Arriva il nuovo modello RLI per registrare le locazioni

Si può usare da subito il nuovo modello o impiegare il vecchio sino al 18 maggio
Dal 19 maggio sarà accettato solo il modulo approvato con il provvedimento di ieri
Con il nuovo modello RLI cambiano le regole per la registrazione telematica dei contratti di locazione. L’agenzia delle Entrate ha diffuso ieri il provvedimento direttoriale del 19 marzo 2019 (Prot. n. 64442/2019): l’impiego del modello diventerà obbligatorio a partire dal 19 maggio 2019.
Diversamente dal precedente provvedimento, quello di ieri stabilisce che da oggi e sino al 18 maggio 2019 si potrà usare sia il nuovo che il vecchio modello, in vigore dal 19 settembre 2017 in base al provvedimento 112605/2017.
Il modello è presentabile solo in via telematica, direttamente dal contribuente o attraverso i soggetti abilitati alla trasmissione. Il modello RLI può essere usato anche dai soggetti non obbligati alla registrazione telematica dei contratti di locazione attraverso gli uffici dell’agenzia delle Entrate. Ora nel quadro “dati generali” sono entrate parecchie delle indicazioni contenute prima nella Sezione I ma di fatto non è stata introdotta alcuna notizia in più.
Le novità comunque ci sono. Vediamo le principali.
Va ricordato, anzitutto, che l’opzione per la cedolare secca è possibile da quest’anno anche per i contratti relativi a unità immobiliari commerciali di categoria catastale C/1 e relative pertinenze.
Nel quadro A, Sezione II, la casella «cedolare secca» è stata sostituita dalla casella «Tipologia di regime», dove si indica (come prima) il codice 1, 2 o 3 a seconda che, in caso di più locatori, tutti, alcuni o nessuno opti per questo regime fiscale. È stata anche introdotta la casella «tardività annualità successiva» che serve a indicare (codice 1) se si intende comunicare (in ritardo) che si vuole passare da Irpef a cedolare per l’annualità successiva. Attenzione: in questo caso non si può fare l’invio telematico ma occorre recarsi all’ufficio. Se nessuno cambia il regime si indica il codice 2 e l’invioè telematico senza problemi.
Nella Sezione III, invece, rispetto al modello del 2017, è sparita la casella «Soggetto subentrato».
Nel quadro B, Sezione I, è stata invece aggiunta per maggiore chiarezza la dicitura «subentrante» all’ultima casella a destra in alto, che prima era riservata sia al cessionario che al subentrante.
Nel quadro C la casella «Tipologia immobili» ha solo cambiato nome ma la regola di indicare prima l’immobile principale e poi la pertinenza è rimasta uguale. Così come è cambiato il nome del quadro D (ora «Regime di tassazione») ma la compilazione resta identica.
Già nel precedente nuovo modello era stato previsto il quadro E, inserito per rendere chiaro se, in relazione a una o più annualità del contratto sottoposto a registrazione, è prevista la corresponsione di un canone diverso in funzione della durata del contratto. E anche qui non sono cambiate le regole di compilazione.
Nel provvedimento di ieri è ricordato che il modello, se presentato su carta, va stampato con inchiostro nero.
Si può evitare di trasmettere in allegato il contratto se i locatori o i conduttori non sono più di tre (tutte persone fisiche), l’affitto riguarda una sola unità abitativa e non più di tre pertinenze e nel contratto non ci sono patti che non riguardano la locazione.
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Saverio Fossati

Detrazioni Iva a rischio dopo la procedura esecutiva

L’effetto della mancata emissione della nota di accredito nei termini
La posizione delle Entrate riguarda anche le procedure concorsuali
La mancata emissione della nota d’accredito “nei termini” mette a rischio il recupero dell’Iva anche in caso di procedura concorsuale o esecutiva. Queste sono le conseguenze desumibili dalla risposta 55/2019, allineata alle conclusioni della precedente risposta n. 113 del 2018 in materia di note di variazione nel concordato preventivo “in continuità”. Per evitare tali effetti, occorre dunque conoscere la data che, secondo il Fisco, attesta l’infruttuosità della procedura. È a partire da tale data, infatti, che si può operare la variazione in diminuzione, tenendo presente che, in base al vigente articolo 19, comma 1, Dpr 633/72, l’imposta è recuperabile, al più tardi, con la dichiarazione relativa all’anno in cui il diritto è sorto e alle condizioni del momento in cui è sorto. Solo per le rettifiche i cui presupposti si sono manifestati ante 1° gennaio 2017, il termine per il recupero del tributo è quello della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello di nascita del diritto, come previsto dalla precedente versione dell’articolo 19 (circolare n. 1/E/2018).
Per il fallimento è necessario che sia decorso il termine per le osservazioni al piano di riparto (circolare 77/E/2000) o, se non c’è riparto, quello per il reclamo al decreto di chiusura della procedura (risoluzione 195/E/2008). In caso di concordato preventivo, oltre alla sentenza che omologa la procedura, si deve considerare anche il momento in cui il debitore adempie gli obblighi assunti (circolare 8/E/2017 e risposta 113/2018). In vista della scadenza del 30 aprile, pertanto, occorre monitorare le procedure chiuse (nel senso precisato) nel 2018 e, se non si è già provveduto, è bene affrettarsi. L’emissione entro aprile della nota di variazione (elettronica) permette, infatti, previa registrazione in apposito sezionale, di esercitare la detrazione nella dichiarazione. Se questa è già stata presentata, pare possibile ricorrere alla dichiarazione correttiva nei termini, facendovi confluire il credito portato dalla nota in diminuzione nel frattempo emessa. Secondo le Entrate, invece, il recupero non sarà possibile dopo il 30 aprile, ricorrendo alla dichiarazione integrativa a favore.
Stante la regola “transitoria” per i casi in cui il presupposto della rettifica è maturato ante 1° gennaio 2017, sono recuperabili con il modello Iva 2019 anche i crediti d’imposta verso procedure concluse nel 2016, a condizione che la variazione (per la quale non opera il limite annuale dell’articolo 26, comma 3, Dpr 633/72) sia eseguita entro il prossimo 30 aprile. Soluzione che, invece, non pare ammessa per una procedura chiusa nel 2017, ove non sia stata emessa nota di credito entro aprile dell’anno scorso.
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Pagina a cura di
Matteo Balzanelli
Massimo Sirri

Sanatoria per tutte le violazioni relative alle comunicazioni Iva

È possibile definire anche le sviste e le carenze sui dati per gli studi di settore
La regolarizzazione vale solo per violazioni che non impattano sull’imponibile
Il provvedimento 62274/2019, attuativo della sanatoria delle violazioni formali (articolo 9 del Dl 119/2018) varato venerdì dall’agenzia delle Entrate, non individua precisamente le fattispecie interessate dalla regolarizzazione, enunciando invece principi di carattere più generale: in particolare, la violazione, per essere considerata formale, non deve incidere sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo precisando, a scanso di equivoci, che l’omessa presentazione delle dichiarazioni (imposte sui redditi, Irap o Iva), anche qualora non dovesse risultare alcuna imposta dovuta, non rientra nella sanatoria delle irregolarità formali, perché questa omissione rileva sempre ai fini della determinazione della base imponibile.
Per individuare esattamente le violazioni sanabili occorre quindi interrogarsi sulla precisa latitudine della sanatoria tenendo a mente che la definizione non è subordinata al solo pagamento della quota fissa di 200 euro per anno, ma anche alla regolarizzazione postuma della violazione.
Si possono senz’altro considerare formali e quindi rientranti nella sanatoria, tutte le violazioni che vengono punite dall’articolo 8 del Dlgs 471/1997 (violazioni relative al contenuto e alla documentazione delle dichiarazioni) con la sanzione fissa. È il caso, ad esempio, dell’omessa o irregolare presentazione dei dati afferenti l’applicazione degli studi di settore. Inoltre, sono da considerarsi formali e, quindi, rientranti nella sanatoria, la gran parte degli obblighi di comunicazione previsti dall’articolo 11 dello stesso Dlgs 471/1997, come, ad esempio, la comunicazione di sintesi delle liquidazioni periodiche, la comunicazione dei dati delle fatture e degli elenchi Intrastat. Rientrano, inoltre, sicuramente nella sanatoria anche le violazioni relative all’inversione contabile quando l’imposta è stata assolta dalla controparte (articolo 6, commi 9-bis1 e 9-bis2), l’omessa presentazione del modello F24 a saldo zero e diverse altre per le quali si rimanda alla tabella a fianco.
Il provvedimento precisa anche che rientrano nella sanatoria non solo le violazioni formali commesse dai contribuenti, ma pure quelle che riguardano i sostituti d’imposta, gli intermediari ed i soggetti, più in generale, tenuti alla comunicazione di dati fiscalmente rilevanti. In quest’ambito vanno quindi segnalate le eventuali violazioni commesse dagli intermediari abilitati nelle trasmissioni delle dichiarazioni dei propri assistiti, sanzionabili ai sensi dell’articolo 7-bis del Dlgs 241/1997 e quelle più in generale inerenti le varie comunicazioni all’anagrafe tributaria .
Più dubbia è l’applicabilità della sanatoria alle violazioni che non sono state già regolarizzate grazie al ricorso alla cosiddetta remissione in bonis. Ci riferiamo, ad esempio, all’accesso ai regimi fiscali opzionali, subordinati all’obbligo di preventiva comunicazione o di altro adempimento di carattere formale. Vista la posizione assunta nel provvedimento si potrebbe sostenere che queste violazioni possono aver inciso sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo per cui resterebbero estranee alla sanatoria.
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Dario Deotto
Gian Paolo Ranocchi

Voucher monouso, tassazione al momento dell’emissione

Rilevante ai fini Iva l’individuazione di beni e servizi preacquisiti
Il multiuso è invece tassato solo al riscatto con passaggi intermedi fuori campo Iva
L’utilizzo dei voucher nel commercio e nel welfare aziendale ridetermina il momento di tassazione Iva delle singole operazioni, solo se lo stesso individua beni e servizi preacquisiti. Per comprendere appieno la problematica è in primo luogo necessario chiarire cosa rientra nella nozione di voucher e, di conseguenza, cosa – in aggiunta alle esclusioni previste dalla normativa comunitaria per i buoni sconto, i titoli di trasporto, i biglietti di ingresso a cinema e musei, i francobolli e altri titoli simili – ne è estraneo.
Anzitutto, un voucher, sebbene possa essere emesso per facilitare un processo di pagamento, non è uno strumento di pagamento. La distinzione fra le due fattispecie si fonda sull’esistenza o meno di un diritto preacquisito a ricevere beni o servizi. Più precisamente, gli strumenti di pagamento si distinguono dai voucher in quanto non incorporano tale specifico diritto, ma hanno l’unica finalità di effettuare un pagamento.
Il riscatto di un voucher contro la prestazione di beni o servizi non realizza un pagamento. Il riscatto rappresenta l’esercizio del diritto, che il voucher incorpora, a ricevere beni/servizi sorto in via anticipata (preacquisito) rispetto alla prestazione, ovvero sorto a seguito del pagamento corrisposto “a monte” all’atto dell’acquisto del voucher. Al contrario, uno strumento di pagamento non incorpora tale diritto. Uno strumento di pagamento per coprire il costo di beni o servizi conferisce al titolare il diritto a ricevere tali beni o servizi solo nel momento di effettuazione del pagamento realizzato tramite l’utilizzo del credito rappresentato dallo strumento in questione. Pertanto, uno strumento che non incorpora il diritto (preacquisito) a ricevere beni o servizi ma ne determina il sorgere contestualmente della sua presentazione per il riscatto non è un voucher ma è da assimilarsi a un mezzo di pagamento.
Va poi precisato che un voucher può non contenere l’indicazione specifica dei beni o servizi a cui dà diritto. Il nuovo articolo 6-bis del Dpr 633/72 stabilisce che un voucher deve indicare «i beni o i servizi da cedere o prestare o le identità dei potenziali cedenti o prestatori». L’uso della congiunzione disgiuntiva «o» suggerisce l’obbligo di menzionare almeno uno fra i beni/servizi e i cedenti/prestatori. Così, si ritiene riconducibile alla nozione di voucher un buono ad valorem da utilizzare presso un esercizio commerciale convenzionato che vende beni soggetti ad aliquote Iva diverse, contro beni scelti dal titolare del voucher all’atto del riscatto fra quelli in vendita. Un voucher con tali caratteristiche rientra fra i buoni multiuso dato che la prestazione (cessione di beni o prestazione di servizi) a cui dà diritto non è individuata con sufficiente precisione da poter fissare il corretto regime Iva già dal momento dell’emissione. Se, invece, un voucher incorpora il diritto a ricevere beni/servizi per i quali già all’atto dell’emissione si dispone di tutte le informazioni necessarie per applicare la appropriata disciplina Iva – in particolare, l’aliquota e il luogo di cessione/prestazione – il voucher è da ricondurre alla categoria dei monouso. La differenza fra le due tipologie è che il monouso è tassato all’atto dell’emissione come se con l’emissione si realizzasse la cessione del bene o la prestazione del servizio a cui il voucher dà diritto. Di conseguenza – come se venissero ceduti tali beni/servizi sottostanti – sono tassate anche tutte le cessioni intermedie del buono prima del riscatto, il quale avviene senza applicazione dell’Iva, essendo essa già stata corrisposta a monte (all’emissione). Al contrario, un voucher multiuso è tassato solo al riscatto, quando sono individuati i beni/servizi a cui dà diritto e, con questi, la relativa disciplina Iva. Di conseguenza, i passaggi intermedi del voucher, in quanto mere movimentazioni finanziarie, sono fuori campo Iva.
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A cura di
Matteo Mantovani
Benedetto Santacroce

Nel decreto sblocca-cantieri torna il superammortamento ed entra il taglio dell’Ires al 22,5%

Il decreto sblocca-cantieri si allarga e punta a prendere la forma di un provvedimento a tutto campo per la crescita: la vera «manovra-bis» nell’ottica del governo, chiamata non a correggere i conti ma a spingere il Pil.

Per farlo, nelle prime versioni conta 35 misure articolate in aree: fisco per la crescita, investimenti privati e investimenti pubblici. Nel primo capitolo si incontra la replica del super-ammortamento, per gli investimenti in beni strumentali fino a 2,5 milioni di euro effettuati dal 1° aprile al 31 dicembre. Escluse però autovetture, immobili e attrezzature «di lunga durata». Nel capitolo fiscale dovrebbe poi trovare spazio la riduzione progressiva dell’Ires con l’obiettivo di tagliarla dal 24 al 20 per cento, all’interno di un taglio al cuneo fiscale che comprende anche la stabilizzazione della riduzione del 30% ai premi Inail avviata per il 2019-21 dalla legge di bilancio. Ma la misura deve ancora risolvere il problema delle coperture per trovare una definizione. Sempre in campo fiscale, tra le novità in arrivo va segnalata l’eliminazione dell’obbligo di interpello per accedere al Patent Box, lo sconto fiscale sui beni immateriali, la proroga del credito d’imposta per ricerca e sviluppo, l’estensione delle agevolazioni per il rientro dei cervelli dall’anno d’imposta 2020. In cantiere anche una correzione necessaria per rimettere in moto il mercato dei Pir (Piani individuali di risparmio): si prevede una «rimodulazione progressiva della quota di investimenti qualificati» da destinare al Venture Capitale e all’Aim per arrivare «gradualmente alla percentuale del 3,5%» introdotta con la manovra.

Un’altra correzione arriva poi per la Flat Tax: i datori di lavoro che accedono alla tassa piatta dovranno comunque applicare le ritenute ai loro dipendenti.

Si studia poi un versante sugli investimenti locali, con una replica da 450 milioni per la spinta alla spesa in conto capitale dei Comuni fino a 50mila abitanti. Agli enti locali si estende poi il piano di dismissioni immobiliari.

Sotto esame anche i tempi di pagamento, in particolare nelle transazioni fra privati. Come forma di «moral suasion», si chiede alle aziende di dichiarare nelle scritture contabili i tempi medi utilizzati per pagare i propri fornitori, evidenziando quelli che sforano i tetti di legge.

Il provvedimento rappresenta nelle intenzioni del governo una sorta di antipasto al Def di aprile, nel quale potrebbero trovare posto anche i progetti più ampi di riforma fiscale. Ai tavoli del Mef si è tornati in questi giorni a parlare della trasformazione in sconto fiscale del bonus da 80 euro, oggi classificato come spesa pubblica. La mossa, complicata, non troverà spazio nel decreto, ma si riapre appunto in vista del Def.

In fatto di fisco, in prima fila c’è il taglio Ires per utili e riserve che vengono lasciati in azienda e non distribuiti ai soci. Sul tavolo c’è l’idea di un taglio dell’aliquota, che punta a ridurla di quattro punti. Non tutto subito, ma una parte delle coperture arriverebbe dall’addio alla mini-Ires, che si sta rivelando più complicata del previsto nelle sue traduzioni pratiche. A inizio settimana lo ha riconosciuto anche il sottosegretario all’Economia Massimo Garavaglia, all’assemblea delle piccole e medie imprese di Assolombarda. Di qui l’idea di utilizzare le risorse messe a bilancio per questa misura (1,1 miliardi per il 2019, 1,5 per il 2020 e 1,9 per il 2021) per avviare il taglio dell’aliquota: già per il 2019 si potrebbe scendere a 22,5%, per poi abbassarsi di un punto all’anno per arrivare a regime al 20% nel 2021-22. Questo è il calendario che si ricaverebbe dal quadro finanziario attuale; ma come sottolineato a Milano dallo stesso Garavaglia l’ambizione è quella di ridurre i tempi planando al 20% già con la manovra d’autunno. Saldi e clausole permettendo.

Errori formali, regolarizzazione entro il 2 marzo del 2020

Efficacia della sanatoria subordinata alla rimozione – anche se un po’ nebulosa – delle irregolarità o omissioni. Apertura anche alle violazioni commesse da sostituti d’imposta e intermediari abilitati. Sono alcuni degli aspetti più rilevanti contenuti nel provvedimento di ieri del direttore dell’agenzia delle Entrate (prot. 62274/2019) in attuazione della sanatoria delle irregolarità formali disciplinata dall’articolo 9 del Dl 119/2018.

Ambito applicativo

Le violazioni formali regolarizzabili sono quelle commesse fino al 24 ottobre 2018 da contribuenti, sostituti d’imposta, intermediari e chiunque sia tenuto ad adempimenti fiscalmente rilevanti. Il provvedimento, quindi, apre anche alle violazioni commesse dagli intermediari telematici.

Il primo elemento fondamentale per accedere alla regolarizzazione è che, per la violazione formale, risulti competente l’agenzia delle Entrate all’irrogazione della sanzione. Il secondo è che la violazione non incida sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo. Il provvedimento precisa che l’omessa presentazione delle dichiarazioni (imposte sui redditi, Irap o Iva), anche qualora non dovesse risultare un’imposta dovuta, non rientra nella sanatoria.

La rimozione dell’errore

Il secondo presupposto per accedere alla sanatoria è la rimozione delle irregolarità od omissioni commesse per ciascuno dei periodi d’imposta per i quali si effettua il versamento dei 200 euro. Su questo aspetto, molto delicato, il provvedimento disciplina diverse casistiche in modo non chiarissimo (punto 2.7). Il termine ordinario entro cui la rimozione degli errori deve essere effettuata è il 2 marzo 2020. Si prevede però che se il soggetto interessato non ha effettuato per un giustificato motivo (quale possa essere è ignoto) la rimozione di tutte le violazioni formali dei periodi d’imposta oggetto di regolarizzazione, la sanatoria è comunque efficace se la rimozione avviene entro un termine fissato dall’Agenzia, che non può essere inferiore a 30 giorni. La rimozione va in ogni caso effettuata entro il 2 marzo 2020 in presenza di violazioni formali già constatate o per la quale sia stata irrogata la sanzione oppure comunque fatta presente (la violazione) all’interessato. È comunque chiaramente detto che l’eventuale mancata rimozione di tutte le violazioni formali non pregiudica gli effetti della regolarizzazione sulle violazioni formali correttamente rimosse. Quindi, in questo ginepraio si può dire che, la deadline per la rimozione dell’errore è il 2 marzo 2020. Che tutto ciò che è sanato entro tale data è attratto nella sanatoria (a condizione che siano versati i 200 euro). E che ci saranno casi in cui il soggetto che ha versato i 200 euro potrà far valere la sanatoria anche regolarizzando l’errore post-controllo nel termine che sarà fissato dall’Agenzia.

Il provvedimento stabilisce ulteriormente che la rimozione non va effettuata quando non sia possibile o necessaria avendo riguardo ai profili della violazione formale. Si evoca, a tale riguardo, le violazioni riguardanti l’errata applicazione dell’inversione contabile ma potremmo aggiungere, anche gli errori e le omissioni relativi alle comunicazioni periodiche Iva poi assorbite dalla dichiarazione annuale Iva.

Il provvedimento dispone il divieto della compensazione, anche se non stabilito dalla norma. Infine, sorprendentemente, si prevede che il differimento di due anni dei termini di accertamento per le violazioni commesse fino al 31 dicembre 2015, stabilito dal comma 6 dell’articolo 9, riguarda i Pvc anche successivi al 24 ottobre 2018. Davvero criptica – oltreché indeterminata – anche tale previsione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Esteso il patteggiamento con debito fiscale non estinto

Possibilità ampliata ai reati di dichiarazione infedele e omessa presentazione
La divergenza delle cause di non punibilità resta il nodo da sciogliere
È legittimo il patteggiamento della pena per i reati di dichiarazione infedele, omessa presentazione e occultamento di scritture contabili anche senza aver estinto il debito tributario. A enunciare questo innovativo principio di diritto è la Corte di cassazione, terza sezione penale con la sentenza 10800/2019
Un imprenditore era imputato di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi e dell’Iva e di occultamento di scritture contabili.
Il tribunale, previo consenso del Pm, lo ammetteva al patteggiamento. Avverso tale decisione la procura generale proponeva appello per Cassazione lamentando l’inosservanza dell’articolo 13 bis del decreto legislativo 74/2000, in base al quale l’applicazione della pena concordata in base all’articolo 444 del Codice di procedura penale può essere chiesta dalle parti solo dopo l’estinzione dei debiti tributari con il pagamento delle sanzioni amministrative e degli interessi, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento.
Nella specie questa condizione non si era verificata, per cui il pubblico ministero non avrebbe dovuto prestare il proprio consenso al patteggiamento, fermo restando che il tribunale avrebbe dovuto, d’ufficio, verificare la ritualità della richiesta del rito alternativo
La Cassazione ha rigettato il ricorso della Procura affermando un innovativo principio di diritto.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto ribadito che la condizione per accedere al patteggiamento per i reati tributari è costituita dal preventivo e integrale pagamento del debito, delle sanzioni e degli interessi, nonché dal ravvedimento operoso. Tale regola generale, prevista dall’articolo 13-bis del Dlgs 74/2000, subisce tuttavia alcune eccezioni e, segnatamente, la possibilità comunque di usufruire della causa di non punibilità in caso di integrale pagamento del debito. Si tratta in particolare dei seguenti illeciti:
omesso versamento delle ritenute, dell’Iva e indebita compensazione di crediti di imposta spettanti, nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga entro l’apertura del dibattimento;
omessa presentazione della dichiarazione ovvero presentazione infedele se il debito tributario, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa sia avvenuto entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, e tali adempimenti siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di controlli, attività di accertamento o procedimenti penali.
In passato la Cassazione (sentenza 38684/2018) aveva condivisibilmente ritenuto che per i reati di omesso versamento non valeva, ai fini del patteggiamento, la previsione dell’integrale pagamento del debito in quanto, ove fosse avvenuto, l’imputato conseguiva la non punibilità.
In sostanza se il contribuente avesse pagato il dovuto entro l’apertura del dibattimento non era più punibile e pertanto doveva dedursi che per accedere al patteggiamento il pagamento non fosse necessario. Ora i giudici, estendono tale principio anche ai delitti di omessa presentazione e dichiarazione infedele e quindi il pagamento dei tributi derivanti dalla commissione di tali reati, poiché fa conseguire la non punibilità, non può essere richiesto come condizione per il patteggiamento.
La pronuncia, da accogliere con favore, desta tuttavia qualche perplessità. La causa di non punibilità per i delitti di omessi versamenti e quelli dichiarativi non coincide. In sostanza mentre per i primi, estinguendo il debito precedentemente all’apertura del dibattimento, il contribuente consegue la non punibilità e quindi non ha senso subordinare il patteggiamento alla medesima condizione, per i reati dichiarativi sono necessari adempimenti antecedenti all’apertura del dibattimento (presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della successiva, mancata conoscenza dell’avvio di attività di controllo). Ne consegue che l’imputato può estinguere il debito ma non ottenere la non punibilità perché ad esempio ha pagato successivamente alla conoscenza dell’attività di controllo ma prima del dibattimento.
Per queste ragioni potrebbe ammettersi il patteggiamento solo a condizione del pagamento del debito, atteso che, a differenza degli omessi versamenti, tale adempimento non fa scattare automaticamente la non punibilità.
Infine la Cassazione ha chiarito che per i reati di occultamento e distruzione delle scritture contabili il patteggiamento deve essere accordato senza alcun pagamento del debito in quanto si tratta di illeciti che di per sé non determinano un debito di imposta.
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Antonio Iorio

Il modello 730 senza sostituto richiede l’effettiva assenza di un datore di lavoro

Il rimborso derivante dalla presentazione del modello 730 viene, di norma, effettuato dal datore di lavoro di cui il contribuente è dipendente nel momento in cui sono da effettuare le operazioni di conguaglio, ma alcune categorie di persone in quella fase non hanno un sostituto di imposta. Si pensi, ad esempio, ai disoccupati privi di Naspi, oppure a colf o badanti che hanno un datore di lavoro privato che non è sostituto di imposta. In questi casi, da qualche anno è possibile presentare anche il modello «730 senza sostituto», indicando il codice «A» nell’apposita casella prevista nel frontespizio ed in tal modo il rimborso spettante viene effettuato direttamente dalle Entrate.

In tempi di crisi economica, oltre ai dipendenti che hanno un regolare sostituto e quelli che invece non hanno un datore di lavoro che possa ordinariamente effettuare il conguaglio, si è andata affermando anche una terza categoria di contribuenti: quelli che avrebbero un sostituto di imposta che dovrebbe erogare il rimborso del modello 730, ma che fanno finta di non averlo, in quanto ben sanno che difficilmente riceverebbero il rimborso Irpef dallo stesso.

Ricadono in quest’ultima fattispecie i dipendenti di aziende con problemi di liquidità o che non erogano i rimborsi ai dipendenti perché non hanno ritenute da corrispondere all’Erario da compensare in F24 con i rimborsi liquidati in busta paga. La soluzione “pratica” che a volte alcuni dipendenti individuano per ricevere il rimborso dall’agenzia delle Entrate è quella di indicare fittiziamente nel 730 l’assenza del sostituto, anche perché fino a quando non verrà presentata la loro Certificazione unica gli uffici non sono in condizione di poter controllare la veridicità dell’assenza di sostituto.

A ben vedere, per effetto di tale escamotage il contribuente non riceverebbe niente più di quanto gli spetta, ma le irregolarità che attengono al contenuto della dichiarazione, ancorché non incidenti sulla determinazione della base imponibile o del tributo, danno luogo a vizio formale e la dichiarazione affetta da tali irregolarità è da considerare inesatta in base all’articolo 8 del Dlgs 471/1997: la violazione di tali obblighi informativi prevede una sanzione da 250 a 2mila euro. In questo caso, peraltro, non può operare la speciale causa di non punibilità prevista per le violazioni meramente formali (articolo 6, comma 5-bis, del Dlgs 472/1997) poiché tale comportamento interferisce con le azioni di controllo erariali.

L’irregolarità in argomento, invece, non appare punibile con una eventuale declaratoria di nullità del modello presentato (articolo 1, comma 1, del Dpr 322/1998), in quanto la dichiarazione, pur irregolare, risulterebbe comunque redatta su modello conforme al provvedimento direttoriale delle Entrate. Diverso, invece, sarebbe il caso se il modello irregolare fosse presentato da contribuenti titolari di redditi non dichiarabili con il 730.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Liti pendenti, Fisco obbligato al rimborso dopo il no alla chiusura agevolata

Il Fisco, che comunica il diniego della chiusura della lite pendente, deve restituire le somme versate e non dovute. Il contribuente che si vede negare la chiusura ha infatti diritto al rimborso. L’eventuale diniego della sanatoria obbliga il Fisco a rimborsare le somme versate dal contribuente per una definizione che non è stata ritenuta valida. Il rimborso spetta se il diniego della sanatoria non è impugnato e non pendono più i termini per impugnarlo.

La scadenza del 31 maggio

La chiusura della lite pendente, a norma dell’articolo 6 del decreto legge 119/2018, si perfeziona con la presentazione della domanda e con il pagamento degli importi dovuti o della prima rata entro il 31 maggio 2019. Se gli importi dovuti superano mille euro è ammesso il pagamento rateale, in un massimo di venti rate trimestrali. Il termine di pagamento delle rate successive alla prima scade il 31 agosto, 30 novembre, 28 febbraio e 31 maggio di ciascun anno a partire dal 2019. Sulle rate successive alla prima, si applicano gli interessi legali calcolati dal 1° giugno 2019 alla data del versamento.

Dal 1° gennaio 2019 gli interessi legali sono dovuti nella misura dello 0,8% annuo. In caso di «lieve inadempimento» nei pagamenti si applicano le disposizioni di cui all’articolo 15-ter del Dpr 29 settembre 1973 n. 602. Esso stabilisce che è esclusa la decadenza in caso di lieve inadempimento dovuto a:

•insufficiente versamento della rata, per una frazione non superiore al 3% e, in ogni caso, a 10mila euro;

•tardivo versamento della prima rata, non superiore a sette giorni.

Dagli importi dovuti per la chiusura della lite, si scomputano quelli già versati a qualsiasi titolo in pendenza di giudizio. La definizione non dà comunque luogo alla restituzione delle somme già versate anche se eccedenti rispetto a quanto dovuto per la definizione. Anche se non si deve pagare nulla, per avvalersi della definizione si deve comunque presentare la domanda entro il 31 maggio 2019.

La comunicazione del diniego

L’eventuale diniego della definizione va notificato entro il 31 luglio 2020. Il diniego è impugnabile entro 60 giorni davanti all’organo giurisdizionale presso il quale pende la controversia. Nel caso in cui la definizione della lite è chiesta in pendenza del termine per impugnare, la pronuncia giurisdizionale può essere impugnata dal contribuente unitamente al diniego della definizione entro 60 giorni dalla notifica di quest’ultimo ovvero dalla controparte nello stesso termine.

Il rimborso

In caso di diniego della chiusura della lite, valgono le indicazioni dell’agenzia delle Entrate, contenute nella circolare 4/E del 2 febbraio 2007, in occasione della sanatoria di cui alla legge 289/2002. Per l’agenzia delle Entrate, l’ufficio, qualora rilevi l’irregolarità della domanda di definizione o l’omesso integrale pagamento di quanto dovuto o della prima rata, notifica al ricorrente e deposita presso l’organo giurisdizionale il diniego della definizione della lite fiscale. Il diniego della sanatoria comporta che le somme versate dal contribuente devono essere rimborsate, purché sussistano determinate condizioni. È cioè necessario che il diniego non sia impugnato e che non pendano più i termini per impugnarlo. Insomma, il diniego deve essere definitivo, perché solo il decorso del termine per impugnarlo o il passaggio in giudicato della sentenza che statuisce in merito alla sua legittimità rendono certo il mancato perfezionarsi della definizione.

La compensazione

Gli uffici, prima di procedere al rimborso, devono fare le verifiche del caso, quale, ad esempio, quella relativa alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione del fermo amministrativo o della compensazione volontaria (articolo 28-ter del Dpr 602/1973). Questo articolo stabilisce che in sede di erogazione di un rimborso, l’agenzia delle Entrate verifica se il beneficiario è iscritto a ruolo e, in caso affermativo, trasmette in via telematica apposita segnalazione all’agente della riscossione che ha in carico il ruolo, mettendogli a disposizione le somme da rimborsare.

Ricevuta la segnalazione, l’agente notifica all’interessato una proposta di compensazione tra credito d’imposta e debito iscritto a ruolo, sospendendo l’azione di recupero e invitando il debitore a comunicare entro 60 giorni se intende accettare. In caso di rifiuto della proposta o di mancato tempestivo riscontro, cessano gli effetti della sospensione e l’agente della riscossione comunica in via telematica alle Entrate che non ha ottenuto l’adesione dell’interessato alla proposta di compensazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

La rivalutazione dei beni d’impresa «supera» il costo storico

Appuntamento con la rivalutazione dei beni dell’impresa nei bilanci del 2018 in chiusura; infatti, la legge di Bilancio 2019, con i commi 940-950, ha riaperto i termini per procedere alla rivalutazione.

L’aggiornamento dei valori è una opportunità da valutare, ad esempio, nel caso di imprese che detengono beni riscattati a seguito del contratto di leasing e tuttora impiegati nel processo produttivo; così pure la rivalutazione è opportuna per gli assets che nei prossimi anni saranno ceduti nonché per il riallineamento dei disavanzi di fusione imputati sul valore dei beni immobili.

La rivalutazione, infatti, consente di sostituire il costo storico del bene con il suo valore effettivo, determinando, in caso di cessione, una minore plusvalenza.

Le regole per rivalutare

Possono accedere alla rivalutazione dei beni di impresa i soggetti indicati nell’articolo 73, comma 1, lettere a) e b) del Tuir, ovvero società di capitali ed enti commerciali, a condizione che non adottino i principi contabili internazionali. Possono aderire tutti i soggetti che rientrano nel reddito di impresa, compresi i contribuenti in contabilità semplificata.

Sono rivalutabili i beni materiali e immateriali iscritti in bilancio alla data del 31 dicembre 2017, comprese le partecipazioni e con esclusione degli immobili alla cui produzione e/o scambio è diretta l’attività di impresa. La rivalutazione deve riguardare tutti i beni appartenenti alla stessa categoria omogenea e deve essere annotata nell’inventario e nella nota integrativa.

Tutti i passaggi per le rivalutazioni

Il maggior valore riconosciuto ai beni in sede di rivalutazione si considera riconosciuto ai fini fiscali con il versamento di una imposta sostitutiva, calcolata sui maggiori valori iscritti in bilancio, pari al 16% per i beni ammortizzabili e al 12% per quelli non ammortizzabili.

Il maggior valore attribuito ai beni per effetto della rivalutazione è riconosciuto, ai fini delle imposte sui redditi e Irap a partire dal terzo esercizio successivo a quello in cui è eseguita la rivalutazione; limitatamente ai beni immobili il maggior valore derivante dalla imputazione del disavanzo di fusione è riconosciuto dal 2020.

Ciò significa che, fino al raggiungimento del terzo anno successivo a quello di rivalutazione, alla fine dell’esercizio si calcolerà l’ammortamento sul costo del bene rivalutato ma, ai fini fiscali, non essendo riconosciuto questo valore, si dovrà effettuare una variazione in aumento. L’ammortamento civilistico eccedente quello fiscalmente ammesso comporta l’emersione di un costo temporaneamente indeducibile e quindi lo stanziamento delle imposte anticipate.

Contemporaneamente alla rivalutazione, è consentito effettuare l’affrancamento del saldo attivo, mediante il pagamento di un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi, dell’Irap e di eventuali addizionali pari al 10 per cento.

La rivalutazione deve essere eseguita nel bilancio o rendiconto dell’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2017, quindi in quello relativo all’anno 2018 la cui approvazione è generalmente prevista entro il prossimo 30 aprile 2019.

La rivalutazione secondo le modalità ormai consuete può avvenire secondo tre criteri alternativi:

1) rivalutazione del costo storico e del fondo di ammortamento, mantenendo inalterata l’originaria durata del processo di ammortamento;

2) rivalutazione del solo costo storico, determinando un allungamento del processo di ammortamento, se viene mantenuto inalterato il precedente coefficiente, oppure procedendo con l’incremento del coefficiente se si intende lasciare inalterata la durata del periodo di vita utile del cespite.

3) riduzione del fondo di ammortamento con conseguente stanziamento di ammortamenti su un costo analogo a quello originario.

Si ricorda che la circolare dell’Agenzia 14/E/2017 ha fornito chiarimenti in merito.

Fonte “Il sole 24 ore”

Paradisi fiscali, anche gli Emirati nella nuova lista nera Ue

Bruxelles. L’Italia non gradiva la presenza degli Eau nell’elenco, ma ha tolto la riserva dopo rassicurazioni Dalla black list limiti all’accesso dei fondi comunitari
Dopo un tira-e-molla dell’ultimo minuto, i Ventotto hanno approvato ieri qui a Bruxelles un sofferto aggiornamento della lista dei paradisi fiscali, ossia delle giurisdizioni con i quali eventuali rapporti finanziari saranno soggetti a particolare controllo da parte delle autorità comunitarie e nazionali. L’Italia ha tolto l’iniziale riserva contro la presenza nell’elenco degli Emirati Arabi Uniti, un paese che tra le altre cose è stato di recente azionista di Alitalia attraverso Etihad.
Nata nel dicembre del 2017, la nuova lista comprende ora 15 giurisdizioni, 10 aggiunte oggi e altre cinque già esistenti. I nuovi paesi nell’elenco messo a punto dalla Commissione europea e approvata dai Ventotto sono Aruba, il Belize, Barbados le isole Bermuda, Dominica, le isole Figi, le isole Marshall, il sultanato di Oman, le isole Vanuatu e gli Emirati Arabi Uniti. Questi si aggiungono alle Samoa americane, Samoa, Guam, le isole Vergini americane e Trinidad & Tobago.
In un primo tempo, l’Italia ha posto una riserva sulla presenza nell’elenco degli Emirati Arabi Uniti, convinta che il Paese stesse facendo abbastanza per garantire trasparenza fiscale. Parlando ieri prima della riunione ministeriale e dando nei fatti il via libera italiano, il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha spiegato che la prossima approvazione di una serie di misure da parte del paese comporterà in ultima analisi una sua prossima uscita dalla lista. Il ministro Tria ha ottenuto di modificare le conclusioni della riunione, prevedendo che la lista possa essere aggiornata almeno una volta all’anno sulla base dei nuovi impegni da parte di paesi che vogliono uscire dalla lista dei paradisi fiscali. È da presumere che l’Italia voglia preservare i suoi rapporti con gli Emirati Arabi Uniti con cui ha profondi legami. Etihad è stato per alcuni anni azionista di Alitalia, mentre l’Eni ha appena rilevato una raffineria nel paese con un investimento di 3,3 miliardi di dollari.
Istituzioni finanziarie nei paesi inseriti nell’elenco non possono ricevere denaro comunitario nell’ambito del Fondo europeo di sviluppo sostenibile e del Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi). Schemi fiscali che coinvolgono questi paesi dovranno essere denunciati alle autorità. Solo gli investimenti diretti in queste giurisdizioni (ossia il finanziamento di progetti sul campo) sono consentiti, allo scopo di preservare gli obiettivi di sviluppo e sostenibilità. Altri 34 Paesi sono su una lista cosiddetta grigia (compresa la Svizzera), perché si sono impegnati a modificare la loro legislazione nazionale. L’approvazione di ieri giunge dopo che la settimana scorsa i Ventotto hanno bocciato un altro elenco preparato dalla Commissione europea, questa volta comprendente le giurisdizioni che non collaborano a livello internazionale contro il riciclaggio di denaro sporco. Una netta maggioranza di paesi si è opposta alla presenza nella lista dell’Arabia Saudita.
La nuova lista di paradisi fiscali ha provocato le reazioni negative dell’organizzazione non governativa Oxfam a causa dell’assenza di alcuni paesi quali le Bahamas o le isole Cayman. D’altra parte, l’elenco comunitario si vuole più rigoroso di altre liste nere perché messo a punto con criteri più stringenti e più numerosi. La stessa Commissione europea si dice convinta che l’elenco nato nel 2017 stia contribuendo a maggiore trasparenza fiscale a livello internazionale. Sempre ieri, infine, i ministri hanno raggiunto un accordo sulle misure necessarie a semplificare le norme fiscali nelle vendite online. Le nuove regole garantiranno un’introduzione fluida delle nuove misure in materia di imposta sul valore aggiunto nel commercio elettronico concordate nel dicembre 2017 e destinate a entrare in vigore nel gennaio 2021. Dovrebbero anche aiutare i paesi a recuperare i cinque miliardi di euro di introiti fiscali persi nel settore ogni anno.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”
Beda Romano

È autoriciclaggio il riscatto polizza con reinvestimento

La Corte di cassazione continua a precisare le condotte ed i requisiti necessari per individuare il reato di autoriciclaggio (articolo 648, 1-ter del Codice penale) configurando tale delitto anche per chi riscatta una polizza assicurativa con denaro regolarizzato attraverso il cosiddetto scudo fiscale per poi sottoscriverne altre due sempre intestate a suo nome.

Tale denaro era di provenienza illecita poiché secondo la tesi dell’accusa era stato distratto dal patrimonio di una società di capitali.

Secondo la seconda sezione penale della Cassazione (sentenza 9681/19 depositata ieri) anche il disinvestimento di una polizza ed il successivo reinvestimento delle medesime somme costituisce reato di autoriciclaggio in quanto è necessario valutare la reale natura dell’operazione relativa all’acquisto di una polizza vita, verificando la specifica struttura del contratto ed individuando la causa specifica dello stesso, procedendo pertanto ad una articolata analisi del contratto.

La Cassazione conferma così la motivazione del giudice di merito che aveva considerato l’operazione un “meccanismo” idoneo ad integrare un sistema di reinvestimento, poiché l’utilizzo del denaro, anche alla luce dell’operazione segnalata come sospetta ai fini antiriciclaggio dalla Banca d’Italia, non poteva essere considerato come diretto godimento dell’autore del reato e quindi solo per uso personale, che avrebbe escluso la punibilità.

Inoltre l’intera condotta è stata considerata idonea a configurare il delitto poiché l’operazione di disinvestimento e successivo investimento in due distinte polizze avrebbe reso possibile la dissimulazione dell’origine delle somme.

Si è infatti considerata tale attività idonea anche solo ad “allontanare” in modo mediato la correlazione tra i due controvalori trasferiti e la consistenza totale originaria della somma di provenienza illecita.

Così facendo la Suprema corte ha richiamato quindi il suo orientamento recente in tema di riciclaggio ed autoriciclaggio rammentando che non soltanto sono punibili quelle operazioni che sono volte ad impedire in modo definitivo l’accertamento ma anche quelle che rendono difficile l’accertamento della provenienza illecita del denaro.

Pertanto è stato stabilito il precedente secondo cui l’operazione avente oggetto l’acquisto con la medesima somma di due polizze diverse e di diverso importo segnalate come operazioni sospette dalla Banca d’Italia che le ha quindi valutate come tali, sia una condotta idonea ad ostacolare concretamente l’origine illecita delle risorse finanziarie dell’indagato giustificando quindi il sequestro preventivo effettuato su tali somme di provenienza delittuosa.

Fonte “Il sole 24 ore”

La società estinte prova a dribblare le pretese a titolo di sanzione

Estendere alle società le soluzioni elaborate con riferimento alla successione delle persone fisiche è utile ma vanno evitate distorsioni applicative.

A partire dal 2010, le sezioni unite della corte di Cassazione hanno a più riprese chiarito che il principio espresso dall’articolo 2495 del codice civile, nella sua formulazione vigente ancora oggi, trova applicazione sia per le società di capitali che per quelle di persone.

Pertanto, al momento della cancellazione di una società dal registro delle imprese, la medesima si estingue, a prescindere dal fatto che residuino rapporti giuridici non esauriti.

I debiti sociali, in particolare, non vengono meno, ma si trasferiscono in capo agli ex soci – sulla scorta di un fenomeno che la giurisprudenza di legittimità ha ricondotto a una successione, seppure sui generis – e, a determinate condizioni stabilite per legge, ai liquidatori, i quali rispondono dei debiti che, per loro colpa, non siano stati soddisfatti prima della chiusura della liquidazione.

Quanto alla posizione degli ex soci, peraltro, occorre distinguere il caso delle società di persone, di quelle di capitali e, per queste ultime, l’evenienza che si tratti di pendenze correlate all’assolvimento delle imposte dirette:
•gli ex soci delle società di persone (illimitatamente responsabili, durante societate) rispondono per intero e in solido tra loro delle pendenze sociali insoddisfatte;
•gli ex soci delle società di capitali, invece, sono ordinariamente tenuti al pagamento dei debiti sociali soltanto entro i limiti di valore di quanto ricevuto in forza del bilancio finale di liquidazione, mentre se i debiti insoddisfatti pertengono alle imposte dirette, i limiti della responsabilità si estendono al valore delle attribuzioni risalenti ai due periodi d’imposta precedenti l’apertura della fase liquidatoria.

Neppure i processi vanno incontro a estinzione per il venire meno della società che vi abbia assunto il ruolo di parte, ma proseguono previa riassunzione a opera o nei confronti degli ex soci; anche in questo caso, la dinamica è del tutto analoga a quella che si pone nei casi di successione a titolo universale nel diritto controverso.

Peraltro, occorre precisare che, per quanto riguarda i giudizi vertenti in materia tributaria, l’estinzione della società contribuente ha effetto soltanto decorsi cinque anni dalla cancellazione della stessa dal Registro delle imprese e il medesimo effetto concerne anche la soggettività dell’ente ai fini dell’eventuale soggezione all’accertamento e alla riscossione; pertanto, l’Amministrazione finanziaria potrà, entro i cinque anni dalla cancellazione, notificare atti impositivi e processuali alla società (sia essa di capitali o di persone) come se la stessa fosse ancora validamente costituita.

Infine, occorre soffermarsi sul destino delle pretese promananti dall’esercizio di poteri sanzionatori; per simili ipotesi, la giurisprudenza della corte di Cassazione è attualmente orientata nel ritenere che le stesse si estinguano con il venir meno dell’ente al quale sono state irrogate, in applicazione del principio, espresso nella materia tributaria dall’articolo 8 del Dlgs 472/1997, per cui le sanzioni non si trasmettono agli eredi di chi abbia commesso l’illecito.

Sennonché, si tratta di una soluzione che potrebbe meritare un ripensamento; ciò, per due distinti ordini di ragioni:
•da un lato, perché, seppure con riferimento a fattispecie diverse, la stessa giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’articolo 8 citato non è suscettibile di applicazione in via analogica;
•dall’altro lato, perché si finirebbe per agevolare ingiustificatamente i partecipanti all’impresa associata, in quanto gli stessi, mediante un procedimento riconducibile alla loro volontà (qual è la messa in liquidazione) potrebbero beneficiare dell’effetto di «purgazione» dalle pretese sanzionatorie di un patrimonio a loro, in ultima analisi, riferibile.

Fonte “Il sole 24 ore”

Niente autorizzazione per acquisire i dati archiviati dal professionista

Non è necessaria una specifica autorizzazione del procuratore della Repubblica per acquisire i dati archiviati nel Pc del professionista, se al momento del back up il personale dello studio non si è opposto. Non si tratta infatti di un’apertura coattiva, presumendosi la collaborazione del personale presente, a nulla rilevando l’assenza del professionista. A fornire questa rigorosa interpretazione è la Corte di cassazione con l’ordinanza 6486 depositata ieri.

La Guardia di Finanza accedeva in uno studio odontoiatrico, adibito anche ad abitazione del professionista, e dal Pc acquisiva radiografie di clienti poste successivamente a base della rettifica di maggiori compensi. L’accertamento veniva impugnato e, in presenza di sentenza sfavorevole della Ctr, il medico ricorreva per cassazione.

La difesa lamentava, tra l’altro, che i giudici avevano ritenuto sufficiente l’autorizzazione del procuratore rilasciata per l’accesso nei locali adibiti ad uso promiscuo anche per l’acquisizione dei predetti dati dal Pc. Inoltre, non era stato opposto il segreto professionale del dentista, in quanto il professionista era assente al momento delle operazioni.

La Corte ha rigettato il ricorso. Secondo i giudici, in assenza di opposizione del segreto professionale, deve ritenersi legittima l’acquisizione della copia dell’hard disk del Pc, pur in assenza della specifica autorizzazione prevista dall’articolo 52, comma 3 del Dpr 633/72. In base a tale disposizione, il procuratore o l’autorità giudiziaria più vicina devono autorizzare durante l’accesso l’esecuzione di perquisizioni personali, apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili, nonché l’esame di documenti e notizie per i quali è eccepito il segreto professionale.

In questo caso, non era necessaria la presenza del contribuente (che lamentava di non aver potuto opporre il segreto professionale) e in ogni caso, in occasione del verbale di constatazione, egli non aveva sollevato alcuna eccezione al riguardo.

Inoltre, il back up dei dati archiviati nel Pc dello studio era stato eseguito dai militari con la collaborazione del personale dello studio presente e pertanto non si poteva considerare un’apertura coattiva che imponeva l’autorizzazione del magistrato.

Da ultimo viene evidenziato che, in ogni caso, l’illegittima acquisizione di dati e notizie da parte de verificatori comporta la loro inutilizzabilità solo ove siano violati diritti costituzionali.

Le rigorose conclusioni della Suprema Corte suggeriscono alcuni spunti difensivi in occasione di accessi e verifiche. Innanzitutto, è opportuno contestare immediatamente le eventuali violazioni alle regole procedurali che si ritengono commesse dai verificatori o, comunque, in sede di redazione del verbale di constatazione, laddove il contribuente ha il diritto di rilasciare dichiarazioni. In difetto, diventa difficile sostenere a distanza di anni (che normalmente intercorrono tra la l’accesso e il contenzioso) che non erano stati osservati determinati adempimenti.

Inoltre, nel momento in cui il professionista sia assente e deleghi altre persone a presenziare alle operazioni dei verificatori, è necessario che queste assumano per suo conto le idonee iniziative difensive.

Infine, da segnalare il consolidato orientamento in base al quale l’inutilizzabilità ai fini tributari, dei dati e delle notizie irritualmente acquisite da verificatori, scatta soltanto se vengano violati diritti costituzionalmente garantiti (in genere il riferimento è alla violazione di domicilio). In questo caso, sono state acquisite informazioni sullo stato di salute dei pazienti che forse richiedevano una maggiore tutela da parte dei giudici di legittimità.

 Fonte “Il sole 24 ore”

La contabilità in nero costituisce un valido elemento indiziario

Nell’ambito dell’accertamento sulle imposte sui redditi, la contabilità in nero, costituita da appunti personali e da informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’articolo 39 del Dpr 600/1973 in quanto, nella nozione di scritture contabili disciplinate dall’articolo 2709 e successivi del Codice civile, devono ricomprendersi tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore e il risultato economico dell’attività svolta, competendo poi al contribuente l’onere di fornire un’adeguata prova contraria. A tale conclusione è giunta la Cassazione attraverso l’ordinanza 3738/2019 (clicca qui per consultarla ).

Nel corso di una verifica tributaria può accadere che gli accertatori si imbattano in documenti fiscali dai quali sia possibile evincere la sussistenza di una contabilità parallela, dalla quale si comprenda che il reddito dichiarato dal soggetto verificato non corrisponde a quello effettivamente prodotto.

La Suprema corte, con la sentenza 26141/2016, ha in passato affermato la legittimità dell’accertamento induttivo in presenza di una contabilità in nero, in quanto la stessa rappresenta un valido elemento indiziario dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

È tuttavia necessario individuare in quale ambito accertativo si muovono i verificatori in presenza di documentazione parallela ovvero se il rinvenimento di documenti non ufficiale renda inattendibile la contabilità del contribuente (accertamento induttivo puro o extracontabile (ex articolo 39 comma 2) o se, invece, la documentazione extracontabile costituisca elemento per una ricostruzione presuntiva del reddito, a condizione che un riscontro con la contabilità ufficiale abbia fornito a tale documentazione i requisiti di gravità, precisione e concordanza (accertamento analitico-induttivo, ex articolo 39 comma 1 lettera d).

Talora la Cassazione ha affermato (sentenza 17952/2013) che il ritrovamento da parte della Guardia di Finanza di una contabilità parallela a quella ufficialmente tenuta dalla società sottoposta a verifica fiscale, legittima di per sé il ricorso all’accertamento induttivo-extracontabile in quanto si tratta di dati e notizie da cui possono essere desunte omissioni o false o inesatte indicazioni atteso che, fermi restando i limiti di efficacia delle scritture contabili delle imprese soggette a registrazione, anche le altre scritture provenienti dall’imprenditore possono operare come prova.

Tuttavia pare maggiormente condivisibile la tesi sostenuta dalla Suprema corte (sentenza 22465/2015) la quale, pur riconoscendo piena validità alla documentazione extracontabile, perfettamente idonea alla ricostruzione presuntiva dell’imponibile, ritiene che una contabilità in nero non legittima di per sé, a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso all’accertamento induttivo all’articolo 39 comma 2), occorrendo pur sempre la ricorrenza di «omissioni, false, inesatte indicazioni» o di «irregolarità formali», così «gravi, numerose e ripetute» da consentire all’ufficio di prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze delle scritture contabili.

Pertanto l’Agenzia, in presenza di una contabilità parallela, è tenuta a procedere attraverso un accertamento analitico-induttivo ex articolo 39, comma 1, lettera d) in quanto, tale documentazione, possiede i requisiti tipici della presunzione grave, precisa e concordante (Cassazione, sentenza 26141/2016 e 4168/2001).

 Fonte “Il sole 24 ore”

Black list, sul raddoppio dei termini sempre meno spazio alla retroattività

La Cassazione dice ancora no all’applicazione, prima del 2009, della presunzione di evasione per le attività finanziarie detenute nei paradisi fiscali e non dichiarate. È quanto stabilito dall’ordinanza 5471 dello scorso 25 febbraio , che consolida l’orientamento già invalso nella giurisprudenza di legittimità (sentenza 2662/2018) su una questione giuridica – ancora – oggetto di numerosi contenziosi pendenti.
I fatti riguardavano l’accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, per gli anni 2005-2008, di un maggior reddito in capo ad una persona fisica residente in Italia che non aveva dichiarato le attività detenute all’estero. La contestazione era fondata sull’applicazione (retroattiva) della presunzione introdotta dall’articolo 12, comma 2, Dl 78/2009. La norma prevede che gli investimenti e le attività finanziarie detenuti, negli Stati a fiscalità privilegiata, in violazione dei relativi obblighi di dichiarazione (nel quadro RW della dichiarazione dei redditi) si presumono costituiti, salvo prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. In tal caso, le sanzioni, i termini di decadenza per le violazioni in materia di monitoraggio fiscale e i termini per l’accertamento dei redditi connessi alle attività estere sono raddoppiati.
Sin dall’entrata in vigore (1 luglio 2009) della citata presunzione è scaturito un contrasto interpretativo circa la sua possibile applicazione retroattiva. Secondo l’amministrazione finanziaria, la norma avrebbe carattere processuale e, come tale, sarebbe applicabile anche in relazione ai periodi antecedenti il 2009. Secondo una diversa interpretazione, accolta dalla prevalente giurisprudenza di merito, la nuova presunzione inciderebbe sui profili sostanziali del rapporto tributario e, pertanto, sarebbe applicabile solo per il futuro.

L’intervento chiarificatore della Suprema Corte fissa ora alcuni principi condivisibili e, si spera, definitivi:

a) l’articolo 12, comma 2, Dl 78/2009, ha previsto, rispetto alla disciplina previgente, una più favorevole presunzione legale a beneficio del fisco;

b) nell’ordinamento italiano, le norme in tema di presunzioni sono collocate – non a caso – nel Codice civile, tra quelle sostanziali, e non nel codice di rito;

c) sicché anche alla norma in esame non può che attribuirsi natura sostanziale e non processuale.

Il meccanismo presuntivo incide, infatti, sulla ripartizione dell’onere della prova tra contribuente e amministrazione finanziaria perché consente a quest’ultima di ravvisare una maggiore capacità contributiva in capo al soggetto detentore di attività offshore non dichiarate.
Peraltro, una differente interpretazione risulterebbe in contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, potendo pregiudicare l’effettività del diritto di difesa, con riferimento, ad esempio, alla scelta del contribuente di non conservare documentazione riguardante periodi ante 2009. Tale scelta, compiuta in maniera legittima prima dell’introduzione della presunzione in esame, limiterebbe irragionevolmente la prova contraria in caso di accertamento “attivato” dopo l’entrata in vigore della norma.

Fonte “Il sole 24 ore”

Start up innovative, agevolazione al 40% ma solo per il 2019

Detrazione e deduzione portate al 40 per cento per gli «investimenti» effettuati nel 2019 in start up innovative, e deduzione ulteriormente innalzata al 50 per cento, sempre per il medesimo periodo d’imposta, nel caso di acquisizione del loro intero capitale sociale.

Il Dl 179/2012 stabilisce, dopo le modifiche intervenute dal periodo d’imposta 2017, che le persone fisiche e i soggetti a esse assimilati, che apportano capitale di rischio in una o più start up innovative, possono detrarre dall’Irpef dovuta un importo pari al 30 per cento dei conferimenti in denaro effettuati in sede di costituzione della start up innovativa o degli eventuali aumenti di capitale sociale, in caso di start up innovativa già costituita, con un limite massimo di investimenti annui aumentato fino a un massimo di un milione di euro, rispetto alla precedente soglia di euro 500mila vigente fino al 2016.

Per i soggetti Ires, il comma 4 dell’articolo 29 sempre del Dl 179/2012, stabilisce che «Per i periodi d’imposta 2013, 2014, 2015 e 2016, non concorre alla formazione del reddito dei soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle società, diversi da imprese start up innovative, il 20 per cento della somma investita nel capitale sociale di una o più start up innovative direttamente ovvero per il tramite di organismi di investimento collettivo del risparmio o altre società che investano prevalentemente in start up innovative …».

Il successivo comma 5 precisa che «l’investimento massimo deducibile … non può eccedere, in ciascun periodo di imposta, l’importo di euro 1.800.000 e deve essere mantenuto per almeno due anni». Anche in questo caso la legge di Bilancio 2017, non solo ha portato a regime l’agevolazione, ma ha altresì elevato la deduzione al 30 per cento, fermo restando il limite massimo annuale di investimenti in start up innovative di euro 1.800.000 per singolo periodo d’imposta, come già sopra citato.

Inoltre, in base a quanto disposto dal comma 7 dell’articolo 29 del Dl 179/2012, nel caso di investimenti in start up innovative «a vocazione sociale» o in start-up innovative «che sviluppano e commercializzano esclusivamente prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico in ambito energetico», l’agevolazione dal 2017 è sempre del 30 per cento.

La legge di Bilancio 2019, legge 145/2018 , è, dunque, ulteriormente intervenuta sulla norma in commento andando, di fatto, a innalzare la percentuale di detrazione e deduzione riconosciuta agli investitori innanzandola, per il solo periodo d’imposta 2019, dal 30 al 40 per cento.

Quindi, sia per gli investimenti, nell’accezione sopra definita, in start up innovative sia per gli investimenti in start up a vocazione sociale e in quelle che sviluppano e commercializzano esclusivamente prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico in ambito energetico, la detrazione, per i soggetti Irpef, e la deduzione, per i soggetti Ires, aumenta, per il 2019, dal 30 al 40 per cento, fermi restando, però, gli altri limiti.

Sempre la legge di Bilancio 2019 dispone, inoltre, che la deduzione è aumentata al 50 per cento, per il solo periodo d’imposta 2019, nel caso di acquisizione dell’intero capitale sociale di start up innovative «da parte di soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle società, diversi da imprese start up innovative». La norma pone però una precisa condizione, ossia che l’intero capitale sociale sia acquisito e mantenuto per almeno tre anni.

Fonte “Il sole 24 ore”

Bonus R&S circoscritto per i gruppi di imprese

Stretta sul bonus ricerca e sviluppo per i gruppi. La legge di Bilancio ha apportato numerose modifiche alla disciplina del credito d’imposta R&S, intervenendo sia sul meccanismo di calcolo del beneficio sia sugli obblighi documentali, ed introducendo restrizioni per la ricerca svolta nei gruppi.

In questo contesto, in continuità con il Dl 87/2018, è evidente l’intenzione di porre sotto la lente la ricerca infragruppo. Si è infatti assistito all’introduzione di una serie di misure atte, in taluni casi, a limitare l’entità del beneficio – come nel caso dell’inammissibilità delle spese per l’acquisto infragruppo di competenze tecniche e privative industriali – e in altri casi a disincentivare comportamenti elusivi.

In tema di ricerca infragruppo, tra le modifiche apportate dalla legge di Bilancio, suscita particolare interesse la nuova disciplina delle spese agevolabili relative alla cosiddetta ricerca «extra muros». Viene ora previsto che, tra le spese relative ai contratti di ricerca affidata a soggetti terzi, debbano escludersi i contratti con le imprese appartenenti al medesimo gruppo dell’impresa committente. Da una prima lettura della norma, erano sorti non pochi timori che questa esclusione dovesse intendersi come un divieto assoluto di agevolazione dei costi di ricerca infragruppo. Tuttavia, dovrebbero ritenersi valide le puntualizzazioni della relazione illustrativa al Dm 27 maggio 2015, che aveva chiarito che le commesse affidate alle società del gruppo dovessero ritenersi escluse dalle spese per ricerca «extra muros», qualificandosi piuttosto ai fini dell’agevolazione nell’ambito della ricerca «intra muros».

L’esplicita esclusione dalla ricerca «extra muros» prevista dalla nuova norma non pare, quindi, produrre effetti diversi rispetto alla disciplina precedente, potendosi ritenere che la ricerca infragruppo rimanga, come in passato, ancora agevolabile secondo le regole già chiarite dalla circolare 5/E/2016. Questo è confermato dalla relazione illustrativa al Ddl Bilancio, che fa espressamente salva la regola della riqualificazione in ricerca «intra muros» dei contratti di ricerca stipulati con altre imprese dello stesso gruppo.

Al comma 72 della legge di Bilancio è inoltre presente una norma interpretativa secondo la quale, nell’ambito dell’attività di R&S eseguita da commissionari residenti per conto di imprese residenti in Ue, See o paesi white list (agevolabile ai sensi del comma 1-bis del Dl 145/2013), assumono rilevanza esclusivamente le spese ammissibili relative alle attività di ricerca svolte direttamente e in laboratori o strutture situati nel territorio dello Stato. Questa previsione sembra voler colpire eventuali abusi in caso di localizzazione fittizia dell’attività R&S in capo ad una commissionaria italiana la quale, affidando a sua volta la ricerca a soggetti terzi al di fuori del territorio nazionale, possa configurarsi come mero «conduit».

L’attuale formulazione della norma, nello scoraggiare configurazioni elusive, pare tuttavia fin troppo penalizzante per le commissionarie italiane che, pur affidando in parte la ricerca a soggetti terzi, mantengono un ruolo significativo nello sviluppo dei progetti apportando know-how e competenze. A tal proposito, andrebbero meglio chiariti sia i risvolti applicativi che l’efficacia temporale della norma che, in quanto interpretativa, avrebbe in principio effetti retroattivi.

Fonte “Il sole 24 ore”

Rimborso IVA. Sufficiente l’indicazione in dichiarazione

Cassazione Tributaria, ordinanza depositata il 28 febbraio 2019

Autore: Paola Mauro
In materia di IVA, la corretta indicazione del credito d’imposta nella dichiarazione manifesta la volontà di chiedere il rimborso e fa operare la prescrizione decennale.

È quanto emerge dall’ordinanza n. 5938/2019 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione.

Il caso.Il contribuente ha impugnato il provvedimento di diniego sull’istanza di rimborso IVA, relativa a un credito esposto in dichiarazione per l’anno 2004 ai quadri “VL” ed “RX”.

Nel caso di specie è mancata la presentazione del modello VR e l’Agenzia delle Entrate ha contestato la decadenza, avendo il contribuente presentato domanda di rimborso per la prima volta oltre il termine di due anni dalla data di presentazione della dichiarazione per il 2004.

Ebbene, la Commissione Tributaria Provinciale di Caserta, interpellata dal contribuente, a differenza dell’Ufficio, ha ritenuto non applicabile il termine biennale ex art. 21 D.lgs. n. 546/1992 e tale conclusione è stata avallata dalla Commissione Tributaria Regionale per la Campania.

La C.T.R. ha, infatti, richiamato la giurisprudenza di legittimità, secondo cui, una volta manifestata con la dichiarazione IVA la volontà di recuperare il credito, il diritto al rimborso non è più assoggettabile al termine biennale di decadenza, bensì a quello ordinario di prescrizione decennale, ai sensi dell’art. 2946 cod. civ., pur in assenza di una ulteriore domanda preordinata a dare inizio al procedimento di esecuzione del rimborso.

A questo punto l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso presso la Corte di Cassazione, ma l’iniziativa non ha avuto successo.

Principio di diritto. I giudici della Sezione Tributaria della Suprema Corte, come già avvenuto in precedenti occasioni, hanno affermato che:

  • «in tema di rimborsi dell’Iva, la compilazione del quadro Rx del modello di dichiarazione unica, nel campo attinente al credito di cui si chiede il rimborso, e legittimamente considerata alla stregua di manifestazione di volontà di ottenere il rimborso; tale manifestazione di volontà identifica, invero, ai sensi del dpr 633/72, articolo 38 bis, la domanda di rimborso fatta nella dichiarazione, e, ancorché non accompagnata dalla presentazione del modello Vr ai fini della determinazione dell’importo richiesto a rimborso nella dichiarazione Iva, sottrae la fattispecie al termine biennale di decadenza sancito, in via residuale, dal decreto legislativo 546/92 articolo 21».

La sentenza impugnata ha correttamente applicato questo principio di diritto.

Ne è conseguito il rigetto del ricorso erariale, senza condanna dell’Ufficio alle spese, posto che il contribuente non ha svolto attività difensiva.

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Introdotta una nuova chance agli inadempienti del 7 dicembre

Una delle maggiori criticità della normativa originariamente varata per la rottamazione ter era rappresentata dai rapporti con l’edizione precedente, la rottamazione bis (disciplinata dall’articolo 1 del decreto legge 148/17).
Mentre, infatti, i carichi inclusi nella prima rottamazione non perfezionata (il riferimento è l’articolo 6 del decreto legge 193/16) possono senz’altro essere ripresi nella nuova definizione secondo le regole generali, per quelli che sono oggetto della seconda versione della sanatoria era stata prevista una condizione di accesso.
Le disposizioni
della rottamazione bis

Al riguardo, occorre innanzitutto ricordare le regole della rottamazione bis:
per i carichi affidati dopo il primo gennaio 2017 e fino al 30 settembre 2017, le rate massime erano cinque e scadevano nei mesi di luglio, settembre, ottobre e novembre 2018 e febbraio 2019;
per i carichi affidati fino al 31 dicembre 2016, occorreva distinguere a seconda che il debitore avesse o meno rate scadute a fine 2016, con riferimento a dilazioni in essere al 24 ottobre 2016 (ovvero la data di entrata in vigore del decreto legge 193/16).
Nella prima ipotesi (cioè l’esistenza di rate scadute), per accedere alla rottamazione bis occorreva pagare in una unica soluzione l’importo relativo entro la fine di luglio 2018. In caso di inadempienza, la rottamazione bis era preclusa. Una volta versato l’importo dovuto a fine luglio, l’ammontare della definizione agevolata doveva essere pagato in tre rate, in scadenza nei mesi di ottobre e novembre 2018 e febbraio 2019.
Nella seconda ipotesi (cioè l’assenza di morosità pregresse) si pagava ugualmente in tre rate, alle medesime scadenze.
Il vincolo del 7 dicembre
I soggetti che avevano omesso di rispettare la scadenza di fine luglio, riferita alle morosità pregresse, potevano e possono tuttora accedere alla rottamazione ter, alle clausole ordinarie.
Per tutti gli altri debitori, invece, bisognava ottemperare alla condizione di ingresso, che era rappresentata dal versamento delle rate in scadenza a luglio, settembre e ottobre 2018, entro e non oltre il 7 dicembre 2018.
Si trattava, da un lato, di una remissione in termini per i soggetti che non avevano rispettato puntualmente il calendario delle rate della rottamazione bis e, per altro verso, di una precisa causa ostativa all’accesso alla rottamazione ter.
E invero, in caso di inadempienza all’obbligo in scadenza al 7 dicembre, non solo si decadeva dalla rottamazione bis ma non si poteva neppure rientrare nella nuova definizione agevolata. Viceversa, i debitori che avevano rispettato quell’obbligo di pagamento hanno acquisito il diritto a vedersi includere, d’ufficio, il debito residuo nella rottamazione ter, con pagamento in 10 rate, diluite in cinque anni.
Il recupero
degli inadempienti

La legge 12/2019 di conversione del decreto semplificazioni ha recuperato i debitori inadempienti.
È stato infatti sancito che anche i soggetti che non hanno versato il dovuto entro il 7 dicembre, anche per un solo giorno di ritardo, possono presentare domanda di rottamazione ter.
In tale eventualità, tuttavia, il periodo di dilazione si riduce di due anni rispetto a quello ordinario. È infatti disposto che il pagamento debba avvenire in 10 rate di pari importo, scadenti nei mesi di luglio e novembre 2019, e successivamente nei mesi di febbraio, maggio, luglio e novembre del 2020 e del 2021.
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Luigi Lovecchio

Sanatoria ancora più ampia ma senza rimedi per chi non versa

La rottamazione ter riguarda gli affidamenti effettuati fino al 31 dicembre 2017. La nozione di affidamento prescinde del tutto dalla data di notifica della cartella di pagamento, poiché attiene alla trasmissione del flusso di carico dall’ente creditore (ad esempio l’agenzia delle Entrate) all’agente della riscossione. A tale fine, vale la data di effettivo invio del file e non la data convenzionale di presa in carico da parte di Agenzia delle Entrate – Riscossione. Ne deriva che possono essere rottamate anche le partite prese in carico il 10 gennaio 2018, poiché tale data riguarda tutte le trasmissioni eseguite nella seconda metà di dicembre 2017.
Sotto il profilo soggettivo non vi sono preclusioni di sorta. Chiunque può dunque avvalersi della definizione agevolata, a prescindere dalla natura giuridica (privato, impresa, società, ente). Dal lato oggettivo, sono rottamabili tutte le entrate, con le eccezioni tassativamente previste dalla legge. Queste sono:
il recupero degli aiuti di Stato;
le somme da condanna della Corte dei conti;
le sanzioni pecuniarie comminate da autorità penali;
le sanzioni diverse da quelle tributarie e contributive.
A quest’ultimo riguardo, la norma di riferimento precisa che sono comunque condonabili le somme aggiuntive alle multe stradali, e cioè gli interessi moratori, comprese le maggiorazioni semestrali di cui all’articolo 27, comma 6, della legge 689/1981. Per individuare le sanzioni non condonabili, in quanto diverse da quelle tributarie, la circolare n. 2 del 2017 delle Entrate ha rilevato che occorre verificare se si tratta di sanzioni attribuite alla giurisdizione dei giudici tributari.
Il vantaggio della definizione consiste nell’azzeramento di sanzioni e interessi di mora. Restano dovuti sorte capitale e interessi affidati all’agente della riscossione, aggio, costo di notifica della cartella e eventuali spese per procedure esecutive o cautelari. Non è possibile dedurre dall’importo della definizione le somme versate a titolo di sanzioni, interessi di mora e interessi da dilazione.
La procedura
Per accedere alla definizione, occorre presentare un apposito modulo (DA – 2018) entro il 30 aprile 2019 all’agente della riscossione competente per territorio. Entro il 30 giugno, l’Ader comunica al debitore l’importo delle somme dovute in ciascuna rata. Al riguardo, l’interessato può scegliere di pagare sino a un massimo di 18 rate, delle quali le prime due, pari al 10% ciascuna, in scadenza a luglio e novembre di quest’anno, e le altre sedici in quattro quote annuali, in scadenza negli anni dal 2020 al 2023. È prevista una tolleranza massima di 5 giorni di ritardo nel versamento di ciascuna rata, senza interessi. Se non si rispetta una qualsiasi delle scadenze di legge, ritardo compreso, si decade irrimediabilmente dalla definizione, con l’effetto che non solo si ripristina il debito originario ma per di più è fatto divieto di rateizzare il debito residuo.
Modalità di pagamento
Il pagamento potrà avvenire: mediante domiciliazione in conto corrente bancario; mediante bollettini precompilati; presso gli uffici dell’agente della riscossione. In quest’ultima tipologia, rientra anche la facoltà di utilizzare in compensazione i crediti certificati verso la pubblica amministrazione, a titolo di appalti, forniture, somministrazioni e prestazioni professionali, secondo le regole stabilite dal decreto delle Finanze del 24 settembre 2014, a prescindere dalla data di maturazione del credito. Non è ammesso il pagamento tramite compensazione con i crediti d’imposta attraverso il modello F24.
Dilazioni pregresse
Un altro elemento di discontinuità rispetto al passato è rappresentato dai rapporti con le dilazioni esistenti alla data di trasmissione della domanda. Se per un verso trova conferma la regola secondo cui con la trasmissione dell’istanza si sospende il pagamento di tutte le rate in scadenza fino al 31 luglio 2019 (scadenza della prima rata della rottamazione), si dispone nel contempo che, decorso il 31 luglio, le dilazioni sono automaticamente revocate, che si paghi o meno la prima quota della definizione agevolata. Non è inoltre riproposta la norma secondo cui se la domanda è presentata non oltre 60 giorni dalla ricezione della cartella di pagamento, si può sempre rateizzare il debito, in qualsiasi momento si decada dalla rottamazione. Questo significa, in concreto, che, una volta che la domanda di definizione agevolata è stata accolta dall’Ader, non è mai possibile riattivare la dilazione pregressa. L’ultima chance è rappresentata dalla revoca della domanda di rottamazione ter che però deve avvenire necessariamente entro il 30 aprile.
Effetti dell’istanza
All’istanza di rottamazione è collegata una pluralità di effetti. Sotto il profilo della moratoria delle azioni di recupero dell’Ader, è sancito che, dopo la trasmissione della domanda, non è possibile adottare nuovi fermi e ipoteche né intraprendere nuove azioni esecutive. Ai sensi del comma 10 dell’articolo 3 del Dl 119/18, una volta trasmessa l’istanza, il debitore non si considera inadempiente ai fini degli articoli 28 ter e 48 bis, Dpr 602/73.
La prima norma citata riguarda il potere dell’agente della riscossione di notificare al soggetto moroso destinatario di un rimborso fiscale, qualunque sia l’importo di esso, una proposta di compensazione volontaria del credito in via di erogazione con le somme a ruolo. In caso di rifiuto, l’Ader provvede a notificare un pignoramento presso terzi.
La seconda disposizione prevede che gli enti pubblici che erogano pagamenti maggiori di 5mila euro, prima di eseguire il versamento, devono consultare il sistema informativo dell’Ader per verificare se il beneficiario abbia pendenze almeno pari a 5mila euro. Se risultano morosità verso il sistema pubblico di riscossione coattiva, l’ente deve sospendere il versamento, fino a concorrenza della cifra a ruolo. L’agente della riscossione provvede a notificare il pignoramento presso terzi. Infine, sempre con la mera trasmissione dell’istanza, si rende disponibile il rilascio del Durc, relativamente ai carichi inclusi nella stessa. In caso di successiva decadenza dalla procedura agevolata, l’Inps provvede a revocare il Durc.
In sintesi, la presentazione della domanda di sanatoria consente agli operatori economici, da subito, di partecipare a procedure a evidenza pubblica.
I contenziosi
Sono ammessi alla definizione agevolata anche i carichi per i quali pende un contenzioso. In tale eventualità, con la compilazione della domanda il debitore assume l’impegno a rinunciare ai relativi giudizi. È stabilito che tale impegno è condizionato al perfezionamento della definizione agevolata. Ne deriva che se il debitore per qualsiasi motivo non porta a buon fine la rottamazione i giudizi in corso proseguono normalmente. Inoltre, il debitore può chiedere la sospensione dei giudizi pendenti presentando copia dell’istanza di sanatoria.
La sospensione disposta dal giudice opera fino a quando non si presenta la documentazione afferente il perfezionamento della sanatoria, nel qual caso è pronunciata l’estinzione del giudizio con compensazione delle spese. In caso contrario, il giudice revoca la sospensione su istanza di una qualsiasi delle parti.
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Luigi Lovecchio

Crisi d’impresa, l’assenza delle scritture contabili «pesa» sull’amministratore

Tra le norme destinate a entrare subito in vigore vi sono quelle destinate a modificare alcuni articoli del codice civile e, in particolare, l’articolo 378 rubricato «Responsabilità degli amministratori» che va a modificare i disposti dell’articolo 2486 del codice civile.

Tale articolo introduce, nell’ambito della liquidazione giudiziale, un parametro presuntivo di quantificazione dei danni arrecati dall’organo amministrativo in conseguenza dei poteri a esso attribuiti per la conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, laddove si verifichi una causa di scioglimento della società.

Infatti, il nuovo testo dell’art. 2486 del codice civile stabilisce che, quando è accertata la responsabilità degli amministratori, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione.

Viene, comunque, fatta salva la prova, da parte degli amministratori convenuti, di un diverso ammontare del danno risarcibile

Ma la situazione diventa molto più pesante per gli amministratori laddove a carico della società sia stata aperta una procedura concorsuale. Infatti, lo stesso articolo prevede che se mancano le scritture contabili o se a causa dell’irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura, trovando così applicazione un parametro risarcitorio spesso usato dalla giurisprudenza più risalente, ma che la corte di Cassazione aveva ritenuto di corretta applicazione solo in via assolutamente residuale (Cass. Civ. S.U. 6 maggio 2015, n. 9100).

La portata dell’intervento riformatore è di notevole rilevanza e costringerà tutti gli amministratori a porre una particolare attenzione non solo alla corretta tenuta delle scritture contabili, ma anche a una corretta custodia e conservazione anche nelle fasi più «delicate» della vita dell’impresa.

Si può, quindi, legittimamente affermare che l’intento latamente punitivo della norma in parola dovrebbe o vorrebbe sanare quelle situazioni, che molto spesso si verificano nelle procedure concorsuali, nelle quali il curatore si ritrova nella parziale o completa impossibilità di ricostruire la contabilità della società sia per una corretta gestione del fallimento, sia ai fini della valutazione di eventuali responsabilità degli organi della stessa.

Ne consegue che il «Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza» ha posto una pietra miliare non solo nell’individuazione di un parametro oggettivo, ma soprattutto ha fornito un nuovo parametro quantitativo del danno cagionato dagli organi sociali, da cui difficilmente la giurisprudenza riuscirà a discostarsi nella futura valutazione delle controversie sottoposte alla sua attenzione, mettendo definitivamente fine a lunghi dibattiti giurisprudenziali.

Fonte “Il sole 24 ore”

Credito ricerca e sviluppo, l’autonomo non indica il luogo di svolgimento dell’incarico

Dal 2019, i lavoratori autonomi possono svolgere attività di ricerca e sviluppo senza dover indicare in modo specifico il luogo di svolgimento fisico dell’incarico assegnato: elemento, quest’ultimo, divenuto irrilevante ai fini del calcolo del relativo credito d’imposta. Questa modifica rappresenta – unitamente alla riduzione della misura del beneficio fiscale (dal 50% al 25%) per i costi sostenuti per le consulenze a professionisti nello svolgimento di attività per R&D – la principale novità introdotta dalla legge 145/2018.

La modifica legislativa ha infatti introdotto, nell’articolo 3 del Dl 145/2013, il comma 6 della lettera a-bis), che ammette in modo autonomo e distinto – rispetto agli oneri per il personale con un rapporto di lavoro subordinato, anche a tempo determinato – i costi per i lavoratori autonomi o comunque con un rapporto «diverso dal lavoro subordinato».

Questa individuazione autonoma dei lavoratori autonomi rispetto a quelli subordinati, muta completamente quanto in vigore fino al 31 dicembre 2018 per le modalità ed il luogo di svolgimento dell’attività di ricerca effettuata. Infatti, fino al 31 dicembre 2018 (e quindi anche per il calcolo da effettuarsi in vista delle chiusure di bilancio per questo esercizio), il costo del personale impiegato nell’attività di R&D era cumulativamente rappresentato (sia per i professionisti sia per i dipendenti) nella lettera a) del già citato comma 6, senza quindi alcuna distinzione. Questa miscellanea di rappresentazione aveva comportato la necessità di un intervento normativo complementare tramite il Dm 27 maggio 2015 dove all’articolo 4, comma 1, lettera a-2), si enunciava che i rapporti di collaborazione con il committente «compresi gli esercenti arti e professioni» per rientrare nell’ambito del costo del personale agevolabile, dovevano essere caratterizzati dallo svolgimento dell’attività solo all’interno delle strutture o laboratori del committente medesimo (ricerca intra muros). In caso contrario, invece, interveniva la circolare 5/E del 16 marzo 2016, laddove (paragrafo 2.2.1) si precisava che nel caso in cui il professionista avesse svolto l’attività in totale autonomia di mezzi e di organizzazione, il suo costo avrebbe dovuto essere annoverato nell’ambito della ricerca «extra muros».

Questa sottile ma importante differenza, ha avuto nel corso delle varie e numerose modifiche legislative importanti influssi sia a livello di calcolo del beneficio (50% o 25% di agevolazione del costo sostenuto a seconda degli anni) sia a livello di calcolo della media triennale di raffronto 2012-2014 (sulla base della diversa classificazione fra intra o extra muros). Queste difficoltà dal 2019 non sono più presenti a livello normo-pratico, avendo il legislatore provveduto a espungere il costo per lavoro autonomo impiegato nella ricerca dal costo del personale subordinato e sia perché il suddetto costo consulenziale rientra – nel nuovo comma 6-bis dell’articolo 3 del Dl 145/2013 – unitamente ai costi per la ricerca extra muros, nel plafond di oneri aventi un riconoscimento univoco al 25 per cento.

Fonte “Il sole 24 ore”

Che cosa fare se il fornitore manda l’Xml via Pec

I forfettari possono emettere fatture cartacee o elettroniche anche alternando documenti di un tipo e dell’altro (risposta 2.28 delle Entrate al Consiglio nazionale commercialisti). Possono mantenere o meno un’unica numerazione progressiva (Faq 33 sul sito dell’Agenzia), senza dotarsi di sezionali per la registrazione.
Sotto il profilo passivo, le fatture cartacee ricevute sono conservate come tali. Per le fatture elettroniche, occorre invece distinguere.
Il provvedimento 89757/2018 prevede che le fatture Xml (con codice destinatario “a sette zeri”) nei confronti di un forfettario sono messe a disposizione nella sua area riservata, circostanza di cui è data notizia al cliente anche mediante consegna di copia analogica della fattura (punto 3.4, lettera d). In tal caso, il cliente conserva tale copia. Qualora non si disponga del documento cartaceo, posto l’obbligo di conservare le fatture ricevute, il forfettario dovrà scaricarne dal sito dell’Agenzia una copia “leggibile” e conservarla su carta (a meno che non scelga la conservazione sostitutiva, anche avvalendosi del servizio delle Entrate).
Questa procedura presuppone però che il forfettario comunichi il proprio “status” al fornitore (adempimento quanto mai opportuno). In mancanza, il cedente/prestatore procederà come quando si emette il documento conoscendo solo la partita Iva del cliente: emissione della fattura con codice “a sette zeri”, trasmissione allo Sdi, messa a disposizione nell’area riservata, comunicazione della disponibilità della fattura nell’area sul sito dell’agenzia, da eseguirsi (preferibilmente) anche mediante consegna di copia analogica della fattura elettronica (punto 3.4, lettera e).
La conservazione segue le stesse regole. In entrambe le ipotesi, considerato che la copia analogica della fattura potrebbe essere resa disponibile dopo l’effettuazione dell’operazione, è bene che l’operatore “visiti” periodicamente la propria area riservata. E ciò, anche perché sussistono comunque gli obblighi di regolarizzazione ex articolo 6, comma 8, Dlgs 471/97, in caso di mancata ricezione della fattura o di ricezione di fattura irregolare.
Diverso è il caso in cui il forfettario comunichi al cedente/prestatore una Pec o un codice destinatario, così come il caso in cui il cessionario/committente abbia registrato il proprio indirizzo telematico alle Entrate: tutte ipotesi in cui è evidente che il forfettario intende comportarsi come un “normale” soggetto passivo, ai fini della ricezione/conservazione elettronica dell’e-fattura.
E se il fornitore acquisisce autonomamente la Pec del cliente forfettario? Potrebbe trasmettere l’e-fattura a tale indirizzo e, se la trasmissione ha esito positivo, non effettuare alcuna comunicazione al cliente. Nella risposta 3.6 sul sito del Consiglio nazionale commercialisti, le Entrate sembrano ammettere (anche se non proprio limpidamente) che, in quest’ipotesi, la fattura possa essere conservata dal forfettario in modalità cartacea. Il che, tuttavia, per le ragioni già esposte, presuppone un monitoraggio costante della casella Pec.
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Matteo Balzanelli
Massimo Sirri

Condoni con giochi di prestigio

Riusciranno i nostri eroi? Riusciranno contribuenti e professionisti a navigare nelle acque melmose di questa raffazzonata “pace fiscale”? Dove poco o nulla sembra funzionare. E dove, uno dopo l’altro, rischiano di incagliarsi molti dei dieci condoni tributari giunti pomposamente in porto tra la fine di ottobre del 2018 e l’inizio del nuovo anno.
La sanatoria multiforme si candida a diventare il nuovo tormentone di stagione. Un tormentone che andrà a sommarsi alle sofferenze per la fatturazione elettronica, ai mille dubbi irrisolti del nuovo regime forfettario, agli spesometri e agli esterometri (appesi alla solita proroga solo annunciata), alle lettere di compliance e chissà a cos’altro, dalle certificazioni uniche ai bilanci che già pretendono attenzione e che stanno portando i commercialisti sulla soglia dello sciopero. Maledetta primavera, verrebbe da dire.
Sui condoni, come molti avevano previsto, il passaggio dalla legge alla sua applicazione fa ora emergere con chiarezza tutte le contraddizioni tipiche di norme pasticciate, scritte male, senza logica e senza competenze. Così un’operazione propagandata con la volontà di dare un aiuto a una folta schiera di contribuenti si sta via via rivelando un boomerang di complicazioni e di burocrazia.
Persino il più banale degli interventi – la rottamazione d’ufficio delle cartelle fino a mille euro notificate tra il 2000 e il 2010 – rischia di incepparsi sulle obiezioni dell’Inps che attende dai ministeri competenti un chiarimento su come interpretare la soglia dei mille euro: con o senza le sanzioni? Prima o poi, naturalmente, qualcuno risponderà. Ma è singolare che persino l’Inps non sia in grado di applicare una norma di legge senza l’aiutino di una “interpretazione autentica”.
E vogliamo dire della sanatoria sugli errori formali (gettito atteso: circa 900 milioni)? Qui siamo alla magia, ai giochi di prestigio: la prima sanatoria fiscale dove nessuno, ma proprio nessuno, ha la minima idea di che cosa si debba/possa sanare. Non lo sanno i normali cittadini, e questo è comprensibile. Non lo sanno i professionisti, e questo comincia a essere più grave. Non lo sa l’amministrazione finanziaria (o, almeno, non l’ha ancora detto), e qui siamo quasi all’allarme. Ma, soprattutto, non lo sapeva neppure la “manina” che nella legge di Bilancio ha scritto la norma, e qui siamo più o meno al manicomio. Risultato: come ha ricordato Antonio Iorio sul Sole 24 Ore, la sanatoria delle irregolarità formali non interessa in concreto quasi nessuno, perché «la sanzione per violazione formale (posto che sia ancora perseguibile), per come è intesa dalle Entrate e dalla Cassazione, è l’ultimo dei pensieri del contribuente che spesso si vede perseguito per singolari interpretazioni dei verificatori che sfociano in irregolarità sostanziali irrilevanti ai fini della sanatoria».
Un caso estremo, si dirà. Non proprio. Si prenda la sanatoria dei Pvc, i processi verbali di constatazione. La sanatoria si fa pagando il 100% delle imposte contestate. Ma tutti gli operatori, diversamente da chi ha scritto la norma, sanno che molto spesso i Pvc contengono la contestazione di somme che vengono poi drasticamente ridotte. Perché perdere tempo e denaro?
A salvarsi, almeno un po’, è la nuova rottamazione. Che, evidentemente, ha saputo mettere a frutto la lunga esperienza maturata negli ultimi anni. Tutti però hanno bisogno di una bussola speciale per orientarsi tra prima rottamazione, rottamazione bis, rottamazione ter, passerella dalla bis alla ter, ripescaggio nella ter per chi non aveva pagato la bis, e poi ancora, vecchie rate, nuove rate…un delirio. Che, evidentemente, si manifesta in modo ancor più pesante nella versione speciale del “saldo e stralcio”, altra misura strillata per aiutare chi non ha pagato perché in difficoltà economica, che sembra procedere a rilento tra modelli Isee da compilare e pagamenti che, seppur con generosi sconti, sono comunque da effettuare.
Il governo dalle sanatorie si aspetta oltre 5 miliardi di maggiori entrate (in cinque anni). Ci sarà tempo per fare il bilancio dell’operazione. In genere, ai contribuenti i condoni piacciono, specie quando il percorso è lineare e non presenta esso stesso altri rischi.
Che succederà nei prossimi mesi non è facile da immaginare. Se la compagine di governo dovesse sopravvivere all’esito del voto europeo, lo scenario di una manovra di metà anno – oggi da tutti bollata come “non prevista” – non sarà forse così assurda. Ed ecco allora che la pace fiscale tornerà di attualità anche nei palazzi del governo. Qualche riapertura e proroghetta non si nega mai a nessuno. Con nuovi equilibri politici e con nuove (e pressanti) esigenze di fare cassa, la partita sarà diversa è, chissà, potrebbero anche riemergere soluzioni più corpose di sanatoria, sulle quali Lega e M5s si erano pesantemente divisi in autunno. Matteo Salvini, intanto, si è portato avanti e ha rilanciato “il saldo e stralcio” per le imprese in difficoltà. Luigi Di Maio ha nuovamente sfoderato il bastone del carcere per chi evade, che però dopo la carota dei dieci condoni non sembra avere una grande credibilità.
Qualche giorno fa, sul Sole 24 Ore, ci ha pensato Enrico De Mita a demolire la politica dei condoni: «Le sanatorie – ha scritto – non solo violano i principi fondamentali del diritto tributario costituzionale, ma convinceranno una volta per tutte i contribuenti onesti che non vale la pena osservare gli obblighi tributari. Tanto, un condono prima o poi arriva».
I condoni sono iniqui, immorali e diseducativi. Ma se la politica decide di farli, almeno li faccia bene. Per evitare il rischio che a qualcuno venga la brillante idea di inventarsi persino “il condono del condono”.
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Salvatore Padula

La doppia partita del Fisco tra «pace» e alert preventivi

Partita doppia. Negli stessi giorni in cui dovranno decidere se sfruttare la chance della pace fiscale, molte famiglie, professionisti e imprese riceveranno dal Fisco 1,78 milioni di lettere per la compliance. Comunicazioni a cui il Piano delle performance 2019-21 dell’agenzia delle Entrate ricollega un recupero di gettito di 1,5 miliardi di euro.
Passate dalle 395mila del 2015 agli 1,89 milioni dell’anno scorso (dato preconsuntivo), le lettere per la compliancesono il simbolo della campagna per il “fisco amico” lanciata dal Governo Renzi. Di fatto, puntano a evidenziare le anomalie tra ciò che i contribuenti hanno dichiarato e quanto risulta dalle banche dati dell’Agenzia, sollecitandoli a mettersi in regola con uno sconto sulle sanzioni, tramite l’istituto ravvedimento operoso.
Dalla cedolare secca all’Iva
Il provvedimento del direttore delle Entrate del 15 febbraio scorso indica le tipologie di proventi su cui si concentrerà la prima tornata di comunicazioni. Redditi di fabbricati, compresi quelli soggetti alla cedolare secca. Redditi da partecipazione in società di persone e Srl a base ristretta. Assegni periodici, come quelli al coniuge. Redditi da lavoro dipendente. Pensiamo ad esempio al caso di un lavoratore che ha ricevuto due Certificazioni uniche (Cu) e non ha presentato la dichiarazione dei redditi.
L’esperienza degli ultimi anni, però, insegna che un gran numero di lettere per la compliance riguarerà l’Iva. Tributo che ha raccolto poco più del 50% delle segnalazioni inviate nel 2017, per esempio. E rispetto al quale le Entrate contano di far tesoro dei dati raccolti con la fattura elettronica, a partire dai 228 milioni di file Xml trasmessi al Sistema di interscambio da 2,3 milioni di titolari di partita Iva in occasione della liquidazione del 18 febbraio.
Le decisioni del 30 aprile e 31 maggio
Le lettere per la compliance non sono atti impositivi in senso tecnico e non sono impugnabili in modo autonomo. Il sito delle Entrate ricorda che chi ne riceve una “infondata” deve inviare al Fisco «eventuali elementi e documenti di cui l’Agenzia non era a conoscenza». In questi termini, le lettere non hanno nulla a che fare con la pace fiscale, che nelle sue varie articolazioni riguarda processi verbali di contestazione (Pvc), avvisi di accertamento, liti pendenti, cartelle esattoriali.
Eppure, le due campagne – compliance e pace fiscale – finiscono per intrecciarsi, almeno in parte. Riguardano gli stessi contribuenti. Vanno finanziate dagli stessi portafogli, già esposti ai primi effetti della recessione economica. Hanno un calendario sovrapposto, con le date chiave del 30 aprile (istanze di rottamazione-ter) e del 31 maggio (liti pendenti, errori formali, Pvc e violazioni doganali). Ma seguono, paradossalmente, logiche opposte: se le lettere per la compliance invitano cittadini e imprese a ravvedersi prima che sia troppo tardi, la pace fiscale – al contrario – sembra riaffermare che non è mai troppo tardi per riconciliarsi con le pretese del Fisco.
L’attesa per nuove sanatorie
Gli strumenti di contrasto all’evasione fiscale messi in campo di quest’anno dal Fisco derivano in parte da istituti lanciati alla fine della scorsa legislatura e confermati dall’attuale Governo, come la fattura elettronica, cui è stato anzi aggiunto l’invio automatico dei corrispettivi (per i grandi contribuenti dal prossimo 1° luglio e per tutti dal 2020). Mentre, per un altro verso, vengono riproposti istituti già utilizzati negli anni scorsi, dalla definizione delle liti pendenti alla rottamazione delle cartelle, arrivata alla terza edizione in due anni.
E c’è già chi scommette su un’estensione della rottamazione ai carichi affidati nel 2018 (ora si ferma al 31 dicembre 2017). O su un ampliamento alle imprese del saldo e stralcio – misura che prevede uno sconto anche sull’imposta, oltre che sulle sanzioni – sulla falsariga di quanto auspicato nei giorni scorsi dal vicepremier, Matteo Salvini. Di sicuro, nei prossimi 100 giorni si potrà capire se l’attesa per altre sanatorie avrà frenato l’appeal di quelle in corso.
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Cristiano Dell’Oste
Giovanni Parente

L’avviso bonario è un atto impositivo La Cassazione riapre la partita sulle liti

Due pronunce della Corte contro la posizione espressa dalle Entrate
Per l’Agenzia le cartelle hanno natura «liquidatoria»
Le cartelle di pagamento emesse in base agli articoli 36-bis, Dpr 600/73, e 54-bis, Dpr 633/72, sono atti impositivi e pertanto le relative controversie possono essere definite in forza dell’articolo 16, legge 289/2002. La precisazione, contenuta in due recenti sentenze della Corte di cassazione (23269/2018 e 1158/2019) è di grande attualità, con riferimento alla definizione delle liti pendenti, di cui all’articolo 6 del Dl 119/2018. Sia il precedente del 2002, esaminato dalla Corte, che la disciplina vigente, infatti, sono imperniati sulla nozione di “atti impositivi”.
Secondo la tesi dell’agenzia delle Entrate, espressa nelle risposte a Telefisco 2019, le controversie in materia di avvisi bonari non possono essere definite, poiché hanno ad oggetto atti che hanno natura meramente liquidatoria. Il concetto è stato rafforzato dalle istruzioni alla compilazione del modello di istanza, recentemente approvate. Vi si afferma infatti che non possono essere condonate le liti relative, tra l’altro, a ruoli e cartelle di pagamento.
La Cassazione ha in proposito osservato che le cartelle emesse in sede di liquidazione delle dichiarazioni rappresentano il primo atto ricevuto dal contribuente, nel quale si manifesta la pretesa tributaria. Per questo motivo, le stesse sono impugnabili per vizi propri e dunque rientrano nella nozione di atti impositivi (sentenza 1158/2019).
Nel precedente del 2018 richiamato dalla pronuncia di quest’anno, l’argomentazione adottata dalla Corte è ancor meglio esplicitata. Anche in quel caso, la controversia riguardava una cartella ex articolo 54-bis del Dpr 633/72. Il merito della questione, tuttavia, atteneva al mancato riconoscimento dei crediti Iva rivenienti da dichiarazioni omesse negli anni precedenti. Nell’impugnare in origine la cartella, il contribuente aveva allegato la documentazione comprovante la spettanza del credito contestato. Nelle more del contenzioso, era stata presentata istanza di definizione, ai sensi dell’articolo 16, legge 289/2002. L’istanza era stata tuttavia rigettata dalle Entrate, in quanto per l’appunto la procedura non riguardava un atto impositivo. Il diniego di definizione veniva infine impugnato dal contribuente.
Il giudice di legittimità, nella sentenza 23269/2018, ha ribadito il seguente importante criterio di diritto: «è di per sé irrilevante la circostanza che la cartella contenga la liquidazione di imposte dichiarate e non versate, una volta che, da un lato, si tratta del primo atto con cui l’Amministrazione ha esercitato la propria pretesa nei confronti della contribuente, e, dall’altro, quest’ultima ha instaurato una controversia effettiva, facendo valere, nell’impugnare la cartella, il proprio diritto alla emendabilità, in sede contenziosa, della dichiarazione».
Ne consegue che per stabilire la condonabilità delle cartelle occorre guardare non solo al contenuto delle stesse ma anche ai motivi di ricorso. Sotto il primo profilo è certo che se dalla liquidazione della dichiarazione emerge una rettifica dei dati dichiarati, la relativa controversia è definibile. Inoltre, in tutti i casi in cui il contribuente pone in discussione la stessa esistenza della pretesa impositiva deve ugualmente ammettersi la facoltà di definizione. Si pensi ad esempio all’ipotesi in cui si contesti la decadenza del potere del Fisco, seppure riferita ad un recupero di imposte dichiarate e non versate. O anche, come nei casi decisi dalla Cassazione, alla eventualità che il soggetto passivo in sede di impugnazione chieda di correggere i dati dichiarati. In proposito, vale ricordare come, ai sensi dell’articolo 2, comma 8-bis, Dpr 322/98, il contribuente abbia sempre il diritto di far valere errori commessi a suo danno anche direttamente in sede giudiziale.
Le precisazioni dei giudici , che paiono consolidate nella lettura delle sentenze citate, ampliano dunque in modo significativo la sfera operativa della chiusura delle liti pendenti.
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Luigi Lovecchio

Aggio da giustificare con l’attività svolta dalla riscossione

Ctp di Parma: i rilievi del contribuente obbligano alla motivazione
È illegittimo l’aggio richiesto nella cartella di pagamento se l’agente per la riscossione non documenta le prestazioni eseguite e le spese sostenute. A precisarlo è la Commissione Tributaria di Parma con la sentenza n. 38, depositata il 12 febbraio 2019. 
Il contenzioso partiva da una società che impugnava una cartella di pagamento relativa a imposte dichiarate e non versate.Tra i motivi di ricorso la contribuente eccepiva la mancata indicazione del calcolo degli interessi e la giustificazione degli aggi pretesi ritenuti sproporzionati rispetto all’attività svolta. L’agente della riscossione si costituiva in giudizio.
Il collegio parmense ha innanzitutto rilevato che l’articolo 11 del Dlgs 546/1992, recentemente modificato, prevede che l’agente della riscossione (così come anche l’agenzia delle Entrate) «sta in giudizio direttamente o mediante la struttura territoriale sovraordinata». La scelta di avvalersi di avvocati del libero foro per la difesa affinché sia valida presuppone che si sia in presenza di un caso speciale, che intervenga una preventiva apposita e motivata delibera, la quale deve essere vagliata dagli organi di vigilanza e, infine, che sia prodotta in giudizio la prova della sussistenza di tali elementi (Cassazione, sentenza 28684/2018).
Ne consegue così che è nullo il mandato conferito all’avvocato del libero foro rilasciato senza il vaglio dell’organo di vigilanza e in assenza di un’esigenza specifica.
Nella specie, la procura allegata al fascicolo processuale telematico, non indicava alcun elemento necessario: mancava, infatti, la deliberazione e l’indicazione delle ragioni che avrebbero giustificato la deroga all’ordinario criterio della difesa in proprio dell’Ente pubblico. Tuttavia, i giudici hanno precisato che da ciò non conseguiva automaticamente l’accoglimento del ricorso.
Con riferimento alla mancata indicazione del calcolo degli interessi, nella sentenza è precisato che, secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cassazione, sentenza 17765/2018), il contribuente deve essere messo in condizioni di verificare la correttezza della pretesa, senza essere obbligato ad attingere a nozioni giuridiche per ricostruire il metodo seguito dall’Ufficio.
Per quanto riguarda l’aggio, invece, nella cartella di pagamento era individuato come “oneri di riscossione”.
L’articolo 17 del Dlgs 112/99 precisa che gli oneri di riscossione e di esecuzione devono essere commisurati ai costi per il funzionamento del servizio di riscossione. Tuttavia, quando il ricorrente contesta l’inesistenza o la sproporzione dell’aggio preteso, l’onere della prova si trasferisce in capo all’esattore.
Occorreva così dimostrare la consistenza delle prestazioni eseguite e la rispondenza delle somme richieste per tali prestazioni. In assenza, quindi della prova dei costi pretesi al contribuente, gli oneri della riscossione non possono ritenersi effettivamente sostenuti e di conseguenza devono essere annullati.
L’interessante decisione non sembra avere precedenti: se dovesse essere condivisa da altri giudici potrebbe comportare una maggiore trasparenza in capo all’agente della riscossione nella quantificazione dell’aggio preteso.
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Laura Ambrosi

Contratto preliminare dal notaio per gli immobili in costruzione

Il Dlgs 14/2019 prevede l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata
L’imperatività della norma indica che i contratti in forma diversa sono nulli
Nuove regole per le compravendite di “immobili da costruire”, vale a dire i contratti aventi a oggetto il trasferimento di edifici (o loro porzioni) per la cui costruzione sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare oppure la cui costruzione «non risulti essere stata ultimata versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità».
Infatti, il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, recato dal decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, comporta alcune importanti innovazioni in questo delicato ambito, disciplinato dal Dlgs 20 giugno 2005, n. 122 il quale viene appunto modificato dal Codice della crisi d’impresa (articoli 389-391)
Queste nuove norme divengono applicabili (articolo 5, comma 1-ter, Dlgs 122/05) ai contratti aventi a oggetto “immobili da costruire” per i quali il relativo titolo abilitativo edilizio sia stato richiesto o presentato successivamente al 16 marzo 2019 (vale a dire il trentesimo giorno successivo a quello di pubblicazione in Gazzetta ufficiale del Codice sulla crisi d’impresa che infatti è stata effettuata il 14 febbraio 2019: articolo 389, comma 1).
È stato anzitutto modificato l’articolo 6 del Dlgs 122/05, il quale ora dispone che il contratto preliminare «ed ogni altro contratto che … sia comunque diretto al successivo acquisto in capo a una persona fisica della proprietà» di un immobile da costruire «devono essere stipulati per atto pubblico o per scrittura privata autenticata». L’innovazione apportata dalla norma consiste nel fatto che la legge attualmente vigente consente di stipulare questi contratti anche nella forma della scrittura privata non autenticata.
La legge non reca un’espressa sanzione per la violazione di questa prescrizione formale: si devono applicare, pertanto, le previsioni “generali”: vale a dire (dato che l’imperatività della norma è fuori discussione, in quanto il legislatore ricorre al verbo «devono») l’articolo 1418, comma 1 del Codice civile, per il quale è nullo il contratto contrario a norme imperative, e gli articoli 1325, n. 4), 1350, n. 13) e 1418, comma 2, del Codice civile, per i quali sono nulli gli atti stipulati in una forma diversa da quella prescritta dalla legge. La nullità in questione è “assoluta”: è insanabile (articolo 1423 del Codice civile), l’azione è imprescrittibile (articolo 1422 del Codice civile), può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile d’ufficio dal giudice (articolo 1421 del Codice civile). La prescrizione di forma in commento, per il “principio di simmetria delle forme” che vige nel nostro ordinamento, comporta che per atto pubblico o scrittura privata, a pena di nullità, debbano essere redatte anche la proposta e l’accettazione finalizzate alla stipula dei contratti in questione (e la modulistica delle agenzie va fuorilegge) nonché la procura che sia rilasciata in vista di essi.
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Angelo Busani

La riforma della crisi d’impresa riscrive il ruolo dei soci di Srl

La governance delle Srl dopo il nuovo Codice della crisi d’impresa. L’articolo 377 del Dlgs 14/2019 innova il primo comma dell’articolo 2475 del Codice civile (in tema di amministrazione della Srl), il quale, dal 16 marzo 2019 verrà a sancire che «la gestione dell’impresa (…) spetta esclusivamente agli amministratori». In realtà, saliente caratteristica della Srl (per la quale si differenzia dalla Spa) è la possibilità di affidare ai soci la gestione della società, o nella sua interezza o in singole sue esplicazioni. I riferimenti normativi sono, ad esempio:

a) l’articolo 2479, comma 1, del Codice civile (che il Dlgs 14/2019 non innova), per il quale «i soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione»;

b) l’articolo 2468, comma 3, del Codice civile (neanche questo innovato), il quale afferma «la possibilità che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società»;

c) l’articolo 2476, comma 7, del Codice civile (anch’esso non innovato), il quale afferma la responsabilità solidale (con gli amministratori) dei «soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi».

C’è da chiedersi, dunque, se il Codice della crisi d’impresa spazzi via questo panorama normativo e il principio in base al quale la riforma del 2003 ha riconosciuto la stretta attinenza dei soci della Srl con la gestione della società, stante il caratteristico rilievo che la figura del socio di Srl (a differenza di quello di Spa) assume nella vita sociale e nelle decisioni che essa adotta.

Se a questa domanda seguisse una risposta positiva, essa comporterebbe non solo la necessità di modificare un elevatissimo numero di statuti di Srl messi fuori-legge dal Dlgs 14/2019, ma anche una inconcepibile entrata a gamba tesa nella governance di tantissime Srl, ove i rapporti tra i soci sono regolamentati in base a un delicato equilibrio di poteri realizzato proprio conferendo a taluno di essi il diritto-dovere di gestire la società.

In altre parole, se il nuovo primo comma dell’articolo 2475 del Codice civile fosse da intendersi come incompatibile con i «diritti particolari» spettanti ai soci in tema di amministrazione della società, questi ultimi dovrebbero d’improvviso reputarsi espunti dagli statuti ove sono attribuiti e, con ciò, inesorabilmente cancellati. L’inammissibilità di questa conseguenza sospinge a dare risposta negativa alla questione che il Codice della crisi d’impresa pone, anche perché:

non sembra possibile che il legislatore abbia voluto effettuare, con il metodo dell’abrogazione tacita, una così radicale riforma di una caratteristica saliente del tipo Srl; vi è invece da credere che, se veramente il legislatore avesse voluto disporre una svolta così epocale, l’avrebbe prevista espressamente;

nemmeno pare possibile ritenere che, nell’innovare il primo comma dell’articolo 2475 del Codice civile, un legislatore così “tecnico” come quello della crisi d’impresa sia stato talmente maldestro da dimenticarsi norme “centrali” come gli articoli 2479, 2468 e 2476 del Codice civile.

Allora, la tematica in esame pare potersi comporre nel seguente modo: da un lato, si potrebbe ritenere che restino in vigore tutte le norme, attualmente vigenti (e non abrogate o modificate dalla riforma) che consentono di attribuire poteri gestori ai soci di Srl; d’altro lato, il Codice della crisi d’impresa è da intendere (il principio è espresso nel nuovo articolo 2086 del Codice civile) che tutti coloro i quali concorrano a formare le decisioni gestorie della Srl da ciò derivino il dovere di prestare la loro opera al fine di «istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale».

Fonte “Il sole 24 ore”

Nota di variazione Iva, il termine per l’emissione scatta dalla sottoscrizione del lodo

Dalla sottoscrizione e non dall’esecutività del lodo arbitrale che fa venir meno l’operazione scatta il termine di emissione della relativa nota di variazione Iva. Il termine ultimo per l’emissione della nota di variazione è determinata dall’articolo 19 del Dpr 633/72 e se già spirato non ammette mai la presentazione di una dichiarazione integrativa.

L’agenzia delle Entrate, con la risposta n. 55 di ieri (clicca qui per consultarla ), ha specificato alcuni principi relativi ai tempi ed ai modi di recupero dell’imposta relativa ad un’operazione correttamente fatturata, che è venuta meno in tutto o in parte. In particolare, l’Agenzia ha ribadito che la nota di variazione può essere emessa, anche oltre il decorso di un anno dal momento di effettuazione dell’operazione, in ipotesi di risoluzione, recesso e revoca del contratto che, nella pratica, si manifestano attraverso atti di accertamento negoziale o sentenze, tra cui fa rientrare anche il lodo arbitrale precisando, in questo ultimo caso, che il dies a quo per il computo del termine per l’emissione della nota di variazione è la data di sottoscrizione del lodo.

Una volta realizzatosi il presupposto per l’emissione della nota di variazione, occorre far riferimento al termine entro cui poter esercitare il diritto a detrazione dell’imposta che proprio dalla nota di variazione trae origine. Ebbene, in questo caso l’agenzia delle Entrate, richiamando la circolare 1/E del 2018 (in commento al Dl 50/2017), ha confermato che se i presupposti per l’emissione della nota di variazione si sono verificati ante 1° gennaio 2017, si applica la norma di cui all’art. 19, comma 1, vigente ratione temporis, secondo cui il diritto a detrazione poteva essere esercitato al più tardi con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione era sorto; mentre per tutte le note di variazione emesse successivamente a detta data, si applica l’art. 19 tutt’oggi vigente, secondo cui il diritto alla detrazione può essere esercitato al più tardi con la dichiarazione relativa all’anno in cui il diritto alla detrazione è sorto.

Con questa risposta, l’Agenzia ha sostanzialmente ribadito che il diritto a detrazione può essere correttamente esercitato con l’emissione della nota di variazione, secondo gli ordinari termini previsti dall’art. 19. Tuttavia, nel caso in cui la nota di variazione non sia stata emessa entro la suddetta data e i termini siano già spirati, non è possibile recuperare l’imposta versata presentando una dichiarazione integrativa a favore, in quanto, secondo l’Agenzia, mancano i presupposti per poter presentare la dichiarazione integrativa, non ravvisandosi alcun errore od omissione cui rimediare con riferimento all’anno di emissione della fattura originaria.

Per di più, non sarebbe nemmeno possibile sostenere che la mancata emissione della nota di variazione sia stato un errore commesso dal contribuente, che possa essere corretto; ciò in quanto l’emissione di una nota di variazione in diminuzione è una facoltà concessa al contribuente, cui lo stesso può rinunciare, e non un obbligo.

L’Agenzia conclude poi con un principio, secondo cui l’emissione di una nota di variazione produce effetti diversi dalla dichiarazione integrativa: mentre la prima assicura che sia rispettato il principio di neutralità dell’Iva, la dichiarazione integrativa consente il solo recupero dell’imposta versata in misura superiore, ma non anche il riversamento da parte di chi l’ha detratta.

Fonte “Il sole 24 ore”

Corsa contro il tempo sulle e-fatture di gennaio

Il regime transitorio: invio entro lunedì 18, per evitare le sanzioni
Chi rimedia per il 16 marzo dovrà sopportare la penalità piena per l’Iva
Ultimissimi giorni per l’emissione delle fatture relative alle operazioni effettuate nel mese di gennaio 2019; il termine per emetterle senza incorrere in sanzioni è quello della liquidazione del periodo di effettuazione dell’operazione, che per i contribuenti mensili scade lunedì 18 febbraio.
L’articolo 21 del Dpr 633/1972, nella sua attuale versione, prevede l’emissione della fattura al momento di effettuazione dell’operazione, che coincide con la consegna per le cessioni di beni e con il pagamento del corrispettivo per le prestazioni di servizi. Il comma 1 dell’articolo 21 prevede, poi, che la fattura si ha per emessa all’atto della trasmissione al cessionario/committente (tramite lo Sdi); per le fatture immediate, la data della fattura coincide con quella di effettuazione dell’operazione, mentre per le fatture differite la data della fattura è quella di emissione/trasmissione.
Tuttavia, per il primo semestre 2019 (prorogato al 30 settembre per i soggetti che liquidano l’Iva mensilmente), il comma 6 dell’articolo 1 del Dlgs 127/2015, come modificato dall’articolo 10 del Dlgs 119/2018, ha previsto la non applicazione di sanzioni se la fattura è emessa entro il termine della liquidazione del periodo di effettuazione dell’operazione. Dunque, considerato che il 16 febbraio (prorogato al 18 perché il 16 cade di sabato) scade il termine della liquidazione Iva di gennaio per i contribuenti mensili, entro questa data devono essere emesse le fatture relative alle operazioni effettuate nel mese di gennaio per non incorrere in sanzioni.
Nell’ipotesi in cui la fattura sia emessa e trasmessa successivamente alla scadenza della liquidazione periodica (quindi dopo il 18 febbraio), ma entro il termine della liquidazione successiva (quindi entro il 16 marzo), è possibile beneficiare della riduzione delle sanzioni dell’80%. La riduzione delle sanzioni non trova però applicazione con riferimento all’eventuale tardivo versamento dell’Iva.
Infatti, in occasione di Telefisco 2019, l’agenzia delle Entrate ha chiarito che le sanzioni oggetto della riduzione prevista dal citato comma 6 dell’articolo 1 del Dlgs 127/2015 sono, secondo la formulazione letterale della norma, quelle stabilite dall’articolo 6 Dlgs 471/1997. Pertanto, tra le sanzioni riconducibili a queste fattispecie non rientrano quelle relative all’omesso versamento dell’Iva da parte del cedente, che saranno applicate per intero, fermo restando il ravvedimento operoso.
Esemplificando, quindi:
un contribuente mensile che effettua un’operazione nel mese di gennaio 2019 e che trasmette la relativa fattura allo Sdi entro il termine della liquidazione del 18 febbraio non incorre in nessuna sanzione;
il contribuente che, invece, avendo effettuato l’operazione in gennaio, trasmette la fattura allo Sdi entro il 16 marzo (termine della liquidazione successiva) può beneficiare della sanzione ridotta dell’80% per la tardiva fatturazione, ma applicherà la sanzione piena (pari al 30%) per l’Iva che non ha versato correttamente il 18 febbraio; può scattare, inoltre, la sanzione per l’incompleta comunicazione delle liquidazioni Iva fissata da 500 a 2mila euro.
Per far confluire l’Iva che riguarda le fatture di gennaio nella liquidazione, relativamente alle fatture immediate la data della fattura coincide con quella di effettuazione dell’operazione e, pertanto, l’Iva di queste fatture ricade a debito nel mese di competenza; se la fattura è differita, come precisato dall’agenzia delle Entrate, la data della fattura è quella dell’emissione e trasmissione allo Sdi. Ne consegue che il programma gestionale, se la fattura contiene una data del mese di febbraio, deve riuscire a farla ricadere nella liquidazione di gennaio.
Le fatture di acquisto del mese di gennaio, ricevute entro il 15 di febbraio, devono essere registrate nel mese di ricevimento, ma l’Iva può essere portata in detrazione nel mese di effettuazione dell’operazione, dunque gennaio.
Fonte “Il sole 24 ore”

Crisi d’impresa, riforma al via Primo step gli organi di controllo

Sarà una rivoluzione, questa riforma (aldilà del fatto che il «fallimento» prenderà il nome di «liquidazione giudiziale»)? In effetti sono previste molte novità, ma a ben vedere sono poche quelle destinate a cambiare davvero lo spirito del diritto della crisi, che sembra rimanere centrato sul paradigma del debito e posto a tutela dei creditori, quale è sempre stato nella Storia (quantomeno nel diritto europeo continentale).
Allerta
Fra tutte le novità del decreto pubblicato ieri in Gazzetta (Dlgs 12 gennaio 2019 n. 14), solo due potrebbero incrinare questo paradigma. La prima è l’istituto dell’allerta, quale misura funzionale a far emergere la crisi ai primi albori, per effetto del suo rilevamento da parte di alcuni soggetti qualificati (gli organi di controllo, da un lato, e l’agenzia delle Entrate, l’Inps e l’agente della riscossione da un altro lato). Spetterà a questi soggetti indurre l’impresa ad adottare immediatamente le necessarie contromisure o a chiedere l’intervento degli organismi di composizione delle crisi presso le Camere di commercio. Qui risiede la novità più grande, nelle intenzioni, se è vero che, com’è stato osservato, è la prima volta in Italia che «il diritto della crisi d’impresa si interessa direttamente della crisi d’impresa, non per favorire la ristrutturazione indirettamente, bensì per favorirla direttamente e per favorire indirettamente semmai il superamento dell’insolvenza» (Fabrizio Di Marzio, «Fallimento. Storia di un’idea»).
Sovraindebitamento
La seconda novità è nelle norme sul sovraindebitamento, che regolano la crisi dei soggetti esclusi dalla liquidazione giudiziale (imprenditori commerciali privi dei requisiti dimensionali per poter esservi sottoposti, imprenditori non commerciali, comuni cittadini), ed è la esdebitazione senza utilità, consistente in una forma di liberazione del debitore dai suoi debiti anche in assenza di pagamenti a favore dei creditori. La ratio di questa novità, come spiega la relazione, non è solo quella di restituire il debitore alla piena vita, liberandolo dai debiti, ma anche quella di «reimmettere nel mercato soggetti potenzialmente produttivi». Il che significa guardare alla crisi del debitore non solo come alla crisi personale di un soggetto, ma come alla crisi di un centro di interessi intorno al quale ruotano altri interessi diffusi, diversi da quelli puri e semplici dei creditori.
Concordati e liquidazione
Ma le novità sono comunque molte, come si è detto, e riguardano tutte le procedure: sia i concordati, sia il fallimento (o meglio, la liquidazione giudiziale), sia la liquidazione coatta amministrativa. Quanto ai concordati, basti pensare per un verso all’introduzione del concordato preventivo di gruppo, che consentirà l’applicazione di un’unica procedura a fronte di situazioni di crisi riferibili a società diverse (sulla falsariga di quanto previsto fino ad oggi nell’ambito dell’amministrazione straordinaria); e per un altro verso, sempre in relazione al concordato preventivo, all’attribuzione al tribunale di poteri di controllo non solo formali ma anche nel merito, quale il potere di accertare la fattibilità del piano. Quanto alla liquidazione giudiziale, una delle novità più importanti è senza dubbio la previsione di un unico modello processuale di accertamento della crisi, cui saranno assoggettate tutte le categorie di debitori, di qualunque genere, al fine dell’individuazione della procedura adeguata al caso. Quanto alla liquidazione coatta amministrativa, la riforma elenca una serie di imprese assoggettabili esclusivamente a tale procedura, superando il principio vigente fino ad oggi, in virtù del quale invece l’assoggettamento alla liquidazione coatta anziché al fallimento poteva dipendere da un puro dato temporale.
Organi di controllo
Alcune novità riguardano anche il Codice civile, e ci si riferisce ai nuovi parametri di nomina degli organi di controllo nelle società. A differenza della maggior parte delle altre, questa novità entrerà in vigore tra 30 giorni (9 mesi per srl e coop già costituite) e costringerà una grande platea di soggetti a farvi i conti, perché abbassa molto i limiti a partire dai quali la nomina degli organi diventa obbligatoria.
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Niccolò Nisivoccia

Parte la riforma
Dopo una gestazione piuttosto lunga (il lavoro sulla legge delega è partito nel corso della precedente legislatura) e dopo 77 anni dal varo della legge fallimentare è stato pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale il testo
del decreto di riforma (decreto legislativo 12 gennaio 2019 n. 14) che contiene il «Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155».
Due fasi
Una riforma a efficacia differita: una parte entra infatti in vigore tra trenta giorni, tutto il resto tra un anno e mezzo. Partono dunque subito, da una parte, l’istituzione presso il ministero della Giustizia dell’albo dei curatori e, dall’altra, le novità inserite nel Codice civile sugli obblighi (con limiti abbassati rispetto a quelli vigenti) di nomina degli organi di controllo interni delle società
16 marzo 2019
Albo dei curatori
Tra le novità in vigore tra trenta giorni va segnalata l’istituzione dell’albo dei soggetti destinati a svolgere, su incarico del tribunale, le funzioni di curatore, commissario giudiziale o liquidatore, nelle procedure previste nel
codice della crisi e dell’insolvenza. Possono essere chiamati a svolgere tali funzioni avvocati, dottori commercialisti ed esperti contabili e consulenti del lavoro
Organi di controllo
Altra importante novità
è sulla nomina dell’organo
di controllo o del revisore.
Che diventa obbligatoria 
se la società ha superato 
per due esercizi consecutivi almeno uno dei seguenti limiti: 1) due milioni di euro di attivo; 2) due milioni di euro di ricavi; 3) dieci dipendenti occupati durante l’esercizio.
Tale obbligo deve essere rispettato entro nove mesi a partire da oggi dalle Srl e dalle coop già costituite.
15 agosto 2020
Allerta pre-crisi 
Filo conduttore della riforma della crisi d’impresa è la conservazione dell’attività aziendale. Per questo sono previste misure che consentono di intervenire prima che sia troppo tardi, prima cioè che la crisi diventi insolvenza conclamata. È il caso dell’«allerta pre-crisi» innescata dagli organi di controllo interno delle società o dai creditori pubblici (Agenzia delle Entrate e Inps) cui fa seguito una procedura affidata a uno specifico organo di composizione della crisi istituito presso le Camere di commercio
Sovraindebitamento
Il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza ospita anche una sezione
sul fallimento del consumatore e delle
piccole imprese (quelle cioè sotto le attuali soglie di rilevanza) che rende meno stringenti i requisiti soggettivi per l’accesso alla procedura

Riporto delle perdite anche in mancanza di lavoro subordinato

L’assenza di costi di personale dipendente non comporta automaticamente che la società venga qualificata come “bara” fiscale, impedendo il riporto delle posizioni fiscali soggettive, perché si configura come una libera scelta aziendale. È questa la conclusione della risposta 52 di ieri dell’agenzia delle Entrate.

A seguito di una fusione per incorporazione, l’incorporante ha presentato istanza di interpello ex articolo 11, comma 2 della legge 212/00 per ottenere la disapplicazione delle limitazioni al riporto delle eccedenze Ace dell’incorporata in base all’articolo 172, comma 7 del Tuir (che si applica anche alle perdite fiscali e agli interessi passivi indeducibili). La pronuncia si fa particolarmente apprezzare perché, abrogata l’Ace, essa è comunque valida nelle operazioni di fusione e scissione che presentino la tematica del riporto delle perdite e degli interessi passivi. L’incorporata svolgeva l’attività di gestione immobiliare, locando prevalentemente alla controllante incorporante immobili di proprietà o condotti in locazione finanziaria. La stessa, sia nel periodo antecedente la fusione sia in quello in cui l’operazione ha avuto efficacia (pur essendo retrodatata contabilmente e fiscalmente all’inizio del periodo d’imposta), ha superato il test di vitalità economica in relazione ai ricavi e il limite patrimoniale, ma non il test di vitalità con riferimento ai costi del personale. Il superamento di tale test, ricordiamo, si ha quando sia l’ammontare dei ricavi e proventi dell’attività caratteristica, sia quello delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, risulti superiore al 40% di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori.

Nella risposta l’Agenzia ha ribadito che la finalità della norma è quella di salvaguardare la permanenza delle condizioni di vitalità economica, onde evitare la compensazione intersoggettiva delle perdite fiscali, degli interessi passivi indeducibili e delle eccedenze Ace (circolare 9/E/10).

Circa l’assenza dei costi del personale, la pronuncia richiama le precedenti risoluzioni 143/E/08 e 337/E/02. Quest’ultima, in particolare, aveva chiarito che per una holding la mancanza assoluta di costi di personale dipendente in bilancio non è, da solo, sintomo di scarsa vitalità aziendale, visto che tale voce non è così frequente nei bilanci di questa tipologia di società. L’elemento di spicco della risposta sta nel fatto che la scelta aziendale (cosiddetta di “buy” e non di “make”) di non ricorrere al costo di lavoro dipendente, preferendo optare per un contratto di service amministrativo (voce B7 del conto economico), è da considerarsi in sostanza una libera scelta aziendale.

Pertanto non può essere valutata come sintomatica di un comportamento patologico volto a sfruttare indebitamente le posizioni soggettive tipiche delle operazioni di fusione e di scissione.

Tanto più considerato che nel caso di specie vi sono ricavi di locazione tali da consentire il superamento del test relativo a quella specifica componente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Passaggio al forfettario, niente vincolo triennale anche se c’è opzione

Un’adesione di massa si profila nel regime forfettario da parte di persone fisiche che esercitano una attività di impresa o professionale.

Il regime è comodo e poco costoso tenuto conto che sul reddito determinato forfettariamente si applica l’imposta sostitutiva del 15%. Può anche essere applicata la percentuale del 5% nei casi in cui l’attività sia nuova, nel senso che chi la svolge non ha avuto la partita Iva nell’ultimo triennio, ovvero non prosegua l’attività già svolta come lavoratore dipendente o infine, se prosegue una attività mediante acquisto di azienda, questa deve avere avuto un ammontare di ricavi non superiore a 65.000 euro.

Inoltre, nel regime forfettario le operazioni non sono soggette a Iva e quindi se, da un lato, questa situazione genera un costo corrispondente all’Iva assolta sugli acquisti che non è detraibile, dall’altro, pone il forfettario in una situazione favorevole in quanto non fa pagare l’Iva al proprio cliente.

La manifestazione di Telefisco 2019 ha consentito di avere qualche punto fermo in questa fase iniziale relativamente alla possibilità di accesso al regime.

L’unico requisito di accesso è rimasto il limite di ricavi o compensi pari a euro 65.000, che deve essere verificato nel periodo di imposta precedente e quindi nel 2018. L’Agenzia ha confermato che, fatto salvo il rispetto dell’ammontare di ricavi, non ha alcuna rilevanza se il regime contabile adottato nel 2018 è frutto di una opzione. Infatti, l’Agenzia ha azzerato le opzioni in forza del principio contenuto nel Dpr 442/1997 che prevede che, in presenza di modifiche normative, il vincolo triennale previsto per le opzioni non opera. Quindi via libera a tutti.

Ci saranno anche i pensionati che svolgono una attività professionale di fine carriera che fino allo scorso anno non potevano essere forfettari, in quanto un requisito di accesso prevedeva che, in presenza di reddito di lavoro dipendente o pensione, l’importo annuo non fosse superiore a 30.000 euro.

Nel 2019, è prevista una causa di esclusione nel caso in cui il contribuente forfettario operi prevalentemente con il proprio datore di lavoro o con chi lo è stato nei due periodi di imposta precedenti. Anche in questo caso non conta cosa sia accaduto nel 2018 e, quindi, l’aspirante forfettario può anche aver operato esclusivamente per il proprio datore di lavoro o per chi lo è stato; l’importante è rispettare tale regola nel 2019 e cioè il forfettario deve operare prevalentemente per altri soggetti.

Occorre considerare anche l’altra nuova causa ostativa e cioè il possesso di partecipazioni in società di persone oppure essere coadiuvanti nell’impresa familiare, nonché possedere una partecipazione di controllo in società a responsabilità limitata la quale svolga un’attività riconducibile a quella del proprio socio che la controlla. Nelle risposte di Telefisco, l’Agenzia ha precisato che anche questa causa di esclusione deve cessare nell’anno precedente e quindi i contribuenti che vogliono aderire al regime forfettario nel 2019 dovevano essere liberi da queste partecipazioni al 1° gennaio di tale anno. L’eventuale acquisto di una partecipazione nel 2019 genera la decadenza dal regime dal 2020 ma se viene ceduta entro la fine di quest’anno non preclude il regime.

Fonte “Il sole 24 ore”

Medici di base, esonero dall’e-fattura ma obbligo di spesometro

Medici di base convenzionati con il servizio sanitario nazionale esonerati dall’emissione della fattura elettronica per i relativi pagamenti. In base all’articolo 2 del Dm 31 ottobre 1974, infatti, nei rapporti tra i professionisti sanitari e gli enti mutualistici per prestazioni medico-sanitarie il foglio di liquidazione dei corrispettivi compilato da tali enti tiene luogo della fattura. La risoluzione 98/E/2015 aveva escluso, in base a tale disposizione, che i medici convenzionati fossero tenuti ad emettere la fattura Pa (elettronica). La risposta a interpello 54/2019 pubblicata ieri dalle Entrate  conferma che l’esclusione vale anche nel nuovo regime.

Il nuovo obbligo generalizzato di e-fattura, che dal 1° gennaio 2019 è esteso a tutti i contribuenti, subisce delle eccezioni, che l’Agenzia puntualmente riepiloga:
1)eccezioni di ordine soggettivo: per chi rientra nel cosiddetto “regime di vantaggio” (articolo 27, commi 1 e 2, Dl 98/2011) e per chi applica il regime forfettario di cui all’articolo 1, commi da 54 a 89, della legge 23 dicembre 2014, n. 190;
2)eccezioni di ordine oggettivo, per le cessioni/prestazioni di servizi per cui non vi è l’obbligo di documentazione tramite fattura (ad esempio, le operazioni verso consumatori finali dei commercianti al minuto: articolo 22 Dpr n. 633 /72);
3)eccezioni di natura “mista”, che riguardano specifiche categorie di contribuenti e solo «in peculiari situazioni», che l’Agenzia identifica in coloro che: a) «hanno esercitato l’opzione di cui agli articoli 1 e 2 della legge 16 dicembre 1991, n. 398, e che nel periodo d’imposta precedente hanno conseguito dall’esercizio di attività commerciali proventi per un importo non superiore a euro 65.000 […]» (così l’articolo 1, comma 3, ultimo periodo del d.lgs. n. 127 del 2015) e b) sono «tenuti all’invio dei dati al Sistema tessera sanitaria», i quali, in riferimento al solo periodo d’imposta 2019, «non possono emettere fatture elettroniche ai sensi delle disposizioni di cui all’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 127, con riferimento alle fatture i cui dati sono da inviare al Sistema tessera sanitaria» (cfr. l’articolo 10-bis del Dl 119 del 2018).

L’Agenzia infine ricorda un principio che dovrebbe essere ovvio: l’obbligo di e-fattura non si applica nei casi in cui l’operatore in base alle disposizioni previgenti non fosse tenuto ad emettere fattura; la risoluzione 54/E/2019 sottolinea infatti che un obbligo che non esisteva prima non viene certo creato dalle nuove regole. Se questo è il principio generale, deve valere anche per tutti gli altri casi in cui in passato la fattura non era stata ritenuta obbligatoria: è il caso, ad esempio, delle farmacie che documentano le forniture di medicinali con distinta contabile riepilogativa (prevista dalla convenzione al Dpr 371/1998) e scontrino, secondo le procedure disciplinate dalle circolari n. 72 e n. 74 del 1983 e più volte confermate negli anni successivi).

La risoluzione qui commentata affronta anche l’argomento dello “spesometro”, per confermare che il relativo obbligo dal 1° gennaio 2019 è soppresso, ma il relativo obbligo resta in vigore per le operazioni relative al 2018. I medici di base dovranno quindi inviare comunque lo spesometro dell’ultimo periodo del 2018 entro il 28 febbraio, comprendendovi anche le fatture emesse nel corso del 2018 (seppure ricevute dal cessionario/committente nel 2019), anche se inerenti a dati già inviati al Sistema tessera sanitaria. Nello spesometro non devono invece essere incluse le fatture (passive) legittimamente ricevute e registrate a decorrere dal 1° gennaio 2019 (anche se riferite al 2018).

Fonte “Il sole 24 ore”

Per esterometro e spesometro proroga «lunga» al 30 aprile

Dopo soli 45 giorni del nuovo anno si riapre la stagione delle proroghe fiscali. Un atto dovuto, dicono i professionisti e le imprese già ampiamente sotto pressione per l’avvio della fatturazione elettronica e che a più riprese hanno chiesto ai vertici dell’amministrazione finanziaria e a quelli di Governo una razionalizzazione delle scadenze degli adempimenti. A partire da quelli di fine febbraio dove in calendario alla data del 28 sarebbe previsto l’invio dei dati delle fatture da e per l’estero, il cosiddetto «esterometro», il secondo semestre o il terzo trimestre 2018 dello spesometro e l’invio delle comunicazioni delle liquidazioni Iva. Il tutto condito dal termine della moratoria delle sanzioni per la fatturazione elettronica. Richieste accolte dal sottosegretario all’Economia, Massimo Bitonci (Lega) che, in una nota diramata ieri, ha annunciato lo slittamento al 30 aprile la prima scadenza dell’esterometro e l’ultima dello spesometro. Slittamenti che dovranno essere formalizzati con un Dpcm.

In sostanza, professionisti e imprese avranno due mesi di tempo in più rispetto alla scadenza attualmente fissata al 28 febbraio per effettuare i due adempimenti. L’esterometro riguarda i dati delle fatture da e verso l’estero che quindi non transitano dal canale dello Sdi (Sistema di interscambio) da cui passano tutte le fatture elettroniche tra “privati” obbligatorie dal 1° gennaio scorso. Lo spesometro, invece, riguarda i dati delle fatture dell’ultima parte del 2018 (secondo semestre o terzo trimestre), visto che l’adempimento va in soffitta proprio con il debutto dell’e-fattura dal 2019.

Come ha spiegato Bitonci dal «confronto nel tavolo tecnico sulla concomitanza delle scadenze fiscali» sono emerse tutte le criticità sottolineate nelle ultime settimane da professionisti e imprese e in questo senso «si sono volute diversificare le scadenze per dare maggior respiro e tranquillità nelle operazioni degli addetti».

Nessuna possibilità di proroga al momento per le comunicazioni dei dati delle liquidazioni Iva che resta in scadenza il 28 febbraio, così come di un possibile allungamento della moratoria delle sanzioni sull’e-fattura. «Il differimento di spesometro ed esterometro è a costo zero per l’Erario e semplifica la vita di professionisti e imprenditori. Si tratta di un atto di buon senso».

Sui mancati rinvii è tornato ieri anche il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili (Cndcec), che venerdì scorso avevano chiesto ufficialmente una revisione del calendario al ministro dell’Economia Giovanni Tria e al direttore delle Entrate Antonino Maggiore. «Pur apprezzando il rinvio di queste due scadenze – ricorda il presidente Massimo Miani – ribadiamo tuttavia l’assoluta necessità di prorogare la moratoria sulle sanzioni per la tardiva trasmissione delle fatture elettroniche, i termini per la comunicazione delle liquidazioni periodiche Iva del quarto trimestre 2018 e l’invio dei dati per la predisposizione delle dichiarazioni precompilate».

I tributaristi dell’Int chiedono, invece, che venga emanato in tempi rapidi il Dpcm e di riaprire il dossier delle semplificazioni fiscali. Il disegno di legge presentato alla Camera dalla maggioranza è, infatti, rimasto fermo e verrà, con tutta probabilità, “svuotato” delle norme di deregulation che prevedono costi per lo Stato.

La partita della revisione del sistema fiscale dovrebbe passare da un intervento ad ampio raggio. La Lega con i sottosegretari Bitonci e Garavaglia sta lavorando a una riduzione della prima aliquota Irpef dal 23% al 20% e del taglio di quattro punti dell’aliquota Ires.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Rottamazione-ter, chi non ha versato il 7 dicembre 2018 deve ripresentare l’istanza

I soggetti che non hanno versato le rate in scadenza a luglio, settembre e ottobre 2018 della rottamazione-bis entro il 7 dicembre per accedere alla rottamazione ter devono presentare il modello Da 2000 – 2018 entro la fine di aprile. Se il debitore compila la domanda di saldo e stralcio senza indicare il valore Isee oppure indicando un valore scaduto la domanda sarà convertita in richiesta di rottamazione-ter, con pagamento della prima rata a novembre 2019. Sono le principali precisazioni che si ricavano dalla lettura dei nuovi modelli e delle nuove istruzioni pubblicati sul sito di agenzia delle Entrate – Riscossione (Ader) per recepire le modifiche apportate dalla legge di conversione del decreto sulle semplificazioni (legge 12/2019)

I soggetti che hanno omesso il versamento delle prime tre rate della rottamazione-bis entro il 7 dicembre possono accedere alla nuova definizione agevolata degli affidamenti. In tal caso, il versamento deve avvenire entro tre anni in luogo di cinque. Inoltre, mentre l’ingresso nella rottamazione ter è automatico per chi ha rispettato la scadenza del 7 dicembre, i debitori che non hanno pagato o hanno pagato in ritardo, anche per un solo giorno, le somme in esame, a tale scopo, devono presentare l’istanza entro il 30 aprile prossimo.

Con riferimento al saldo e stralcio, la stessa legge di conversione del decreto semplificazioni ha dimezzato (da otto a quattro anni) il periodo di pagamento del carico definito in tutti i casi in cui il debitore confluisca nella rottamazione ter, per difetto dei requisiti di accesso allo stralcio. Si tratta dei casi in cui il valore Isee è più alto di 20mila e/o i debiti inclusi nell’istanza non rientrano in quelli previsti dalla legge (ad esempio, debiti da accertamenti esecutivi).

Nelle istruzioni alla compilazione del modello Sa – St è stato altresì precisato che la medesima conversione si verifica se il debitore non indica il valore Isee oppure indica un valore scaduto. Viene ora chiarito che anche in queste ipotesi la dinamica temporale degli adempimenti resta quella speciale prevista nella disciplina del saldo e stralcio, e non quella ordinaria della rottamazione-ter. Questo significa in concreto che anche nelle fattispecie indicate (Isee scaduto o omesso) il pagamento della prima rata, pari al 30%, deve avvenire entro novembre e non luglio 2019.

E sempre la legge di conversione del decreto semplificazioni ha previsto l’allineamento delle scadenze della definizione agevolata 2018 per le risorse Ue e per l’imposta sul valore aggiunto riscossa all’importazione a quelle della rottamazione-ter (18 rate in 5 anni).

Fonte “Il sole 24 ore”

La rivalutazione dei beni aiuta a ripianare il patrimonio negativo

Una delle maggiori novità della legge di Bilancio 2019 è rappresentata dall’introduzione della mini Irpef anche per le imprese minori, ivi compresi i soggetti in contabilità semplificata. Tra le variabili richieste dalla normativa vi è la destinazione dell’utile di esercizio ad una voce del patrimonio netto.

A tal fine, il comma 39 dell’articolo 1 della legge 145/2018 prevede che rilevino le riserve di utili disponibili già «accantonati a riserva nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2018»: tale parametro dovrà essere considerato al netto di qualsivoglia decremento del patrimonio netto per eventuali attribuzioni effettuate nei confronti dei soci. Si tenga presente, inoltre, in sede di determinazione delle eventuali variazioni non sono considerate le riserve indisponibili e quelle createsi per eventuale differenza valutative.

Da queste considerazioni discendono inevitabilmente alcune osservazioni. In particolare:
1) per il calcolo dell’agevolazione è necessario avere un patrimonio netto positivo, in quanto un valore negativo determinerebbe la necessità del suo ripianamento per poi accedere all’agevolazione in questione;
2) i prelievi effettuati dai soci nel corso dei periodi d’imposta antecedenti all’introduzione del beneficio fiscale in commento, costituiscono un decremento al patrimonio netto (confronta Cassazione 10786 del 9 luglio 2003);
3) le eventuali riserve da rivalutazione dei beni non rientrano nel calcolo della mini Irpef. In questo caso, quindi, anche le imprese minori sono impossibilitate a “utilizzare” il comma 940 e seguenti dell’articolo 1 della legge n. 145/2018 al fine del calcolo dell’agevolazione;
4) infine, non possono usufruire del beneficio, per ratio legislativa e sempreché venga confermata tale interpretazione dall’Agenzia, coloro i quali, quindi, si trovino ad avere un patrimonio netto negativo.

Una delle possibili modalità per beneficiare di tale agevolazione a fronte di un patrimonio netto negativo, specie per le imprese minori (a prescindere dal regime contabile), potrebbe essere rappresentata dal ricorso alla rivalutazione dei beni al comma 940 dell’ultima legge di Bilancio, il quale oltre alla rideterminazione del valore dei cespiti, permette di allocare una riserva da rivalutazione come voce del patrimonio netto. In tal modo è possibile che l’impresa minore ritorni ad avere un patrimonio netto positivo o comunque superiore allo zero.

Per inciso, si ricorda a tal proposito la sentenza n. 23 del 3 gennaio 2017 della prima sezione civile della Cassazione, che ha avuto il pregio di sviluppare talune considerazioni decisamente rilevanti ai nostri fini, e più precisamente:

a) non vi è per le società di persone l’obbligo del ripianamento delle perdite conseguite, potendo le stesse essere riportate a nuovo senza la necessità che la società sia messa in liquidazione od obbligata al ripianamento delle perdite con effetto immediato;
b) pur in mancanza di questa obbligatorietà, non è consentito ripartire utili senza tener conto del disposto dell’articolo 2303 del Codice civile, che consente la distribuzione degli utili solo in presenza di un patrimonio netto effettivo dell’impresa;
c) entrambi questi ragionamenti dovrebbero valere anche per le ditte individuali, relativamente alla necessità di avere quanto meno un patrimonio netto aziendale non negativo al fine di poter accedere all’agevolazione in questione.

Compiute queste debite premesse, è evidente che risulta complementare e di grande interesse poter usufruire della rivalutazione dei beni, così come previsto dalla legge di Bilancio 2019, che consente l’iscrizione come contropartita di una riserva di patrimonio netto. Tale riserva, pur essendo esclusa dal conteggio della mini Irpef, risulta di assoluta utilità ai fini del ripianamento di un eventuale patrimonio netto negativo e/o per elidere perdite pregresse.

La circolare 57/E/2002, che ha interpretato la rivalutazione dei beni ex lege 448/2001 (identica normativamente a quella attuale) ha molto ben identificato il caso rispetto all’impiego della riserva per le finalità di cui sopra. Tant’è vero che a tal proposito la circolare recita che «l’utilizzo del saldo a copertura delle perdite è irrilevante fiscalmente e non determina il riconoscimento dei maggior valori all’attivo». Quindi anche l’Agenzia rileva che «il saldo attivo di rivalutazione può essere liberamente destinato a copertura delle perdite».

Fonte “Il sole 24 ore”

Esenzione buoni pasto, non conta l’uso

Il limite giornaliero è sul valore e si prescinde da quanti ne sono utilizzati
Il limite giornaliero di esenzione dal reddito di lavoro dipendente dei buoni pasto – 5,29 euro per i buoni cartacei e 7 euro per quelli elettronici (articolo 51 del Tuir) – deve essere inteso con riferimento al valore facciale dei buoni erogati, a prescindere dal numero dei buoni utilizzati contestualmente dal lavoratore, anche se superiore a otto. Quindi ai fini fiscali ciò che conta è la corretta erogazione dei buoni pasto, non il loro utilizzo. Così il principio di diritto 6/2019, pubblicato ieri dalle Entrate.
Il Dm 122/2017 (che ha modificato il Dpr 207/2010) individua le caratteristiche dei buoni pasto, gli esercizi convenzionabili e gli accordi tra questi e le società di emissione dei buoni. La circolare 28/E del 2016 (par. 2.5.2) a proposito della possibilità di accesso all’agevolazione fiscale dei buoni pasto da parte dei lavoratori part time, ha chiarito che il buono pasto può essere utilizzato «dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale, anche qualora l’orario di lavoro non prevede una pausa per il pasto».
Insomma, si poteva ritenere che il Dpr 207/2010 prima, e il Dm 122/2017 poi, avessero anche una valenza fiscale, oltre che lo scopo di assicurare un equilibrato svolgimento dei rapporti tra i diversi operatori economici, sotto forma di un adeguato inquadramento delle caratetristiche e funzionamento dei buoni pasto, motivo principale per cui i decreti erano stati emanati.
In particolare, la lettera d) del comma 1 dell’articolo 4 del Dm 122/2017 postula un divieto di cumulo dell’uso contestuale di più di otto ticket, stabilendo che gli stessi «non sono cedibili, né cumulabili oltre il limite di otto buoni, né commercializzabili o convertibili in denaro e sono utilizzabili solo dal titolare».
Tuttavia, come espressamente menzionato nel citato principio di diritto, il divieto di cumulo non incide ai fini Irpef e il datore di lavoro non se ne dovrà preoccupare. In conclusione, rimane fondamentale la corretta erogazione dei buoni, che non potrà eccedere una prestazione per ogni giorno lavorato e nei limiti di 5,29 euro e 7 euro per i buoni elettronici. Si ritiene invece rimangano ferme le precisazioni fornite con la circolare n. 326/1997 secondo cui non è possibile offrire il servizio di mensa e contestualmente anche un ticket restaurant nel medesimo giorno lavorativo, salvo assoggettare a tassazione integrale una delle due prestazioni.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”
Stefano Sirocchi

Pensionati in fuga, tasse light anche sul secondo assegno

Un pensionato italiano trasferitosi in Portogallo pagherà le tasse nello Stato di residenza, anche per le pensioni percepite a fronte di attività diverse da quelle di lavoro dipendente. Dice questo la risposta a interpello n. 35, pubblicata ieri dall’agenzia delle Entrate: è la più rilevante di un ampio pacchetto dedicato al tema della fuga di cervelli e pensionati e della concorrenza fiscale tra Stati.
Le risposte fornite dall’amministrazione finanziaria su questi temi sono state, infatti, ben cinque: tre per il regime dei «rimpatriati» (articolo 16, commi 1 e 2 Dlgs n. 147/2015) e due per regimi previsti dai trattati a favore dei pensionati. Tra le prime, la risposta 32 ha vietato l’applicabilità del regime per il rimpatrio dei cervelli (comma 2) ad un lavoratore che, nel periodo precedente al rimpatrio in Italia, aveva sì trascorso all’estero un periodo complessivamente superiore a due anni, ma alternando un periodo di studio ad un altro di lavoro, senza dunque integrare – per nessuno di essi considerato singolarmente– il requisito della continuità biennale.
Sullo stesso regime è incentrata la risposta n. 36, che è invece positiva, in quanto chiarisce il principio secondo cui i requisiti della residenza estera e della continuità almeno biennale dell’attività, non devono necessariamente coincidere sul piano temporale. Nello specifico, prima di tornare in Italia nel 2019, la lavoratrice aveva svolto attività di lavoro all’estero dal 2013 al 3 ottobre 2017, ma risultava fiscalmente residente all’estero solo dal 2016.
La risposta n. 34 (positiva) riguarda il regime dei lavoratori rimpatriati (comma 1) e affronta il caso di un lavoratore rimpatriato in data 20 luglio 2018, per il quale è confermata la fruibilità dal regime, ma solo a partire dal primo anno di residenza fiscale in Italia, vale a dire dal 2019, e non anche per i mesi di lavoro da luglio a dicembre 2018.
Le altre due risposte riguardano la fiscalità dei pensionati residenti fiscalmente in uno Stato ma percettori di pensione di fonte estera. La prima (n. 35), riguarda il caso del pensionato italiano trasferito in Portogallo, ormai frequente, ma è interessante perché chiarisce che le pensioni percepite a fronte di attività diverse da quelle di lavoro dipendente (nel caso specifico, Inps ed Enasarco percepite da un agente di commercio) sono sempre tassate nello Stato di residenza, qualunque sia la provenienza. Ai fini del trattato, si qualificano infatti come «altri redditi» ex articolo 21, e non come «redditi di pensione» ex articolo 18, limitato ai solo dipendenti.
Invece, l’indennità di fine rapporto percepita dall’agente si qualifica ai fini italiani come reddito di lavoro autonomo e come tale rientra nell’ambito dell’articolo 14 del trattato: pertanto, la stessa va in ogni caso tassata in Italia, per la quota maturata negli anni in cui il lavoratore era ivi residente, mentre la quota residua può essere tassata in Italia solo se attribuibile ad una base fissa ivi situata. La risposta n. 40, infine, si occupa della «New State Pension», percepita nel Regno Unito da un residente in Italia: secondo l’Agenzia va trattata come una «pensione di Stato» e non è assimilabile ad una forma di previdenza complementare, anche se in parte alimentata da versamenti di natura volontaria. Come tale, va integralmente tassata in Italia, a prescindere dalla mancata deduzione dei contributi a suo tempo versati.
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Fabrizio Cancelliere
Gabriele Ferlito

Dl semplificazioni, e-fatture sanitarie in formato cartaceo

La conversione (legge n. 12/2019, pubblicata ieri in Gazzetta ufficiale) del decreto semplificazioni completa la mappa dei divieti per la fatturazione elettronica applicabili nel 2019 stabilendo, nella sostanza, che le fatture emesse da chiunque per le prestazioni sanitarie effettuate nei confronti delle persone fisiche devono essere solo cartacee. Pertanto, per le prestazioni sanitarie la disciplina si allinea completamente alle prescrizioni del Garante privacy contenute nel provvedimento del 20 dicembre 2018.
Il divieto di fatturazione elettronica si poggia sull’articolo 10-bis del Dl 119/2019 che, dopo l’intervento di modifica della legge di Bilancio 2019 (articolo 1, comma 53, della legge 145/2018), stabilisce che i soggetti tenuti all’invio dei dati al Sistema tessera sanitaria (Sts), ai fini dell’elaborazione della dichiarazione dei redditi precompilata, non possono emettere fatture elettroniche con riferimento alle fatture i cui dati sono da inviare allo stesso Sts.
L’articolo 9-bis, comma 2 inserito dal Ddl in sede di conversione del decreto legge 135/2018, aggiunge il divieto anche in capo ai soggetti non tenuti all’invio dei dati al Sts, con riferimento alle fatture relative alle prestazioni sanitarie effettuate nei confronti delle persone fisiche. Quindi, gli elementi distintivi dei soggetti e delle prestazioni per cui trova applicazione il divieto di fatturazione elettronica per il 2019, appaiono ora più netti valendo:
per tutte le prestazioni sanitarie rese a persone fisiche da qualunque soggetto, anche non autorizzato in base all’articolo 8-ter del Dlgs 502/1992, senza alcuna distinzione, anche quando il beneficiario abbia opposto il rifiuto per la trasmissione al Sts; quindi rientrano nel divieto anche le prestazioni dei fisioterapisti, quelle sanitarie di assistenza protesica;

per le prestazioni veterinarie rese dai soggetti tenuti ad inviare i relativi dati al Sts.
Come confermato dalla risposta della Faq 58, rientrano nel divieto i soggetti come gli ospedali, case di cura e di riposo, che si trovano ad emettere fatture per prestazioni in parte sanitarie e in parte non sanitarie. Quindi, nel caso in cui la fattura contenga sia addebiti per spese sanitarie sia altre voci di spesa, la fattura deve essere sempre cartacea. Inoltre, partendo dal contenuto letterale dell’articolo 9-bis, comma 2, occorre fare una distinzione; si deve ritenere che eventuali fatture emesse da soggetti Iva intestate ad altri soggetti, comunque diversi dai consumatori finali persone fisiche, beneficiari delle prestazioni sanitarie:
ove debbano riportare elementi identificativi, devono essere cartacee;
se non riportano dati che consentano di individuare i destinatari delle prestazioni devono essere elettroniche.
Allo stesso modo resta obbligatoria la e-fattura per le prestazioni veterinarie rese da soggetti non tenuti all’invio dei dati al Sts.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”
Marco Magrini
Benedetto Santacroce

La rottamazione-ter riparte e riapre ai respinti dal «saldo e stralcio»

La terza rottamazione è pronta ad accogliere altri contribuenti. Con le novità del cosiddetto decreto semplificazioni viene esteso l’accesso ai contribuenti che non hanno versato, entro il 7 dicembre 2018, le rate dovute per le precedenti rottamazioni (articolo 3, comma 23, del Dl 119/2018, come modificato dal decreto semplificazioni).
Per accedere alla rottamazione ter, questi soggetti devono versare le somme dovute in unica soluzione entro il 31 luglio 2019, o nel numero massimo di dieci rate consecutive, ciascuna di pari importo, di cui la prima in scadenza il 31 luglio 2019 e la seconda il 30 novembre 2019.
Le altre otto rate successive si dovranno pagare il 28 febbraio, il 31 maggio, il 31 luglio ed il 30 novembre degli anni 2020 e 2021. Sulle rate successive alla prima, a partire dal 1° agosto 2019, sono dovuti gli interessi dello 0,3% annuo.
Resta fermo che, così come per gli altri contribuenti che intendono avvalersi della terza rottamazione, si deve presentare la domanda all’agente della Riscossione entro il 30 aprile 2019.
Un’altra novità del decreto semplificazione riguarda i debitori che presentano entro il 30 aprile 2019 la dichiarazione per accedere alla speciale definizione a saldo e stralcio e che vengono “respinti” perché non sono in possesso dei requisiti prescritti dalla legge per il riconoscimento di grave difficoltà economica, o la presenza di debiti diversi da quelli definibili in base alle norme sulla speciale definizione, con conseguente impossibilità di estinguere il debito secondo il saldo e stralcio.
Nel caso di comunicazione entro il 31 ottobre 2019 che nega l’accesso alla rottamazione a saldo e stralcio, l’agente della Riscossione avverte il debitore che i debiti inseriti nella dichiarazione, se possono “rientrare” nella rottamazione ter di cui all’articolo 3 del Dl 119/2018, sono automaticamente inclusi nella terza rottamazione, con indicazione delle somme dovute a tal fine.
È inoltre stabilito che, limitatamente ai debiti di cui all’articolo 3, comma 23, del decreto legge 119, cioè i debiti relativi ai carichi per i quali non è stato effettuato l’integrale pagamento, entro il 7 dicembre 2018, delle somme da pagare relative alle precedenti rottamazioni, devono essere versate in unica soluzione o in nove rate, di cui la prima, di ammontare pari al 30%, entro il 30 novembre 2019.
Il restante 70% è ripartito nelle rate successive, ciascuna di pari importo, scadenti il 28 febbraio, 31 maggio, 31 luglio e il 30 novembre degli anni 2020 e 2021. Si applicano, a partire dal 1° dicembre 2019, gli interessi al tasso del 2% annuo.
Per accedere alla definizione a saldo e stralcio deve sussistere una grave e comprovata situazione di difficoltà economica, che si verifica nel caso in cui l’Isee del nucleo familiare non è superiore a 20mila euro.
Al riguardo, si ricorda che l’Isee è l’indicatore della situazione economica equivalente, che serve a valutare e confrontare la situazione economica delle famiglie. Le persone fisiche, che possono accedere alla quarta rottamazione a saldo e stralcio, con sconti variabili dal 65 al 90%, possono anche “abbandonare” le precedenti rottamazioni che non si sono ancora perfezionate con il versamento delle somme dovute.
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Salvina Morina
Tonino Morina

Stop a mini cartelle per 32 miliardi non più incassabili

Pace fiscale. Cancellati i debiti fino a mille euro per 12,6 milioni di contribuenti ma restano in sospeso i carichi affidati dall’Inps La perdita di gettito stimata risulta di 524 milioni di euro
Sono circa 13 milioni i contribuenti ad aver beneficiato della cancellazione delle micro-cartelle fino a 1.000 euro. Più che di cartelle per l’esattezza si tratta di 114,44 milioni di “partite” affidate all’agente della riscossione tra il 2000 e il 2010 e che agenzia Entrate- Riscossione ha stralciato perché inferiori a “quota mille”. E se è vero che «la somma fa il totale» (per dirla alla Totò), lo stralcio dal magazzino della ex-Equitalia delle micro-cartelle calcolato in euro è pari a 32 miliardi.
Uno stralcio calcolato dall’amministrazione finanziaria e dal Governo, senza nessun allarme per la tenuta dei già deboli conti pubblici. Come si legge nella relazione al decreto legge fiscale collegato alla manovra che introduce la sanatoria delle micro-cartelle, si tratta di somme in assoluto non più recuperabili. Somme la cui cancellazione produce una perdita di 524 milioni, calcolata come il 3,5% del gettito di quasi 15 miliardi atteso dalla rottamazione-ter (11,1 miliardi), dalla rottamazione-bis per i pagamenti 2018 (821 milioni) e per i “confluiti” nella terza edizione della sanatoria (circa 3,1 miliardi). In sostanza la perdita di gettito per l’Erario è quanto non incasserà dalle rottamazioni proprio con le mini-cartelle del tutto stralciate.
Come anticipato, lo stralcio riguarda 114,4 milioni di «partite». Con questo termine si intende il valore riferito al singolo procedimento di controllo chiuso dall’amministrazione finanzairia con uno specifico atto impositivo, di liquidazione e di riscossione. Differente dal ruolo che invece rappresenta un insieme di partite affidate all’agente della riscossione.
Proprio sul valore delle singole partite, come anticipato su queste pagine, è in atto da fine anno un confronto tra Inps e amministrazione finanziaria. A tutt’oggi non sono state ancora cancellate le posizioni debitorie targate Inps. Lo stesso presidente dell’Istituto, Tito Boeri, ha reso noto nel corso dell’audizione al Senato sul reddito di cittadinanza e quota 100, di essere in attesa di un chiarimento del ministero del Lavoro proprio su come si deve intendere la soglia dei mille euro. Per l’Inps le sanzioni civili maturate nel corso degli anni vanno conteggiate ai fini del raggiungimento della soglia dei mille euro. Di diverso avviso il Mef che ha già chiarito all’Inps che la soglia va individuata nel valore originariamente affidato agli agenti (si veda Il Sole 24 Ore del 5 febbraio). E, prendendo per buona la percentuale del 13-14% sul peso delle cartelle Inps sul totale, si può ipotizzare che al momento resterebbe sospesa la cancellazione di centinaia di miliaia di partite “previdenziali e contributive” per un controvalore di circa 4 miliardi.
Ma perché il Fisco ha rinunciato a recuperare cartelle per 32 miliardi di euro complessivi? Per circa oltre 4,3 miliardi di euro si tratta di partite relative a soggetti deceduti e a imprese che hanno cessato qualsiasi attività. Altra quota di pesa, sopra i 3,2 miliardi, invece, sono debiti di nullatenenti o di soggetti non presneti nell’anagrafe tributaria. Ci sono poi i falliti o con procedure concorsuali in corso e, anche se in minima parte, contribuenti con debiti sospesi per provvedimenti amministrativi o per contenziosi in atto.
Insomma si tratta di micro-cartelle impossibili o quasi impossibili da incassare e su cui lo Stato, per altro, negli anni ha dovuto sostenere dei costi. Basti pensare alla continua attivazione di atti interruttivi della prescrizione o di iniziative di azioni di recupero pressoché inefficaci. Inoltre con la cancellazione di queste cartelle si evita di anticipare e poi imputare agli enti creditori le spese per procedure cautelari ed esecutive nell’inutile tentativo di recuperare micro-somme di difficile o impossibile esazione.
Tra le curiosità merita attenzione la distribuzione territoriale delle micro-cartelle cancellate. La Campania con oltre 20 milioni e mezzo di partite stralciate e con un controvalore di 5,1 miliardi si colloca al primo posto della classifica seguita dai circa 18 milioni di partite per 4,7 miliardi e la Lombardia con 15,7 milioni di poste cancellate (4,5 miliardi di valore complessivo).
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Marco Mobili

Più tempo al debitore per evitare la vendita

Diritto di abitare l’immobile fino al decreto di trasferimento
Per le esecuzioni iniziate con pignoramenti successivi alla pubblicazione della legge il debitore avrà più tempo (quattro anni invece di tre) per pagare una somma di denaro sostitutiva ed evitare la vendita di ciò che è stato pignorato. È questa una delle novità introdotte dall’articolo 4 della legge di conversione del decreto legge 135/2018 che modifica alcuni tempi della procedura di vendita di beni per soddisfare i creditori.
Una rilevante modifica apportata dal provvedimento riguarda la custodia dei beni pignorati (articolo 560 del Codice di procedura civile) e interessa tutti i debitori e non più, come inizialmente previsto, solo i debitori che fossero anche creditori di pubbliche amministrazioni. Il nuovo articolo 560 afferma il diritto del debitore (e dei suoi familiari conviventi) a continuare ad abitare l’immobile sino al decreto di trasferimento che conclude l’espropriazione forzata immobiliare. Ciò vale indipendentemente dall’esistenza e dall’entità di crediti nei confronti di pubbliche amministrazioni.
Alcuni principi sono costanti, rispetto al regime precedente: il debitore deve conservare il bene tutelandone l’integrità, con la diligenza del buon padre di famiglia; poi deve abitare l’immobile personalmente (salva autorizzazione del giudice); infine, deve consentire, d’accordo con il custode, la visita dell’immobile da parte di potenziali acquirenti. Se il debitore custode rispetta queste disposizioni, il giudice non può mai disporre il rilascio dell’immobile pignorato prima della pronuncia del decreto di trasferimento. Se invece vi sono ostacoli alla visita o danni al bene, il giudice ordina, sentiti custode e debitore, la liberazione dell’immobile pignorato.
Ciò che cambia è la generica parità tra custode e debitore che abiti l’immobile, perché si rafforza la posizione del debitore e dei suoi familiari conviventi tutte le volte che abitino stabilmente il bene che andrebbe venduto per soddisfare i creditori. In precedenza, l’articolo 560 dava ampio spazio al custode ed ai problemi operativi, quali quelli relativi allo sgombero ed alla sorte dei beni mobili presenti nei locali: un’eco di tali problemi è visibile ancora oggi nei portoni dei vecchi edifici, che hanno ridotte porticine nel contesto di ampie ante, e ciò appunto per evitare che i beni mobili di maggiori dimensioni (e valore) venissero sottratti in modo fraudolento.
La legge del 2019 non si occupa più dei mobili, che in precedenza potevano anche «essere distrutti», perché l’articolo 560 è più interessato ad imporre oneri al debitore che abiti l’immobile da vendere, quali il consentire visite di acquirenti e mantenere il bene in buono stato di conservazione. Fino al decreto di trasferimento (articolo 586 del Codice di procedura civile) successivo alla vendita, il giudice dell’esecuzione non può disporre il rilascio dell’immobile allontanando il debitore custode ed i suoi familiari. L’articolo 4 della legge di conversione contiene infine uno snellimento delle operazioni di vendita (articolo 569 Codice procedura civile), imponendo calcoli definitivi di capitale ed accessori vantati verso il debitore soggetto a procedura esecutiva.
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Guglielmo Saporito

Niente esterometro né spesometro per il tax free shopping

Niente esterometro né spesometro per le operazioni tax free shopping i cui dati sono trasmessi attraverso il sistema Otello. Con la risposta a consulenza giuridica 8/2019 (clicca qui per consultarla ), pubblicata ieri 7 febbraio 2019, richiamando il principio dello once only, secondo cui dati ed informazioni già comunicati a una pubblica amministrazione non possono essere nuovamente richiesti al cittadino, l’agenzia delle Entrate ha escluso espressamente l’obbligo di comunicare, entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello di emissione, i dati delle fatture elettroniche “estere” quando inviate ai fini dell’applicazione del “visto uscire” e del rimborso dell’Iva assolta all’acquisto. Andranno comunque trasmessi con l’esterometro non solo i dati delle fatture passive estere ma anche quelli di fatture attive, Ue ed extra-Ue, non inviati con Otello né trasmessi con il codice convenzionale a sette «X» al Sistema di interscambio (Sdi).

La corretta emissione in modalità elettronica attraverso Otello esclude anche l’obbligo di trasmettere i dati di tali fatture con lo spesometro che, abrogato a partire dal 1 gennaio 2019, dovrà comunque essere inviato entro il 28 febbraio 2019 per le operazioni effettuate nel corso del 2018. Al sistema Otello, gestito dall’agenzia delle Dogane, devono essere infatti trasmessi telematicamente i dati delle fatture emesse per le cessioni di beni effettuate nei confronti di soggetti non passivi d’imposta domiciliati o residenti extra-Ue. Tale adempimento è sufficiente ad assolvere perciò a tutti gli obblighi comunicativi anche nei confronti dell’agenzia delle Entrate grazie alla sempre maggiore integrazione tra dati e servizi delle diverse amministrazioni.

L’invio tramite Otello esonera quindi gli esercenti che emettono fatture tax free dal reinviare i medesimi dati con l’esterometro, la cui prima scadenza è fissata al 28 febbraio prossimo, ma anche con lo spesometro in vista dell’ultima trasmissione anch’essa fissata a fine Febbraio. Si ritiene comunque che nessuna contestazione dovrebbe essere rilevata nei confronti degli esercenti laddove trasmettano i medesimi dati per assolvere i diversi adempimenti ad oggi previsti, e cioè Otello, esterometro e spesometro.

Fonte “Il sole 24 ore”

Puniti gli omessi versamenti con indebito utilizzo di crediti

Linea dura della Cassazione sulle indebite compensazioni: commette il reato chi utilizza un credito Iva fittizio in detrazione delle liquidazioni periodiche successive: la norma, infatti, non circoscrive il delitto alla sola presentazione del modello F24, tanto meno alla sola compensazione orizzontale, ma punisce tutte le condotte volte all’omesso versamento di imposte attraverso l’indebito utilizzo di crediti. A fornire questo principio è la Suprema corte con la sentenza n. 5934 depositata ieri. La vicenda traeva origine da un rilevante credito Iva ritenuto inesistente, inserito nella dichiarazione del 2002 e riportato negli anni successivi. Il credito veniva utilizzato in detrazione dei debiti Iva delle diverse liquidazioni. Era quindi contestata l’indebita compensazione prevista dall’articolo 10 quater del Dlgs 74/2000. Gli imputati, condannati in appello, ricorrevano in Cassazione lamentando, in sintesi, che il comportamento adottato riguardasse la detrazione Iva e non un’indebita compensazione, in quanto nessun modello F24 era stato presentato. I giudici di legittimità hanno ricordato che il reato in questione è configurabile in caso di compensazione sia orizzontale sia verticale. L’articolo 10 quater punisce, infatti, i comportamenti illeciti, quali l’utilizzo improprio della compensazione, commessi per omettere il versamento dell’imposta. L’articolo 17 del Dlgs 241/97, richiamato espressamente dalla norma penale non fa riferimento al modello F24, ma, più in generale, all’utilizzo di crediti per il pagamento di debiti. Ne consegue che la detrazione Iva diviene sostanzialmente un’operazione di compensazione, non tanto perché i due istituti (detrazione e compensazione) sono omogenei, ma perché il risultato conseguito è il medesimo: in entrambi i casi, infatti, il contribuente evita il pagamento di imposte grazie ad un credito nei confronti dello Stato. A prescindere, quindi, dalla procedura formale seguita dal contribuente (indicazione in dichiarazione o modello F24), l’utilizzo indebito di un credito per il pagamento di un debito tributario rientra nel precetto penale.

La Cassazione ha altresì escluso che la contestazione possa configurare infedele dichiarazione (articolo 4 Dlgs 74/00): in questo delitto, infatti, il contribuente esprime il mendacio nella dichiarazione annuale, mentre nell’indebita compensazione avvenuta nella specie, il riporto negli anni successivi del credito Iva ha consentito l’omesso versamento di imposte. Da segnalare che le Entrate nella risoluzione 36/18 ha ritenuto che per l’indicazione in dichiarazione di un credito inesistente, si applica la sanzione per infedele dichiarazione e non per indebita compensazione. Ne consegue così che la medesima violazione, che ai fini tributari non viene sanzionata per indebita compensazione, ai fini penali costituisce delitto.

Fonte “Il sole 24 ore”

Spese sanitarie, dati online in tempo reale

Non bisognerà più attendere la dichiarazione dei redditi precompilata. Sarà infatti possibile consultare in tempo reale le spese trasmesse al Sistema tessera sanitaria. Lo ha annunciato ieri il ministero dell’Economia.
Basterà collegarsi al portale www.sistemats.it per accedere ai nuovi servizi telematici rivolti a tutti i cittadini. In questo modo, si avrà immediatamente a disposizione il quadro delle informazioni inviate per la predisposizione della precompilata da parte dell’agenzia delle Entrate.
Più nel dettaglio, è possibile consultare i propri dati di spesa sanitaria relativi agli anni 2017, 2018 e 2019. Potranno essere esportati e analizzati attraverso statistiche, come la ripartizione delle spese, sia per tipologia di erogatore che per tipologia di spesa, con la relativa distribuzione mensile.
I contribuenti potranno anche segnalare immediatamente eventuali incongruenze, sia relative agli importi che alla classificazione delle spese. Le segnalazioni saranno girate direttamente al soggetto che ha effettuato l’invio: questo potrà poi procedere all’eventuale correzione dell’anomalia. Questa funzionalità sarà disponibile per i dati relativi all’anno 2019 (quindi, fino al 31 gennaio del 2020).
Allo stesso modo, sarà anche possibile esercitare l’opposizione all’invio dei dati alle Entrate: in questo modo non entreranno nella dichiarazione dei redditi precompilata. Questa funzionalità è disponibile annualmente, solo nel mese di febbraio. Seguendo, così, le indicazioni condivise con il Garante per la privacy. Il Sistema tessera sanitaria non renderà disponibili all’Agenzia i dati per i quali risulti richiesta di opposizione. L’accesso al servizio di consultazione sarà possibile tramite Spid, tessera sanitaria, e credenziali «Fisconline» rilasciate dall’agenzia delle Entrate.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”

Il datore forfettario non versa le tasse per il dipendente

In busta paga retribuzione lorda, imponibile e ritenute previdenziali
Il lavoratore dovrà presentare autonomamente il 730 o il modello Redditi
La legge di bilancio 2019 (la 145/2018) ha modificato la legge 190/2014 intervenendo sulle disposizioni che regolamentano il regime contabile forfettario. Ora si prevede che i contribuenti – persone fisiche esercenti attività d’impresa, arti o professioni – che nell’anno precedente hanno conseguito ricavi/compensi non superiori a 65.000 euro, rientrino automaticamente nel regime forfettario.
La nuova disciplina presenta una sostanziale differenza rispetto al regime in vigore sino al 2018, poiché non prevede più, come causa di esclusione dal regime, l’aver sostenuto spese per un ammontare complessivamente superiore a 5.000 euro lordi per lavoro accessorio, per lavoratori dipendenti e collaboratori. Il venir meno di tale limitazione amplifica la portata della disposizione, potendo giungere sino al coinvolgimento di datori di lavoro.
In tale ottica, assume particolare rilievo quanto disposto dall’articolo 1, comma 69, della legge 190/2014 nella parte in cui afferma che i soggetti a cui si applica il regime fiscale forfettario non sono tenuti a operare le ritenute alla fonte (Dpr 600/1973, titolo III). Essi devono solo indicare nella loro dichiarazione dei redditi (nel quadro RS del modello Redditi vi è una sezione dedicata), il codice fiscale del percettore dei compensi che – all’atto del pagamento – non sono stati assoggettati a ritenuta fiscale.
Le ricadute, in ambito lavoristico, sono molteplici. Emerge su tutte la necessità di prevedere una busta paga che sia adeguata alla nuova “tipologia” di datore di lavoro forfettario. Il cedolino (in teoria già quello di gennaio 2019) dovrà essere emesso con la sola indicazione della retribuzione lorda, dell’imponibile e delle ritenute previdenziali. Resta il fatto che per il dipendente si tratta pur sempre di reddito di lavoro dipendente da dichiarare e da tassare; operazione che il lavoratore dovrà eseguire autonomamente, presentando il 730 o il modello Redditi.
Altro aspetto riguarda la dichiarazione da rilasciare al lavoratore con i dati del reddito corrisposto ancorché non tassato. Non essendo tenuto a operare e versare le ritenute, il datore di lavoro non dovrebbe rilasciare la certificazione unica parte fiscale, anche se, su questo aspetto, l’agenzia delle Entrate il prossimo anno potrebbe integrare le istruzioni della certificazione obbligando al rilascio pure chi si trova nella situazione descritta.
Una perplessità, tuttavia, resta riguardo ai rapporti di lavoro che si concludono in corso d’anno, vista la possibilità offerta al dipendente di chiedere l’emissione della Cu al datore che è obbligato a rilasciarla nei dodici giorni successivi (obbligo che sembra essere venuto meno). Se questo verrà confermato, di fatto, la tassazione definitiva del lavoratore subirà un rinvio al 2020 con conseguente slittamento sia dell’integrale pagamento del saldo Irpef per il 2019, sia del correlato acconto per il 2020.
Altro dubbio attiene alle addizionali del 2018 che vengono versate a rate nel 2019. Si dovrà chiarire se per questo aspetto il datore di lavoro forfettario resta – se pure temporaneamente – sostituto di imposta tenuto alla continuazione del prelievo.
Infine, ricordiamo l’esenzione dalla presentazione della dichiarazione dei redditi nei confronti di coloro che hanno percepito solo reddito di lavoro dipendente corrisposto da un unico sostituto d’imposta obbligato a effettuare le ritenute d’acconto. Poiché l’obbligo di effettuazione delle ritenute (da parte del datore di lavoro in regime forfettario) non esiste più, sembra decadere l’esenzione, rendendo quindi il lavoratore obbligato alla presentazione della dichiarazione dei redditi.
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Giuseppe Maccarone
Alessandro Mengozzi

Definizione causa a costo zero sulla sanzione legata al tributo

Definizione delle liti a costo zero se la controversia riguarda la sanzione collegata al tributo nel caso in cui quest’ultimo sia stato definito anche con modalità differenti dalla sanatoria. In tale contesto, diviene fondamentale comprendere quando la sanzione oggetto di lite sia, o meno, collegata al tributo. La distinzione non dipende né dalla impugnazione autonoma (o meno) del solo tributo, né dalla tipologia di atto utilizzato per l’irrogazione della sanzione (avviso di accertamento insieme alla richiesta dell’imposta ovvero atto separato).
Nel corso del Telefisco 2019, è stato richiesto se rientrino tra le sanzioni collegate al tributo (con gli effetti che ne conseguono ai fini della definizione della lite pendente) quelle irrogate a un terzo (amministratore di fatto, professionista ecc.) in concorso con una società e calcolate sulla base dell’imposta evasa da quest’ultima ove detta imposta sia stata successivamente versata in acquiescenza, attraverso istituti deflattivi o pace fiscale. L’Agenzia ha precisato che le sanzioni irrogate a un terzo in concorso con la società rientrano tra le sanzioni collegate al tributo e, pertanto, se il rapporto relativo al tributo sia stato definito con il pagamento del tributo stesso, la lite instaurata dal terzo può definirsi senza versare nulla.
In proposito, l’agenzia delle Entrate ha richiamato il contenuto della precedente circolare 23/2017. Tuttavia il quesito faceva riferimento sia agli amministratori di fatto, sia ai professionisti e il documento di prassi richiamato in merito al professionista precisava al tempo che la sanzione dovesse considerarsi autonoma e non collegata al tributo. Ciò, nonostante essa fosse corrispondente a quella irrogata al contribuente al quale era richiesta l’imposta.
Così l’agenzia delle Entrate, nella medesima circolare, concludeva che il consulente non poteva definire la lite a zero.
Dal tenore della nuova risposta sembra ora superata tale precedente interpretazione contenuta nella circolare 23/2017, ritenendo estensibile anche al professionista la definizione a zero.
Del resto, dovrebbe escludersi che nella stesura della risposta sia stato ignorato il contenuto del precedente documento di prassi, in quanto esso viene espressamente richiamato dall’agenzia delle Entrate nella risposta stessa proprio per affermare la natura di sanzione collegata al tributo.
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Laura Ambrosi