;
c) le associazioni sindacali di categoria tra imprenditori indicate nell’articolo 32, comma 1, lettere a), b) e c), del Decreto Legislativo 9 luglio 1997, n. 241, nonché quelle che associano soggetti appartenenti a minoranze etnico-linguistiche;
d) i centri di assistenza fiscale per le imprese e per i lavoratori dipendenti e pensionati;
e) gli altri incaricati individuati con Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, tra i quali diversi soggetti PA, ma anche gli iscritti negli albi dei dottori agronomi e dei dottori forestali, degli agrotecnici e dei periti agrari e coloro che esercitano abitualmente l’attività di consulenza fiscale. Ed ancora, i notai iscritti nel ruolo indicato nell’articolo 24 della Legge 16 febbraio 1913, n. 89. A questi si sono inoltre aggiunti, ma con esclusivo riferimento alla trasmissione telematica della dichiarazione di successione e domanda di volture catastali gli iscritti all’albo professionale dei geometri e dei geometri laureati e gli iscritti all’albo professionale dei periti industriali e dei periti industriali laureati, in possesso di specializzazione in edilizia, anche riuniti in forma associativa, gli iscritti all’albo degli Ingegneri, gli iscritti all’albo degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori con il titolo di “Architetto” o “Architetto iunior” e le agenzie che svolgono, per conto dei propri clienti, attività di pratiche amministrative presso amministrazioni ed enti pubblici, purché titolari di licenza rilasciata ai sensi dell’art. 115 del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza. Vi sono, ancora, autorizzazioni specifiche anche in ambito di trasmissione telematica delle dichiarazioni e dei contratti di locazione e di affitto da sottoporre a registrazione, nonché di esecuzione telematica dei pagamenti, concesse agli gli iscritti all’albo professionale dei Geometri e Geometri laureati, anche riuniti in forma associativa o tramite società tra professionisti iscritte al medesimo albo, agli iscritti all’albo degli Ingegneri e all’Albo degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori e Agenzie di pratiche amministrative.

Il CED privo di requisiti
Tornando al punto in esame, ovvero il rapporto CED / accesso alle fatture passive del contribuente, il passaggio dell’abilitazione Entratel, o per meglio dire il riconoscimento di soggetto rientrate tra quelli di cui all’articolo 3 comma 3 del DPR 322/1998 risulta fondamentale.
Laddove il CED sia esercitato sotto forma di ditta individuale, non avente i requisiti per essere riconosciuto come intermediario abilitato, non vi sarà modo di essere delegati.

Laddove, invece, il CED sia costituito sotto forma societaria, può venire in soccorso la disposizione di cui al D.M. 18 febbraio 1999, Ministero delle Finanze, che ha riconosciuto la qualifica di “altri incaricati della trasmissione” anche alle società, a condizione che l’abilitazione al servizio telematico sia richiesta a nome di uno dei soggetti indicati all’art. 3, comma 3, lettere a) e b), del Decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, e più precisamente: alle associazioni e le società semplici costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni in cui almeno la metà degli associati o dei soci è costituita da soggetti indicati all’art. 3 comma 3, lettere a) e b), del citato Decreto del Presidente della Repubblica n. 322 del 1998 ed alle società commerciali di servizi contabili le cui azioni o quote sono possedute per più della metà del capitale sociale da soggetti indicati all’art. 3, comma 3, lettere a) e b), del citato Decreto del Presidente della Repubblica n. 322 del 1998.

Quindi, un centro di elaborazione dati, posseduto per più della metà del capitale sociale da soggetti aventi le caratteristiche per essere considerati “intermediario abilitato”, può a sua volta rivestire tale qualifica. Ciò che rileva è la partecipazione posseduta dal soggetto qualificante. Non potrà, quindi, richiedere abilitazione Entratel un CED che veda il soggetto qualificante quale socio di minoranza, anche laddove lo stesso fosse altresì amministratore.

La gestione del flusso telematico – il software
Nell’ipotesi in cui sia il CED ad essere intestatario delle licenze software per l’importazione massiva del flusso passivo dei contribuenti per conto dei quali cura l’elaborazione dati, e tale CED non riesca ad ottenere lo “status” di intermediario abilitato (in quanto ditta individuale non avente i requisiti, o società non avente quale socio di maggioranza un soggetto avente i requisiti), come si potrà operare?

Per rispondere alla domanda occorre innanzi tutto capire quale software si utilizza, o meglio quale metodologia di dialogo informatico sia in uso tra CED e contribuente. Infatti, molte sono le software house che – previa adesione al canale telematico gestito – consentono di “agganciarsi” per lo scaricamento dei dati avendo quale unica discriminante il possesso della dovuta licenza software da parte del CED e (ovviamente) il consenso del contribuente. Quello che avviene, infatti, è che il CED interroga non il “postino” SDI – che non consente accesso ai dati ai non intermediari abilitati – bensì il “sotto-postino” società fornitrice di servizi software, ed in tale ambito viene solo richiesto il permesso di accesso ai dati al contribuente interessato. Dunque, il problema in questa tipologia di infrastruttura non si pone ma, attenzione, laddove qualche documento fosse pervenuto secondo un canale diverso (es. PEC) lo stesso non sarà presente nel canale della software house, e pertanto non sarà prelevabile.

Se, invece, non si dispone di una infrastruttura del genere, ed anche se il cliente avesse intenzione di ricevere su PEC, non vi è altra alternativa che lo scaricamento massivo da Fatture e Corrispettivi (a meno che non sia il cliente stesso a fornire ogni singolo file, salvandolo all’atto di ricezione nella posta elettronica).

In questo caso, allo stato attuale, il CED privo di abilitazione Entratel non potrà far altro che appoggiarsi ad un intermediario abilitato, espressamente delegato dal contribuente, per lo scarico massivo, per poi importare i files nei propri gestionali tramite l’interfaccia prevista dal software in uso. Un’ultima alternativa potrebbe essere quella di dotare il contribuente di proprie credenziali di accesso, grazie alle quali sia il contribuente stesso ad effettuare il download massivo dei documenti, per poi trasmettere i files XML al CED per la successiva elaborazione.

Il credito per formazione 4.0 compensabile con l’F24

Approvato dalle Entrate il codice tributo 6897 Bonus rimodulato nel 2019
È stato approvato, con la risoluzione 6/E pubblicata ieri, il codice tributo 6897 per l’utilizzo in compensazione del credito d’imposta per la formazione 4.0, introdotto dal 1° gennaio 2018 e prorogato per il 2019 dalla legge 145/2018.
L’incentivo consiste in un credito d’imposta, che per le spese sostenute nel 2018 era del 40%, mentre per quelle che verranno sostenute nel 2019 sarà del 50% per le piccole imprese, del 40% per le medie imprese e del 30% per le grandi imprese.
Modello Redditi
Il credito d’imposta per il 2018 dovrà essere indicato nel quadro RU del modello Redditi 2019, relativo al 2018, e dei successivi, fino ad esaurimento. Andranno inseriti anche i dati relativi al numero di ore e dei lavoratori che prendono parte alla formazione.
La concessione del bonus non concorre a formare la base imponibile Irpef, Ires o Irap ed è utilizzabile solo in compensazione in F24, a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in cui i costi sono sostenuti.
Per l’invio del modello F24 di compensazione, potranno essere utilizzati solo servizi telematici messi a disposizione dall’agenzia delle Entrate (Fisconline o Entratel). Nel campo «anno di riferimento» va indicato il periodo d’imposta di sostenimento della spesa, nel formato «AAAA».
A questo credito d’imposta non si applicano né il limite annuale dei 250milaeuro per l’utilizzo dei crediti di imposta (articolo 1, comma 53, legge 244/2007), né il limite massimo di compensabilità di crediti di imposta e contributi, pari a 700mila euro (articolo 34, legge 388/2000).
Certificazione
Per le imprese obbligate per legge alla revisione legale dei conti, l’effettivo sostenimento delle spese ammissibili e la corrispondenza delle stesse alla documentazione contabile dell’impresa devono risultare da un’apposita certificazione, rilasciata dal soggetto incaricato della revisione legale dei conti o da un professionista iscritto nel registro dei revisori legali. Per le imprese non obbligate per legge alla revisione, invece, questa certificazione deve essere rilasciata da un revisore legale dei conti o da una società di revisione legale dei conti, iscritti nella sezione A del registro.
La certificazione dovrà essere allegata anche al bilancio dell’impresa o della società. Anche la spesa sostenuta per la “certificazione contabile” è agevolata nel limite massimo di 5.000 euro (di spesa).
Se il revisore incorre in colpa grave nell’esecuzione degli atti richiesti, è punito con l’arresto fino a un anno o con l’ammenda fino a 10.329 euro.
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Luca De Stefani

Fatture su carta, senza effetti il secondo invio elettronico

Doppia spedizione: non è valida la strada delle note di credito
L’obbligo della fatturazione elettronica tra privati sta facendo emergere, in questa prima fase di applicazione, una serie di criticità. Un tema particolarmente delicato è dato dall’invio, tramite formato elettronico, della medesima fattura già emessa e consegnata nel 2018, in formato cartaceo o comunque non elettronico.
Ipotizziamo che, per un errore del software, una società abbia trasmesso, in data 1° gennaio 2019, mille fatture già emesse nel mese di dicembre 2018, consegnate alla controparte e contabilizzate entro la fine dello stesso anno (il caso, tutt’altro che teorico, ha coinvolto più contribuenti).
Ipotizziamo anche che l’ulteriore invio elettronico non sia stato bloccato dal sistema Sdi (le fatture sono risultate al sistema come regolari, né il sistema è stato in grado di riconoscerne la natura di secondo invio, dal momento che l’emissione originaria è avvenuta fuori dal sistema elettronico). La ricezione elettronica di queste fatture, lato soggetto ricevente, non può essere rifiutata da quest’ultimo, in quanto il sistema non considera questa opzione (differentemente da quanto potrebbe invece accadere in caso di rapporto con la pubblica amministrazione).
Con tutta probabilità, in caso di errato doppio invio della medesima fattura, fino all’anno scorso, seguendo le modalità non elettroniche o “cartacee”, le parti si sarebbero semplicemente accordate nel senso di stralciare la copia inviata in più, tenendo per buona quella emessa secondo le tempistiche di legge.
Tuttavia, oggi il tema deve essere rivalutato alla luce del passaggio nel sistema Sdi, che traccia e mantiene memoria dell’avvenuto invio in predicato. A un primo esame, si potrebbe ipotizzare valido l’utilizzo delle note di credito, ex articolo 26 el Dpr 633/72, quale metodo per stornare il secondo invio (quello elettronico) erroneamente effettuato.
Tuttavia, a una disamina più attenta, non può sfuggire il fatto che questa problematica attenga non già ad un errore di fatturazione, ma ad un errato secondo invio della stessa fattura già emessa.
L’articolo 26 del Dpr 633, a ben vedere, contempla una moltitudine di casi soggetti a rettifica, tutti comunque accomunati da un errore, formale o sostanziale, della fattura emessa. Ecco quindi che troviamo disciplinati dall’articolo 26 casi di: variazioni in aumento o in diminuzione della base imponibile o dell’imposta, correzioni di errori formali e di calcolo, casi di abbuoni e sconti successivamente intervenuti per accordo tra le parti, e così via. Il caso qui trattato, però, è differente: la fattura non è stata emessa con errori, semplicemente è stata inviata due volte.
A parere di chi scrive, quindi, l’emissione di note di credito nel caso specifiche risulterebbe errata. La procedura corretta dovrebbe invece essere quella di non considerare il cosiddetto secondo invio, evitando conseguentemente ogni correlata contabilizzazione (e mantenendo ovviamente memoria contabile, e con questa ogni successivo adempimento fiscale, del primo corretto invio).
Vista la particolarità della questione, potrebbe essere utile provvedere a una comunicazione all’agenzia delle Entrate, in base alla legge 212/2000 (Statuto del contribuente), mettendola al corrente dell’errore avvenuto, magari identificando il flusso informatico in questione.
In questi casi, sarebbe auspicabile che l’amministrazione finanziaria, oltre a chiarire i corretti adempimenti da adottare, consideri il particolare contesto di novità e le correlate difficoltà interpretative, evitando di comminare qualsivoglia sanzione od emettere accertamenti di sorta.
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Enrico Holzmiller

Semplificazioni, verso un’altra chiamata per la rottamazione-ter

Nuova chance per chi ha perso il treno della nuova rottamazione delle cartelle introdotta dal decreto fiscale. Lo prevede uno degli emendamenti al decreto semplificazioni, all’esame del Senato, firmati dai relatori Daisy Pirovano (Lega) e Mauro Coltorti (M5S). Si consente l’accesso alla terza edizione della definizione agevolata dei ruoli esattoriali 2000-2017 anche ai debitori che, dopo aver aderito alla cosiddetta “rottamazione-bis”, non hanno integralmente pagato entro il 7 dicembre 2018 tutte le somme dovute per l’anno appena trascorso e che erano dovute nei mesi di luglio, settembre e ottobre scorsi.
Il pacchetto di emendamenti dei relatori dovrebbe essere presentato oggi.

Fonte “Il sole 24 ore”

Lavoro nero, si applica subito l’aumento delle sanzioni

L’aumento delle misure sanzionatorie introdotto dall’articolo 1, comma 445 della legge di bilancio 145/2018, previsto per combattere il lavoro sommerso e irregolare e per tutelare la salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro si applica immediatamente a tutte le condotte illecite riferibili all’anno in corso, mentre sono escluse quelle degli anni passati, indipendentemente dalla data di accertamento e/o contestazione.

Lo chiarisce la circolare 2/2019 dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) del 14 gennaio , in cui sono state fornite le prime istruzioni sul nuovo inasprimento delle sanzioni amministrative e penali(si veda«Il Sole 24 Ore» del 4 gennaio 2019) dopo quello introdotto dall’articolo 14 del Dl 145/2013. L’Inl ricorda che l’aumento del 20% sulle sanzioni previste al 31 dicembre scorso si applica alle disposizioni seguenti, di cui si indicano i nuovi importi:

a) all’articolo 3 del Dl 12/2002 (convertito dalla legge 73/2002) che disciplina la cosiddetta maxisanzione per lavoro nero, la quale, nelle varie ipotesi, è elevata da 1.500 a 9mila euro (occupazione in nero fino a 30 giorni), da 3mila a 18mila euro (occupazione in nero da 31 a 60 giorni) e da 6mila a 36 mila euro (periodo di lavoro in nero superiore a 60 giorni). Resta fermo che nell’ipotesi in cui l’irregolarità riguardi minori non in età lavorativa, la sanzione base era già di per sé aumentata del 20%;

b)all’articolo 18 del Dlgs 276/2003, che punisce l’irregolare e abusiva somministrazione di manodopera, la sanzione viene elevata a 60 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata. Secondo i nuovi termini, la sanzione non potrà comunque essere inferiore a 6mila e superiore a 60mila euro. Analoga sanzione è posta anche a carico dell’utilizzatore;

c)all’articolo 12 del Dlgs 136/2016, che punisce le violazioni degli obblighi amministrativi connessi alle procedure di distacco transnazionale di lavoratori. Anche in questa ipotesi subirà l’aumento la sanzione amministrativa, già da 150 a 500 euro per lavoratore interessato, nonché da 500 e 3mila euro ad addetto per il quale non sia avvenuta la regolare conservazione dei documenti;

d) ai commi 3 e 4 dell’articolo 18-bis del Dlgs 66/03 che sanzionano le violazioni in materia di durata massima dell’orario di lavoro, riposi giornalieri e settimanali e ferie. Per tali violazioni le precedenti sanzioni da 200 a 9mila euro, a seconda anche del numero dei lavoratori, dal 1° gennaio 2019 saranno aumentate del 20 per cento.

La legge di bilancio prevede, invece, un aumento del 10% per tutte le violazioni alle disposizioni di cui al Testo unico sulla sicurezza (Dlgs 81/08) e riguarda sia le sanzioni penali, sia quelle amministrative, le quali avevano già subito un aumento del 9,6% dal 1° luglio 2013 e uno ancora più recente dell’1,9% dal luglio 2018.

Il documento non dice nulla, invece, sulle sanzioni previste dall’articolo 14 del Testo unico, connesse con la sospensione dei lavori, che prevedono un importo aggiuntivo alle altre sanzioni, ossia se tale importo vada anch’esso aumentato del 10% anche sulla scorta delle precedenti esclusioni individuate, da ultimo, con la nota ministeriale 32 del 12 luglio 2016.

I proventi di queste maggiorazioni, entro il limite di 15 milioni l’anno, incrementeranno il Fondo risorse decentrate dell’Inl per la valorizzazione del suo personale.

Per semplificare gli adempimenti, si precisa ancora nella circolare, l’Ispettorato ha già avviato le procedure per l’istituzione di un apposito codice tributo, in attesa del cui rilascio le maggiorazioni troveranno applicazione utilizzando gli attuali codici.

Fonte “Il sole 24 ore”

La nullità non richiede altre prove se salta il contraddittorio per legge

In caso di omesso contraddittorio preventivo, se la nullità dell’atto è prevista dalla norma, il contribuente non deve fornire la prova di resistenza, cioè le ragioni che avrebbe potuto illustrare al fisco durante il confronto non avvenuto. A enunciare questo principio è la Cassazione con la sentenza 701 .

La pronunzia trae origine da un accertamento conseguente ad una verifica con accesso presso la sede di una società, emesso prima del termine di 60 giorni previsto dallo Statuto del contribuente. Il provvedimento veniva annullato in entrambi i gradi di merito, e l’Agenzia ricorreva in Cassazione.

La Suprema corte ha innanzitutto ricordato che, secondo le Sezioni unite (sentenza 18184/2013), la previsione contenuta nell’articolo 12, comma 7 dello Statuto è applicabile solo nelle ipotesi di accessi, ispezioni e verifiche presso la sede del contribuente e l’emissione dell’accertamento prima del decorso di 60 giorni della consegna del Pvc comporta l’invalidità dell’atto impositivo. Per i controlli a tavolino, invece, non esistendo un obbligo generalizzato di contraddittorio prodromico all’emissione dell’atto, occorre distinguere tra tributi armonizzati e non: per i primi valgono le regole comunitarie, e quindi occorre riconoscere il diritto al confronto preventivo, per i secondi tale diritto deve essere accordato solo se previsto per legge.

In ogni caso, per i tributi armonizzati occorre superare la cosiddetta «prova di resistenza», ossia la verifica dell’impatto della violazione sull’esito del provvedimento, a condizione che sia il contribuente ad enunciarne le ragioni (sentenza 24823/2015). I giudici di legittimità hanno poi evidenziato, che secondo la giurisprudenza comunitaria, il diritto al contraddittorio è regolato dai principi di equivalenza (le regole per il tributo armonizzato non devono essere meno favorevoli rispetto ai tributi interni) e di effettività (non sia impossibile o eccessivamente gravoso l’esercizio dei diritti dell’ordinamento Ue).

Per la Suprema corte, in applicazione di questi principi, con riferimento al comma 7 dell’articolo 12, non esiste alcuna distinzione tra tributi armonizzati e non. Inoltre, è evidente che l’operatività della prova di resistenza vada circoscritta al caso di assenza di una specifica disposizione normativa. In conclusione, secondo la Cassazione:

l’articolo 12, comma 7 dello Statuto si applica ai casi di accessi, ispezione o verifica senza alcuna necessità di prova di resistenza e a prescindere dal tipo di tributo;

l’espressa previsione all’interno di una norma di legge della sanzione di nullità per il mancato rispetto del contraddittorio preventivo, fa venire meno la necessità della prova di resistenza ai fini dell’invalidità dell’atto;

per i tributi armonizzati la necessità della prova di resistenza scatta solo se la normativa interna non preveda già la sanzione della nullità.

Fonte “Il sole 24 ore”

I crediti verso la Pa non evitano la vendita forzata dei beni pignorati

L’articolo 4 del decreto-legge 135/2018 (intitolato «Modifiche al codice di procedura civile in materia di esecuzione forzata nei confronti dei soggetti creditori della pubblica amministrazione») al comma 2 interviene sull’articolo 560 del Codice di procedura civile (si veda il box). Siamo dunque nell’ambito dell’espropriazione immobiliare, quando cioè il processo esecutivo è iniziato aggredendo con il pignoramento un bene immobile.

Dopo la trascrizione del pignoramento e proposta l’istanza di vendita, il giudice fissa l’udienza per la comparizione delle parti e dei creditori “iscritti” di cui all’articolo 498 (quelli cioè che sui beni pignorati hanno un diritto di prelazione risultante dai pubblici registri) che non siano intervenuti. È in questa udienza che il debitore esecutato deve documentare di essere titolare di crediti nei confronti di pubbliche amministrazioni; e di ciò si farà menzione nell’avviso di vendita per mettere, evidentemente, al corrente di questa circostanza chi intendesse rendersi acquirente del bene.

Da ciò risulta chiaro che, pur quando l’esecutato abbia fatto emergere la circostanza di essere titolare di quei crediti, il processo continua nella ricerca dell’acquirente; non si ha quindi una nuova ipotesi di improseguibilità/improcedibilità del processo esecutivo disposta a favore del debitore che versi in quella particolare situazione.

L’esecuzione continua fino ad individuare l’acquirente, fino al versamento da parte sua del prezzo, fino alla pronuncia del decreto che trasferisce all’acquirente stesso la titolarità del bene pignorato e ne dispone il rilascio a suo favore per una data compresa tra il sessantesimo ed il novantesimo giorno successivo.

Il “vantaggio” che deriva al debitore esecutato dall’aver fatto emergere all’udienza la circostanza di essere titolare di crediti nei confronti di pubbliche amministrazioni consiste così solo nel ritardare il momento del rilascio dell’immobile; rilascio che non potrà avvenire prima che sia decorso il termine fissato nel decreto. Con la pronuncia del decreto di trasferimento, cioè, il debitore esecutato, pur creditore verso pubbliche amministrazioni, perde comunque la titolarità del suo bene, ed è pronto a perderne anche la disponibilità materiale in conseguenza del rilascio disposto dal giudice.

Inoltre il pur limitato vantaggio accordato al debitore viene riconosciuto solo se a essere pignorato sia stato un suo bene immobile. Se il creditore avesse pignorato un bene diverso – ad esempio il denaro in conto corrente (nella forma dell’espropriazione presso terzi) – l’essere titolare di crediti nei confronti di pubbliche amministrazioni non gioverebbe all’esecutato in alcun modo.

Infine questo “vantaggio” non è già operativo. Infatti l’ultimo comma dello stesso articolo 4 prevede che tutte le disposizioni introdotte con l’articolo stesso non si applicano alle esecuzioni iniziate anteriormente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto.

Il che porta a una semplice riflessione. Se ci fosse necessità e urgenza, la protezione andrebbe accordata al debitore in tutte le espropriazioni – immobiliari – che contro di lui venissero instaurate appena entrato in vigore il decreto; o – forse ancor meglio – anche nei processi pendenti ma non ancora giunti all’udienza.

Ma se la protezione deve applicarsi solo ai processi che inizieranno addirittura dopo la pubblicazione della legge di conversione, non ci si può non domandare dove risieda il caso straordinario di necessità e d’urgenza richiesto dall’articolo 77 della Costituzione per l’adozione di un decreto legge.

Fonte “Il sole 24 ore”

Fatture 2018 inviate a gennaio, vale l’emissione «in analogico»

Le autofatture da autoconsumo, da omaggio o per l’estrazione dei beni dal deposito Iva devono essere inviate al sistema d’interscambio con l’indicazione del codice TD01 e non con il codice TD20, codice che è utilizzabile solo per le «autofatture spia»; le fatture attive datate dicembre 2018, ma inviate tramite posta ordinaria o tramite Pec nei primi giorni di gennaio possono essere analogiche; la data della fattura immediata è la data di effettuazione dell’operazione, mentre per la fattura differita la data da indicare è la data di emissione della fattura elettronica. Sono alcuni dei chiarimenti forniti ieri dall’agenzia delle Entrate nel corso dell’incontro promosso dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili.

Autofatture

Per le autofatture per omaggi, per autoconsumo o per destinazione a finalità estranee all’attività d’impresa era chiaro, in base alle Faq diffuse in precedenza dalla stessa Agenzia, che dovessero essere inviate al sistema d’interscambio. Quello che viene chiarito ora è che tali documenti devono essere classificati con il codice «tipo documento» TD01 vale a dire il codice identificativo delle fatture ordinarie. Non deve essere utilizzato il codice TD20 che, invece, è da utilizzarsi solo e unicamente per le autofatture emesse dal cessionario/committente nel caso in cui dopo quattro mesi dall’effettuazione dell’operazione lo stesso non abbia ancora ricevuto la fattura elettronica relativa alla specifica transazione. In altre parole il «TD20» deve essere utilizzato solo per le autofatture di cui all’articolo 6, comma 8 del Dlgs 471/97.

Nelle risposte viene chiarito che analogo trattamento deve essere effettuato per le autofatture per l’estrazione dei beni da un deposito Iva ovvero per inviare volontariamente la cosiddetta «autofattura» di integrazione della fatture nazionali soggette a reverse charge.

A proposito delle autofatture di estrazione dal deposito Iva, è importante segnalare che secondo l’agenzia delle Entrate (anche se sul punto si esprime personalmente qualche dubbio) le stesse vadano obbligatoriamente inviate allo Sdi.

Emissione e ricezione

Un tema di particolare interesse riguarda la gestione delle fatture del 31 dicembre del 2018. In effetti, il tema che si poneva era di comprendere come dovessero essere emesse e gestite le fatture attive datate 2018, ma inviate al cliente tramite posta ordinaria o tramite Pec nei primi giorni del 2019. In particolare ci si poneva il problema se le stesse dovessero essere trattate in elettronico o se potevano ancora essere emesse in analogico.

L’Agenzia, riprendendo a dire il vero un’integrazione fatta nelle Faq pubblicate sul sito, ribadisce che queste fatture possono essere emesse in analogico. Inoltre, in relazione al cessionario/committente, l’Agenzia sottolinea che le fatture possono essere detratte direttamente nel mese di gennaio 2019. Sempre per le fatture datate 30 dicembre 2018, inviate, in questo caso, elettronicamente con un lieve ritardo entro i primi giorni di gennaio 2019, l’Agenzia chiarisce che non si darà luogo a sanzioni in base all’articolo 6, comma 5 bis del Dlgs 472/97.

Fonte “Il sole 24 ore”

Sì al rimborso del credito non indicato nel bilancio di liquidazione

Legittimo il diritto al rimborso dell’Iva a credito della Srl poi estinta e anche se tale credito non è stato evidenziato nel bilancio finale di liquidazione. Intanto perché si tratta di mero errore formale che non incide sulla legittimità del diritto al rimborso. Poi, in caso di estinzione della società, il credito si trasferisce in capo agli ex soci in quanto successori del sodalizio. Così la Ctr Piemonte, sentenza 1374/1/18 (Presidente Garino, Relatore Menghini) .
La decisione

Dal punto di vista sostanziale, è errata la tesi dell’agenzia fiscale secondo cui la mancata indicazione del credito Iva nel bilancio finale di liquidazione, posta in violazione dell’articolo 5 del Decreto ministeriale 26 febbraio 1992, equivale a una rinuncia del credito stesso, ossia che il credito è “non liquido”.

Per contro, è valida la tesi dei contribuenti, secondo i quali:

a) il credito Iva risulta dal Modello Iva;

b) non ne è stata contestata l’insussistenza;

c) la mancata inclusione nel bilancio finale di liquidazione non incide sulla legittimità del rimborso, dato che si tratta di mero dimenticanza formale e non sostanziale.

In altri termini, l’indicazione del credito nel bilancio finale di liquidazione risponde solo ad una esigenza formale ma non incide sulla legittimità “sostanziale” del credito correttamente esposto in dichiarazione.
Dal punto di vista procedurale, spetta ai soci della società estinta il diritto a ottenere il rimborso del credito, atteso che gli stessi sono successori dell’ente giuridico.
La vicenda

Una Srl, in liquidazione dal novembre 2013, presenta il modello Iva 2015, relativo al periodo d’imposta 2014, in cui espone un credito Iva di oltre 6mila euro, che non viene indicato nel bilancio finale di liquidazione. In seguito l’ente si estingue. I soci della ex società presentano istanza di rimborso del credito Iva, ma l’Agenzia forma nell’ottobre 2015 provvedimento di diniego, perché il credito non è stato indicato in bilancio finale di liquidazione, e, quindi, non spetta. Ma i soci non ci stanno e impugnano il diniego in Ctp, ma i giudici di prime cure sposano la tesi dell’Amministrazione e rigettano il ricorso introduttivo con sentenza del febbraio 2017 il ricorso. I contribuenti non demordo e appellano con successo la sentenza nel febbraio 2017.
Le considerazioni

In primo luogo, il giudice d’appello ha fatto un ragionamento di buon senso. Se il credito Iva, esposto in dichiarazione, non è stato contestato, esso si cristallizza, e, quindi, risulta assorbita la questione della sua inclusione, obbligatoria o meno, in un “paper” derivato, che è il bilancio di liquidazione. In secondo luogo, se si pretende che, a determinate condizioni, rispondano anche i soci della Srl per i debiti della società “estinta”, altrettanto vale questo principio per i crediti della società “estinta”, non potendo valere due misure diverse per la stessa fattispecie.
non può esserlo poi successivamente perché non inserito nella
risulta dal Modello Iva; b) Non ne è stata contestata l’insussistenza; c) La mancata inclusione nel bilancio finale di liquidazione non incide sulla legittimità del rimborso, dato che trattasi di mero dimenticanza formale e non sostanziale. In altri termini, l’indicazione del credito nel bilancio finale di liquidazione risponde solo ad una esigenza formale ma non incide sulla legittimità “sostanziale” del credito correttamente esposto in dichiarazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Debutta sul 730 la detrazione per i mezzi pubblici

Online le versioni definitive del modello 730/2019 con le relative istruzioni aventi ad oggetto le dichiarazioni per il periodo d’imposta 2018. Le novità sono quelle annunciate e in parte già previste con la legge di Bilancio 2018.

Tra le new entry si segnala la detrazione al 19% relativa ai premi per assicurazioni aventi per oggetto il rischio di eventi calamitosi stipulati per unità immobiliari a uso abitativo, nonché quella per le spese sostenute in favore di minori o di maggiorenni con disturbo specifico dell’apprendimento (Dsa) fino a completamento della scuola secondaria di secondo grado.

Spetta dal 2018, sempre nella misura del 19 per cento, anche la detrazione per le spese sostenute per l’acquisto degli abbonamenti ai servizi di trasporto pubblico locale, regionale e interregionale per un importo non superiore a 250 euro. La detrazione compete anche per le spese sostenute per i familiari a carico entro comunque il limite complessivo di 250 euro.

Infine è innalzato a 1.300 euro (prima fissato in 1.291,14) il limite di detrazione dei contributi associativi alle società di mutuo soccorso.

Per le erogazioni liberali in favore di organizzazioni non lucrative di utilità sociale e delle Associazioni di promozione sociale la percentuale di detrazione è del 30 per cento, mentre si arriva fino al 35 per cento per le erogazioni in favore delle organizzazioni di volontariato.

Il Codice del Terzo settore prevede inoltre che, in alternativa alla detrazione, le liberalità in denaro o in natura erogate a favore degli enti del Terzo settore non commerciali (Onlus, Ov e Aps) sono deducibili dal reddito complessivo netto del soggetto erogatore nel limite del 10 per cento del reddito complessivo dichiarato. Qualora detto importo sia di ammontare superiore al reddito complessivo dichiarato, diminuito di tutte le deduzioni, l’eccedenza può essere computata in aumento dell’importo deducibile dal reddito complessivo dei periodi di imposta successivi, ma non oltre il quarto, fino a concorrenza del suo ammontare.

Dal 2018 è attivo anche il cosiddetto «bonus verde» per cui si applica la detrazione del 36% delle spese sostenute, (limite max 5mila euro) per gli interventi di sistemazione a verde di aree scoperte private di edifici esistenti, unità immobiliari, pertinenze o recinzioni, per gli impianti di irrigazione e per la realizzazione pozzi e di coperture a verde e di giardini pensili (misura peraltro prorogata fino al 31 dicembre 2019 dalla legge 145/2018).

Dal 21 novembre comunicazione all’Enea (ristrutturazioni2018.enea.it) anche per gli interventi edilizi ultimati nell’anno 2018 agevolati al 50%. Si tratta, è bene precisarlo, di un adempimento previsto non per tutti gli interventi di recupero di cui all’articolo 16-bis del Tuir, ma solo per quelli che sono anche volti al risparmio energetico e all’utilizzo di fonti rinnovabili di energia (ad esempio infissi, installazione o sostituzione di collettori solari, solare termico).

Infine, si ricorda che dal 1° gennaio 2018, anche ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, si applicano le medesime disposizioni previste per i dipendenti privati riguardo la deducibilità dei premi e contributi versati alla previdenza complementare dei dipendenti pubblici.

Inoltre, va detto che, sempre dal 2018, per la tassazione della rendita integrativa anticipata (Rita) il percettore del reddito ha facoltà di avvalersi in dichiarazione della tassazione ordinaria in luogo di quella sostitutiva applicata dal soggetto erogatore.

Fonte “Il sole 24 ore”

Per sospendere il processo fiscale non serve l’adesione alla chiusura-liti

La sospensione del processo va concessa anche in presenza della sola eventualità di aderire alla definizione delle liti: non occorre infatti alcuna certezza in tal senso. È quanto emerge dalla lettura dell’ordinanza della Cassazione relativa al ricorso 2878/2013.
Per una lite pendente dinanzi alla Suprema Corte, la contribuente presentava nello scorso mese di novembre l’istanza di sospensione del giudizio per attivare la procedura per la definizione delle liti pendenti ai sensi dell’articolo 6 del Dl 119/2018.
La norma (comma 10) prevede che le controversie definibili non sono sospese, salvo che il contribuente faccia apposita richiesta al giudice, dichiarando di volersi avvalere della definizione delle liti pendenti. In tal caso il processo è sospeso fino al 10 giugno 2019. Se entro tale data il contribuente deposita presso l’organo giurisdizionale innanzi al quale pende la controversia copia della domanda di definizione e del versamento degli importi dovuti o della prima rata, il processo resta sospeso fino al 31 dicembre 2020.
La disposizione ha generato qualche perplessità poiché la locuzione «dichiarando di volersi avvalere» della definizione è stata interpretata da alcuni giudici di merito nel senso che la sospensione è subordinata alla “sicura” adesione all’istituto da parte del contribuente, e non per consentire la valutazione dello stesso.
Alcune commissioni tributarie, infatti, hanno rigettato la richiesta avanzata perché era stata manifestata solo l’eventuale adesione.
La Cassazione ora, invece, ha sospeso il giudizio precisando testualmente «in attesa dell’eventuale definizione».
Sembra così chiarito che non occorra l’effettiva adesione, ma la sospensione vada concessa anche solo affinché il contribuente possa valutare il da farsi.
È una conclusione di buon senso. Tale circostanza poteva desumersi già dal contenuto dell’ultimo periodo del comma in base al quale se, entro il prossimo 10 giugno, il contribuente deposita la definizione ed il relativo pagamento, il processo resta sospeso fino al 31 dicembre 2020. Ciò significa, al contrario, che in assenza della citata definizione e del relativo pagamento, il processo riprende . Appare evidente quindi che la stessa disposizione prevede la possibilità che la lite non venga definita.
Dovrebbe così risolversi una questione controversa che rischiava di vanificare l’intento del legislatore. La norma, infatti, consente fino al 31 maggio 2019 di aderire alla sanatoria e, solo concedendo la sospensione, il contribuente può beneficiare dell’intero periodo e valutare concretamente le scelte da operare.
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Laura Ambrosi

Rimedi difficili per l’invio errato a un codice destinatario valido

L’errata indicazione del codice destinatario nel tracciato Xml può determinare lo scarto della fornitura da parte dello Sdi oppure, in alcuni casi, la trasmissione della fattura elettronica al soggetto sbagliato.
È questo quello che emerge dai primi giorni di operatività del nuovo sistema di trasmissione elettronica delle fatture attraverso lo Sdi. Una situazione che solleva, in particolare nel caso di trasmissione della fattura ad un soggetto sbagliato, non pochi interrogativi in termini di riservatezza delle informazioni e di procedura di regolarizzazione.
Lo Sdi non effettua analisi di merito sui dati inseriti nel file Xml della fattura, controllando esclusivamente l’avvenuta compilazione dei campi obbligatori ai fini della disciplina Iva. Gli unici controlli sostanziali effettuati dal sistema sono quelli sull’esistenza del codice fiscale e della partita Iva dei soggetti coinvolti nella transazione (attraverso una verifica di presenza nell’anagrafe tributaria) e sull’esistenza del codice destinatario del soggetto ricevente, laddove sia stato indicato nell’apposto campo del file Xml.
Questo significa che, se da un lato l’indicazione di un codice destinatario errato (vuoi perché erroneamente registrato in anagrafica, vuoi perché erroneamente comunicato dal cliente) determina lo scarto della fattura da parte dello Sdi, dall’altro l’errata indicazione di un codice destinatario valido determina invece la consegna della fattura al soggetto sbagliato. Quest’ultimo si limiterà con tutta probabilità semplicemente a cestinare la fattura, non avendo peraltro alcuna informazione immediata (indirizzo email, Pec) all’interno del tracciato Xml che gli permetta di contattare il soggetto trasmittente, che non avrà quindi modo di rendersi conto dell’errore, oppure lo scoprirà quando la fattura andrà insoluta, non avendo il cliente ricevuto la fattura. C’è però un altro aspetto ancor più sensibile: la riservatezza dei dati contenuti nella fattura consegnata all’indirizzo telematico sbagliato.
Sul piano, poi, della regolarizzazione della fattura inviata e ricevuta da un soggetto sbagliato, è chiaro che l’emittente, nel momento in cui si avvede dell’errore, vuoi per controlli interni, vuoi perché il cliente non paga, dovrà intervenire sulla precedente fattura emessa, senza variare ovviamente i termini di liquidazione dell’imposta, che deve seguire necessariamente l’effettuazione dell’operazione. Pertanto, quello che si ritiene possibile (anche perché la fattura è stata messa a disposizione nell’area riservata del cliente effettivo) è una comunicazione al cliente effettivo con cui si spiega l’errore e si rende noto che la fattura è a disposizione nell’area riservata. Inoltre, in relazione al soggetto che erroneamente ha ricevuto il documento (quando sarà possibile identificarlo), sarà necessario formalizzare, non tramite Sdi, l’errore al solo fine di lasciare agli atti di entrambi che il documento è stato ricevuto per un semplice errore di trasmissione.
Le riflessioni appena fatte danno quindi ancor più rilevanza alla possibilità fornita dall’agenzia delle Entrate di registrare l’indirizzo telematico attraverso il servizio web disponibile sul portale «Fatture e corrispettivi». In tal caso, infatti, lo Sdi invierà tutte le fatture all’indirizzo pre-registrato, indipendentemente dalla Pec o dal codice destinatario indicato nel file Xml della fattura, minimizzando pertanto non solo il rischio di scarto della fattura, ma anche il rischio che per errore la fattura venga trasmessa ad un soggetto sbagliato.
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Matteo Ravera
Benedetto Santacroce

Rettifica Iva per chi aderisce al regime forfettario

Attenzione alla rettifica Iva per i soggetti che «optano» per il nuovo regime forfetario, ampliato dalla legge di Bilancio 2019.

La più rilevante novità introdotta dalla legge di Bilancio 2019, articolo 1, comma 9 della legge 145/2018, per quanto riguarda il regime forfetario, è l’innalzamento della soglia di redditi che permettono l’accesso al regime in parola. Essa, infatti, viene portata genericamente a euro 65mila, eventualmente ragguagliati ad anno, tenuto conto che il nuovo comma 54 dell’articolo 1 della legge 190/2014, come sostituito dalla legge di Bilancio citata, dal primo gennaio di quest’ultimo anno stabilisce semplicemente e letteralmente che «I contribuenti persone fisiche esercenti attività d’impresa, arti o professioni applicano il regime forfetario di cui al presente comma e ai commi da 55 a 89 del presente articolo (sempre della legge 190/2014, ndA), se nell’anno precedente hanno conseguito ricavi ovvero hanno percepito compensi, ragguagliati ad anno, non superiori a euro 65.000».

Al contrario, quindi, di quanto dispone la norma in vigore fino al 31 dicembre dello scorso anno, non è più necessario verificare tutta una serie di condizioni «accessorie» quali, per esempio, il non aver sostenuto spese per lavoro dipendente o assimilato superiore a 5mila euro, e il non sostenimento di costi complessivi, per beni strumentali, non superiore a 20.000 euro, ferme restando, invece, alcune cause di esclusione.

Per quanto riguarda la determinazione del limite dei ricavi o compensi, mentre la norma fino al 31 dicembre 2018 stabilisce che non hanno rilevanza quelli derivanti da adeguamento agli studi di settore, vista la loro sostituzione con gli Isa, indici sintetici di affidabilità, la nuova norma dispone semplicemente che non rilevano gli eventuali «ulteriori componenti positivi, non risultanti dalle scritture contabili», per migliorare il proprio profilo di affidabilità, mentre continuano ad assumere rilevanza l’esercizio di contemporanee attività contraddistinte da diversi codici Ateco.

Per chi decidesse di adire al regime forfetario, è bene far presente che il passaggio da un regime diverso, può far sorgere l’obbligo di effettuare una rettifica «a sfavore» della detrazione dell’imposta assolta a monte, già operata secondo le regole ordinarie.

Passando, infatti, da un regime che vede l’applicazione dell’imposta sulle operazioni attive, a un regime che è escluso dal suo campo di applicazione, la rettifica della detrazione deve essere effettuata sui beni e sui servizi non ancora ceduti o utilizzati e sui beni ammortizzabili.

Più precisamente l’Iva relativa a beni e servizi non ancora ceduti o non ancora utilizzati deve essere rettificata in un’unica soluzione, senza attendere il materiale impiego degli stessi. Di conseguenza, nell’ipotesi in cui un contribuente intenda accedere al regime forfetario dal 2019, esso è tenuto a rettificare l’imposta versando l’Iva detratta a suo tempo con riferimento alle merci in rimanenza al 31 dicembre 2018.

Per i beni ammortizzabili, la rettifica della detrazione va eseguita soltanto se non risultano trascorsi cinque anni dall’acquisto dello stesso ovvero dieci anni per i fabbricati o loro porzioni.

Dal punto di vista operativo, la rettifica deve essere effettuata nella dichiarazione Iva dell’ultimo anno di applicazione delle regole ordinarie ossia, nel caso specifico, nella dichiarazione Iva 2019 relativa al 2018.

Fonte “Il sole 24 ore”

Il bonus dipendenti «a debito» si deduce per competenza

Il bonus riconosciuto ai dipendenti, la cui quantificazione avviene nell’esercizio successivo è fiscalmente deducibile nel periodo di competenza se la contropartita costituisce un debito.

L’agenzia delle Entrate, nella risposta n. 1 a interpello diffusa ieri, conferma che in base al principio di derivazione rafforzata non si applica il comma 1 dell’articolo 109 del Tuir, ma se l’onere ha come contropartita un Fondo la deducibilità è rimandata al periodo successivo.

La stabile organizzazione in Italia di una società estera corrisponde ad alcuni dipendenti una remunerazione costituita da una base fissa e una variabile. Quest’ultima, definita anche “bonus”, è determinata mediante un processo di valutazione condotto nell’ambito del gruppo a livello internazionale, che si conclude in un momento successivo al termine dell’esercizio di valutazione dell’operato dei dipendenti. Pertanto, il bonus è pagato in due diversi momenti: una quota (componente a) entro il termine dell’esercizio di valutazione dell’operato dei dipendenti e la parte restante (componente b) oltre il termine dello stesso, comunicata poi entro marzo dell’anno successivo.

Dal punto di vista contabile, il bonus è un onere di competenza dell’esercizio oggetto di valutazione: tuttavia, sino ad ora, la società ha dedotto nell’esercizio successivo la parte restante (componente b).

La società ritiene che, in base al principio di derivazione rafforzata, l’intero ammontare dei bonus riconosciuti ai dipendenti debba essere fiscalmente dedotto nel periodo di competenza, quello riferito all’esercizio oggetto di valutazione dell’operato dei dipendenti, ovvero il 2017.

L’Agenzia precisa che, alla luce dei chiarimenti forniti dalla parte, sembrerebbe che la componente b) abbia natura di accantonamento dal punto di vista contabile ai sensi dell’Oic 29 e dell’Oic 31: questo lo renderebbe indeducibile dal reddito di impresa nel 2017 perché agli accantonamenti non si applicano le regole della derivazione rafforzata.

Viceversa, nella differente ipotesi in cui la componente b) non avesse natura di accantonamento dal punto di vista contabile, i bonus imputati nel rendiconto chiuso al 31 dicembre 2017 (annualità oggetto di valutazione), sarebbero fiscalmente deducibili nel medesimo periodo d’imposta.

Nel quesito si afferma che il costo relativo ai bonus e ai relativi contributi sociali concorre al risultato dell’esercizio di riferimento tramite l’iscrizione in dare della componente di costo in contropartita ad un elemento di rateo passivo in avere. È anche la citazione del rateo passivo, oltre che l’assenza di ulteriori informazioni, che può avere indotto l’Agenzia a rispondere con prudenza: tuttavia, in base ai principi contabili, si dovrebbe trattare di un debito, non di un rateo.

In genere i premi da corrispondere ai dipendenti in base ad accordi contrattuali, nel bilancio in chiusura, costituiscono debiti (Oic 19): discorso diverso se i parametri di calcolo non sono prefissati e lo saranno nel successivo perché in tale situazione sarà contabilizzato un fondo. In definitiva, ogni situazione deve essere risolta analizzando documentazione e singoli aspetti.

Fonte “Il sole 24 ore”

Bollo e-fattura, conto automatico e pagamento trimestrale

Per le fatture elettroniche pagamento del bollo entro il 20 del mese successivo al trimestre di emissione. Le nuove regole, però, non operano per gli atti e i documenti fiscali informatici diversi dalle fatture elettroniche.

La novità, che avrà un impatto diretto già sulle fatture elettroniche emesse dal 1° gennaio 2019, è stata prevista dal decreto del ministro dell’Economia del 28 dicembre 2018, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 7 gennaio. In particolare, il Dm ha stabilito che il pagamento dell’imposta relativa alle fatture elettroniche emesse in ciascun trimestre solare deve essere effettuato entro il giorno 20 del primo mese successivo.

Per quanto riguarda l’ammontare da versare per le e-fatture emesse, sarà la stessa agenzia delle Entrate a comunicarlo al contribuente, sulla base dei dati presenti nelle fatture elettroniche inviate attraverso il Sistema di interscambio (Sdi). Nello specifico, l’informazione relativa all’ammontare dell’imposta dovuta sarà riportata all’interno dell’area riservata del contribuente, presente sul sito dell’Agenzia. È evidente che lo scopo della disposizione è quello di semplificare le modalità di pagamento delle imposte di bollo relative alle fatture elettroniche e facilitare così l’adempimento da parte del contribuente.

A completare il nuovo perimetro applicativo sono, poi, le due modalità di pagamento previste; difatti, sul sito dell’Agenzia sarà messo a disposizione un servizio che permetterà agli interessati di pagare l’imposta di bollo con addebito sul conto corrente bancario o postale. In alternativa, il contribuente potrà utilizzare il modello F24 predisposto dall’Agenzia. Questa semplificazione è sicuramente apprezzabile, in quanto un calcolo automatizzato evita errori e consente ai contribuenti di verificare eventuali dimenticanze.

Per le fatture in formato Xml, non vanno comunque considerate tutte le altre modalità di pagamento, come il contrassegno o l’assolvimento dell’imposta mediante autorizzazione virtuale. In riferimento a quest’ultimo profilo, l’Agenzia ha recentemente chiarito con una Faq che i soggetti autorizzati al pagamento del bollo virtuale ai sensi dell’articolo 15 del Dpr 642/1972, che emettono esclusivamente fatture elettroniche, possono rinunciare all’autorizzazione nelle modalità previste dall’articolo 15 del Dpr 642/1972.

Si evidenzia, infine, che le fatture elettroniche per cui è obbligatorio l’assolvimento dell’imposta di bollo devono riportare annotazione specifica di assolvimento dell’imposta ai sensi del decreto ministeriale così modificato.

Resta, invece, fermo quanto già previsto dal Dm del 17 giugno 2014 per il pagamento dell’imposta relativa agli atti, ai documenti ed ai registri (ad esempio il libro giornale), emessi o utilizzati durante l’anno. Il decreto in esame ha difatti espressamente lasciato inalterata la precedente modalità, che prevede il versamento dell’imposta in un’unica soluzione entro 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio e cioè entro il 30 aprile dell’anno successivo o 29 aprile per gli anni bisestili, dopo avere calcolato quanto complessivamente dovuto per tutte le fatture elettroniche emesse durante l’anno.

In definitiva, la nuova disposizione introduce un sistema binario a seconda del tipo di documento a cui si riferisce l’imposta di bollo, aggiungendo di fatto al sistema e-fattura un automatismo che può risultare particolarmente agevole per gli operatori economici.

Fonte “Il sole 24 ore”

Regime forfettario, doppia verifica sulle partecipazioni in mano ai professionisti di Giorgio Gavelli

di Giorgio Gavelli

Per entrare nel nuovo regime forfettario i professionisti dovranno prima superare lo sbarramento delle situazioni di incompatibilità. Lo stop alla tassa piatta del 15% prevista da quest’anno per le partite Iva scatta in caso di controllo (anche indiretto) ed esercizio di una attività “riconducibile”, anche indirettamente, a quella condotta come professionista singolo. Ma sull’effettiva interpretazione di queste norme della Manovra 2019 (articolo 1, comma 55 della legge 145/2018 ) si stanno già interrogando i professionisti, sia chi è già in regime forfettario, sia chi può rientrarvi con la nuova soglia di 65mila euro. Certo, rispetto ai primi testi la flessibilità è maggiore: prima infatti qualsiasi partecipazione bloccava l’accesso, ma anche ora le posizioni di confine potrebbero essere molte, e tutto dipenderà dai criteri interpretativi diffusi dalle Entrate.

Attualmente, le situazioni di conflitto possono essere distinte in due gruppi:

le partecipazioni sempre escluse, quali quelle in società di persone, studi associati o imprese familiari, indipendentemente dal ruolo e dall’oggetto dell’attività. In passato (il riferimento era, allora, il regime dei “minimi”) c’è stata un’apertura al socio accomandante «senza ingerenze» nell’attività (circolare 17/E/2012 ), ma ora, vista la stretta del legislatore, anche questa posizione sembra essere più “fuori” che “dentro”;

le partecipazioni che diventano inconciliabili solo se qualificate sotto il duplice aspetto del controllo e dell’attività economica esercitata, in Srl e associazioni in partecipazione (da notare che non vengono citate Spa, società cooperative e in accomandita per azioni che, quindi, non dovrebbero creare incompatibilità). Resta sempre fuori, presumibilmente, la società agricola, se non produce reddito d’impresa (risoluzione 27/E/2011).

Ma come declinare in concreto i due requisiti? Il controllo, anche indiretto, è nozione giuridica (articolo 2359 del Codice civile), che distingue due diverse figure (“di diritto” e “di fatto”) – non citate dalla disposizione sui forfettari – e che impone di considerare i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta. Se si optasse per un controllo “di diritto”, l’applicazione sarebbe più semplice ma anche facilmente eludibile. È, quindi, probabile che l’interpretazione ufficiale si muova più verso il controllo “di fatto”, puntando il soggetto economico, se non addirittura il titolare effettivo (Dlgs 90/2017). Questa informazione peraltro a regime sarà reperibile direttamente dal registro imprese. Se così fosse, ad esempio, al commercialista o al consulente del lavoro, soci di maggioranza della società di elaborazione dati con il coniuge, non basterebbe riservarsi solo il 40% donando il resto al coniuge, per sfuggire al controllo poiché, nella sostanza, non cambierebbe nulla e si potrebbe incorrere nel controllo indiretto.

Ancora più difficile da decifrare è la “riconducibilità” dell’attività svolta dalla struttura partecipata rispetto a quella del singolo che aspira al forfait. Qui un riferimento facile per l’interprete è presente nella stessa disciplina del regime di favore, con la differenziazione dei coefficienti di redditività basata proprio su una ripartizione dei codici Ateco per settore di attività. Ma se questo fosse il criterio, l’incompatibilità sarebbe abbastanza estesa, nel senso che i gruppi selezionati per la redditività sono solo 9, con gli ultimi due ( servizi intellettuali e finanziari e gruppo residuale) che comprendono tantissime attività, tra loro anche distanti. Ad esempio, il professionista potrebbe essere socio (anche di maggioranza) in una società immobiliare o in un ristorante, ma si troverebbe escluso partecipando in un’attività di servizi anche poco attinente; è il caso di un geometra socio maggioritario di una Srl di pubbliche relazioni o di traduzioni. Verrà predisposta una tabella differente, più rispondente allo scopo, magari esaminando i vari ordinamenti professionali per qualificare le attività «assimilabili» a quella principale? Difficile, ad oggi, immaginarlo. L’importante è che non si resti nel limbo dei principi (troppo) generali, che ogni contribuente (ed ogni ufficio) potrebbe riempire di contenuti in modo più o meno libero. Già perché il venir meno (retroattivamente: articolo 1, comma 74, legge 190/2014 ) dei requisiti per il forfettario dopo un accertamento è una specie di “tsunami” tributario, e non è il caso di collegare effetti così rilevanti a questioni interpretative. In attesa dei chiarimenti, dunque, meglio essere prudenti.

Fonte “Il sole 24 ore”

Niente cartelle a Natale, congelate 255mila notifiche

Dati Mef di fine settembre: scende dell’8% il numero di liti tributarie pendenti
Anche le cartelle si preparano ad andare in ferie. Durante le festività natalizie l’attività di notifica di quasi tutti gli atti di agenzia delle Entrate-Riscossione sarà congelata: per la precisione, la sospensione andrà dal 23 dicembre fino al 6 gennaio 2019, con l’obiettivo di evitare disagi ai contribuenti.
La contabilità dell’operazione rende l’idea dell’impatto della sospensione: in queste due settimane, infatti, era previsto l’invio di quasi 268mila atti. L’unica eccezione è prevista per quelli inderogabili (meno di 13 mila), che dovranno essere comunque notificati, in buona parte tramite Pec.
Nel dettaglio, allora, sarà bloccata la notifica di 207.968 atti, che sarebbero altrimenti arrivati per posta, a cui aggiungere 46.851 documenti da notificare attraverso la posta elettronica certificata, per un totale di 254.819 cartelle e avvisi. Dopo il periodo di sospensione, comunque, la notifica ripartirà.
Le regioni più interessate da questo blocco sono tre: il Lazio in cui saranno congelati 35.739 atti, seguito dalla Campania (34.971) e dalla Lombardia (29.902). A seguire ci sono Veneto con 28.481 atti in stand by, Toscana (18.516), Puglia (17.561), Emilia Romagna (17.486), Calabria (13.787), Piemonte (12.449), Umbria (9.058), Sardegna (8.988), Liguria (7.554), Abruzzo (5.836), Marche (4.933), Basilicata (3.739), Friuli Venezia Giulia (3.478), Trentino Alto Adige (1.186), Molise (689) e infine la Valle d’Aosta con 464 atti. Tra le grandi città, al primo posto troviamo Roma con 27.012 atti in stand by, seguita da Napoli (22.384) e Milano, dove è sospesa la notifica di 9.802 cartelle e avvisi.
Intanto, secondo quanto comunica il ministero dell’Economia, cala il numero delle controversie tributarie pendenti: secondo i dati aggiornati al 30 settembre, scendono al di sotto delle 400mila unità (399.058), mostrando una riduzione di circa l’8% rispetto all’anno precedente, a conferma di un trend positivo iniziato già dal 2012. Nel terzo trimestre le controversie instaurate in entrambi i gradi di giudizio, pari a 38.867, registrano un incremento del 2% rispetto allo stesso periodo del 2017. Le controversie definite sono state 46.883, con un aumento di circa il 5,3% su base annua.
Fonte “Il sole 24 ore”

Sanatoria dei processi verbali anche per un solo periodo d’imposta

La maggiore criticità della sanatoria dei processi verbali di constatazione, prevista nell’articolo 1 del decreto fiscale (decreto legge 119/2018), è rappresentata dal fatto che occorre definirne integralmente il contenuto. Si tratta di una limitazione non da poco, atteso che, a regime, è sempre possibile regolarizzare le singole violazioni, attraverso il ravvedimento, con il pagamento della sanzione pari a un quinto del minimo. D’altra parte, è del tutto evidente come un simile obbligo possa determinare, da lato, un costo eccessivo della sanatoria, difficilmente sostenibile dal contribuente, dall’altro, l’accettazione anche di rilievi palesemente infondati.
In attesa dei necessari chiarimenti dell’agenzia delle Entrate è tuttavia possibile proporre alcune riflessioni sul punto.
In primo luogo, occorre chiedersi come comportarsi in presenza di un processo verbale afferente una pluralità di periodi d’imposta. Nonostante la dizione letterale della norma, si ritiene che il principio di autonomia dell’obbligazione d’imposta consenta di scegliere quantomeno le annualità che intende regolarizzare. Pertanto, in presenza ad esempio di un processo verbale afferente gli anni dal 2013 al 2015, dovrebbe essere ammesso presentare la dichiarazione integrativa unicamente per il 2015. Una simile interpretazione, peraltro, rafforzerebbe la considerazione secondo cui l’eventuale notifica di un avviso di accertamento avvenuta entro il 24 ottobre scorso risulterebbe ostativa unicamente per l’anno accertato. Se infatti si accetta l’idea che i singoli periodi d’imposta sono autonomi, si giunge agevolmente alla conclusione che anche la cause impeditive della sanatoria in esame debbano essere limitate a ciascun anno.
Occorre altresì interrogarsi se l’obbligo del recepimento integrale del contenuto del processo verbale di constatazione debba necessariamente comprendere anche i rilievi che l’Ufficio ha successivamente abbandonato.
Si pensi, solo per fare uno dei tanti esempi possibili, ad un pvc che abbia contestato l’omessa dichiarazione di ricavi, senza tenere in considerazione i maggiori costi a essi riferibili. O ancora, si ipotizzi una contestazione di indeducibilità dei costi per difetto di inerenza.
Qualora il contribuente abbia presentato memorie difensive, ai sensi dell’articolo 12 della legge 212/2000, evidenziando gli errori in cui sono incorsi i verificatori e documentando la fondatezza delle proprie richieste, l’Ufficio sarebbe tenuto a valutare tali deduzioni. Laddove nelle more della presentazione della dichiarazione integrativa, e cioè entro il 31 maggio 2019, venisse notificato l’avviso di accertamento derivante dal processo verbale con accoglimento delle eccezioni del contribuente, sarebbe molto importante capire come dovrebbe essere compilata la dichiarazione di condono.
Al riguardo, si è dell’opinione che il contribuente sia legittimato a ridurre il maggiore imponibile da dichiarare in misura corrispondente agli importi accertati. La valutazione dell’Ufficio, manifestata nell’avviso di accertamento, svolgerebbe infatti una funzione analoga a quella dell’autotutela, con effetti normalmente retroattivi. Sarebbe d’altra parte piuttosto singolare se vi fosse l’obbligo di integrare l’imponibile per un importo maggiore di quello preteso dal Fisco.
Se così fosse, i soggetti passivi avrebbero tutto l’interesse ad anticipare il momento della notifica degli atti di accertamento, con la necessaria collaborazione dell’agenzia delle Entrate.
A tale riguardo, non è di aiuto la proroga biennale dei termini dell’accertamento, prevista per i periodi d’imposta fino al 2015, relativa alle violazioni constatate nei processi verbali definibili. Si tratta di un differimento dei termini che riguarda la generalità dei processi verbali consegnati entro il 24 ottobre scorso, a prescindere dalla circostanza che il contribuente provveda o meno a regolarizzarli con la sanatoria in esame.

Fonte “Il sole 24 ore”

E-fattura senza dati superflui Niente invio per spese sanitarie

Via libera della Privacy: memorizzazione solo per le informazioni fiscali
Periodo transitorio fino al 2 luglio 2019 per il completo adeguamento
È un via libera condizionato quello che il Garante della privacy ha dato al sistema di fatturazione elettronica messo in piedi dall’agenzia delle Entrate. Dopo i pesanti rilievi mossi dall’Autorità circa un mese fa (si veda Il Sole 24 Ore del 17 novembre), l’e-fattura potrà dunque decollare il 1° gennaio, ma con significative correzioni concordate nel tavolo tecnico fra Garante, ministero dell’Economia, Entrate, Agid, Consigli nazionali dei dottori commercialisti e dei consulenti del lavoro e Assosoftware.
Riguardo alla memorizzazione delle fatture elettroniche. Il Garante aveva rilevato che l’archiviazione di tutti i dati, compresi quelli non strettamente fiscali, era sproporzionata rispetto al pur legittimo interesse pubblico perseguito. Si rischiava, infatti, di costruire una super banca dati – nel 2017 sono state emesse circa 2,1 miliardi di fatture – con informazioni capaci di incidere sui diritti e le libertà degli interessati. La soluzione dell’Agenzia è di memorizzare l’intera fattura e di renderla disponibile sul proprio sito solo nel caso il contribuente aderisca esplicitamente al servizio di consultazione. Negli altri casi, i dati “superflui” saranno cancellati. Questa messa a punto richiederà, però, un periodo transitorio e solo dal 2 luglio 2019 potrà partire il servizio di consultazione su domanda.
Il principio di minimizzazione verrà adottato anche per i controlli automatizzati, dove si utilizzeranno solo le informazioni fiscali della e-fattura. Anche per le verifiche puntuali, che possono richiedere l’esame analitico delle fatture, si dovranno pensare nuove modalità di acquisizione dei dati, perché la memorizzazione totale del documento è comunque sproporzionata, considerato che nel 2016 e 2017 i controlli hanno riguardato poco più di centomila soggetti Iva all’anno, contro 4,7 milioni di interessati.
Un altro aspetto critico era la sicurezza dei dati. Le Entrate hanno acconsentito a studiare nuove tecniche di cifrature per proteggere il viaggio delle e-fatture sullo Sdi (il sistema di interscambio gestito dall’agenzia). Entro aprile prossimo l’agenzia dovrà fornire una nuova analisi al riguardo e sempre entro quella data dovrà predisporre una nuova valutazione d’impatto dell’intero sistema, documento previsto dal Gdpr e che – si raccomanda il Garante – va predisposta «evitando di sfruttare schemi standard e semplificazioni che rischiano di comprometterne l’efficacia».
Sempre in relazione alla tutela dei dati sensibili, nonostente l’esonero dall’invio dell’e-fattura previsto dalla conversione del Dl fiscale in caso di invio dei dati al Sistema tessera sanitaria (punto su cui interviene nuovamente anche il maxi-emendamento alla manovra), il Garante precisa a chiare lettere che l’e-fattura non va mai emessa dai soggetti che erogano prestazioni sanitarie. E sul punto sollecita l’Agenzia a dare uistruzioni in modo da evitare trattamenti di dati non linea con la privacy.
Infine, è stato affrontato il problema del ruolo degli intermediari. Con il provvedimento di metà novembre l’Authority aveva richiamato l’attenzione sull’articolato sistema di deleghe delineato dalle Entrate per consentire agli intermediari e ad altri soggetti di inviare, ricevere e conservare le e-fatture. Il tavolo di lavoro ha chiarito che chi riceve dal contribuente la delega per gestire le fatture elettroniche ha anche obblighi di protezione dei dati, poiché si configura – ai sensi della normativa sulla privacy – come responsabile o sub-responsabile del trattamento. In tal senso, il Garante ha ravvisato la non conformità al Gdpr di alcune clausole contrattuali di alcune società di software gestionali, che si riservano la possibilità anche di elaborare e utilizzare i dati delle fatture su base aggregata e previa anonimizzazione. Operazioni che vanno al di là delle finalità perseguite dalla fatturazione elettronica e che devono essere valutate con attenzione.
Fonte “Il sole 24 ore”

La detrazione anticipata non vale per fatture 2018 ricevute nel 2019

Se le operazioni si sono svolte tutte nel 2018 la detrazione è al 16 gennaio
Per le fatture 2018 registrate nel 2019 diritto da esercitare nella dichiarazione Iva
Anticipata la detrazione Iva per le operazioni infrannuali anche per le fatture ricevute nei primi 15 giorni del mese successivo all’effettuazione dell’operazione. Regola, però, inapplicabile agli acquisti a cavallo d’anno. Il legislatore, dopo oltre un anno dalla modifica del regime della detrazione Iva (Dl 50/2017) e dopo le discussioni scaturite dall’intervento interpretativo sulla circolare 1/E/2018 con il Dl 119/2018, torna sull’argomento correggendo – in parte – il contrasto tra la circolare e il Dpr 100/1998.
In effetti, in base alla circolare 1/E/2018 per le fatture ricevute nei primi giorni del mese successivo a quello di effettuazione non più era più possibile detrarre l’Iva nel mese di competenza pur avendo ricevuto e registrato il documento entro il termine per la liquidazione periodica, posticipando l’esercizio del diritto al periodo successivo e creando un disallineamento tra esigibilità e detraibilità dell’imposta.
Il Dl 119/2018 modifica l’articolo 1, comma 1 del Dpr 100/1998 stabilendo ora che entro il giorno 16 di ogni mese può essere esercitato il diritto alla detrazione relativo anche ai documenti di acquisto ricevuti e annotati entro il 15 del mese successivo a quello in cui è stata effettuata l’operazione. Pertanto, a differenza di quanto accaduto fino a ottobre, con la modifica l’Iva su una fattura relativa, per esempio, a un’operazione effettuata a ottobre 2018 (datata 31 ottobre 2018) e ricevuta il 5 novembre poteva essere inclusa nella liquidazione periodica del mese di ottobre e non più in novembre.
Il legislatore si è tuttavia affrettato a specificare, in contrasto con il funzionamento dell’imposta, che tale disciplina non si applica alle operazioni effettuate nell’anno precedente, vale a dire al caso di una fattura relativa a un’operazione effettuata a dicembre 2018 (data fattura 31/12/2018) ricevuta il 5 gennaio 2019, per la quale non è possibile detrarre l’imposta nella liquidazione del 16 gennaio.
Come districarsi quindi dal complesso intreccio normativo all’approssimarsi di fine anno? Sono quattro i casi in cui le imprese (negli esempi considereremo solo i contribuenti con liquidazione mensile, ma le stesse considerazioni possono essere trasposte ai contribuenti trimestrali) potranno trovarsi: 1) fatture per operazioni effettuate nel 2018 ricevute e registrate entro la fine dell’anno; 2) fatture per operazioni effettuate a dicembre 2018 ricevute nel 2019; 3) fatture per operazioni effettuate a dicembre 2018 ricevute nello stesso mese, ma registrate nel 2019; (4) fatture per operazioni effettuate nel 2019.
Nel primo caso, il diritto alla detrazione potrà essere esercitato nella liquidazione di dicembre 2018 (16 gennaio 2019).
Nel secondo caso, si potrà esercitare il diritto alla detrazione dell’imposta solo nel 2019 anche se le fatture sono state ricevute e registrate entro il 15 gennaio, attesa l’esclusione prevista dalla nuova formulazione dell’articolo 1, comma 1, del Dpr 100/1998. Tale nuova impostazione, peraltro, rischia di avere effetti anche sulle liquidazioni Iva dei mesi successivi, in quanto una fattura 2018 ricevuta e registrata ad esempio il 5 marzo 2019 non potrà concorrere a formare la liquidazione Iva di febbraio 2019, bensì il diritto alla detrazione potrà essere esercitato solo con la liquidazione di marzo.
Nel terzo caso il diritto alla detrazione potrà essere esercitato al più tardi nella dichiarazione annuale Iva relativa al 2018 e si renderà necessaria la predisposizione di un registro Iva sezionale che permetta di escludere queste operazioni dalla liquidazione Iva del mese di registrazione che inevitabilmente sarà il 2019.
Infine, per le fatture relative a operazioni effettuate nel 2019, in un determinato mese si potrà esercitare il diritto alla detrazione relativo anche ai documenti di acquisto ricevuti e annotati entro il 15 del mese successivo a quello in cui è stata effettuata l’operazione. La complessità di gestione operativa è facilmente intuibile perché impone ai contribuenti di effettuare mensilmente un cherry picking delle fatture da inserire o da escludere dalla liquidazione Iva.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”

In arrivo le lettere di compliance per le attività finanziarie estere

Dalle autorità oltre frontiera anche i dati sui rapporti amministrati da fiduciarie
Amministrazione al lavoro per evitare le conseguenze delle informazioni duplicate
Anche quest’anno molti contribuenti che detengono attività finanziarie all’estero potrebbero ricevere dall’agenzia delle Entrate le «comunicazioni per la promozione dell’adempimento spontaneo» perché risultano aver omesso di indicarle nella dichiarazione dei redditi (quadro RW e altri). Lo scorso anno numerose lettere di questo tipo sono state inviate anche a contribuenti che, avendo affidato i propri investimenti finanziari all’estero in amministrazione o gestione ad intermediari finanziari italiani, non avevano ulteriori obblighi dichiarativi. Quest’anno, però, pare che l’amministrazione centrale abbia di molto affinato i criteri selettivi per evitare troppe comunicazioni fuori bersaglio.
Il meccanismo d’innesco delle comunicazioni è costituito dallo scambio automatico d’informazioni nelle sue varie forme (Facta con gli Stati Uniti, articolo 8 della direttiva 2011/16/UE con i Paesi europei o che hanno stipulato apposite convenzioni con l’Unione europea e Common Reporting Standard-Crs con i Paesi che vi aderiscono). Attraverso lo scambio d’informazioni, infatti, le autorità fiscali italiane ricevono annualmente l’elenco degli italiani che detengono attività finanziarie nei Paesi partner e, evidentemente, lo utilizzano come indicatore di anomalia. Da quest’anno, il rischio di “falsi positivi” è molto alto perché, per la prima volta, i dati scambiati riguardano anche Svizzera, Principato di Monaco e Austria.
Oggetto della comunicazione sono i conti di deposito custodia o gestione aperti presso istituzioni finanziarie residenti nell’altro Stato, il saldo o valore dei conti e l’importo totale lordo degli interessi, dei dividendi e degli altri redditi generati in relazione alle attività detenute nel conto pagati ed accreditati sul conto (o in relazione al conto) nel corso dell’anno solare o di altro adeguato periodo di rendicontazione, relativi appunto a soggetti residenti in Italia.
Il problema è che le autorità estere comunicano anche i rapporti che, pur amministrati da una fiduciaria italiana o gestiti da una banca o società di gestione del risparmio italiana in veste di sostituti d’imposta, sono intestati direttamente al cliente residente in Italia. Infatti, essendo il conto corrente ed il dossier estero intestati al contribuente italiano, l’intermediario estero è obbligato in linea di principio ad assolvere gli obblighi di comunicazione imposti dalla direttiva e dal Crs. Ciò in quanto la normativa relativa al Crs non prevede alcuna esimente per queste fattispecie.
Allo stato attuale si sa che l’amministrazione finanziaria è consapevole della criticità; certamente sono allo studio efficaci interventi correttivi.
A questo proposito, è molto importante tener presente che il flusso informativo fornito dagli intermediari finanziari italiani all’Archivio dei rapporti finanziari sui rapporti intrattenuti con la clientela (articolo 7, sesto comma del Dpr 605/1973 e articolo 11, comma 2 del Dl 201/2011) comprende anche le relazioni che pur essendo intrattenute con intermediari esteri sono amministrate o gestite da istituzioni finanziarie italiane. Basterebbe quindi che l’Agenzia fosse in grado di confrontare i dati provenienti dallo scambio automatico con quelli presenti nell’Archivio per selezionare le sole situazioni irregolari ed evitare l’avvio di indagini infruttuose.
Perché ciò fosse possibile occorrerebbe prevedere nelle comunicazioni inviate all’Archivio un flag con cui evidenziare che il rapporto oggetto della comunicazione è detenuto, per il tramite dell’intermediario italiano, all’estero. Meglio sarebbe se i tracciati per la comunicazione all’Archivio (il “tracciato unico”) con quelli per lo scambio automatico in modo che ci sia sostanziale corrispondenza tra i dati segnalati dall’intermediario italiano e quelli provenienti dall’estero.
Fonte “Il sole 24 ore”

La dilazione straordinaria non può essere riattivata

La rateazione può essere riaperta con la Riscossione, non con le Entrate
Non può essere riattivato il piano di dilazione straordinario delle somme dovute all’agenzia delle Entrate, ex articolo 1, commi da 134 a 138 della legge 208/2015, una volta che questo è decaduto e che il contribuente ha abbandonato la procedura di rottamazione dei carichi di cui all’articolo 6 del decreto 193/2016. La precisazione, pienamente condivisibile, giunge dalla risposta 116 dell’agenzia delle Entrate, resa in sede di procedura da interpello e pubblicata ieri.
Un contribuente, che aveva perfezionato gli accertamenti con adesione con l’agenzia delle Entrate, con il versamento della prima rata, era successivamente decaduto dal piano di pagamento rateale degli stessi. L’interessato si era tuttavia avvalso della procedura straordinaria di riammissione alla dilazione, recata nell’articolo 1, commi da 134 a 138, della legge 208/2015. Dopo aver versato le rate dovute fino a novembre 2016, il contribuente interrompeva i pagamenti.
Il carico in oggetto veniva pertanto affidato all’agente della riscossione. Con riferimento alle medesime partite, il debitore procedeva alla trasmissione dell’istanza di definizione agevolata,in base all’articolo 6 del Dl 193/2016, senza però pagare neppure la prima rata, in scadenza al luglio 2017. Stando così le cose, viene richiesto all’agenzia delle Entrate se, una volta decaduti dalla rottamazione, fosse possibile riprendere la dilazione iniziale, in forza dell’articolo 6, comma 8, lettera c), del Dl 193/2016. In virtù di tale articolo, con il pagamento della prima rata sono revocate ope legisle rateazioni pregresse, di tal che, sostiene il soggetto passivo, omettendo il versamento della rata in scadenza a luglio dello scorso anno dovrebbe essere possibile riprendere la dilazione degli accertamenti con adesione.
La risposta delle Entrate è stata negativa. Le rateazioni potenzialmente riattivabili sono infatti solo quelle pendenti nei riguardi dell’agente della riscossione, non quelle afferenti l’agenzia delle Entrate. Queste ultime, nel caso di specie, sono irrimediabilmente decadute. Per completezza, vale peraltro osservare al riguardo che nulla vieterebbe all’interessato di proporre domanda di rottamazione ter per i medesimi carichi, non sussistendo alcuna causa ostativa.
Fonte “Il sole 24 ore”